Utenti beffati 2 volte per far felici i privati dell’Autobrennero

Più dei Benetton con Autostrade per l’Italia, più dei Gavio con la Torino-Milano, più di tutti gli altri signori italiani del casello, gli enti locali di Trento e Bolzano trattano come un gigantesco bancomat la “loro” autostrada, la Modena-Brennero (A 22, 410 chilometri) di cui sono concessionari. Di conseguenza considerano gli automobilisti che ci transitano sopra al pari di tante piccole e inconsapevoli mucche da mungere fino allo sfinimento. È dal 1997 che su quel percorso gli automobilisti devono pagare un super pedaggio contenente una specie di tassa ad hoc che avrebbe dovuto finanziare la costruzione del tunnel ferroviario del Brennero. Ora governatori, sindaci e presidenti di Provincia di quelle parti vogliono di più: un altro aumento. A colpi di 35 milioni di euro l’anno, pedaggio dopo pedaggio il Fondo Brennero è diventato un tesoro di circa 700 milioni custodito dagli enti locali come fosse roba loro. Di più: con quei pedaggi la concessionaria dell’Autobrennero è diventata (in proporzione) la più florida d’Italia.

Il 24 giugno i soci pubblici detentori della maggioranza societaria con circa l’85 per cento del totale e i privati (il restante 15 per cento), dopo essersi elargiti un bonus straordinario di 64 milioni di euro a dicembre 2019, hanno deciso di spartirsi la bellezza di altri 35 milioni di euro di dividendi. Lo hanno fatto in un periodo terribile per le altre concessionarie che hanno deciso tutte, dai Benetton ai Gavio, di non distribuire alcunché. Per l’Autobrennero, però, gli enti locali di Trento e Bolzano stanno trattando con il governo per prolungare la cuccagna. Pretendono di aumentare i pedaggi perché devono trovare in fretta altri soldi, 70 milioni di euro circa, per liquidare i privati: 5 per cento l’autostrada Brescia-Padova che dopo essere stata per un po’ controllata dagli spagnoli di Abertis è tornata sotto la grande ala di Autostrade per l’Italia. E il 10 per cento la veneta Cis (Compagnia investimenti e sviluppo). Per la verità i privati preferibbero non muoversi di un passo perché con l’Autobrennero incassano un bel po’ di soldi, ma il vento è girato in una direzione che li costringe a uscire. La concessione è scaduta 6 anni fa e da allora i soci, in particolare gli enti locali trentini e di Bolzano, non pensano ad altro che trovare un sistema per non far scappare dal pollaio la gallina dalle uova d’oro. L’evento che più temono è che si faccia una gara che consenta al migliore offerente di entrare nella gestione e fino a ora sono riusciti nell’intento. Grazie alla fattiva collaborazione dei ministri Pd e M5S che si sono succeduti in questi anni gli enti pubblici di Trento e Bolzano sono riusciti a farsi riconoscere un allungamento della concessione della bellezza di 30 anni, fino al 2044. L’Europa non ha bocciato l’operazione, ma ha posto un vincolo: ok all’allungamento ma a patto che la concessionaria diventi interamente pubblica, cioè escano i privati.

E qui la faccenda si complica perché per dire addio al bengodi i privati vogliono essere liquidati. Dapprima hanno chiesto più di 150 milioni di euro, poi hanno detto che si sarebbero accontentati di 70. Dove trovare i soldi? Ci sarebbe il tesoro del Fondo Brennero, ma la Corte dei conti vigila e ha già espresso il suo altolà: quei soldi non si toccano. Grazie ai buoni uffici di Maria Elena Boschi che è stata eletta deputata da quelle parti con il Pd (ora è nella maggioranza di governo con Italia Viva di Matteo Renzi) sono già stati spostati un paio di volte i termini entro i quali si sarebbe dovuto procedere a una gara.

Ora c’è una terza data in ballo, il 30 settembre, che sembra lontana ma non è così per faccende di questo tipo. E quindi i rappresentanti degli enti locali friggono per escogitare una soluzione che li rassicuri. Con il governo hanno anche cercato di concordare un emendamento da infilare nel decreto Rilancio con tre obiettivi: considerare il malloppo del Fondo Brennero non un tesoro accumulato per costruire il tunnel, ma semplice capitale sociale della concessionaria. Due: slittamento della data della gara. Tre: un salvacondotto che consenta loro di concludere in tutta tranquillità l’operazione sborsando ai privati il regalo preteso senza finire nella tagliola della Corte dei Conti. Il Corriere del Trentino informa che tra i rappresentanti degli enti locali della zona e il governo è in corso già da tempo una “proficua interlocuzione” e già ci sono stati incontri con la ministra dei Trasporti, Paola De Micheli (Pd).

