Il caso De Donno La prof. della Sorbona: “Non è un ricercatore e parla come Salvini”

 

“Io, neurologa, vi dico: i social fanno malissimo alla scienza”

Cara Selvaggia, sono una neurologa e ricercatrice di Parigi, da poco diventata professore associato all’università Sorbona. Già ti avevo scritto qualche anno fa, al tempo della furia no-vax contro l’obbligatorietà dei vaccini. Ti scrivo di nuovo oggi per parlare del dottor Giuseppe De Donno. Sono talmente indignata per l’approccio “salviniano”, con il quale questo medico si auto-promuove, che ho deciso di mettere in fila alcuni fatti riguardo questo presunto “ricercatore”. Primo: lui, alla base, non è un medico ricercatore. Da un’indagine su PubMed, il sito che raccoglie articoli medici da tutto il mondo, emergono solo tre testi dove compare il suo nome: pochissimi, considerando la sua età; per di più, su riviste di livello medio e basso. De Donno non è mai né primo autore (cioè colui che realizza la ricerca in prima persona, raccoglie e analizza i dati) né ultimo autore (il principal investigator che organizza e concepisce lo studio). Tra l’altro l’ultimo di questi tre studi, quello che lui pubblicizza su Facebook ridicolizzando chi lo critica come ricercatore, non è neanche un articolo. È solo una lettera all’editore, peraltro pubblicata su una rivista con un bassissimo “fattore d’impatto” (ovvero un numero che determina l’impatto di una rivista sulla comunità scientifica, per spiegartela in soldoni). Tutto ciò, per chiarire la qualifica di “ricercatore”.

Ora il secondo fatto: la terapia con il plasma iper-immune è una delle mille terapie per il Covid-19 che sono state proposte, tutte in sperimentazione in varie parti del mondo. La più grande e seria sperimentazione sul plasma iper-immune è in corso da mesi alla Mayo Clinic di Rochester, Usa, che ha lanciato un’iniziativa nazionale reclutando migliaia e migliaia di pazienti. I toni dei medici-ricercatori americani della Mayo Clinic, sul tema, sono seri e posati. Come tutti i ricercatori rispettabili non gridano al miracolo, ma semplicemente dicono “questi i rischi, questi i possibili vantaggi, aspettiamo il risultato della sperimentazione che stiamo conducendo”.

Terzo fatto su De Donno: non che la mia carriera accademica sia lunga e fertile come quella del dottor De Donno o del suo illustre sodale, il professor Joseph Dominus, ma io in tutta la mia vita non ho mai assistito a un fenomeno simile. Intanto, nessuno dei miei mentori ha un profilo Facebook, e secondo me fanno bene. Ritengo che la ricerca scientifica abbia i suoi spazi che non appartengono ai social network. Se a questo aggiungi la storia del profilo finto usato per auto-celebrarsi, allora, forse ho proprio sbagliato mestiere. O forse, probabilmente, l’ha sbagliato lui.

L.

Cara L., è bello che tu mi pensi sempre in relazione a soggetti illuminati. Prima i no-vax, ora De Donno. Ci risentiamo per il prossimo convegno sulla terra piatta, che ne dici?

 

Lombardia, tampone a 70 euro ”Ma non doveva essere gratis?”

Cara Selvaggia, dato che so che sei particolarmente attenta alle magagne di regione Lombardia, ti segnalo l’ultima. Sono una studentessa del sesto anno di medicina e da metà luglio dovrei rientrare (notizia di ieri) in reparto per finire la mia tesi, a cui non è stato possibile lavorare durante l’emergenza Covid. Prima di far questo, vorrei effettuare il test sierologico, al quale risulterò molto probabilmente positiva, perché a febbraio ho avuto tutta la sintomatologia tipica del Covid-19. Il 30 giugno regione Lombardia ha approvato il “pacchetto salute” che, tra le altre cose, prevede il rimborso dei tamponi effettuati dopo il test sierologico sia in caso di positività che in caso di negatività. E non è male, visto che nei laboratori convenzionati Synlab, i più vicini a me, un tampone costa 70 euro + spese di prelievo (mentre il sierologico ne costa 62 + spese di prelievo). Chiamo quindi la struttura Synlab di Usmate Velate e il centralino nazionale di Synlab per chiedere delucidazioni a riguardo, perché sul loro sito è scritto che i tamponi sono ancora a pagamento. Risultato? Entrambi mi hanno risposto di contattare l’Asl o regione Lombardia, perché loro ne sanno meno di zero. Quindi oggi una persona che risultasse positiva al test sierologico dovrebbe pure pagarsi il tampone, a prezzo salato, anche se non più previsto.

