Mail box

 

Morricone: immortale musicista e genio garbato

Ci hai insegnato che si possono toccare le vette più alte anche senza perdere il contatto con la realtà, e che si può essere dei geni anche senza snaturare sé stessi. Hai mostrato il valore italiano al mondo intero. Ci mancherà il tuo garbo, la tua semplicità, la tua dedizione, e soprattutto quella rara capacità di emozionare che avevi. La tua musica era già immortale. Tu lo sei appena diventato. Buon viaggio, immenso…

Vale Felici

 

Rodengo Saiano, la Lega vuole rimuovere il parco

Gentile direttore, scrivo a proposito dell’ortoparco di Rodengo Saiano, riguardo alla volontà dell’amministrazione di centrodestra-Lega di rimuoverlo. Come si fa a definire attenta all’ambiente questa giunta? Un parco che ha 10 anni di vita, su un terreno di 5.000 mq, non può essere soppresso. L’alternativa che viene proposta è il trasferimento degli alberi. Come a Erbusco, anche a Rodengo Saiano, centrodestra e lega puntano alle casse comunali e non alla democrazia e alla partecipazione. Tutte le cose che sono state magnificate in questi ultimi anni, non hanno funzionato: privatizzazioni, fuori lo Stato dall’economia, la libertà di impresa, politici al servizio dei privati se non succubi. Stiamo toccando con mano come le politiche fin qui adottate aumentino i rischi di morte in nome dei profitti privati.

Giovanni Pagani

 

Il nemico invisibile della rivoluzione verde

Ciò che mi lascia perplesso degli ultimi annunci politici è che propongono cospicui finanziamenti senza alcun obiettivo e piano di sviluppo, in questo modo è facile capire che le risorse saranno consumate senza dare vere soluzioni. Le stesse associazioni ambientaliste non propongono soluzioni tecniche economiche e integrate. Il vero nemico della Rivoluzione Verde non è l’incapacità di proporre veri piani di sviluppo, ma è lo stesso concetto di “economia” che nel corso degli ultimi decenni è stato stravolto. Il significato originale era “ottimizzazione di quanto disponibile per il benessere comune”, e i piani di sviluppo a lungo termine erano a 10 anni. Oggi, il termine “economia di mercato” ha un significato diametralmente opposto: massimo profitto a breve termine; e il suo lungo termine è diventata la trimestrale. Con questo nuovo ma antico concetto è facile capire che non si ha certo la possibilità di fare piani di investimento a lungo termine perché “l’economia di mercato” ha nell’accaparramento e nello sfruttamento delle risorse esistenti lo strumento principe per realizzare il profitto immediato. Questa logica distruttiva una volta veniva condannata con la frase: venderebbe la madre per un nichelino. Vi lascio quindi con una riflessione: come è possibile fare la rivoluzione verde finché ci sono leader politici che fanno dell’avidità, del cinismo, della prevaricazione e dell’autoreferenza il loro credo di sviluppo futuro?

Alberto Cordioli

 

Maturità: voti gonfiati ed esame neutralizzato

Vi invio alcune considerazioni sulla “maturità” in una scuola di provincia del Piemonte. Una maturità ridotta a pura conferma meccanica e forzata del percorso scolastico compiuto dall’alunno in evidente spregio del dettato normativo che prescrive la valutazione dell’esame come parte integrante dell’esito finale in proporzione del 40% rispetto al 60% del percorso scolastico stesso, con il voluto effetto di un generale innalzamento degli esiti finali. Dunque, un esame “neutralizzato”, del tutto svuotato della sua funzione.

Angelo La Rocca

 

Con Selvaggia contro gli sceriffi di Salvini

Pieno appoggio morale a Selvaggia Lucarelli e Leon suo figlio. Mi piacerebbe vedere la pagina di “Piazza Grande” piena di messaggi simili a questo mio.

Silvio Di Giuseppe

 

Quanto accaduto a Leon è solo l’inizio

Temo, da libero cittadino, che l’identificazione da parte della polizia del figlio quindicenne di Selvaggia Lucarelli sia solo un assaggio di quello che accadrà se (gli dei non vogliano) il signor Salvini, magari in combutta con la signorina Meloni, dovessero andare al governo.

Paolo Sanna

 

La poesia di Arminio ridà vita al nostro territorio

Ciao ragazzi, sono un vostro lettore “quotidiano”. Ho scoperto da poco un grande poeta che però non limita il suo talento alla mera scrittura, ma si impegna nella nobile e quasi esclusiva arte di tentare di ridare luce e respiro ai piccoli paesi e borghi che caratterizzano il nostro territorio: Franco Arminio. Ecco, sarebbe bello poter vedere ospitata qualche volta sul giornale qualcosa di Arminio, magari un contro altare a quel genio irriverente di Luttazzi. Vi saluto amici del Fatto, avanti così.

Marco Bernardini

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, alle pagine 2 e 3, abbiamo invertito due colonne del commento di Gad Lerner. Ce ne scusiamo con l’interessato e con i lettori.

