Appendino, ipotesi addio: Pd-5S a Torino, lei a Roma

Dicono che Luigi Di Maio lo ripeta da tempo: “Chiara potrebbe anche non ricandidarsi per il Comune”. E ovviamente si riferisce alla sindaca di Torino Chiara Appendino, stimatissima dall’ex capo politico: al punto che il ministro degli Esteri ha pensato a lei come nuova guida del Movimento, magari da primus inter pares di una segreteria collegiale. Un’offerta che Appendino si è sentita fare da Di Maio già lo scorso gennaio a Roma, pochi giorni prima che il ministro si dimettesse da capo politico. La sindaca, sorpresa, reagì prendendo tempo, e facendo capire che forse era una responsabilità troppo grande. “Chiara uscì sballottata da quell’incontro” racconta un big grillino.

Parecchi mesi dopo, Appendino riflette su cosa fare. Sa che il M5S, tutto, vuole la cancellazione del vincolo del doppio mandato almeno per i sindaci. Ma sa pure che il Pd, e in particolare quello torinese, non vuole convergere sul suo nome in vista delle Comunali del 2021. In più, le pesa dover attendere l’esito dei due processi in cui è imputata: quello Ream, in cui è accusata di falso in atto pubblico e abuso di ufficio, e quello per gli incidenti in piazza San Carlo del 3 giugno 2017, in cui è imputata per lesioni, disastro e omicidio colposo (anche se da ambiente giudiziari filtrano voci per lei rassicuranti). Per questo è sempre più tentata dal non ripresentarsi, come ha ricordato ieri La Stampa. Anche se è uscita indenne dal periodo più difficile dell’emergenza per il coronavirus, gestito con buon senso. Ma allo stato attuale un’alleanza con i dem potrebbe arrivare solo trovando un terzo nome, che vada bene al Pd ma anche ai 5Stelle locali, inquieti quanto autonomi da Roma. Tradotto, una figura di sintesi non è facile da trovare. Però la sindaca valuta ogni strada.

E un nome che ciclicamente ritorna è quello del rettore del Politecnico di Torino Guido Saracco. Il docente ha smentito più volte di essere interessato. Ma dal M5S nazionale dicono che il primo nome in lista resta il suo. Anche se una parte rilevante del Pd torinese non è convinta, in particolare quella più legata a Piero Fassino e Sergio Chiamparino. Tutto però dipende dalle scelte di Appendino, che non ha ancora deciso. Di certo è più propensa rispetto a qualche mese fa ad accettare un ruolo nazionale per il M5S. In attesa magari di candidarsi in Parlamento, appena verrà rimosso il vincolo dei due mandati per i parlamentari. Una svolta a cui Alessandro Di Battista e Davide Casaleggio fanno muro, ma che tutti danno per scontata, nei 5 Stelle sempre più diversi.

Renzi e B. avanti insieme contro la legge elettorale

“Surreale parlare di legge elettorale”, secondo Matteo Renzi. “Ridicolo”, secondo Forza Italia. Perché l’emergenza è troppo grave per affrontare la questione. Ufficialmente Iv e FI, dunque, procedono allineate. Obiettivo, buttare la palla in tribuna ed evitare un dossier scottante, che li costringerebbe entrambi a scelte premature. Come quella di rompere gli indugi e unirsi in un unico soggetto politico.

Altro segno della ritrovata convergenza di Matteo e Silvio. La posizione di Renzi è piuttosto obbligata: appoggiare un sistema proporzionale con lo sbarramento al 5% vuol dire correre il rischio di non entrare neanche in Parlamento. Protesta il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio: “Se non si rispettano i patti la fiducia viene meno. Anche noi avremmo voluto una legge diversa ma tra desideri e difesa della Costituzione preferisco la seconda”. E anche Federico Fornaro di Leu ricorda che il proporzionale era negli accordi di governo. Leu – dall’inizio della discussione – aveva chiesto di abbassare la soglia. Cosa sulla quale – erano convinti anche nel Pd – sarebbe arrivato anche Renzi. Ma il mondo nel frattempo è cambiato. Iv è in caduta libera e quel ruolo di “ago della bilancia” che il senatore di Scandicci andava accarezzando potrebbe in realtà essere destinato a Berlusconi. Per questo, dentro Forza Italia le spinte sono diverse. C’è chi il proporzionale non lo vuole assolutamente perché non intende correre il rischio né di spaccare il centrodestra, né di vedere il partito annientato dal voto utile (che infatti premierebbe i grandi: Pd, Lega M5s). Ma c’è – invece – chi lo considera come un’opportunità di pesare, di poter scegliere, dopo il voto, chi appoggiare. Nicola Zingaretti ha ripreso il dialogo con Berlusconi proprio per portarlo su queste posizioni. E in generale – già da ora – FI viene considerata un territorio da conquistare alla maggioranza. Il disegno lo porta avanti Gianni Letta. Come andrà a finire non è del tutto chiaro. Anche perché i due protagonisti del movimento in corso – ovvero gli stessi Matteo e Silvio – stanno facendo tutti i loro calcoli di convenienza. Dalle parti di Firenze, chi ha osservato sempre molto da vicino anche il ruolo di Denis Verdini, è convinto che alla fine i due si accorderanno sul sistema proporzionale e a quel punto la fusione diventerà una strada obbligata.

La data di approdo in Aula della legge è il 27 luglio. Il Pd punta ad approvarla entro settembre. Anche questo, un percorso a ostacoli. Ragionava qualche giorno fa una fonte leghista: “Per fermare questo percorso i due Matteo hanno un’arma: far cadere il governo e andare al voto con il Rosatellum”. A Salvini sulla carta converrebbe di certo. A Renzi meno. E infatti – da giocatore di poker incallito – ora sta portando avanti un’altra partita: quella dell’allargatore della maggioranza, per conto del premier, anche grazie al suo rapporto privilegiato con il sempre redivivo leader azzurro. “Io se fossi un senatore azzurro e volessi sostenere il governo, da europeista, troverei più logico stare con noi che con Salvini”, ha ribadito ieri. Una chiamata in piena regola.