Sembra il gioco delle tre carte. Ma in Italia ci siamo abituati, parlando di burocrazia. Però pensa al mio caso specifico. Devo rientrare in un ospedale, e sappiamo tutti dove si sono sviluppati i primi focolai. Intanto, nessuno mi chiede di fare il tampone, sperando fatalmente nel mio buonsenso. Grazie a Dio ce l’ho, il buonsenso, ma se così non fosse? E se, per la fretta di chiudere il mio lavoro, decidessi di tornare subito in corsia e risultassi poi, tragicamente, positiva al coronavirus? Oppure ormai è ufficialmente “liberi tutti, e arrivederci alla prossima ondata”? Io, davvero, non ho più parole. Viva il tracciamento del virus, insomma!

Sabrina

 

Cara Sabrina, assisto sgomenta a un “liberi tutti” ormai da settimane, ma mi illudevo che col calare dei casi aumentassi l’efficienza del sistema, non più oberato. Non è mai stato più amaro dover dire “avevo ragione”.

 

Selvaggia Lucarelli

Fede e politicaDon Matteo alla festa dell’Unità: è il cardinale Zuppi, futuro papabile bergogliano

La prima volta di un cardinale alla Festa nazionale dell’Unità, che si terrà a Bologna dalla fine di agosto a quasi tutto settembre. Certo, la festa degli eredi post-comunisti del Pd non è più quella di una volta, ma la notizia fa sempre il suo effetto. A maggior ragione se si tratta di un principe della Chiesa che nel prossimo Conclave potrebbe rientrare nella schiera dei papabili “francescani”: Sua Eminenza Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, appellato da fedeli e amici come “don Matteo”.

In questa rubrica non è la prima volta che parliamo di lui ma giova ricordare il suo imprinting da prete di strada cresciuto nella comunità di Sant’Egidio, nel cuore di Trastevere a Roma. Come segnalato da Italia Oggi il primo luglio – il quotidiano che ha anticipato la sua partecipazione – il cardinale Zuppi già lo scorso anno ha fatto le prove generali alla festa locale del Pd di San Lazzaro, accolto come una star in una sala sold out.

In quell’occasione don Matteo si soffermò sul tema del linguaggio di certi politici, poi sviluppato in un libro dal titolo eloquente: Odierai il prossimo tuo, scritto con il giornalista Lorenzo Fazzini.

Ovviamente la destra sovranista lo detesta – un titolo per tutti: “Pro migranti e contro la destra: ora il vescovo va alla festa Pd”, Il Giornale – ma in realtà i toni del cardinale non sono mai risucchiati dall’invettiva e sono sempre pacati e dialoganti. Insomma, non distruggono – a differenza di alcuni monsignori alfieri del clericalismo anti-bergogliano – ma riflettono l’antico motto cristiano: “Tutto è grazia”. Eccone un esempio: “L’odio che si respira nella nostra società (…) potrebbe rivelarsi (…) un’occasione preziosa per riscoprire con rinnovata energia il grande valore della fraternità” (da Odierai il prossimo tuo).

Ed è per questo che la partecipazione di don Matteo alla festa dell’Unità andrebbe vissuta e interpretata dalla classe dirigente del Pd, a partire da Nicola Zingaretti, oltre alcuni schemi semplificativi se non manichei. L’ha spiegato bene nella sua rubrica su Avvenire il teologo Gianni Gennari, prendendo spunto da una frase di Andrea Orlando, ex ministro oggi vicesegretario dei democratici: “Per me Zuppi è un punto di riferimento politico”. Detta così, scrive Gennari, è una “definizione che non mi trova d’accordo” perché suona più come un “addebito” che come un “elogio”. “Un prete (…) certo non parla e non parlerà ‘per politica’”. In pratica, è un consiglio a non riempire con un comizio cardinalizio il vuoto post-ideologico che caratterizza il Pd sin dalla sua fondazione nel 2007. Un discorso che si può allargare a tutta la sinistra, la stessa che guarda caso da un lustro sostiene che l’unico vero leader oggi in circolazione sia papa Francesco.