FQ

La mia amica animalista è ideologica. E fuma pure sigarette al mentolo

Una mia amica animalista imputa la catastrofe Coronavirus alla crudeltà con cui gli esseri umani trattano gli animali, e non alle carenze igieniche della filiera. “Viste le conseguenze? Bisogna smettere di mangiare gli animali”. Questa è una nota fallacia argomentativa, l’argomento ad baculum, che consiste nell’usare la paura per dimostrare la propria tesi. Lo stratagemma, in questo caso, è pure ipocrita, perché l’amica animalista usa come premessa le conseguenze della pandemia sulla specie umana, quando lei sostiene da sempre che sarebbe meglio che la specie umana venisse spazzata via. La versione completa (“La specie umana va spazzata via. Intanto smettiamo di mangiare gli animali”.) è meno persuasiva, e infatti non la usa. Aggiunge, mentre fuma una sigaretta mentolata, che per lei la natura è Dio, e in questo momento, con la pandemia, la natura ci sta mandando un messaggio chiaro: “Fermatevi”.

Le dico che è un discorso finalistico: non è accettabile con Dio, figuriamoci con la natura, di cui viene presupposta, in tal modo, un’intelligenza. Il discorso finalistico è pensiero magico, non è un modo scientifico di affrontare i problemi. La sua replica: “Che ne sappiamo che la natura non ha un’intelligenza? Non sappiamo niente”. La frase “non sappiamo niente” è un modo gentile di tapparmi la bocca (sta per “non sai niente”), ma come argomento è inutilizzabile, perché bidirezionale: se infatti “non sappiamo niente”, neanche lei può sostenere che la natura ha un’intelligenza. Del resto, l’intelligenza è sopravvalutata: il mondo è pieno di animali che vivono secondo l’istinto e se la cavano benissimo. Certo, la crudeltà sugli animali va abolita; ma non credo, come fa la mia amica, che uccidere una gallina equivalga moralmente a un assassinio. Lei allora mi definisce “specista”, cioè razzista nei confronti degli animali, ma l’analogia è fuorviante: per essere uguali a noi, e partecipare dell’universo morale, gli animali dovrebbero avere le strutture cerebrali che permettono l’attività simbolica. Non è specismo: è anatomia. E di nuovo non vede l’incongruenza: rivolge contro di me l’accusa di assassinio, perché mi piace mangiare il castrato, con piadina e sangiovese, e non a se stessa, che vorrebbe “spazzare via tutti gli esseri umani” per difendere gli animali.

Le sue aporie rivelano che quello animalista è un discorso ideologico. La mia amica replica: “Anche il tuo è un discorso ideologico.” “Certo!”, le dico. “Ogni discorso è ideologico, ma sei tu che non lo ammetti. La differenza è che io non cerco di convincere te a mangiare carne, mentre tu cerchi di convincere me a smettere. E, come tutti gli integralisti, usi il terrorismo psicologico per sostenere la tua causa”. Non fraintendetemi: mi piacciono gli animali. Sto dalla loro parte. Alcuni dei miei migliori amici sono animali. Ma non vorrei che mia sorella ne sposasse uno. Che quello animalista sia un discorso integralista lo dimostra l’equiparazione animale = innocenza, con cui lei giustifica l’odio verso la specie umana assassina. È una forma di catarismo: da una parte il Bene, dall’altra il Male. Le astrazioni di questo genere sono comode perché semplificano la realtà, ma non sono la realtà, che, giova ricordarlo, è più complessa di così. Per esempio, non metterei mai in casseruola Pallino. Pallino è il coniglietto di mia nipote. È uno di famiglia: come si fa, a mettere in casseruola un parente? Eppure, con certe zie non avrei scrupoli.

 

Calcio, la fase 3 non salva lo share

Partite scontate, ritmi da amichevoli estive, orari improbabili, piccole squadre annientate dal calendario e la Juventus lanciata verso l’ennesimo scudetto. Se vi sta già venendo voglia di spegnere la tv, sappiate che è esattamente quello che hanno fatto milioni di tifosi. Due, per la precisione. La Serie A post Covid non interessa più: da quando è ripreso, il campionato ha perso quasi il 40% di spettatori, passando da circa 6,5 a 4 milioni di persone di ascolto medio cumulato a giornata.

In Figc e Lega calcio assicuravano che sarebbe stato un successone: dopo tre mesi senza pallone, gli appassionati in crisi di astinenza si sarebbero piazzati sul divano e non si sarebbero persi una partita. I numeri dicono altro. La Lega da un paio d’anni non li pubblica più (da questi dipende parte della ripartizione dei diritti tv), ma Il Fatto Quotidiano è in possesso degli ascolti delle prime quattro giornate post-coronavirus. Rispetto a gennaio, il paragone è impietoso. Il calo si apprezza anche in riferimento alle stesse giornate nel girone d’andata: a parità di condizioni, cioè con le stesse partite, i dati sono sempre inferiori. Soltanto il 27° turno, il primo post lockdown, carico d’attesa, ha retto il confronto; poi una curva in discesa, fino al record negativo dell’ultimo weekend, dove gli spettatori sono stati appena 3,5 milioni. È come se il tifoso avesse aspettato con ansia il ritorno del pallone, ma una volta visto di che si trattava sia scappato.