Votano tutti la lobby dei balneari: lo Stato prende solo briciole

Tre anni fa ci ha messo lo zampino il maltempo eccezionale, nel 2019 è arrivato l’aiutino dell’ex ministro del Turismo, il leghista Gian Marco Centinaio. Quest’anno, causa Covid-19, è stato ancora più facile annacquare “spiaggiopoli”. Con una veloce trattativa tra il senatore forzista Maurizio Gasparri e il ministro Dario Franceschini (Pd) è stato inserito nel calderone del dl Rilancio un emendamento di Deborah Bergamini (FI) – con voto bipartisan in Commissione Bilancio – che proroga le concessioni demaniali marittime, cioè le spiagge, fino al 2033. La storia è sempre la stessa: per tutelare una realtà di piccole imprese – sono 30 mila per lo più a conduzione familiare – l’Italia non riesce a mettere all’asta le concessioni, come vuole l’Europa. Il nemico della lobby degli stabilimenti balneari è la direttiva Bolkestein del 2006. Aggirata nel 2010 dal governo Berlusconi, è stata prorogata di altri 15 anni dalla legge di Bilancio 2019. Ed ora l’emendamento l’ha riformulata per evitare che si creassero dei contenziosi a sfavore dei balneari: troppi Comuni non hanno aggiornato le delibere. Così, quella che dovrebbe essere una gigantesca risorsa economica, si traduce in un misero introito per lo Stato: le concessioni portano all’Erario appena 105 milioni di euro, a fronte di un giro di affari stimato da Nomisma in 15 miliardi di euro annui. Dividendo l’introito per le 25.000 concessioni, i gestori degli pagano allo Stato “zero”, per dirla con Carlo Calenda. “Il numero delle concessioni cresce ovunque, ma nessuno controlla”, spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. “Abbiamo svenduto le coste”, dice il segretario dei Verdi Angelo Bonelli: “I prezzi stracciati delle concessioni sono uno scandalo che porteranno l’Italia a risponderne di nuovo davanti alla Commissione Ue”.

Ed eccoli gli affari d’oro. Per il Twiga di Marina di Pietrasanta (quasi 4.500 mq), dove si spendono mille euro al giorno, il proprietario Flavio Briatore (Daniela Santanchè è una socia) paga 17.619 euro di canone allo Stato, contro 4 milioni di fatturato. Un anno e mezzo fa l’imprenditore ha acquistato la concessione dalla storica famiglia di proprietari a 3,5 milioni di euro. Al Papeete (5 mila mq e 35 euro per due lettini e un ombrellone), lo stabilimento romagnolo reso famoso da Matteo Salvini, lo scorso anno i ricavi sono volati a 3,2 milioni, ma il canone – riporta il Corriere – è rimasto fermo a 10 mila euro. Secondo il report di Legambiente, a Santa Margherita Ligure, il Lido Punta Pedale versa 7.500 euro all’anno; a Forte dei Marmi il Bagno Felice 6.560 euro per 4.860 mq; il Luna Rossa di Gaeta 11.800 euro per 5.381 metri, mentre il Bagno azzurro di Rimini ne versa 6.700. In Sardegna, per la spiaggia di Liscia Ruja, l’hotel Cala di Volpe paga 520 euro all’anno. Della proroga al 2033 ne beneficeranno di certo i 71 stabilimenti di Ostia (10 km di spiaggia) che, a fronte di ricavi da 300 mila euro, pagano tra i 20 e 40 mila euro l’anno. La giunta capitolina di Virginia Raggi sta portando avanti la battaglia per abbattere gli stabilimenti e le strutture abusive. “Sono arrabbiato – dice il consigliere M5S in Campidoglio, Paolo Ferrara – con questa norma siamo molto più deboli. Così hanno vinto gli stabilimenti balneari perché con una legge nazionale noi non possiamo più fare niente: ci hanno legato le mani”.

E intanto di aumentare i canoni di concessione non se ne parla. Anzi. Lo stesso emendamento per sanare “una palese ingiustizia” a danno dei gestori delle concessioni “pertinenziali” (cioè bar, ristoranti e chioschi in muratura), ha abolito il pagamento dei canoni calcolato attraverso i valori dell’Agenzia delle Entrate (fino a 200 mila euro), sancendo che non dovranno sborsare più di 2.500 euro. E potranno sanare le morosità pagando solo il 30% del dovuto in un’unica soluzione o rateizzare il 60% fino a un massimo di 6 annualità. Stessa spiaggia, stesso mare, affari d’oro.

Meno gare e più commissari: ok al decreto Sblocca-appalti

Non tutto è risolto, ma alla fine l’intesa “di massima” c’è, e questo basta a evitare a Giuseppe Conte di partire per il tour europeo con la figuraccia di un rinvio. In un Consiglio dei ministri notturno (non ancora terminato mentre andiamo in stampa), il decreto Semplificazioni ottiene il via libera “salvo intese”, la formula che permette al governo di continuare a riscriverlo anche dopo l’ok.

Dopo una settimana di scontri, specie sul nodo degli appalti pubblici, Conte è costretto ad accettare diverse modifiche. Il testo, studiato a Palazzo Chigi, di fatto eliminava le gare per un anno nel settore a favore di procedure negoziate direttamente con le aziende: rese obbligatorie sotto i 5 milioni di valore (la “soglia comunitaria”), chiamando almeno 5 imprese; e semi-obbligatorie anche sopra quell’importo, specie per le opere considerate “prioritarie”, con le stazioni appaltanti dotate di poteri in deroga a quasi tutte le leggi. Il Pd è contrario a una sospensione così profonda delle gare; 5Stelle e Italia Viva insistono soprattutto la nomina di commissari straordinari. Tutti, in parte, saranno accontentati.