Magari Zingaretti potrà invece ripetere al porporato la stessa domanda che fece Tonino Tatò, storico uomo ombra di Enrico Berlinguer, a Gennari. Era la fine degli anni ’70 a una festa dell’Unità a San Polo d’Enza, nel Reggiano. In piazza almeno 5mila persone. Chiese Tatò al teologo: “Parlaci di Gesù”. Ecco.

 

La lunga redenzione di Zinga. Basta Thatcher, ora a sinistra

“Martina ha 22 anni. Studiava Scienze dei Beni Culturali. Ma recentemente ha deciso di rinunciare al suo sogno per seguire quello di suo padre, deceduto a causa del coronavirus: tenere aperta l’edicola di famiglia. Il padre era infatti un operaio che, dopo anni di risparmi, era riuscito ad aprire quell’attività. Facendosi un nome nel quartiere, a Lodi, tra i concittadini. Era il suo sogno, e lo aveva realizzato. Poi il coronavirus lo ha portato via. E così Martina non si è sentita di chiudere l’attività, e l’ha presa in mano lei. Ora si alza ogni mattina alle 6 per gestirla. Una scelta difficile, ma davvero bella, empatica. Per questa ragione, ci sentiamo allora di farle un grande in bocca al lupo. Da parte di tutte e tutti noi, buona fortuna Martina”. Qualcuno di voi avrà letto questa storia: è stata raccontata dai giornali locali lombardi, e quindi dal Corriere della sera. Ma il testo che avete letto è stato pubblicato dal Partito democratico sulla sua pagina Facebook il 2 luglio. Nella stessa giornata, quella pagina ha anche ospitato un ispirato intervento del segretario Nicola Zingaretti, che inizia così: “Essere un partito di sinistra. Mettere al centro lavoro e giustizia sociale. Lo abbiamo fatto, lo stiamo facendo”.

Il contrasto tra i due post non potrebbe essere più clamoroso, ed è un contrasto che denuda una profonda crisi di identità politica. Un segretario che sente il bisogno di spiegare cosa vuol dire “essere un partito di sinistra” sta (lodevolmente) intraprendendo un Programma dei Dodici Passi per disintossicarsi da una drammatica deriva a destra. Ma la strada della redenzione è, con ogni evidenza, ancora assai lunga.

Perché la decisione di Martina, vista come una libera scelta d’amore filiale, è commovente e nobilissima. Ma se un partito decide di commentarla, la trasforma in un fatto politico. E se quel partito si dice di sinistra e si trova al governo, non può dimenticare che quella scelta ha che fare proprio con il lavoro e la giustizia sociale. E allora dovrebbe semmai commentarla scrivendo: “Stiamo facendo di tutto perché una simile decisione non debba più essere presa, e perché Martina possa tornare a studiare Scienze dei Beni Culturali”.

Invece, si capisce che dal Pd pensano che quella scelta “bella ed empatica” fosse in qualche modo ineluttabile. Così come lo era lo smantellamento dei posti letto in terapia intensiva, o la difficile sopravvivenza di chi, dopo una vita di lavoro operaio e sacrifici, aveva aperto un’edicola, cioè un presidio sociale e culturale lasciato in balìa di un mercato senza scrupoli. Se ne parlo in questa pagina, è perché Martina stava studiando Beni culturali (in un’università il cui ministro è dell’area Pd). E dopo la laurea avrebbe appunto provato a trovare lavoro nel vasto mondo dei Beni culturali (il cui ministero è saldamente in mano al Pd). Ma commentando la sua rinuncia, il Pd non ha pensato che se si fosse lavorato come si doveva per il diritto allo studio e per il sostegno agli studenti lavoratori, forse Martina non avrebbe dovuto rinunciare. E non ha pensato che il patrimonio culturale della nazione perdeva la forza, la determinazione e la generosità di Martina. E questo non-pensiero è un enorme problema culturale e politico. In questa pagina ci troviamo a parlare di soprintendenze senza mezzi, di speculazione edilizia che cerca di sfondare le labili difese del territorio, di mercificazione spinta del patrimonio culturale, di mancanza di un progetto capace di promuovere davvero lo sviluppo della cultura come vorrebbe la nostra Costituzione. Uno stato delle cose determinato in egual misura da centrodestra e centrosinistra – e anche dal Movimento Cinque Stelle, nel breve periodo in cui ha guidato i Beni Culturali. In questi ultimi anni, il pensiero unico sul patrimonio culturale si è dunque tradotto nella passiva accettazione dello stato delle cose: cioè nell’introiettamento del TINA (there is no alternative) di Margaret Thatcher.