Alla Serie A bisogna concedere l’attenuante della stagionalità: quelli estivi non sono certo i mesi migliori per la tv, la gente va in vacanza, un calo è fisiologico. Ma è il pallone ad essere cambiato. In peggio. Gli stadi vuoti tolgono pathos ai match, giocati in un clima surreale, senza ritmo, senza emozione. Alcune squadre, le più piccole e meno motivate, sembrano stravolte dal caldo e dal turnover. Mettiamoci pure il calendario, che confonde e non agevola i fan, con le gare spalmate su tutta la settimana, nel pieno della giornata lavorativa o a tarda ora: il match serale inizia alle 21.45 e finisce quasi a mezzanotte, troppo tardi, infatti ora si cerca di anticiparlo ma manca l’accordo. Lo spettacolo a tratti è imbarazzante, chiaro che il tifoso preferisca fare o guardare altro.

È la dimostrazione che il campionato non è ripreso per gli appassionati – a loro di questa stagione compromessa dal coronavirus importa poco – ma solo per le casse dei club. È anche la riprova che giocare tanto per giocare non basta: il prodotto non ha lo stesso valore, ed è un po’ la tesi sostenuta da Sky, che infatti non ha ancora pagato l’ultima rata dei diritti tv, circa 130 milioni. Il contratto blinda le società, ma almeno da questo punto di vista la pay-tv non ha tutti i torti. Chissà se questi dati incideranno pure sulla prossima asta.

I 239 scienziati all’Oms: “Il Covid viaggia nell’aria”

Non c’è più solo il droplet a minacciare di infettarci. Il Covid-19 è anche negli aerosol, le minuscole – nell’ordine dei micron, millesimi di millimetri – particelle di saliva che restano sospese nell’aria quando le espelliamo. Ne sono convinti i 239 scienziati di 32 Paesi che – in una lettera aperta anticipata dal New York Times – chiedono all’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) di rivedere le proprie linee guida. Con effetti potenzialmente rivoluzionari: se il virus circola nell’aria, allora le mascherine servono anche a distanza di sicurezza, vanno ripensati gli impianti di aerazione, le protezioni sanitarie e così via.

Fino adessoperò l’Oms ha considerato l’ipotesi priva di adeguata dimostrazione. Ancora il 29 giugno, nell’ultima versione delle linee guida, si afferma che il Covid si trasmette per via aerea solo “in occasione di procedure mediche capaci di generare aerosol di diametro inferiore a 5 micron”, quali “tracheotomia, intubazione, rianimazione cardiopolmonare” e poche altre. Negli altri casi, il colpevole è il famoso droplet, la gocciolina di saliva più grande, che una volta emessa si deposita al suolo.

Ma a non esserne convinti sono vari consulenti dell’Organizzazione e persino alcuni tra gli stessi autori del documento, riporta il Nyt. Secondo loro, i vertici sarebbero troppo rigidi nel valutare le evidenze prodotte, lenti nell’aggiornare i protocolli e allergici alle voci critiche. Tanto che, nonostante le scarse prove scientifiche, non è mai stata messa in dubbio la trasmissibilità del virus mediante le superfici. “Morirebbero piuttosto che ammettere di aver torto”, dice, in anonimo, un consulente di lunga data.

Non solo, ma la storia della pandemia dimostra che l’Oms è arrivata in ritardo su aspetti chiave della prevenzione anti-Covid. L’uso della mascherina è stato raccomandato solo il 5 giugno, mentre il contagio da parte degli asintomatici è ancora definito “raro” nei documenti ufficiali. Gli scienziati “ribelli” chiedono di adottare il principio di precauzione: anche senza prove definitive, vanno messi in campo gli standard di protezione più stringenti.

Intantoin Italia continuano a venir fuori focolai di origine estera. A Roma, dei 19 positivi di ieri, 12 sono provenienti dal Bangladesh. Per questo la regione Lazio ha emesso un’ordinanza per sottoporre a test chi arriva con voli diretti dal Paese asiatico, già applicata nel tardo pomeriggio di ieri sui 250 passeggeri atterrati a Fiumicino da Dacca. Anche a Viareggio si è scoperto un cluster di 8 cittadini bengalesi, appartenenti a due diversi nuclei familiari.

In Irpinia, invece, si contano 11 casi d’importazione nelle ultime 48 ore, ricondotti a un 69enne venezuelano e una 32enne romena. “Sugli ingressi in Italia occorrono controlli rigorosi”, attacca il governatore campano Vincenzo De Luca, “così il rischio è non arrivare neanche a settembre, quando potremo essere costretti ad affrontare l’anno scolastico in condizioni gravissime”.

I nuovi contagi di ieri sono stati 208, contro i 192 di due giorni fa. Di questi, ben 111 (oltre il 50%) sono in Lombardia. Mantova e Cremona – nei cui territori c’è un importante focolaio nato in macelli e salumifici – sono le province con più nuovi casi, rispettivamente 22 e 23. Nel frattempo, l’appello di Luca Zaia al governo per consentire il trattamento sanitario obbligatorio a chi rifiuta il ricovero trova l’appoggio del sindaco di Bari e presidente dell’Associazione comuni italiani Antonio Decaro: “In casi estremi e ben definiti sono favorevole”, ha detto. Domenica il ministro della Salute Speranza aveva aperto all’ipotesi.