Corsa a boicottare Facebook: le vere ragioni dei colossi

Alla fine, la scorsa settimana Facebook ha iniziato a capitolare per non rimanere travolta dalla slavina generata dalle centinaia di marchi famosi che hanno aderito alla campagna per boicottare il social network togliendogli di fatto la pubblicità. Prima, mercoledì ha annunciato la rimozione di centinaia di account di gruppi riconducibili al movimento anti sistema di estrema destra ‘boogaloo’, coinvolto in violenze e provocazioni durante le manifestazioni antirazziste negli Stati Uniti ma con una storia mediatica molto più lunga e ripetutamente denunciata da attivisti e organizzazioni: 220 account, 400 gruppi e 100 pagine su Facebook, mentre da Instagram sono stati rimossi 95 account, 28 pagine e 106 gruppi. Poi ha annunciato di essere disposto a incontrare i rappresentanti del movimento Stop hate for profit per spiegare quale sia la sua politica. Ma intanto ha anche detto chiaramente ai propri dipendenti di esser certo che gli inserzionisti sarebbero tornati presto e che il loro boicottaggio coinvolgeva solo una piccola parte degli introiti del social. In effetti nei giorni scorsi molte analisi hanno ridimensionato sia l’impatto che questa iniziativa ha sui profitti della piattaforma, sia le reali motivazioni delle aziende in protesta.

La guerra contro Facebook è iniziata per contrasto. Il 29 maggio Trump pubblica un post su Twitter che recita: “When the looting starts, the shooting starts”: “quando iniziano i saccheggi, si comincia a sparare” coniata da Walter Headley, un capo della polizia di Miami che nel 1967 minacciava il movimento per i diritti civili. Twitter oscura il post di Trump perché viola le regole della piattaforma (esaltazione della violenza) ma decide di renderlo comunque accessibile perché “di pubblico interesse”. L’accusa che presto viene rivolta a Zuckerberg è invece di non aver fatto nulla e di aver anche ignorato le segnalazioni sulla violenza online, come quelle del Tech Transparency Project. Sarebbe l’ennesimo tassello nella campagna che da mesi vuole Zuckerberg come uomo sempre dalla parte del potere, tanto da appoggiare il presidente Trump per continuare a godere dei vantaggi (fiscali e operativi) che gli sono garantiti. A queste accuse, il fondatore del social network ha sempre risposto sostenendo che l’unica garanzia a cui tiene è la libertà di espressione. “Quando un contenuto non viene classificato come discorso di incitamento all’odio, o in violazione ad altre policy volte a prevenire danni alle persone o la soppressione del voto, pecchiamo sul fronte della libertà d’espressione. Il modo migliore per contrastare i discorsi offensivi, divisori e ingiuriosi, è quello di parlare di più. Esporli alla luce del sole è meglio che nasconderli nell’ombra”, ha detto qualche giorno fa Nick Clegg, vice Presidente Global Affairs & Communications di Facebook. Posizione da cui il social non intende spostarsi. L’anno scorso Facebook ha raccolto in pubblicità quasi 70 miliardi di dollari, cioè il 98% delle entrate. I cento maggiori inserzionisti, secondo le stime, hanno speso 4,2 miliardi, cioè il 6% del totale. E restano fuori dal boicottaggio i più importanti come Walmart, Uber, Netflix, Domino e American Express.

C’è comunque chi sostiene che questo boicottaggio sia uno di quei casi in cui le aziende possono prendere due piccioni con una fava: appoggiare da un lato una campagna con un messaggio positivo e di fatto, boicottando, farsi pubblicità a costo zero in un momento in cui – complice l’emergenza – erano già stati decisi tagli sugli investimenti in pubblicità. Lo ha raccontato il Wall Street Journal e basta scorrere gli elenchi per accorgersi che alcuni marchi sono in comune tanto agli annunci di marzo sui tagli che a boycott Facebook. Unilever, ad esempio, aveva annunciato il blocco di tutte le nuove principali produzioni pubblicitarie in cantiere già a inizio marzo, presentando gli utili del primo trimestre.

Gli influencer senza più limiti tra minorenni e spot occulti

“Tu fra queste bambole sembri Ken/Ti ho in testa come Pantene/Sei una ruota dal lunedì fino al weekend”: una bambina di due anni, ripresa dalla madre, cappellino di paglia e una piccola sdraio con ombrellone sullo sfondo, balla sulle note di questo jingle, su TikTok. È parte di una strofa di un tormentone estivo che non solo nomina un noto marchio di prodotti per capelli, ma è anche la colonna sonora del relativo spot in tv. “Tutti a taggare @chiaraferragni e @officialbabykmusic” scrive la mamma della bambina di corredo al video. Hashtag #indossaituoicapelli.