Il Pd, e in generale il mondo della “sinistra” mainstream, si è convinto da tempo che l’unico legame possibile tra patrimonio culturale e popolo sia una banalizzazione commerciale a getto continuo. Sotto la maschera demagogica, è un’idea ferocemente classista e antidemocratica. Ed è proprio questo il punto: una forza che voglia davvero “mettere al centro lavoro e giustizia sociale” dovrebbe fare di tutto perché ragazze come Martina possano un giorno custodire, governare, mediare il patrimonio culturale.

Ma forse Martina sapeva che dopo almeno quindici anni trascorsi tra una laurea triennale, una magistrale, un dottorato, una specializzazione e un corso alla scuola del patrimonio, le avrebbero offerto (se fortunata) un lavoro povero (o nero) come custode museale, con contratto multiservizi, naturalmente a tempo determinato: una prospettiva di schiavitù. A quante altre Martina stiamo rinunciando? Quando capiremo che senza giustizia non c’è bellezza?

La sai l’ultima?

Approfitta dell’operazione al naso della nonna e nasconde in casa sua un chilo di marijuana

Ricordate il film L’erba di Grace, dove una simpatica vecchietta si spacciava, letteralmente, come brillante coltivatrice di stupefacenti? Ecco, questa notizia non c’entra nulla. L’anziana signora in questo caso non è la protagonista ma la vittima. Il piccolo genio criminale del nipote ha approfittato dell’operazione chirurgica al naso a cui si era dovuta sottoporre la nonnina, rimasta provvisoriamente senza olfatto, per nascondere in casa di lei un chilo di marijuana. Non è finita bene: il diciassettenne modenese è stato arrestato dai carabinieri di Carpi insieme a un suo coetaneo. Un terzo amico dei due giovani spacciatori è stato invece denunciato in stato di libertà perché in camera sua, sobriamente, custodiva una spada da samurai (e nel garage un paio di biciclette rubate). Non sappiamo come abbia reagito la povera nonna alla notizia, speriamo nel frattempo abbia ricominciato a sentire gli odori.

 

Un tedesco acquista l’auto su internet ma si sbaglia: compra 27 Tesla, il conto è di 1,4 milioni di euro
È l’incubo di chi fa shopping compulsivo online. Arrivi alla pagina d’acquisto, premi il tasto del pagamento, la pagina non si carica, allora schiacci di nuovo, ancora e ancora. Alla fine l’acquisto ti viene addebitato per tutte le volte che hai premuto. La traumatica esperienza è capitata a un cittadino tedesco, con la considerevole aggravante che il poveretto stava comprando un’automobile. Voleva sostituire la vecchia Ford Kuga, con una Tesla Model 3 elettrica. E per risparmiare aveva deciso di farlo sul sito ufficiale dell’azienda, con l’opzione “acquisto guidato”. Visto che la pagina di conferma non si caricava, l’uomo ha continuato a tentare di “effettuare l’acquisto” per 2 ore. Il conto è arrivato tutto insieme, con molti ringraziamenti della Tesla: 27 automobili per un totale di 1,4 milioni di euro. L’uomo deve aver avuto un infarto, ma è sopravvissuto. Ha segnalato l’errore alla Tesla, è riuscito a annullare l’operazione e comprare una macchina sola. La prossima volta andrà in concessionaria.