La sabbia minaccia la prova-passerella col premier e le tv

Con il fiato sospeso per verificare che la sabbia non giochi un brutto tiro al Mose, di fronte al presidente del Consiglio, ai ministri, a stampa e televisioni di tutta Italia. Il 10 luglio è fissato l’appuntamento sull’isola artificiale al Lido per osservare l’innalzamento di tutte le 78 paratoie alle bocche di porto della Laguna di Venezia. Ma ciò che è accaduto una settimana fa, in un test preparatorio, non è di buon auspicio. Le paratoie numero 17, 18, 19 e 20, a Treporti, non sono rientrate nella loro sede sul fondo a causa dei sedimenti. Una anomalia che si è verificata anche in passato. Per questo, oggi si svolgerà un nuovo test, dopo le pulizie effettuate in grande fretta.

La sabbia è solo uno dei problemi del Mose. Si manifesta soprattutto a Treporti, dove nel 2013 furono messe in acqua le prime paratoie (prodotte dalla Mantovani), prima che lo scandalo delle tangenti rallentasse l’iter attuativo e costringesse l’Autorità nazionale anticorruzione a chiedere l’amministrazione straordinaria per il Consorzio Venezia Nuova. Non a caso quella bocca di porto è delimitata da Punta Sabbioni, il cui nome spiega quale sia la conformazione delle rive. Il Mose richiede pulizia continua e manutenzione. L’anno scorso fu affidato un appalto da 18 milioni di euro alla friulana Cimolai, ma i ricorsi delle ditte escluse non hanno ancora consentito un intervento. Finora sono stati utilizzati aspiratori piuttosto rozzi. In passato si ipotizzò un’imbarcazione speciale, ma è troppo costosa. E così si punta a installare delle bocche speciali, che muovano la sabbia e la aspirino. Ma non sono ancora disponibili.

“Il Mose è in grado di sollevarsi, ma non ancora di funzionare. Per quel momento bisogna attendere la fine del 2021. Mi spiace che venerdì il mare sarà calmo. Sarebbe stato bello provarlo con il moto ondoso”. L’ingegnere Alberto Scotti è uno dei progettisti originari. Lo scorso novembre, quando la marea arrivò a 184 centimetri, dichiarò convintissimo che il Mose non poteva essere alzato. Rischiava la distruzione in caso di vento e mare troppo forti. Amministratori e politici pregarono i tecnici di provarci. Ma il buon senso prevalse.

Dopo la sabbia, la ruggine. A maggio si scoprì che le paratoie di Treporti presentano scrostamenti della vernice protettiva, con intaccamento dell’acciaio. Tre anni fa è stata individuata la ruggine anche sui delicatissimi gruppi cerniere-connettori che consentono il movimento. Per questo è stata bandita una gara da 34 milioni di euro per la ricerca di soluzioni sui materiali, in vista della futura produzione di nuove cerniere. Se si pensa che il Mose dovrebbe avere una vita di un secolo, la prognosi di usura nell’arco di pochi anni è molto preoccupante. Il che dimostra come l’opera sarà un cantiere continuo. E questo porta l’attenzione sui costi di manutenzione, stimati in un centinaio di milioni all’anno.

L’elenco delle criticità è però ancora più lungo. Ci sono buchi nei tubi sott’acqua. Cedimenti dei cassoni in cemento posti sul fondale delle bocche di porto che fungono da alloggiamento delle cerniere. C’è poi il jack-up, la nave attrezzata per sostituire periodicamente le paratoie da mettere in manutenzione (spesa di 52 milioni di euro) che ancora non funziona. Per finire la “conca di Malamocco” (costata 35 milioni di euro) che dovrebbe consentire il passaggio di imbarcazioni con il Mose in funzione. Non solo è stata danneggiata da una mareggiata anni fa, ma si è rivelata troppo stretta per il passaggio delle navi. E allargarla costerà un’altra trentina di milioni.

Sprechi, liti e lady mose: il mostro che verrà

“L’architetto Elisabetta Spitz, Commissario Straordinario per il Mose, e la dott.ssa Cinzia Zincone, Provveditore alle Opere pubbliche del Triveneto, hanno il piacere di invitarLa al Primo test di sollevamento in contemporanea delle quattro barriere del Mose”. Con una precisazione: “Venerdì 10 luglio, ore 10, alla presenza del Presidente del Consiglio dei Ministri, prof. Giuseppe Conte, e della Ministra delle Infrastrutture On. Paola De Micheli”.

Alcuni giorni fa, nella sede del Consorzio Venezia Nuova all’Arsenale, i due amministratori straordinari Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola hanno aperto la lettera con visibile stupore. “Ma il Mose non siamo noi?” devono essersi chiesti, visto che da cinque anni gestiscono il Consorzio, travolto dallo scandalo nel 2014, nel tentativo di impedire che 6 miliardi di acciaio e cemento restino inutilizzati in fondo al mare. Eppure l’invito arriva dalla super-commissario nominata a novembre e dal Provveditore, braccio operativo del Ministero. Segno dei tempi. Il Consorzio, ora gestito da mano pubblica dopo il fallimento morale e tecnico delle imprese private che lo avevano creato nel lontanissimo 1982, è destinato a essere superato. Lo si è capito in questi mesi di continuo braccio di ferro tra la coppia Spitz-Zincone e la gestione straordinaria. Perché è importante che il Mose si alzi, Venezia pensi di avere una difesa a mare e si inizi a progettare la gestione operativa, una torta da cento milioni di euro all’anno.