Dentro e fuori

Finora il product placement nella musica è stato abbastanza nascosto: scarpe, bibite, auto (anche pistole). Invece, in un inizio d’estate ancora senza tormentoni estivi, l’influencer Chiara Ferragni è stata per quasi 48 ore nei trend topic dei social network. Il merito: essere il “featuring” della nuova hit con la cantante Baby K dal titolo “Non mi basta più”. In tv, quasi contemporaneamente, viene trasmesso lo spot di Pantene: protagoniste sono Ferragni, Baby K e la loro hit. Via dalla tv, ci si affaccia su Tik Tok, il social network dei giovanissimi dove la famosissima influencer ha 2,7 milioni di follower (20 milioni su Instagram). Qui pubblica una coreografia pensata proprio sulla canzone: uno-due -tre- quattro, “Tu fra queste bambole sembri Ken/Ti ho in testa come Pantene…”. Nella didascalia lancia quella che viene definita “challenge”, di fatto spingendo gli altri tiktoker ad accettare la sfida e a replicare lo stesso stacchetto. L’intento è dichiarato, come vuole il codice del consumo: “Nuova challenge con @officialBabyKMusic e Pantene #indossaituoicapelli” si legge. L’hashtag, obbligatorio quando si creano contenuti pubblicitari, è “#adv” (advertising). BabyK dal suo profilo Instagram fa lo stesso: “New @capellipantene challenge… fai il duetto con me e taggami!” scrive. L’intento di marketing è far diventare il marchio virale anche tra utenti comuni utilizzando una canzone che lo cita e un balletto di tendenza. In poche ore il video della Ferragni è stato visualizzato 1,5 milioni di volte. Basta fare la ricerca inversa per accorgersi che c’è una rete di decine di famose tiktoker e influencer che fanno lo stesso, anche per loro l’hashtag trasparenza è “#adv”. Sono state pagate dall’azienda per amplificare la tendenza. Esito: ci sono già almeno 10mila i video di utenti normali che replicano la “challenge”. Per loro, però, non c’è compenso.

Nuovi limiti, nuovi guadagni

Secondo l’Influencer Marketing Benchmark Report 2020 (Influencer Marketing Hub) a fine anno l’industria del marketing degli influencer raggiungerà i 9,7 miliardi di dollari, dai 6,5 del 2019 e i 4,6 del 2018. L’efficacia delle campagne è misurata con il “valore mediatico” ovvero “la pubblicità ottenuta da sforzi promozionali diversi dalla pubblicità a pagamento”. Dunque, il valore aggiunto – di qualsiasi tipo – che gli influencer possono generare. Secondo le stime, per ogni euro investito si possono ottenere fino 18 dollari di valore mediatico. Il report spiega anche che solo il 14 per cento dei post degli influencer è conforme alle linee guida e alle regole di trasparenza.

“Io? Non dichiaro…”

“A voler essere proprio sinceri sinceri, non sempre indico che ciò che indosso o che consumo mi è stato regalato o se sono stata pagata”, ci spiega Elena, una ragazza, 24 anni. Ha 12mila follower su instagram, 6mila su Tiktok: i micro influencer, quelli che hanno un’audience ridotto, riescono a concludere buoni contratti soprattutto per brevi progetti e nell’ultimo anno sono aumentati molto . “Se un hotel o un ristorante non mi fanno pagare io non lo dichiaro. Fingo che sia lì perché mi piace. E magari è vero eh…”. Storia vecchia: i contenuti sponsorizzati dichiarati funzionano sempre meno. “Se li incontri ormai fai ‘swipe’ immediatamente”, dice Elena.

“Fino a qualche anno fa – ci spiegano dall’Antitrust italiana – dovevamo stare attenti soprattutto alle serie televisive che magari contenevano prodotti troppo in evidenza: bottiglie di liquore, bevande. Poi con l’evoluzione dei social l’autorità ha dovuto affrontare l’impatto con gli influencer che fingevano di amare un certo prodotto o un capo di vestiario, come se non fosse frutto di accordi commerciali o di taciti accordi”. E cosa hanno fatto? “Abbiamo adottato prima di tutto la moral suasion: abbiamo chiesto che nei post a pagamento ci fossero hashtag come ‘pubblicità’ o ‘fornito da’ a seconda dei casi”. Nell’ultimo anno sono state aperte diverse istruttorie, come quella nei confronti di Alberta Ferretti e Alitalia oppure tra la pagina Instagram Insanity Page e Barilla. “In entrambi i casi – spiega l’Antitrust – sono stati accolti gli impegni presentati dai professionisti volti a rimuovere i profili di scorrettezza contestati”. E le segnalazioni molto spesso arrivano proprio dagli utenti.