 

In Austria riaprono i bordelli, ma sempre occhio al Covid: prostitute in mascherina, niente baci e divieto di orge
Per la gioia di un nutrito popolo di transfrontalieri, la scorsa settimana l’Austria ha riaperto le case chiuse e restituito piena agibilità al sesso a pagamento. Grandi caroselli sul confine del Brennero. Non va dimenticato però che siamo ancora nel mezzo di una trascurabile pandemia. E quindi il ministero della Salute austriaco ha dovuto pubblicare una lista di raccomandazioni per provare a limitare i danni. Potrebbero risultare scoraggianti. La principale: prostitute e clienti devono indossare la mascherina (usa e getta, per comprensibili motivi). Il ministero inoltre esorta a “limitare il contatto fisico al minimo”, evitare i baci, non avvicinare i volti. Sono chiaramente vietate le orge: il sesso di gruppo non è compatibile con i tempi. I bordelli in Austria sono una cosa seria: danno lavoro a oltre 8mila persone; sono a tutti gli effetti un’attività produttiva da tutelare. Nell’ennesimo conflitto di interessi tra lavoro e salute, stavolta ha trionfato l’amore.

 

Torna a casa sua dopo la quarantena e scopre che le patate-mutanti hanno sviluppato dei tentacoli
Immaginate la scena: una ragazza francese di nome Donna Porée torna a casa dopo tre mesi di lockdown, durante i quali ha vissuto nell’appartamento del fidanzato. Quando apre la porta, trova di fronte ai suoi occhi uno spettacolo raccapricciante. C’è una specie di orribile pianta rampicante rosa, che ha allungato i suoi tentacoli sottili sulle pareti e sui mobili della cucina. Sembra una creatura mutante uscita da un filmaccio horror splatter. Invece è la strana forma che ha preso la muffa delle patate andate a male. Dopo qualche minuto di terrore, infatti, la ragazza comprende la natura di quelle orribili radici allungate, che provengono dal sacchetto di tuberi acquistato per due euro e mezzo prima della quarantena, lasciato a marcire su uno scaffale. Le operazioni di bonifica delle patate mutanti, sostiene Donna, sono durate diverse ore. Nessuno si è fatto male.

 

Il titolo della settimana Viene chiamato “indiano di m…”  ma non può sporre denuncia perché in realtà è bengalese
Per la preziosa rubrica “Il titolo della settimana”, questa settimana i vincitori sono gli amici di Repubblica. La notizia è comparsa nella cronaca di Torino: “Insulti razzisti a un negoziante: ‘Indiano di m…’, ma il pm chiede l’archiviazione: ‘È bengalese’”. Una storia struggente. “La discussione era nata quando il titolare e un dipendente di un minimarket, in via Bava a Torino, si erano fermati con l’auto nell’androne di un palazzo per scaricare della merce – scrive Repubblica –. Ne nacque un diverbio con due condomini che, secondo quanto riferito dai due negozianti bengalesi, presero a insultarli pesantemente: ‘Indiani di merda, tutta Torino è piena di indiani’ e ancora ‘Mettiamo una bomba e ti bruciamo il negozio’”. I due stranieri giustamente hanno sporto querela, ma il pm che si è trovato in mano il fascicolo, Fabio Scevola, ha subito chiesto l’archiviazione del caso. Motivazione? “L’insulto razziale, se pronunciato, non è perseguibile e comunque si parlava di indiani con persone bengalesi”. Non fa una piega, complimenti.

 

Guinness dei primati: a Dublino finalmente riaprono i pub Il primo giorno un cliente paga 42 birre in un’ora e 45 minuti
“Il vostro lockdown non fermerà la nostra sete”, dicevano. In Irlanda è stato provato. Come riporta il Dublin News, nel primo giorno di riapertura dei pub dopo la quarantena da Covid un cliente ha speso 222 sterline in un’ora e 45 minuti, acquistando 42 pinte di birra Guinness. Lo scontrino ovviamente ha fatto il giro del web. L’eroe locale non se l’è bevute tutte da solo: alcune le ha offerte. I testimoni garantiscono che la sua performance è stata comunque notevolissima. D’altra parte l’ansia da prestazione è molta: i pub irlandesi hanno finalmente riaperto i battenti il 29 giugno dopo una lunghissima serrata, ma le misure cautelari anti-Covid ancora in vigore non permettono agli avventori di sostare per più di 105 minuti all’interno di bar e locali. Per questo bisogna essere pronti a dare fondo alle proprie risorse in un’ora e 45. Il popolo irlandese ha risposto alla grandissima. Sui social circola un altro scontrino degno di nota: 31 pinte di Heineken per un conto di 160 sterline, sempre in meno di due ore.