Nel Cdm, che inizia ben oltre le 22, si prova a trovare una sintesi. Stando alle ultime bozze, sotto i 5 milioni di importo gli appalti si potranno affidare senza gara, ma le imprese da chiamare (a rotazione) salgono in base all’importo dell’appalto (10 tra i 350 mila euro e il milione di valore, quindici fino a 5 milioni). Oltre la soglia comunitaria si potranno fare le gare e chi vorrà ricorrere alla procedura negoziata dovrà motivarlo. Procedura che sarà invece obbligatoria per un particolare tipo di opere, come scuole, carceri e ospedali. Il Pd vorrebbe però fissare comunque una soglia per evitare di affidare opere imponenti senza gara (Palazzo Chigi, invece, è contrario). A ogni modo, restano i poteri in deroga alla legge per le stazioni appaltanti (niente gare, meno controlli).

I renziani di Italia Viva e 5Stelle, dal canto loro, incassano una lunga lista di opere per le quali saranno nominati dei commissari straordinari che potranno agire in deroga a tutto – il “modello Genova” usato per ricostruire il ponte Morandi – stilata dai partiti. In Cdm la ministra Paola De Micheli (Pd) entra con una lista di 100 opere del piano nazionale al 2033 (190 miliardi di spesa). Diverse saranno commissariate. Il decreto che le individua spetta a Palazzo Chigi, ma a indicare i nomi sarà il Mit. La base di partenza già c’è: al ministero della De Micheli è pronta da mesi una bozza di decreto per nominare i commissari di ben 21 opere, 6 tratte stradali (tra cui la 106 Ionica e la Ragusa-Catania, cara ai 5Stelle che esprimono il viceministro ai Trasporti Giancarlo Cancelleri) e 8 ferroviarie (l’alta velocità Venezia-Trieste, la Roma-Pescara, il raddoppio della Pescara-Bari etc.) che sommate valgono oltre 20 miliardi. Ci sarà battaglia tra i partiti per nominare commissari strapagati e con strutture al seguito che dovranno gestire miliardi in deroga alla legge (tranne codice penale e antimafia).

I 5Stelle chiedevano ancora di più, nominare commissari gli amministratori delegati di Anas e Rete ferroviaria italiana in modo da commissariare i loro contratti di programma. Secondo Cancelleri lì ci sarebbero “109 miliardi da sbloccare”. Il Pd non è convinto. L’ultima bozza prevede per tutti procedure negoziate. De Micheli propone di permetterle solo per gli appalti in cui c’è già un progetto esecutivo e risorse effettivamente stanziate. Anche su questo si battaglia in Consiglio dei ministri. L’unica certezza è che rimane la riforma, anche questa per un anno, della responsabilità per danno erariale per il quale sarà eliminata la fattispecie della colpa grave per i dirigenti pubblici che firmano gli atti (resta solo il dolo, più difficile da provare perché presuppone la volontarietà). I sindacati sono già sul piede di guerra per il subappalto, che il testo liberalizza del tutto. Linea a cui il Pd è contrario.

Giorgio Covid

Si pensava che, dopo il notevole contributo offerto ad alcune delle peggiori catastrofi nazionali dell’ultimo trentennio – dal berlusconismo al renzismo al Covid19 – il sindaco di Bergamo Giorgio Gori si sarebbe preso una lunga vacanza dalle esternazioni. Almeno da quelle in cui, da cotanta cattedra, insegna agli altri cosa dovrebbero e non dovrebbero fare. Invece niente: si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio. Infatti lui continua a pontificare come se niente fosse. Ora, per dire, dopo aver contribuito al fianco dell’Innominabile a trascinare il Pd al minimo storico del 18% nel 2018, s’è messo in testa che il partito debba cambiare segretario. Cioè far fuori Zinga che, fingendosi morto, è riuscito nella mission impossible di riportarlo oltre il 20%, malgrado le scissioni di Italia Viva e Azione (detta anche Calenda). O forse proprio per quelle.

Che Gori sia rimasto berlusconiano, cioè renziano, lo dimostra il prudentissimo pigolio con cui commentò l’uscita più forse invereconda (tra le mille) dell’Innominabile durante il lockdown, quando il suo spirito guida, grande sponsor della riapertura a fine aprile, cioè di Confindustria, non trovò di meglio che chiederla a nome dei bergamaschi morti nella strage da Covid. Lui, anziché mangiarselo vivo come volevano i parenti delle vittime, balbettò che l’uscita era “poco felice, stonata e fuori luogo”, assicurando subito dopo che l’amico Matteo “voleva sottolineare l’attaccamento al lavoro della gente di Bergamo” e nel “pieno rispetto del dolore di queste province”. Resta da capire perché mai, anziché entrare in Italia Morta, si ostini a restare nel Pd e a strillare perché, anziché con B. e Salvini, governa coi 5Stelle. O meglio, si capisce benissimo: Iv un leader ce l’ha, ma gli mancano gli elettori; il Pd invece gli elettori li ha e, per il leader, lui pensa a se stesso, fra quattro anni quando gli scade il mandato da sindaco, o anche prima. L’età pensionabile, per i politici, è pressoché eterna. E lui ha appena 60 anni, ma ne dimostra molti meno. È come Umberto Agnelli nel ritratto di Fortebraccio: “Sembra un bambino cresciuto soltanto dal collo ai piedi, la faccia gli è rimasta quella degli omogeneizzati”. Un giovane-vecchio con idee decrepite, che abbraccia sempre fuori tempo massimo: ora, per dire, è blairiano e clintoniano, quando Clinton e Blair nei rispettivi paesi non mettono più il naso fuori di casa. Ergo il sindaco al Plasmon piace molto a Confindustria, che a Bergamo regna e governa in condominio con la Curia: infatti l’anno scorso chi comanda nella città alta e in quella bassa fece sì che la Lega candidasse una scartina per non disturbare la sua rielezione.