Ecco come si scambia

Intanto il Covid-19 ha messo a dura prova anche le influencer: senza sfilate e grandi eventi, la stessa Ferragni ha prima fatto il gelato (proteico, ovviamente), poi è passata alle ricette e alle pulizie: cheescake con la ricotta, biscotti, crocchette di pollo e infine l’anticalcare in vestito griffato (tutto hashtag #adv). “La pandemia ha condizionato le aziende – spiega Vincenzo Cosenza, l’head of marketing della piattaforma Buzzoole – Alcune sono state più prudenti, hanno dovuto fare i conti con un marketing emergenziale”. Spesso gli investimenti pianificati sono stati spostati in avanti e in alcuni casi sono stati ridotti per non pesare sui bilanci provati dai mancati introiti. Nell’influencer marketing Buzzoole ha stimato un calo del 30%. A marzo e aprile, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, sono crollati i post nelle categorie viaggi (-84%), automotive (-87%), accessori (-65%), retail (-58%). Meno spiccata nel beauty (-20%) e nella moda (-15%). In crescita i settori della salute (+550%), del civo (+257%) e della tecnologia (+71%). “Gli influencer si sono dovuti adattare al lockdown, inventando nuovi format per intrattenere i propri follower – spiega Cosenza – più storie per raccontare la quotidianità, dirette, live con ospiti. Molto utilizzato anche il format ‘how to’ per mostrare ai follower esercizi, ricette, lavori creativi”.

Il dominio di Tik Tok

Social protagonista è comunque TikTok, l’applicazione più scaricata a marzo in Italia: oltre 1,6 milioni di volte, il 50% in più su febbraio. “TikTok sta imponendo alle aziende un nuovo modo di essere online – spiega Cosenza – Il suo stile è performativo, esserci vuol dire mettersi in gioco in misura maggiore di quanto avviene su altri social. Ecco perché i brand hanno paura di aprire un account e salire su quel palcoscenico”. Ora, però, potrebbe beneficiare anche del boicottaggio di Facebook da parte di big spender visto che da poco ha esteso il suo sistema di advertising fai da te. “Per ora, però, preferiscono usare l’advertising per sponsorizzare qualche challenge o usare l’influencer marketing per far leva sui tiktoker quali veicoli dei propri messaggi”. E la trasparenza? Traballa. “I creator e i brand che usano Instagram e Facebook negli anni hanno acquisito una maggiore sensibilità al tema della trasparenza (l’uso degli hashtag della trasparenza lo scorso anno è cresciuto del 49% in Italia). Su TikTok stiamo notando una minore attenzione al tema, forse dovuto anche all’età dei tiktoker e una mancanza di direttive suggerite dalla piattaforma”.

Teatro anni ’90. Senza una lira, senza progetti e senza certezze. Ma soprattutto, senza bagni!

Questa estate ho interpretato nei teatri di tradizione all’aperto e nei siti archeologici di mezza Italia, il personaggio di Alcmena, la protagonista di Anfitrione il capolavoro di Plauto. Che bello il teatro d’estate, recitare tra le rovine, in mezzo agli archi, alle colonne, ai templi, le antiche vestigia, testimoni muti di un rito laico, che si ripete ogni sera, con il profumo dei secoli passati. Che grande emozione! Ma i servizi igienici per gli attori, perché non sono all’altezza delle rovine greche e romane dove siamo stati chiamati a recitare? Spesso i cosiddetti bagni per le compagnie teatrali, sono degli incubi di cessi provvisti di “ricordi” di antiche digestioni ormai fossilizzate, e proprio per questo eterne.

Che bello il teatro d’estate! Questo quando i bagni ci sono, perché in certi casi, malgrado lo splendore del teatro antico, i bagni per la compagnia non esistono proprio. Gli attori sono costretti a fare la fila alla toilette del bar di fronte, insieme al pubblico, ma con ancora addosso gli abiti di scena. L’altra sera fra il primo e il secondo tempo, mi sono trovata in fila per la toilette, vestita appunto da antica romana, con delle signore del pubblico che sembravano stupite che anche un’attrice avesse bisogno di fare la pipì. Questo perché il pubblico ha per i teatranti una considerazione particolare, non pensa a noi come persone normali. Per loro siamo personaggi e non persone!

Mentre ero in fila nell’intervallo vestita da Alcmena con molte altre donne, si sa noi donne abbiamo la vescica iperattiva, la signora dietro di me mi dice: “… comunque lo spettacolo mi sta piacendo molto”. È quel “comunque” che mi ha colpito. Lo spettacolo è bello malgrado io faccia la fila in costume in mezzo al pubblico per andare alla toilette? Certo Alcmena che fa pipì perde di fascino, vorrà dire che la prossima volta farò di tutto per trattenermi. Forse dovrei fare una riabilitazione dei muscoli pelvici.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

 

Vite in viaggio. La ragazza partita da Roma per intervistare Rania, regina di Giordania