 

Perde una scommessa e fa il bagno nell’acquario di un ristorante. Un tiktoker ora rischia il processo
Siccome all’imbecillità non esiste un limite apparente, un giovane eroe dei social network si è conquistato una comparizione in tribunale per tener fede a una scommessa. Il nostro aveva promesso ai suoi fan di Tik Tok che se avesse raggiunto i 2mila like si sarebbe fatto una nuotata nell’enorme acquario di Bass Pro Shops, una catena americana di articoli per la caccia e la pesca. È stato di parola. Il 26enne della Louisiana Kevin Wise si è lanciato nella vasca piena di pesci, si è fatto una nuotata ed è scappato via dal negozio tutto bagnato. Uno dei dipendenti però l’ha ripreso con il cellulare. Il fenomeno della rete è stato identificato (i proprietari del negozio hanno dovuto svuotare 13mila galloni d’acqua per ripulire l’acquario) e adesso su di lui pende un’indagine per vandalismo (“simple criminale damage to property”). Il giovane Wise (che in italiano molto appropriatamente significa “saggio”) ha detto che ci teneva a mantenere fede al suo impegno, ma ha sconsigliato ai suoi followers di imitarlo.

“L’Italia è incerottata. E ora ho l’età per fare il senatore a vita”

Reinhold Messner è ancora un giovanotto. “Ho 76 anni, sono un vecchietto. Potrei fare il senatore a vita”.

Vorrebbe?

Beh il mondo un po’ lo conosco. Ho scarpinato ovunque, credo di essere atterrato nelle viscere di un centinaio di Paesi e aver scalato tutte le loro cime.

Tremilacinquecento spedizioni, in vetta su tutti gli ottomila metri del pianeta.

Il senso di una sfida che non muore mai.

Ora, placido, sta nel Castello di Juval in val Venosta. Da lassù come vede l’Italia?

Tutta ancora incerottata dal Covid. Senza però la passione di una volta, quella voglia che ci mangiava al tempo del dopoguerra. Era una sensazione collettiva di voler sfidare la povertà e vincerla, di cercare il futuro ovunque e in qualunque condizione.

Ma quello era il dopoguerra!

È vero, il contesto non è paragonabile. Però il coronavirus sta cambiando il mondo sotto i nostri occhi.

Cambia l’idea di Stato.

La pandemia ha distrutto i legami internazionali e rinchiuso tutti nella propria casa. Nei tre mesi più feroci della pandemia l’Europa si è dissolta. L’Italia ne ha avuto una percezione diretta, immediata. Perciò quel che si immagina oggi col Recovery Found è la risposta obbligata, giusta, adeguata. La Merkel sta facendo un gran lavoro.

Lei è un grande estimatore della Cancelliera.

La conosco bene, viene a passeggiare da me. È una statista, si rende conto che siamo alla prova finale e non c’è un girone di ritorno.

La Merkel ha l’energia che manca all’Italia?

La disciplina degli italiani durante il lockdown è stata encomiabile. Il problema è che a quella disciplina ora non corrisponda un’energia vitale per guadare il torrente della crisi. Sono acque profonde dentro le quali si può morire.

La passione manca.

Da alpinista ho praticato il metodo della rinuncia: all’aria quando scarseggiava, al cibo quando mancava. La rinuncia è la capacità di aggredire la crisi, di approfondire la conoscenza del sacrificio, e poi di saperlo gestire.

Ma se non c’è passione dove si trova la capacità di affrontare il sacrificio?

Il sacrificio è un effetto collaterale della passione. Quanto ingegno ci metti, quanta fatica e dedizione impegni per raggiungere il traguardo? Quanto sei disposto a rinunciare pur di arrivarci? Se è modesta la dose d’ingresso, anche il forfait sarà dietro l’angolo.

L’Italia è mollicciona.

Io sono figlio del boom del dopoguerra. La vita l’abbiamo mangiata con le mani, aggredita, conquistata. C’è questa voglia in giro oggi?

Solo i cinesi sembrano averla.

Infatti gli Usa saranno sconfitti dalla Cina. E quel mondo lì sarà egemone. È nelle cose, e anche nella capacità dei cinesi di avanzare senza aprire conflitti armati. Non guerreggiano con le armi ma con i mercati. Cos’è la via della Seta se non un corridoio che attira ed espande? In Pakistan hanno realizzato un porto grande quanto dieci dei nostri.