In realtà la grande opera idraulica, non ancora realizzata 17 anni dopo la prima pietra, non sarà finita quando venerdì le 78 paratoie usciranno dal mare, durante una prova-passerella che richiamerà in Laguna il bel mondo della politica. È come Lazzaro, che si alza, ma ancora non cammina. Un fantasma resuscitato. Per vederlo in funzione bisogna attendere almeno la fine del 2021.

Il Mose non ancora nato, nonostante una gestazione di lustri e un costo inusitato, è comunque già orfano. Nel senso che non ha mai avuto un padre. Se anche avesse ambito a esserlo l’ingegnere Giovanni Mazzacurati, il gran ciambellano delle tangenti, non si può dire che egli lo abbia coccolato come un figlio prediletto. Lo ha soprattutto utilizzato. Ma è difficile trovare anche padri politici. I Cinquestelle (ministro Federico D’Incà) sono rassegnati nel dire che ormai va finito, ma che non avrebbero mai approvato un’opera del genere. Il Mose, per loro, è una specie di bastardo. Nel centrosinistra bisognerebbe cercare nella notte dei tempi (ministro Antonio Di Pietro e premier Romano Prodi, 1998) un primo via libera, seppur contraddittorio, perché le resistenze ambientaliste erano forti. Eppure un anno fa lo stesso Prodi, che nel 2006 disse di no a tutte le proposte alternative di Massimo Cacciari, ha commentato: “Il Mose dovrebbe essere finito da anni”. La realtà è che il lavoro sotto traccia di chi lo voleva è sempre stato trasversale. Il centrodestra ci ha messo il cappello nel maggio 2003 quando Silvio Berlusconi pose la prima pietra, con il corollario di ministri come Bossi, Lunardi, Matteoli (indagato per le bonifiche) e il governatore Giancarlo Galan (arrestato).

Per questo il Mose non ha un padre, ma tanti padrini (e due madrine). È il frutto di una preoccupazione universale e autentica per Venezia, ma anche dell’Italia che arraffa, lucra, guarda al proprio tornaconto. E trasforma un bisogno collettivo in tante opportunità personali. Altrimenti non sarebbe finita con la grande retata del 2014, decine di arresti, controllati e controllori in manette, politici accusati di corruzione. C’erano perfino un generalone della Finanza, un magistrato alle acque, un giudice della Corte dei Conti, nella contabilità dell’intrallazzo che è arrivata a 22 milioni di tangenti e di uno scialo pubblico che ha sfiorato il miliardo di euro. Di sicuro ha avuto un nemico, l’ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari, che invocava altre soluzioni: interventi sulle fondamenta, riequilibrio della Laguna, rispetto dell’ambiente. Nel 2006 fece mettere a verbale, in Comitatone: “È un’opera arrischiatissima, dove non c’è affatto unanimità della comunità scientifica. Io non mi prenderei mai la responsabilità di andare avanti in una situazione di tale criticità e problematicità, padrone il governo di farlo”. E Prodi lo fece.

Il filosofo finì sotto il tiro dei poteri economici, come hanno ricordato Giovanni Benzoni e Salvatore Scaglione in un prezioso libro appena pubblicato, Sotto il segno del Mose (La Toletta). Ricordano grandi firme di Repubblica, Corriere della Sera e Stampa schierate a cantare “inni alle meraviglie della tecnologia vincente in laguna, alla bellezza ‘leonardesca’ dell’opera, con la preoccupazione continua di non lasciarsi ingabbiare da ‘quelli del non fare’. Molti articoli, letti oggi, appaiono di un servilismo imbarazzante”. Il che aveva un senso, commentano i due autori: “Luigi Zanda era presidente del Consorzio e consigliere del gruppo Repubblica-Espresso. Impregilo del Gruppo Agnelli era una delle maggiori imprese del Consorzio, e Agnelli era anche comproprietario del Corriere e proprietario della Stampa”. Ma in questo ritratto di mass-media ci finisce anche il manifesto, con Rossana Rossanda che nel fatidico 2006 scriveva: “Chiedo scusa, ma mi importa più il destino dei veneziani, che quello di una garzetta…”.

Quindici anni dopo, i veneziani non hanno ancora il loro salvatore. Nove mesi fa la seconda “acqua alta” di sempre (184 centimetri, la prima fu nel tragico 1966) ha dato una sferzata al progetto, con il governo che ha detto: “I soldi ci sono, adesso finiamolo”. Ma il vero senso d’ansia che si coglie a Venezia non riguarda il movimento meccanico delle paratoie, che sicuramente – e sabbia permettendo – si alzeranno, bensì la loro effettiva capacità di fermare le acque. Ma per verificarla bisogna ancora aspettare.