Lucia Pozzi, giornalista vera di grande quotidiano e autrice di una vera intervista alla Regina Rania di Giordania, inventa se stessa all’inizio della carriera, una giovane giornalista free lance che, con entusiasmo e ostinazione, intende intervistare in esclusiva la Regina di Giordania, giovane, saggia, buona e per giunta bellissima. Dunque l’autrice si colloca come la protagonista di una storia in cui deve fare carte false per essere presa sul serio e considerata davvero come intervistatrice adatta per la Regina. È un po’ come accade a chi sogna ancora e ancora di dover dare l’esame di maturità. Ma nel piccolo e festoso libro Sognando Rania (Golem Edizioni, pagg. 188) la Pozzi va molto al di là del sogno, magari compiaciuto ma realistico, di vita vissuta non tanti anni fa. Il libro di Pozzi, nato come un divertimento, diventa un romanzo di avventura e di amore, con la trovata di mettere in scena sia personaggi veri (anche della sua vita di adesso) sia personaggi di fiction, sostenuta da una solida e agile struttura narrativa in cui ogni invenzione vale la verità, sia quando è triste e dolorosa (la visita al campo dei bambini palestinesi profughi e soli) sia quando diventa una festa a colori tipica dell’età della protagonista narrante, della bellezza dei luoghi, della invenzione di un gruppo di persone adorabili di una o di un’altra etnia, nella missione, un po’ da giallo diplomatico, un po’ da illusione che diventa sogno che diventa fatto, molto da susseguirsi veloce perchè molto giovane, di eventi che dovrebbero essere impossibili e non lo sono. Contano molto i dettagli. Conosci e riconosci subito le persone, che diventano amiche del lettore mentre lo diventano della vitale e lieta protagonista.

Conta il cibo (conta sempre molto nella vita delle persone felici) descritto con bravura di esperta ma anche con l’affetto che segna l’incontro della esploratrice di case reali col nuovo Paese nel quale diventa, di fatto, e per lieta affinità, cittadina. Contano molto i colori di oggetti, tessuti e natura, che compongono una serie di piccole e felici avventure. Conta il rapporto sentimentale con un giovane Paolo (vita di volontariato) toccato con molta grazia dall’autrice, che inventa, per il suo personaggio, il nuovo ragazzo, un amore senza intoppi e senza equivoci e contraddizioni, che è bello leggere ma non esiste. Ci sono tre fili che muovono i personaggio nello straordinario teatrino che l’autrice ci racconta da Amman: la ricerca di un contatto con la regina (con un serie di procedure ed espedienti che meritano di seguire il percorso), il rapporto con la città, che contiene persone, oggetti, odori, sapori, e una “colonna sonora” (Amman parla nel libro, con rumori, voci e canzoni) che ti inducono a seguire la storia, e il legame, allo stesso tempo stretto e sciolto, con Paolo, che tra arrivi e partenze per le missioni umanitarie di cui si occupa, è l’uomo della sua vita. La fine è come Le mille e una notte: avete l’impressione che la storia della ragazza partita da Roma per farsi una reputazione ad Amman, quando finisce (ma non finisce) stia per ricominciare.

Sognando Rania – Lucia Pozzi, Pagine: 188, Prezzo: 16, Editore: Golem, Furio Colombo

Afghanistan. Miti e rimozioni su quel conflitto ormai nell’oblio

Sta suscitando clamore negli Usa la notizia di una taglia offerta dai russi ai Taliban per ogni soldato americano ucciso. Ne scrive il New York Times citando confessioni di prigionieri afghani e il ritrovamento di una grande quantità di dollari. La vicenda è confusa ma questo è almeno chiaro: per quanto sia in corso da 17 anni, la vera storia della guerra afghana resta ancora da scrivere. Come accade con gli argomenti scabrosi quel conflitto l’abbiamo rimosso, i suoi enigmi non incuriosiscono. Così ciascuno può raccontarsi la guerra che preferisce.
In Italia la vogliamo fortissimamente voluta da Washington, quando in realtà i necons non la volevano, miravano già allora sull’Iraq e promisero al mulllah Omar “ponti d’oro” se avesse espulso, non consegnato, bin Laden (me lo raccontarono i due diplomatici Taliban cui gli americani affidarono il messaggio per l’emiro). Sappiamo inoltre che la semi-democrazia afghana è molto corrotta (vero, ma come mi disse un parlamentare afghano, credo per conoscenza diretta, la filiera della corruzione comincia a Baghram, la grande base americana). E siamo convinti che i Taliban bene o male siano onesti patrioti, illusione da cui dovremo ricrederci.
E gli 800 soldati italiani? Stando al sito del contingente, addestrano, aiutano, soccorrono, insomma contribuiscono alla precaria speranza di un Afghanistan possibile. Ma combattono? Il ministero della Difesa pare convinto che non sia saggio raccontare gli aspetti problematici della nostra presenza ad un’opinione pubblica ritenuta immatura. Che queste omissioni abbiano o no contribuito, anni fa circolava il sospetto che gli italiani pagassero i Taliban per non essere attaccati (lo ricordano Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone in La Provincia e l’Impero, 2011), tanto che l’ambasciatore americano a Roma suggerì a Bush di rinfacciare a Berlusconi “la reputazione traballante dell’Italia, meritata o meno”.
Ma Bush e i suoi avrebbero dovuto rimproverare innanzitutto a se stessi la conduzione della più disastrosa missione Nato della storia.