L’altro giorno il vicesegretario Orlando nota che il Pd è a 5 punti dalla Lega e, senza le due scissioni, sarebbe pari. Apriti cielo. Siccome i sondaggi dimostrano che fece malissimo l’nnominabile nel 2018 a opporsi al governo col M5S, Gori replica al posto degli scissionisti: “Pensa il Psi: se nel ’21 non avesse subito la scissione di Livorno, a quest’ora dove stava”. Una scemenza assoluta: la dannazione scissionista della sinistra italiana la conoscono tutti i progressisti, dunque non Gori, la cui fama lo precede. Negli anni 80 è uno studente craxiano. Il che gli spalanca le porte di Bergamo Tv e poi della Fininvest (che le ingloba): nel 1989, a 29 anni, è capo dei palinsesti di tutte e tre le reti del Biscione, mobilitate l’anno seguente nella campagna pro legge Mammì. Nel ’91, a 31 anni, è direttore di Canale5, dove rimane fino al 2001, salvo due anni a Italia1. Sotto la sua guida, l’ammiraglia berlusconiana si batte come un sol uomo nel ’93 contro la regolamentazione degli spot (“Vietato Vietare”). Nel ’94 è il megafono della discesa in campo di B.: dagli spottini pro Forza Italia di Mike, Vianello, Zanicchi&C. ai programmi-manganello Sgarbi quotidiani e Fatti e Misfatti di Liguori, specializzati nel killeraggio dei nemici del capo (Montanelli in primis). Nel ’95 il Canale5 goriano spara a zero contro i referendum per mettere un freno agli spot e un tetto antitrust al gruppo (come ordina la Consulta).

Nel 2001 il marito di Cristina Parodi si mette in proprio e fonda Magnolia, produttrice di format televisivi e fornitrice di Rai, Mediaset, La7 e Sky. Che lascia ai soci nel 2011 per darsi alla politica nel Pd al seguito dell’unico pidino che piace a B.: l’Innominabile. È Gori il regista delle prime Leopolde (da solo o in tandem con Martina Mondadori, membro del Cda della casa editrice di famiglia rubata con B. a De Benedetti), dove l’amico Matteo promette di rottamare la vecchia Italia prima di diventarne il principale santo patrono. Nel 2014 viene ricompensato con la candidatura a sindaco della sua Bergamo, che però gli va stretta. Infatti nel 2018 corre per la presidenza della Lombardia e riesce non solo a perdere (contro il centrodestra ci sta), ma pure a farsi quasi doppiare da Attilio Fontana (29% a 49%). E torna a più miti consigli nella città natia. Lì intercetta l’ultima disgrazia: il Covid, dandogli una mano a galoppare col famoso appello (a cena con la moglie) “Bergamo non ti fermare!”, anzi tutti in pizzeria, nei negozi e nei musei (“da riaprire”), contro “un clima di preoccupazione che è andato molto aldilà del necessario”. È il 26 febbraio, tre settimane prima delle colonne di mezzi militari in marcia con centinaia di bare. E stare un po’ zitto?

Mi sono ripreso i sogni

C’è una frase di Joan Baez che torna in mente dopo aver composto il numero: “Non si può scegliere il modo di morire, e nemmeno il giorno. Si può soltanto decidere come vivere. Ora”. La voce dall’altra parte è quella di Lele Spedicato. Dopo aver lavorato al nuovo album, il chitarrista dei Negramaro ci racconta i sei mesi più difficili della sua vita. È il 17 settembre 2018 quando Lele si sveglia con un forte mal di testa che in breve degenera. Riesce a uscire di casa, ma si accascia a bordo piscina. La moglie Clio, svegliata dai lamenti, lo soccorre subito. È la prima metà di marzo 2019 quando Lele lascia la Fondazione Santa Lucia di Roma, che lo ha rimesso in piedi e gli ha consentito di recuperare una piena autonomia. La causa, un’emorragia cerebrale che lo ha portato in coma a neanche 38 anni.

Lele, la prima domanda è d’obbligo: come stai?

Sempre meglio. Non è mai abbastanza lo stare bene, specie dopo questi incidenti. Si cerca di raggiungere il mille per cento per essere pronti a problemi e opportunità.

I Negramaro non si sono fermati durante il lockdown e hanno registrato il nuovo disco, ognuno da casa propria. Com’è andata?

Abbiamo sempre usato la musica a scopo terapeutico, e ci è sembrato necessario farlo soprattutto in questo strano evento che ha coinvolto il mondo. Abbiamo “sfruttato” – concedetemi il termine – il periodo per sentirci più vicini.

Possiamo anticipare la data di uscita dell’album?

Ci stiamo ancora lavorando.

I tuoi fan ti sono stati accanto, dimostrandoti immenso affetto. Via social.

La tecnologia non è mai stata così utile come durante il lockdown: è servita ad accorciare le distanze. Ha rappresentato il contagio del bene contro quello della morte. E anche per noi artisti è stato un continuo di dirette Instagram o di videochiamate con parenti e amici. Ai fan devo tanto fin dall’inizio del mio percorso artistico. Li ho ringraziati, li ringrazio e li ringrazierò sempre: mi danno la forza di crederci ancora di più.

Sei tornato a lavorare e a progettare il futuro. Eppure quel 17 settembre la tua vita ha rischiato di cambiare direzione.

Un evento simile ti spiazza, ti scombussola i piani. Ti rendi conto di quanto la vita stessa sia imprevedibile e di come possa cambiare in un attimo la prospettiva futura. Dopo, impari a dare il valore giusto alle cose e alle persone. Non lasci più nulla al caso.

Quel giorno tua moglie ti ha trovato e soccorso.

Clio mi ha salvato la vita. Ha compreso la gravità della situazione e, nonostante fosse all’ottavo mese di gravidanza, ha mantenuto il sangue freddo e ha chiamato i soccorsi, giunti immediatamente. Quei secondi hanno fatto la differenza. Sono stato trasportato al Fazzi di Lecce e operato d’urgenza alla testa. I medici sono stati eccezionali: non ho danni permanenti al cervello e posso ancora fare tutto quello che voglio.

Poi qualcuno ha capito che serviva una neuro-riabilitazione di massimo livello.

Il primario di rianimazione, il dottor Pulito, ha consigliato il Santa Lucia. Quando sono arrivato a Roma, nessuno – neanche tra i miei familiari – avrebbe potuto immaginare che nel giro di qualche mese sarei tornato a suonare.

Le tue condizioni erano così gravi?

Non solo non potevo camminare, ma neanche stare seduto: mi dovevano legare alla sedia a rotelle, perché altrimenti mi “chiudevo a libro”, in avanti. E non avevo l’uso delle mani.