 

L’audio di B. depositato 4 anni dopo: “Conteneva contenuti sensibili”

Il giudice della Cassazione Amedeo Franco, relatore del processo Mediaset, trattato come fosse un confidente di polizia dagli avvocati di Berlusconi che, nel 2016, hanno scritto la prima integrazione al ricorso di Strasburgo, per ottenere il riconoscimento dell’ingiusta condanna per frode fiscale. Solo ad aprile scorso, a quasi un anno dalla morte di Franco, la difesa Berlusconi ha inviato l’audio carpito al giudice nel 2014 mentre davanti al Cavaliere si batteva il petto e accusava i suoi colleghi di aver impiantato “un plotone di esecuzione” contro l’ex premier.

Il 4 marzo 2016 , quando Franco, dunque, era ancora in vita, gli avvocati Andrea Saccucci e Bruno Nascimbene, parlano della “confessione” del giudice alla Cedu in termini singolari. Intanto, riferiscono soltanto in maniera decisamente stringata del Franco pensiero: “Che il clima in seno al collegio giudicante (della Cassazione, ndr) fosse tutt’altro che sereno – si legge – e che il Presidente della Sezione feriale (Antonio Esposito, ndr) fosse pregiudizialmente determinato a condannare il Sig. Berlusconi emerge altresì da una conversazione privata del dott. Franco. Il magistrato riferisce dei pregiudizi del dott. Esposito, ammette di vivere un forte turbamento personale e si dichiara in totale disaccordo con le statuizioni di condanna della Suprema Corte e profondamente amareggiato, a livello professionale, per essersi lasciato indurre a condividere un palese – e, a suo dire, voluto – errore giudiziario”.

I legali, inoltre, pensano forse che la Corte dei diritti dell’uomo sia un commissariato di polizia o una stazione dei Carabinieri, scrivono, che se vuole il materiale deve tenerlo nascosto per non esporre il giudice: “Considerata l’estrema sensibilità dei contenuti di tale conversazione, la scrivente difesa si riserva di acquisirne e produrne la registrazione e relativa trascrizione esclusivamente nel caso in cui codesta Ecc.ma Corte dovesse ritenerla rilevante ai fini della decisione e con le massime garanzie di confidenzialità che essa riterrà più opportuno applicare a tutela del magistrato interessato, nel rispetto dei diritti del predetto”. Che, essendo vivo, aggiungiamo noi, sarebbe finito denunciato per calunnia da Esposito, che ha sempre agito in tutte le sedi per tutelare la sua onorabilità di magistrato e, verosimilmente, anche dagli altri giudici, Ercole Aprile, Claudio D’Isa e Giuseppe De Marzo che, di fatto, sono stati chiamati in causa da Franco perchè componenti del collegio “plotone di esecuzione”.

Gli avvocati se la prendono pure con il Csm che ha assolto il giudice Esposito, finito sotto procedimento per un’intervista al Mattino, pochi giorni dopo la sentenza di condanna di Berlusconi, agosto 2013, perché – fatti alla mano – ha potuto dimostrare la manipolazione del suo pensiero. Ma per la difesa “il mancato intervento sanzionatorio è indice – oltre che dell’assenza di qualsiasi rimedio interno in grado di riparare la violazione della Cedu lamentata dal ricorrente – di un’ennesima, sebbene indiretta, prova di forza della magistratura italiana, ancora una volta incapace di rilevare e rimediare alle gravi anomalie processuali che hanno caratterizzato il procedimento penale conclusosi con la condanna del Sig. Berlusconi”.

Ora, l’avvocato storico di Berlusconi, Niccolò Ghedini dice che l’ultima integrazione, di aprile scorso, è fondata su una sentenza civile di Milano che avrebbe smontato l’accusa di frode fiscale. “Piccolo” particolare, quella sentenza non riguarda affatto il processo Mediaset diritti tv, per il quale “Mister B.” è stato condannato, ma Mediatrade, dal quale l’ex premier ne è uscito prosciolto già in udienza preliminare. A parte ciò, lo stesso Ghedini fa sapere che, già che c’era, la difesa ha rinfrescato la memoria alla Cedu: ricordati della conversazione di Franco. E, guarda caso, solo post mortem, invia il suo audio, a 6 anni da quando è stato fatto e a 4 da quando è stato “rivelato” alla Cedu. Franco non può rispondere di quello che ha detto, ma l’importante è far credere la bufala, vecchia quanto la storia giudiziaria di Berlusconi, che il Cavaliere è un perseguitato politico, non colui che si è fatto approvare leggi ad personam spinte dai suoi avvocati eletti in Parlamento.

Ferri ci riprova: scrive a Fico Vuole lo scudo della Camera

E ora la grana si sposta a Montecitorio. Perché il deputato renziano Cosimo Maria Ferri, finito nei guai con Luca Palamara&Co. per via degli incontri all’hotel Champagne dove ci si dava da fare per le nomine al vertice della Procura di Roma, vuole lo scudo preventivo dai suoi colleghi deputati, forse tentando di guadagnare tempo. Infatti ha chiesto al presidente della Camera Roberto Fico di sollevare il conflitto di attribuzione di fronte alla Corte Costituzionale nei confronti del procuratore generale presso la Corte di Cassazione e del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Perugia, sostenendo di essere stato intercettato illegittimamente e cioè senza l’autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza. Per via del suo brigare come dominus di una delle correnti della magistratura ma pure come cerniera con la politica (a quella tavolata rappresentata anche da Luca Lotti), rischia una sanzione disciplinare dal Csm.