Capitalismo politico Con lo scontro tra Usa-Cina il potere torna al centro del dibattito economico

La guerra economica fra Stati Uniti e Cina è stata raccontata dai media in modi diversi e spesso contradditori. Neoliberismo contro socialismo di mercato, protezionismo contro liberoscambismo, democrazia contro autoritarismo. L’ultimo libro di Alessandro Aresu, consigliere scientifico di Limes e saggista, dà una chiave di lettura differente di questo scontro, rifiutando etichette semplicistiche e scorciatoie linguistiche.

“Le potenze del capitalismo politico: Stati Uniti e Cina”, edito da La Nave di Teseo, è a tutti gli effetti un magnum opus economico-politico. Ma il titolo potrebbe trarre in inganno. Non si tratta infatti di un resoconto puntuale del conflitto sino-americano, né di una semplice rassegna storica degli eventi che hanno segnato il rapporto fra i due Paesi. È piuttosto un elaborato trattato che attraversa la teoria economica e quella politica, l’attualità e i principali episodi del passato. Concetto chiave dell’opera è quello di “capitalismo politico”, il cui spirito “sta nell’espansione, nella trasgressione dell’ambito strettamente economico in altri ambiti, fino ad avvolgere ciò che è essenziale per l’esistenza”. Burocrazia statale e sistema economico sono strettamente intrecciati, anche negli Stati Uniti, dove commercio e tecnologia hanno un significato geopolitico ineliminabile. La mano invisibile del mercato e quella visibile degli apparati pubblici non si respingono, anzi cooperano.

Diventano superflue e forse anche controproducenti formule come “neoliberismo” o “socialismo con caratteristiche cinesi”. La bestia che si sta studiando è il capitalismo politico, che può assumere forme diverse, ma ha una costante: “il potere coercitivo dello Stato e della sua ‘burocrazia celeste’, che si accoppia col capitalismo”. La trattazione di Aresu è intessuta di un’infinità di riferimenti culturali e citazioni e si traduce in un possente sistema di note. C’è pane per chi vuole approfondire. Forse troppo. Ma anche il lettore inesperto, seppur con qualche difficoltà, può destreggiarsi fra le connessioni che il saggista costruisce. Lo studioso sardo riesce poi a dare una visione limpida del pensiero di Adam Smith. Non è certo il primo, ma il contributo di Aresu aiuta a dissipare le nubi intorno alla figura del filosofo scozzese, troppo spesso identificato solamente con il concetto di “mano invisibile”. Non solo Smith considerava il mercato come fondato sulla socievolezza e sul principio di simpatia, ma non sarebbe neanche d’accordo con i fondamentalisti dell’antistatalismo che proliferano da quarant’anni a questa parte. L’autore ci ricorda che Smith affermava che “la difesa è molto più importante della ricchezza”, riconoscendo così l’importanza della mano visibile dello Stato. Ritorna così il leitmotiv della “compenetrazione di economia e politica in un ‘tutt’uno organico’”.

La conseguenza naturale della teoria di Aresu è che la globalizzazione non è un piano liscio dove scorrono liberamente merci, persone e capitali, ma è l’arena di scontro dei vari capitalismi politici. Finalmente, il tema del potere rientra con prepotenza nel dibattito economico.

 

Le potenze del capitalismo politico, Alessandro Aresu, Prezzo: 22, Editore: La nave di Teseo

Il capitalismo dei provinciali spiegato dal caso Intesa-Ubi

Le battaglie finanziarie italiane ormai raccontano più del provincialismo dei suoi capitalisti che del futuro del Paese. Prendiamo l’ultima. Carlo Messina di Intesa SanPaolo ha lanciato l’assalto a Ubi. La prima banca si vuol prendere la terza. Se riesce, Messina e Alberto Nagel di Mediobanca, advisor dell’operazione, regneranno su un sistema disfatto. Un tempo si sarebbero raccontati i protagonisti, oggi la guerra si fa sui giornali, come se contassero qualcosa. Grazie all’abile lavoro degli uomini di Messina, la grande stampa – quasi sempre indebitata con Intesa – infierisce sui guai della banca bergamasca e dei suoi vertici. I quali, dal canto loro, gridano all’attentato al libero mercato, al “Golia-Intesa” che attacca il “Davide-Ubi” riducendo la concorrenza bancaria. Si assiste anche a questo. Fino a prima della mossa di Intesa, Ubi era la banca più amata dalla Banca d’Italia e dai giornali, che chiudevano gli occhi sulle inchieste che la coinvolgevano (e che il Fatto ha raccontato quasi in solitudine) .