E invece il giorno di San Valentino 2019 eri a Rimini, sul palco con la tua band: un assolo da brividi sulle note di Cosa c’è dall’altra parte, il brano che Sangiorgi ha scritto per te.

Lo avevo promesso ai miei “fratelli” e alla mia famiglia, li avevo invitati sotto il palco, non ci avevano creduto. Per questo piangevamo tutti: di gioia.

È stata una sfida?

Un obiettivo, come il voler prendere in braccio quel figlio che mi stava nascendo e che aveva diritto a un papà in forze. Ci ho messo tutto l’amore del mondo e, grazie a coloro che mi hanno sostenuto, ce l’ho fatta.

Ci sono stati giorni bui?

La stanchezza psicofisica mi ha sempre accompagnato. La mia sola forza di volontà non sarebbe bastata: i medici, i terapisti e tutto il personale del Santa Lucia sono stati grandiosi, mi hanno dato modo di credere che ce l’avrei fatta. Hanno capito che potevano spingere sull’acceleratore perché non mi tiravo indietro. Quando sono stato dimesso, mi hanno detto: “Di fronte a un caso come il tuo, la scienza e la medicina alzano le braccia”. Un miracolo.

La neuroriabilitazione ospedaliera è oggetto di revisione in due bozze di decreti ministeriali: si vorrebbero limitare le cure a chi è stato in coma. Questo creerebbe una forte disuguaglianza. Penso al tuo amico Manuel Bortuzzo, che in coma non è stato.

Tutti gli esseri umani hanno diritto alle giuste cure, specialmente se sono stati vittime di incidenti che non si sono andati a cercare. E se è il Santa Lucia a fornirle, mettere in discussione il suo futuro è una follia. Dovrebbero aprirne a centinaia di strutture così, non costringerle alla chiusura.

Se passassero i decreti, per un Lele Spedicato quanti Mario Rossi non riceverebbero la stessa attenzione in un’idea di sanità uguale per tutti?

La mia paura è questa: sarebbe assurdo considerare le persone in base al lavoro che fanno o al loro status. Noi esseri umani siamo uguali e non dobbiamo ricevere cure diverse a seconda di quanto possiamo pagare.

La band non sarebbe andata avanti senza di te.

Loro sono fondamentali nella mia vita da oltre vent’anni e lo saranno sempre. Il rapporto che c’è tra di noi va al di là del lavoro. Se posso permettermi di sognare ancora in musica è grazie a loro: mi hanno regalato la speranza del futuro.

E in quale futuro credi?

Con la mia famiglia immagino un futuro in viaggio e con i miei “fratelli” di portare la musica in viaggio. Ecco: porterò la mia vita in viaggio per il mondo.

Il Covid a San Quentin, dove i detenuti diventano reporter

La più numerosa popolazione carceraria del mondo si trova in quella che si fa chiamare la terra dei liberi. La più antica e buia prigione della soleggiata California, costruita da detenuti nel 1852, è San Quentin, che si estende per quasi due chilometri quadrati nella baia di Marin. In un’ala della struttura c’è il braccio della morte per tutti i condannati dello Stato. Col tempo le impiccagioni, le camere a gas, sono state sostituite dalle iniezioni letali. Ma sono i vivi che chiamano questa prigione “la giungla” o “l’arena” o semplicemente “Q”. Johnny Cash la chiamò invece livin’ hell, “inferno in terra”. Decise di registrare un intero disco tra quelle celle e corridoi dove risuonarono i suoi versi: “San Quentin mi hai piegato il cuore, la mente e forse anche l’anima, i tuoi muri di pietra mi gelano il sangue”. È il posto dove perfino le ossa delle bistecche – che ora non vengono più servite alla mensa -, possono diventare, se accuratamente limate, delle armi da usare durante rivolte e sommosse.

A San Quentin ci sono assassini brutali, stupratori, ladri. E adesso anche giornalisti, grazie a un progetto di recupero finanziato da Stato, donazioni e volontari.

Molti attivisti negli anni di Black Lives Matter hanno protestato contro l’amministrazione carceraria californiana per fermare l’espansione degli istituti penitenziari. Gli attivisti, ragazzi neri e bianchi, avevano tutti una maglietta arancione addosso, lo stesso colore delle tute dei detenuti. Sanno che i prigionieri vivono in una divisione dentro l’altra, una separazione molto più profonda ed evidente di quella vissuta nel mondo fuori: oltre ai muri dei blocchi, c’è la segregazione auto-imposta dei prigionieri. Neri con neri, bianchi con bianchi, latini tra latini. Ma c’è un posto dove tutti si incontrano in nome di un compito e di una passione comune: la redazione.

Mani sui tasti, occhi sugli schermi. La scritta San Quentin News svetta blu in cima al giornale sul logo grigiastro dell’edificio fatto di torri e torrette: è la prigione stilizzata dagli incarcerated, gli abitanti della prigione, dove anche i giornalisti del Wall Street Journal hanno tenuto corsi di scrittura e giornalismo.

Alla redazione del San Quentin, prima di decidere di parlarti vogliono sapere una cosa da te: “Possiamo chiederti come mai ti sei interessata a noi?”. In copia alla mail ci sono i numerosi supervisori dell’istituzione che approvano le conversazioni con il mondo esterno. Nel giornale esistono sezioni dedicate allo sport, agli esteri e una riservata esclusivamente alla pena di morte. Non solo le vite dei neri contano: anche trans lives matter. Il giornalista prigioniero Joe Garcia scrive che per la prima volta nella storia del carcere, i prigionieri hanno ricordato le 22 persone transgender uccise in America l’anno scorso.

Troy Williams, fondatore del Prison Report, tra di loro è il pioniere. Ha cominciato nel 2010 quando è finito dentro per rapimento e rapina, ma una volta fuori è rimasto tra macchine fotografiche e computer, diventando produttore.