La sua diagnosi è infausta.

Io invece penso che sarà possibile un nuovo Rinascimento.

Dopo tutto il Rinascimento seguì a una grande pandemia.

L’ingegno ce l’abbiamo, il talento è nel dna, lo spirito d’avventura non ci manca. Io sono sudtirolese: sei chilometri da qui e guardo l’Austria, volto lo sguardo e vedo l’Italia. Il vizio che divide nord e sud d’Europa è l’idea che il litigio possa divenire un sistema di relazione, che il governo debba essere obbligatoriamente figlio di un litigio, che anzi la litigiosità sia una virtù necessaria. Chi non litiga sparisce dal confronto pubblico, perde posizioni, riduce la propria reputazione. Quando la classe politica capirà che il litigio è un vizio inescusabile, che brucia il credito internazionale e soprattutto non risolve i problemi, allora la strada sarà in discesa.

L’Italia è tutta scucita.

L’ago e il filo ci sono. Bisogna metterci la testa e poi adoperare le mani per ricucirla.

Più facile arrampicarsi sull’Himalaya.

Ogni cosa impossibile è poi alla nostra portata.

Lei sarà senatore a vita.

Lei dice?

Rai, ancora tagli sugli artisti e gli esterni

I prossimi palinsesti, presentati oggi in Cda e il 16 luglio agli investitori, stanno provocando psicodrammi in casa Rai. Perché quelli della stagione 2020-2021 saranno per forza di cose al risparmio. Lacrime e sangue. I tagli, annunciati dall’ad Fabrizio Salini, viaggeranno tra il 10 e il 20%, e in alcuni casi anche oltre. E nelle reti è già scattato l’allarme rosso per far quadrare i bilanci, perché ogni programma dovrà fare i conti con sforbiciate su personale, scenografie, compensi dei conduttori, eccetera. Tagli dovuti soprattutto al minor incasso pubblicitario per il calo d’investimenti delle aziende a causa Covid. Così, se il fatturato di Rai Pubblicità nel 2019 è stato di 635 milioni di euro, per il 2020 si prevede un calo del 17%: mancheranno all’appello circa 108 milioni. Anche per questo si prevede che il bilancio generale di quest’anno chiuderà con un rosso di 80 milioni e potrebbe andare peggio nel 2021. La parola d’ordine, dunque, è tagliare. Da qui l’input di Salini per “prime serate più corte” e meno produzioni esterne. Insomma, i programmi appaltati fuori (nel 2019 sono stati il 29%), quest’anno saranno di meno. E su questo terreno la Rai potrà contare su 230 giornalisti appena regolarizzati tra i precari.

Ma vediamoli, questi palinsesti. Su Raiuno cambiano i conduttori di “Uno mattina”: arriverà Monica Giandotti più un secondo da decidere (Giorgia Cardinaletti?), con Roberto Poletti spostato a far l’inviato de “La vita in diretta”, programma che sarà condotto in solitaria da Alberto Matano, dopo la burrascosa uscita di scena di Lorella Cuccarini. Pierluigi Diaco, tra un pianto e una litigata, resta sulla rete ammiraglia, dove è già tornata Monica Maggioni. L’ex presidente in autunno condurrà “60 minuti”, titolo ambizioso che ricalca quello del noto programma della Cbs. Altre novità su Raiuno saranno “La casa nel bosco”, con Antonella Clerici, al posto de “La prova del cuoco”, l’arrivo nel pomeriggio di Serena Bortone e il sabato sera di Nunzia De Girolamo che, con “Ciao Maschio!” (titolo dal film di Marco Ferreri), vorrebbe rifare una sorta di Harem, il programma che fu di Catherine Spaak. Su Rai2il sabato mattina ci sarà Milo Infante con “Generazione giovani” (titolo che sarebbe stato vecchio pure negli anni ’60). Tutto nuovo, invece, “Seconda linea”, talk del giovedì in prima serata condotto dall’inedita coppia Alessandro Giuli-Francesca Fagnani. Annalisa Bruchi e Aldo Cazzullo continueranno con “Patriae-Restart” il mercoledì. Su Raitre, infine, alla conduzione di “Agorà” è in arrivo Luisella Costamagna, mentre la domenica torna Fabio Fazio. Sui nuovi palinsesti, tra l’altro, varrà la nuova policy secondo cui devono restare ben distinti i ruoli di conduttore, produttore e agente. Questi ultimi sono sul piede di guerra perché non potranno avere più del 30% di artisti in un programma, a meno che non si tratti di un “one man show” o una conduzione in coppia.