L’ad di Ubi Victor Massiah è imputato nel maxi processo per la manipolazione dell’assemblea del 2013 insieme ai suoi danti causa. I vertici hanno piegato l’istituto alle beghe di campanile dei soci bresciani e bergamaschi, debitori di una banca che da anni perde valore. Nel piano industriale 2016, per dire, Massiah proponeva, al 2019, 730 milioni di utili con un rapporto costi/ricavi del 54%: gli utili sono stati 250 milioni e il rapporto si è fermato al 62%. Ad aprile 2019 prometteva un utile superiore a quello 2018 (è sceso del 40%). Ora ha rivisto il piano industriale, redatto solo a febbraio, addirittura alzando i dividendi mentre gli utili calano. Ubi tiene poi a bilancio i crediti deteriorati a un valore ben più alto di tutto il settore bancario: se li allineasse avrebbe un buco da 700 milioni. Lo strapotere di Intesa non è un bene per il mercato del credito, ma Golia può vincere perché Davide si è fatto male da solo, e anche questo è il mercato.

Oggi Massiah promette di fondersi con altri se Intesa fallisce l’assalto, ma finora non ci è riuscito perché voleva comandare pur essendo un preda e non un predatore. Messina può permettersi di alzare l’offerta, e ora i soci di Ubi tentennano. Non li hanno convinti i giornali, ma l’arroganza di Massiah.

Juve, tutti per uno. I fedeli moschettieri che pagano a Madama Ronaldo & C.

Tutti per la Juve, la Juve per tutti. Parafrasando Alexandre Dumas padre, è questo il motto che impazza nel calcio italiano. E se nel romanzo di Dumas i moschettieri al servizio di re Luigi XIII e della consorte Anna d’Austria erano 3, poi diventati 4, nell’Italia del pallone i moschettieri al servizio della Real Casa sono ben di più, un numero imprecisabile ma sempre crescente. Calcio & Finanza ha rivelato nei giorni scorsi, conti alla mano, che nelle ultime 5 stagioni, dal 2015-’16 ad oggi, la Juve ha iscritto a bilancio oltre mezzo miliardo di plusvalenze (548 milioni), realizzate in massima parte con la gentile collaborazione dei suoi fedeli moschettieri. Un gioco portato avanti alla luce del sole, essendo la Juventus un club quotato in borsa, e considerato da tutti normale, per non dire fisiologico. Come si dice in questi casi: va tutto ben Madama la marchesa (notare il maiuscolo di madama).

Avete voglia di partecipare a un piccolo gioco di società? Se sì, rispondete a queste domande. Sapete qual è l’acquisto più costoso della storia del Milan? No? Ebbene, il glorioso club che ha avuto Rivera, Gullit, Van Basten, Shevchenko, Pirlo, Kakà, Nesta, Ronaldinho, Ronaldo, Savicevic, Papin e via dicendo ha speso la somma più alta, 42 milioni, per Bonucci della Juventus; restituito di lì a un anno per accollarsi Caldara a 35 (avete letto bene: Caldara, 35 milioni). E adesso domande a raffica. L’acquisto più costoso della storia della Sampdoria? Il portiere Audero della Juventus costato 20 milioni, per capirci 2 milioni più di Zapata oggi all’Atalanta. L’acquisto più costoso della storia dell’Udinese? Il centrocampista Mandragora della Juventus costato 20 milioni. L’acquisto più costoso della storia del Genoa? Il centrocampista Sturaro della Juventus costato 18 milioni dopo un prestito di 1,5 che comportava il riscatto definitivo a 16,5 al primo punto conquistato dal Genoa, la miglior clausola concepita nella storia del calcio; per non parlare dell’attaccante Favilli (avessi detto Del Piero), sempre della Juventus, acquistato da Preziosi a 12.

Ancora: sapete qual è l’acquisto più costoso della storia del Bologna? L’esterno Orsolini della Juventus costato 15 milioni. L’acquisto più costoso della storia del Sassuolo? Sono due, ex aequo e un po’ più datati: l’attaccante Zaza della Juventus costato 10 milioni e l’attaccante Berardi sempre della Juventus costato uguale. In questo panorama, delude il presidente del Cagliari Giulini che dopo aver ingaggiato dal Napoli Pavoletti per 10 milioni, l’acquisto più costoso della storia del club sardo, ha deciso di procedere all’ingaggio dell’attaccante Cerri della Juventus sborsando solo 9 milioni e facendone il 2° acquisto più caro di sempre (e oggi, dopo l’acquisizione dell’uruguagio Nandez a 18, addirittura il 3°: una vergogna).