È il giornalismo come riabilitazione mentre perdi il conto degli anni da scontare. Fare i giornalisti, dicono i detenuti, vuol dire avere la possibilità “di raccontarci, quindi di pensarci, in un altro modo. Un modo diverso da come ci vedono gli altri, da come ci vediamo noi”. Parlano di vite che ne hanno incrociate altre ancora più storte, che si spezzano in certi punti precisi, che sono tutte diverse fino a un attimo prima del precipizio e del crimine, ma poi diventano tutte simili nelle cadute. E nelle sentenze di decenni da scontare. Esistenze che diventano uguali nelle celle, incagliate nel flusso della vita della prigione, come oggetti che rimangono incastrati involontariamente in una rete.

“Sono il tenente Sam, ufficiale di pubblica informazione, e approvo questa storia”: questa è la frase che si sente prima che cominci la trasmissione radio di Uncaffed, letteralmente “senza manette”, della Solano State Prison californiana. I loro corpi in tuta arancione si fermano alla soglia del carcere, le loro parole possono uscire fuori. We got the mic now: “Abbiamo noi il microfono adesso”, dicono i detenuti. È lo scettro del potere, l’amplificatore a cui consegnano le loro storie che risuonano molto lontano dalle sbarre. Il filo del microfono è quello da seguire per uscire dal labirinto in cui sono finiti. “Respiro la stessa aria del dormitorio di 250 persone, se uno prende il Corona tutti lo prendiamo, quando dietro di noi chiudono la porta. Tu invece hai il lusso della cella”, dice un detenuto ad un altro parlando del Covid-19.

Il virus ha già ucciso 20 prigionieri a San Quentin, 539 sono rimasti contagiati. “Chi ci farà il test, se non li fanno nemmeno a quelli fuori?”. Condividono passati: qualcuno ha commesso un omicidio, qualcuno ha perdonato suo padre per le violenze subite da bambino e ha, a sua volta, perpetrato su altri. Si danno consigli sulla meditazione se hai attacchi di panico claustrofobici per gli spazi ridotti, spiegano come sopravvivere ai soprusi degli altri detenuti. A volte piangono, a volte ridono in onda. Spesso i “cattivi” hanno sorrisi bianchi e pelle scura. Sono quelli a cui la vita ha presentato sin dal suo inizio poche alternative e nessuna altra scelta, se non quella della povertà senza via di fuga. Molti americani hanno ascoltato i consigli sulla quarantena da chi vive perennemente chiuso dentro: durante il Covid-19 per i detenuti c’è stato un lockdown dentro l’altro, una matriosca di porte serrate, e, con le visite dei familiari sospese, del mondo fuori non avevano più notizie.

Erdogan si crea la sua polizia: dovrà vigilare su fede e morale

Si incrociano la sera, in piccoli gruppi, lungo i viali dei parchi e nelle strade delle grandi città turche. Portano un pistola sul fianco e addosso una polo marrone che ricorda subito, e forse non è così infondato pensarlo, le “camicie brune” della Germania nazista. Li chiamano i “vigilanti di quartiere”: pattugliano le strade di notte, rimbrottano gli ubriaconi e ammoniscono i nottambuli che schiamazzano, intimando loro di rispettare le persone che dormono. Finora gli incontri tra i vigilanti da un lato, scarsamente informati sui loro diritti, e i nottambuli dall’altro, determinati a non rinunciare ai propri, si sono spesso conclusi in semplici bagarre.

Le cose sono cambiate a partire dall’11 giugno scorso, cioè da quando il Parlamento ha votato una legge che attribuisce a questi agenti locali più ampi poteri: ora negli alterchi con i nottambuli loro sono sicuri di vincere. La figura del vigilante di quartiere, di origini molto antiche – se ne ritrovano delle tracce nell’Impero ottomano sin dal XVII secolo –, era inizialmente una milizia di quartiere finanziata dai residenti. Nei primi anni 90 era praticamente scomparsa, ma è rinata nel 2016 per iniziativa dell’attuale presidente islamico-conservatore, Recep Tayyip Erdogan, che ha assunto 2.400 vigilanti per controllare le città dell’Anatolia sud-orientale, afflitte dal conflitto curdo.

Nel frattempo il numero di effettivi è cresciuto: lo scorso gennaio si contavano 21.300 agenti, a luglio ne sono stati assunti altri 8.200, con lo scopo di sorvegliare le più grandi città dell’ovest. Ma mancava ancora una legge che ne chiarisse lo statuto. Finora diverse decisioni giudiziarie ne avevano per esempio contestato il diritto di verificare l’identità dei passanti. Il testo, adottato dopo accesi dibattiti, con un deputato di estrema destra che ha persino picchiato un esponente dell’opposizione socialdemocratica, ha riconosciuto ai vigilanti dei poteri quasi analoghi a quelli della polizia, autorizzandoli a “prendere misure preventive fino all’arrivo della polizia in caso di manifestazioni, cortei o incidenti che costituiscono un rischio per l’ordine pubblico”.

La legge autorizza i vigilanti a fermare un veicolo o una persona, sulla base di “motivi ragionevoli”, se necessario per evitare un reato. E se il fermato oppone resistenza, il vigilante può verificarne l’identità e trattenerlo fino all’arrivo della polizia. Può anche intervenire di propria iniziativa e perquisire un sospetto colto in flagranza di delitto. In questo caso è autorizzato a ricorrere alla forza e a usare la sua arma, proprio come un poliziotto. Secondo numerose organizzazioni di difesa dei diritti umani, che hanno firmato un comunicato collettivo, autorizzare i vigilanti a ricorrere alle armi “vuol dire moltiplicare il numero di morti per proiettili di Stato”.