Che teme possa costargli la carriera, almeno quella in toga. O quanto meno insozzargliela definitivamente, lui che è riuscito a rimanere sempre puro come un giglio. Nonostante il suo nome sia comparso negli anni ripetutamente, senza però mai essere indagato: da Calciopoli, al Trani-gate, dall’inchiesta P3, al caso Saguto e da ultimo come cerimoniere degli incontri tra Silvio Berlusconi e il giudice Amedeo Franco, relatore della sentenza Mediaset, con tanto di colloqui registrati e oggi resi pubblici nel tentativo di riabilitazione del Cav. Sempre graziato dal suo Csm, ora tenta il colpaccio anche alla Camera: della sua richiesta dovrà occuparsi prima la Giunta per le autorizzazioni e le immunità di Montecitorio che dovrà predisporre una relazione per l’Ufficio di presidenza guidato da Fico. Che dopo ulteriore istruttoria, se riterrà la questione degna di attenzione, farà decidere l’aula.

Ma cosa chiede Ferri? Il deputato di Italia Viva si era già rivolto personalmente, ma senza successo alla Consulta, a difesa delle sue prerogative di parlamentare. Lamentando che gli inquirenti sapessero già, grazie al trojan installato sul telefono di Palamara, che al famigerato convivio del 9 maggio 2019 organizzato sulle nomine al Csm, avrebbe partecipato pure lui. E che dunque quella sera avrebbero dovuto staccare la cimice oppure chiedere l’autorizzazione preventiva alla Camera.

Ora che la Corte Costituzionale ha dichiarato il suo ricorso inammissibile, la speranza è di trovare protezione politica dai suoi colleghi parlamentari. E che la Camera faccia la voce grossa a tutela delle prerogative dell’Istituzione tutta, minacciate dal “torto” che ha dovuto subire un suo rappresentante.

Una mossa del cavallo attraverso la quale Ferri vuole garantirsi l’inutilizzabilità delle captazioni che sono alla base del procedimento disciplinare che lo riguardano. E uscirne di nuovo incolume salvando l’onore e il posto di magistrato. Ché quello di parlamentare non glielo tocca nessuno.

La Calabria si rifà il trucco con Muccino, Bova e Minoli

Per promuovere il “brand Calabria”, e farlo in modo “emozionale”, arriva in riva allo Stretto “il regista dell’amore”, Gabriele Muccino. Le parole tra virgolette sono tutte della presidente Jole Santelli che governa la sua regione da Roma e con i romani. Dopo il Covid bisogna ridisegnare l’immagine della Calabria nel mondo. Non più “sfasciume pendulo sul mare” (Giustino Fortunato), non più luogo della eterna commistione tra politica e mafia (gli ultimi coinvolgimenti di consiglieri della maggioranza e di un assessore in inchieste la dicono lunga), ma terra di sole, mare e agrumi. E allora la Santelli chiama Muccino, il quale chiama Raoul Bova (radici calabre), che a sua volta impone il volto mediterraneo della sua compagna, la spagnola Rocío Muñoz Morales. Caramba!

Ma la storia è tutta da raccontare. E inizia con un mega piano da 11 milioni che la giunta regionale ha messo in piedi per rifare il trucco alla Calabria. Del piano si sa poco, molto, invece, si sa di come verranno spesi i primi 1,7 milioni per la realizzazione di un micro film di otto minuti diviso in quattro parti di due, che vedrà come protagonista Bova e signora. Basta sfogliare i decreti per capirne di più. I funzionari mettono nero su bianco, quasi a futura memoria, che l’idea “nasce su sollecitazione della Presidente”, che sceglie Muccino. Il regista, poi, propone la casa di produzione, la “Viola film”. Si tratta di una società che negli ultimi tre anni ha avuto un significativo sviluppo, passando da un valore della produzione di 21.500 euro nel 2017 ai 9 milioni del 2019. La “Viola” ha sede a Roma, ma la maggioranza del suo capitale sociale (50 mila euro), è in mani tedesche, con l’80% della Ndf. Secondo le indiscrezioni, Muccino incasserebbe 200 mila euro, 300 mila andranno a Bova.

Tema dell’opera gli agrumi, le clementine, il bergamotto, le arance, i limoni. Soggetto semplice ed “emozionale”. Un calabrese, Raoul Bova (“icona indiscussa di sensualità”, si legge nei documenti ufficiali della Regione) che porta in giro per la sua terra la sua nuova fiamma spagnola, la Morales, sempre dai documenti ufficiali, “bellissima attrice, modella e ballerina, nonché compagna di Raoul Bova anche nella vita”. Amore, sole e soldi pubblici.

“La verità è che qui siamo di fronte a una vera e propria operazione di colonialismo culturale”, ci dice Gianpiero Capecchi, documentarista calabrese e segretario della Cna audiovisivi della Calabria, “Si chiama una società di produzione estranea al territorio, tagliando fuori le realtà locali. Parliamo di operatori, tecnici, piccole e medie case di produzione che hanno fatto opere importanti, registi, attori, sceneggiatori, un mondo che da noi conta sulle 400 persone che fino a questo momento sono alla fame e non hanno ricevuto alcun tipo di aiuto dalla Regione”. Il settore cultura e spettacoli è in crisi, il mondo dell’audiovisivo di più, con la Rai, Sky, La7 e Mediaset, che da tempo hanno tagliato i compensi a produzioni e service locali. Pochi giorni fa i lavoratori dello spettacolo hanno protestato contro la falsa ripartenza e “la mancanza di sostegno concreto per chi lavora nei teatri e li rende vivi”.