Insomma, se mai vi foste chiesti come fa la Juventus ad avere a bilancio Ronaldo che tra ammortamento e stipendio lordo pesa per 81 milioni a stagione, Higuain che pesa per 35 milioni (fanno 116), De Ligt che pesa per 34 (fanno 150) e Arthur che peserà fino a 25 (fanno 175 milioni a stagione solo per mantenere i 4 giocatori più impegnativi, e il tutto in attesa di conoscere le cifre dell’imminente rinnovo di Dybala che si fionderà al 2° posto alle spalle di CR7), la risposta è semplice: glieli pagano i suoi moschettieri.

 

Tassista per amore. “Mio figlio almeno avrà la licenza, perciò ho lasciato il posto fisso”

Lo guardo e d’improvviso gli scopro gli occhi azzurri di certi suoi antenati. Lo conosco da anni questo tassista anomalo e non me ne ero mai accorto. D’altronde me lo dice solo ora: “Sono nato a Palermo, alla vecchia stazione Lolli dalle parti di corso Indipendenza. Mio fratello partì per la Germania che ero ancora bambino. Ma non resistette. La lingua, la cultura, il buio dell’inverno. Tornò in Italia e provò a Milano. Alla Pirelli. E lì andò bene. Allora chiamò su mio padre dicendogli che c’era lavoro. E mio padre che sbarcava il lunario con dei servizi per una scuola privata venne, e tutti noi dietro, avevo nove anni. Lo presero in un altro turno, anche lui alla Pirelli. C’era un caseggiato in via Pergolesi. La parte sulla strada era per gli impiegati e gli insegnanti. La parte interna per gli immigrati. In due stanze dormivamo in nove”. Mi affascinano sempre i racconti di quell’Italia rimasta nelle foto in bianco e nero. E anche Angelo, il mio interlocutore, sembra sognare. Mentre mi aiuta nelle urgenze mi suggerisce di fermarci in un posto per un panino, “tanto a quest’ora tutto è chiuso”.

Mai un tassista ti porterebbe qui, oasi di cultura alla periferia milanese, dove la sera fanno il cinema all’aperto ma con le cuffie, per non disturbare i condomini intorno. Mi racconta della scelta sofferta di fare il tassista e lasciare il Comune di Milano. Anzi, uno dei più formidabili gruppi consiliari che mente umana possa concepire, divertimento e lavoro a perdifiato, lui, Leo e Livio, li chiamavano “i tre dell’ave Maria”. “Ho pensato a mio figlio. Che cosa gli lascio che lo aiuti a vivere? Una licenza di taxi è un valore. E io l’ho avuta per un colpo di fortuna in quel periodo in cui Albertini decise da sindaco di mettere in palio alcune centinaia di nuove licenze libere. Non l’ho pagata niente, solo la carta bollata per la domanda. Cambiare mestiere mi è dispiaciuto, ma che ne sai di che mondo troverà tuo figlio”.

Dunque, “tassista per amore”. E certo Angelo Sollazzo, detto Tutù a scuola, dove lo ebbi allievo quando mi arrangiavo da supplente, non è uno che pensi solo a se stesso. Nei mesi di punta del Covid ha mollato il taxi. “Perché il lavoro era pochissimo, la torta da dividersi davvero una miseria, e ogni mia corsa sarebbe stata un po’ di euro in meno per qualche mio collega che magari per la licenza s’è indebitato, io alla fine ho anche una moglie che lavora”. E allora si è messo a fare il volontario con Emergency e a portare gratis i pasti del Comune per i disabili. Ha ripreso le corse da qualche giorno. Continuando con le sue altre e numerose passioni. Come l’Anpi, l’associazione partigiani, dove si dà da fare come vice impegnatissimo della sezione di Quarto Oggiaro, zona antica e popolare. O come i libri. Perché in fatto di cultura si cucina anche tanti insegnanti e operatori culturali. Dovevate vedere la precisione con cui mi raccontava davanti ai nostri panini la storia di Se questo è un uomo. Le edizioni, gli anni, le quotazioni sul mercato di quella edizione uscita in quella veste, ma anche le quotazioni di Tex.

Sembrava un ricco collezionista, portandomi in una dimensione a me sconosciuta. E spiegandomi poi, più prosaicamente, perché tanti tassisti non accettano la carta di credito. “Io la accetto, ma poi i clienti se la prendono con me perché in genere passano prima da altri colleghi che gliela rifiutano. La commissione sulla carta di credito la pagano tutti? Sì, ma un negoziante o un ristoratore si rifà con il prezzo. Il mio prezzo invece è la tariffa, mica la posso cambiare. Alla fine di un anno hai duecento euro in meno, bisogna capirli”. Gli occhi azzurro-siciliano parlano come solo in quella terra sanno fare. Mandano un senso di rarità, come certi libri. E io penso che un tassista così è come il telefono: ti cambia la vita.