Un rischio fondato anche dal fatto che la legge prevede solo una formazione breve per le nuove reclute: tre mesi, contro un anno previsto per un agente di polizia. Il livello culturale richiesto per partecipare al concorso è molto basso. “Possiamo conoscere le tabelle salariali dei vigilanti di quartiere a partire dal loro livello di istruzione. C’è una casella anche per chi possiede solo la licenza elementare”, sottolinea la politologa Aysen Uysal, che ha scritto un volume sulle mobilitazioni e la polizia in Turchia. La nuova legge votata dal Parlamento ha dunque affidato ampi poteri a personale poco istruite e poco formato, ma con un testo che, restando vago su diversi punti, lascia una certa libertà di interpretazione, per esempio riguardo alle modalità e alle circostanze che permettono al vigilante di intervenire. Eppure l’esperienza ha dimostrato che spesso le situazioni degenerano. In un testo presentato in Parlamento, il Partito democratico dei Popoli-Hdp, che unisce forze di sinistra e filo-curde, ha segnalato tutte le violazioni commesse dai vigilanti di quartiere negli ultimi due anni: dal rapimento di una giovane donna di 19 anni, minacciata con un’arma a Derik (sud-est) il 28 marzo 2018, fino ai pestaggi di un conducente di pulmini di 52 anni che ascoltava la musica ad alto volume a Istanbul, il 18 ottobre 2018, e di una transessuale, tre mesi dopo. A sollevare dubbi e timori non è solo come questa legge viene applicata, ma anche il perché della sua adozione.

“In che cosa la polizia e la gendarmeria hanno fallito da giustificare di affidare tali poteri ai vigilanti di quartiere?”, si chiede su T24, un media di opposizione, l’editorialista Mehmet Yilmaz. Eppure, secondo i dati forniti dal ministero degli Interni, sottolinea ancora Yilmaz, la delinquenza in Turchia è in calo: nel 2018 si registrano il 19% di furti in meno rispetto all’anno precedente e il 26% in meno di rapine. Da dati trasmessi a dicembre al Parlamento dal ministro dell’Interno Süleyman Soylu, la Turchia contava nel 2019 un poliziotto ogni 211 abitanti, più di tutti gli stati europei, dove la media è di un poliziotto ogni 341 abitanti. Allora i vigilanti “chi devono proteggere e da chi?”, chiede il giornalista Murat Yetkin sul suo blog Yetkin Report. “Le crisi economiche, l’aumento della disoccupazione, l’emergere di movimenti sociali, stanno spingendo i governi, e non solo quello turco, a rafforzare i dispositivi di controllo delle popolazioni, dei quartieri e della società – risponde la politologa Aysen Uysal –. I vigilanti rientrano in questo dispositivo. Sono il volto visibile dello Stato nei quartieri. Con loro, lo Stato diventa onnipresente”.

Per la ricercatrice, la decisione di dare più spazio e poteri ai vigilanti consente anche al governo di distribuire posti di lavoro a basso costo ai suoi sostenitori e di ridare lustro alla propria immagine appannata da un’economia in difficoltà dal 2018. “Un vigilante guadagna circa 560 euro al mese, mentre un poliziotto a inizio carriera ne guadagna circa 800. Si creano nuovi posti di lavoro, ma che costano di meno allo Stato”, sottolinea Uysal. Il deputato del partito Hdp, Saruhan Oluç, membro della commissione Interni in Parlamento, dipinge un quadro ben più allarmante. “Una volta adottata la legge, l’Akp, il partito per la Giustizia e lo Sviluppo del presidente Erdogan, inizierà ad assumere i vigilanti a partire da liste di simpatizzanti e persone a lui vicine e che ha già formato – osserva Saruhan Oluç –. Sta nascendo dunque una milizia armata privata al servizio del partito del presidente. Il potere sta istituendo le proprie camicie brune”.

La ricercatrice Élise Massicard, che ha scritto un libro su un’altra istituzione locale valorizzata da Erdogan, i cosiddetti “capi di quartiere”, giunge a conclusioni simili: “Le modalità di assunzione dei vigilanti non sono state precisate nel testo di legge, permettendo così di “orientare” le assunzioni in funzione di criteri che non è possibile citare dentro una legge”. Secondo la ricercatrice, l’emergere di questo nuovo corpo di polizia locale mostra anche la “dilagante e generalizzata deistituzionalizzazione della Turchia” dell’Akp. “Emergono nuove forme di lavoro e di subordinazione non burocratiche, senza gerarchia. Sono logiche di azione diverse. È quello che sta facendo Erdogan a livelli diversi”. Andando avanti con questa legge, che il governo ha appena votato, ci si ritroverà a breve termine, avverte l’opposizione, in questa situazione: con una polizia al ribasso, asservita al partito del presidente, che potrebbe reprimere non solo le espressioni di protesta dell’attuale regime, ma anche gli stili di vita che questo condanna.

“Ci sono già molte denunce. I vigilanti cominciano a comportarsi come guardiani della moralità, all’iraniana, nei confronti delle persone che incrociano durante la notte nei parchi e delle donne che rientrano a casa tardi dopo il lavoro”, afferma il deputato Feridun Bahsi, dell’yi Parti (Ip), il Buon partito, di orientamento nazionalista, citato dall’agenzia Deutsche Welle.

 

 

Usura, la legge è pro-banche ma così si affossa l’economia

La tabella dei tassi usurari stabiliti per legge dalla Banca d’Italia è fondamentale per il suo impatto sull’economia reale, soprattutto in un momento di crisi strutturale dell’economia, aggravata dalla pandemia. Tassi di interesse elevati disincentivano le imprese a investire e quelle costrette a contrarre maggiori debiti diventano sempre più dipendenti da nuove dosi di debito, più costose e insostenibili. Quindi, tassi elevati contrastano la crescita e tendono ad intrappolare chi chiede un prestito in un “debito odioso”, rendendolo sempre più debole finanziariamente.

La legge 108/1996 introdusse il concetto di “tasso soglia” e affidò alla Banca d’Italia il compito di calcolarlo in base ad una formula stabilita per legge. Ogni trimestre Bankitalia raccoglie per ciascuna categoria di operazioni i Tassi effettivi globali (Teg) comprensivi dei costi aggiunti al finanziamento, espressi su base annua e praticati in media da ciascuna banca alla clientela. I tassi soglia sono poi calcolati aumentando del 25% la media dei Teg e aggiungendo un ulteriore 4% secco. Vi è usura se il tasso applicato supera la soglia.