Insomma, l’arrivo di Muccino e della società italo-tedesca provoca più di una protesta nella terra di registi come Gianni Amelio e Mimmo Calopresti, e di un attore come Marcello Fonte, vincitore dell’Oscar europeo per Dogman. Naturalmente la presidente Santelli fa spallucce. Raoul Bova piace ai suoi assessori, soprattutto a Sergio De Caprio, l’ex “capitano Ultimo” assessore “mascherato” all’Ambiente. Fu proprio Bova a portarlo sul piccolo schermo in una fiction tv. La “colonizzazione” continua, c’è da nominare il nuovo presidente della Film Commission. La Santelli un nome lo ha già tirato fuori, si tratta di Gianni Minoli, 75 anni, giornalista tv di lunghissimo corso, da direttore di Rai3 realizzò la prima fiction italiana, Un posto al sole.

E in Calabra i posti (pubblici) e il sole non mancano.

“Giallorosa insieme anche a livello locale o il governo rischia”

Adesso o mai più. Per rinnovare le classi dirigenti, per “non soccombere” contro la destra e per non dare il fianco a chi mira a far cadere il governo. Secondo il sociologo Domenico De Masi, l’intesa nazionale tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico ha la sua naturale declinazione in analoghi accordi a livello locale, a partire dalle elezioni regionali e amministrative del prossimo settembre. Un percorso logico e indicato nei giorni scorsi pure dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, anche solo per non litigare nei territori mentre intanto a Roma si cerca di lavorare insieme. Eppure, al momento, i vertici delle due forze politiche sembrano non avere la stessa priorità.

Professor De Masi, come mai gli alleati di governo rischiano di presentarsi divisi quasi ovunque?

Se penso alla Campania, che è la Regione che conosco meglio, è ovvio che la figura di Vincenzo De Luca abbia reso impossibile ogni accordo. Ma non per colpa di un odio tra i 5 Stelle e gli esponenti del centrosinistra regionale: il “nemico” dei grillini è De Luca, non il Pd. La questione è personale. Da altre parti, però, si dovrebbe fare uno sforzo, anche se di certo un accordo in Campania avrebbe sbloccato con facilità tutto il resto.

Anche De Luca a un certo punto sembrava a rischio.

Prima dell’emergenza coronavirus era molto indietro nei sondaggi e credo che il centrosinistra si sarebbe deciso a scaricarlo, favorendo così un’intesa coi 5 Stelle. Adesso però De Luca ha guadagnato molti consensi, più per motivi mediatici che per meriti politici, dunque per lasciarlo indietro ci vorrebbe un coraggio che credo nessuno abbia.

Se la destra sbancasse alle Regionali il governo cadrebbe?

In Emilia-Romagna la vittoria di Bonaccini ha evitato guai, anche perché Salvini aveva talmente enfatizzato quel voto da far dimenticare il successo del centrodestra in Calabria e trasformando la campagna elettorale emiliana in un clamoroso autogol. La prossima partita è altrettanto decisiva non soltanto perché vanno al voto più Regioni, ma perché sarà una sorta di certificato – positivo o negativo – dell’operato del governo. Non si può più scherzare, è un ultimatum: o Pd e Movimento 5 Stelle trovano la quadra e riescono a battere la destra insieme oppure rischiano di soccombere.

Non sarebbe però un’alleanza tenuta insieme solo dalla convenienza politica?

L’elettorato dei 5 Stelle, che due anni fa aveva raggiunto il suo picco, piano piano ha perso quella parte più vicina alla destra. Lo zoccolo duro rimasto è sempre più pronto a diventare simile a un partito e ad accettare un’alleanza strutturale con il centrosinistra. Basta ricordarsi quel che è successo in Emilia-Romagna, quando l’accordo tra gli alleati non c’era ma gli elettori si sono fatti l’intesa da soli, votando Bonaccini contro la leghista Borgonzoni. L’idea della “terza via” di Di Maio, per cui una volta ci si allea con Salvini e una col Pd, non funziona. E lo hanno capito anche quasi tutti i ministri che oggi sono al governo, che si trovano molto meglio adesso. Senza considerare un’intesa aiuterebbe sia il Movimento che il Pd a risolvere alcuni problemi interni.

Cioè?

Nel Movimento, l’accordo sarebbe un modo per mettere all’angolo la terza via o chi in questo momento, come Di Battista, non vede bene questa svolta governista. Sono in mezzo al guado tra l’essere un partito e il restare un movimento, dunque una mossa del genere sarebbe decisiva.

E nel Pd?

Anche a sinistra questa sarebbe un’occasione d’oro per trovare nuove personalità da presentare agli elettori, favorendo un ricambio nella classe dirigente. Pensare a dei candidati condivisi può far sì che le esigenze dei due alleati si completino. Ma il voto di settembre è l’ultima occasione.