Tuttavia, scorrendo il valore dei tassi soglia balza all’occhio quanto siano elevati in tutte le categorie di crediti e in particolare in quelle di maggior impatto sociale come la cessione del quinto (18,275%), le aperture di credito in conto corrente (17,275%), gli scoperti senza affidamento (23,025%), le carte revolving (24%). Mentre le banche si approvvigionano di danaro dalla banca centrale a tassi negativi e i depositi sui conti correnti vengono remunerati quasi nulla, l’anomalia dei tassi soglia stellari dovrebbe destare un approfondito dibattito di interesse pubblico.

Tale sistema di calcolo, di fatto, non calmiera i tassi al di sotto di un certo tetto ritenuto ragionevole e compatibile con una politica economica finalizzata allo sviluppo. La soglia può rimanere elevata a piacere in funzione dei dati contribuiti, che non pare siano analiticamente sempre verificati ex-post.

L’aritmetica non perdona. Ad esempio, supponiamo di partire da un tasso nullo e di calcolare il corrispondente tasso di usura, questo risulta chiaramente il 4%. Questa soglia spingerà parecchi operatori finanziari ad aumentare i propri tassi, diciamo attorno all’1%, sfruttando la loro posizione di vantaggio negoziale sui debitori. Nella successiva rilevazione il tasso di usura salirà dunque al 5,25% (=1%x1,25+4%), anche se non sono mutate né il costo della provvista, né la rischiosità dei clienti. Tre mesi dopo, con aumenti di appena un punto percentuale dei tassi medi, quello soglia potrà salire al 6,5% (=2%x1,25+4%) e così via. Il meccanismo previsto dalla legge rischia di creare un circolo vizioso, in cui i tassi possono rimanere altissimi, anche indipendentemente dalle condizioni del mercato.

Occorre dunque indagare e ragionare se si sia cristallizzato, a danno dei consumatori e delle imprese, un metodo inadeguato che impiomba l’economia del paese con tassi di usura elevatissimi che non favoriscono affatto la competizione bancaria e, forse, la contribuzione opportunistica. Parrebbe necessario, dunque, che il sistema politico non possa ulteriormente abdicare al suo specifico ruolo di equilibratore dell’interesse pubblico. Il mercato, soprattutto se lasciato a se stesso, non tende affatto automaticamente ad autocorreggere storture o incrostazioni, se queste danno luogo a non contrastate opportunità di rendita.

L’andamento storico dei tassi soglia nell’ultimo decennio rimane elevatissimo a dispetto dei tentativi della banca centrale di alimentare con nuova liquidità l’economia reale, proprio per l’inefficiente frapposizione di un sistema bancario che rischia di lucrare una rendita di posizione a danno del futuro del paese. Il cavallo non beve, scriveva Keynes. In realtà, oggi, il cavallo non beve anche perchè le banche rendono salatissima l’immensa liquidità a lui destinata, solo a parole.

Ricordiamo che la Repubblica di Siena fondò la banca Monte dei Paschi proprio per affrontare concretamente il perverso impatto negativo dell’usura sull’economia. Precise e toccanti sono le parole del parere del Consiglio Generale del Comune senese, leggibili nel verbale della seduta del 7 giugno 1420 sul problema del prestito a interesse: “A poveri huomini sono mangiate l’ossa con la grande usura et sono male tractati”. La soluzione fu il Monte dei Paschi: “Si proveggha – prosegue il verbale – che povari uomini possano avere qualche ricorso et rifugio ne’ loro bisogni, ma questo non si debbi fare con animo d’utilità, la quale d’usura possa adivenire, ma per conservare le povare persone”.

*Analista finanziario indipendente

Ecobonus 110% Il bazooka è già in vigore, ma senza i decreti

Il primo luglio è entrato in vigore l’attesissima super detrazione del 110% per le ristrutturazioni, il sisma bonus e l’efficienza energetica che consente alle famiglie di intervenire “a costo zero”, grazie al sostegno dello Stato. Restano però molti punti ancora da chiarire per una misura che riattiverà uno dei settori trainanti dell’economia italiana messo in ginocchio dalla crisi (l’edilizia pesa per il 22% del Pil e dà lavoro a 3 milioni di persone) e che renderà il patrimonio immobiliare più sicuro e meno energivoro. Iniziare ora a fare i lavori per i più sarebbe un azzardo, almeno burocratico. Il decreto Rilancio, che introduce il superbonus, va convertito entro il 18 . E nel frattempo la misura ha subito modifiche: la detrazione per le spese sostenute da luglio 2020 al 31 dicembre 2021 è stata estesa anche alle seconde case, comprese le villette a schiera incluse (ma escluse le case di lusso), nonché alle demolizioni e ricostruzioni. Resta la stessa la complicata chiave per accedervi: danno il via libera alla detrazione il rifacimento del cappotto termico, la sostituzione degli impianti invernali con impianti centralizzati di riscaldamento ad alta efficienza, gli interventi di messa in sicurezza nelle zone sismiche e l’installazione degli impianti fotovoltaici (48mila euro). E, dopo almeno uno degli interventi, l’immobile deve acquisire una certificazione energetica di almeno due classi superiore a quella precedente.

Al momento, però, mancano i decreti attuativi, anche quelli legati ai limiti di spesa che sono stati rivisti al ribasso. Per l’efficientamento energetico il tetto ora è 50mila per le villette a schiera; 40mila per gli immobili da due a 8 unità abitative e 30 mila sopra le 8 unità. Per le caldaie il tetto scende a 20mila euro per immobile. Non c’è neanche la circolare dell’Agenzia delle Entrate su come potrà essere ceduto il credito d’imposta. Meccanismo che consentirà di non sborsare un euro per fare i lavori, sempre che le imprese riescano a trovare banche, assicurazioni o finanziarie che accettino di accollarsi la spesa. Insomma, per i detrattori l’accusa è chiara: così si rischia di rallentare ancora di più il settore perché anche chi aveva già deciso, prima del lockdown, di fare i lavori potendo scaricare somme inferiori, ora dice di bloccare tutto perché vuole rientrare nel bonus del 110%. Servirà solo tempo in più per aspettare che il bazooka dell’edilizia smetta di sparare a salve.