Per quanto riguarda le nomine, ci sono poi da fare il nuovo direttore di Rai Fiction (tutto tace) e i vice direttori di rete, con Angelo Mellone (ex finiano) che, spinto da Fdi e Giampaolo Rossi, punta a Rai2 dopo anni da capostruttura. Infine, Gigi Marzullo. Sarebbe dovuto andare in pensione ma, forte di 500 giorni di ferie arretrate, potrebbe spuntare un altro contratto. Tutto cambia, in Rai, per non cambiare nulla, come direbbe Tomasi di Lampedusa.

Stagione al risparmio

Oggi in Cda Saranno presentati oggi in Cda i prossimi palinsesti Rai. La nuova stagione sarà al’insegna del risparmio. I tagli viaggeranno tra
il 10 e il 20%,
e in alcuni casi
anche oltre. Ogni programma dovrà fare i conti
con sforbiciate
su personale, scenografie, compensi dei conduttori e così via

Non solo Maroni e Alfano: Sua Sanità ingaggia spioni

Non ci sono soltanto ex ministri (sempre di centrodestra). Il Gruppo San Donato di Paolo Rotelli, primo in Italia nella sanità privata e attivo in Lombardia, assolda non solo politici del calibro di Angelino Alfano e Roberto Maroni, ma anche agenti segreti. Nell’Aise (i servizi segreti per l’estero) in questi giorni si sta giocando la partita per decidere le nomine dei nuovi vertici. Come direttore è già arrivato Gianni Caravelli, al posto di Luciano Carta, diventato presidente di Leonardo. Mancano le nomine dei vice (che potrebbero arrivare a breve).

Sono due le caselle da riempire: c’è quella lasciata libera da Caravelli e poi quella occupata da Giuseppe Caputo, generale della Guardia di finanza arrivato all’Aise molti anni fa e che ora ha presentato domanda di “collocamento a riposo”, ossia pensione, con decorrenza da fine luglio. Caputo poi andrà al San Donato, il gruppo che conta 19 tra ospedali e cliniche, più di 5 mila posti letto, 4,3 milioni di pazienti curati ogni anno, 16 mila addetti e che nel 2018 ha fatturato di 1,65 miliardi, in buona parte provenienti dai rimborsi pubblici regionali per la sanità accreditata.

Caputo entrerà nell’“Ufficio compliance, protezione aziendale e relazioni con le istituzioni”, che cura la security del gruppo e tiene i contatti politici e istituzionali. Affiancherà un vecchio collega, Claudio di Sabato, anch’egli ex generale della Gdf ed ex ufficiale dell’Aise, arrivato al San Donato nel 2019 e che resta il numero uno.

Caputo dovrà occuparsi delle relazioni istituzionali e della sicurezza, in vista della programmata espansione del gruppo San Donato nei territori del Sud Italia. “Avevamo bisogno di una figura professionale come la sua per operare in un territorio complicato come il Meridione, a rischio di infiltrazioni criminali”, spiegano fonti del gruppo.

Così si è pensato a un professionista che in Aise ha messo piede nel lontano 1998 e che è poi stato capo di gabinetto di Alberto Manenti, quando questi guidava i servizi segreti per l’estero, per poi diventarne vicedirettore.

Con l’arrivo dello 007 si completa la squadra di vertice del San Donato. Nel luglio 2019 era stato scelto l’ex delfino di Silvio Berlusconi e poi fondatore del Nuovo Centro Destra, Angelino Alfano, chiamato con il ruolo di presidente del San Donato. Nel giugno 2020, invece, sono stati formati i nuovi consigli d’amministrazione delle società del gruppo. Tra i nuovi arrivi c’è stato anche Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno e del Lavoro e fino al 2018 presidente della Regione Lombardia, entrato nel cda degli Istituti clinici Zucchi, una delle strutture sanitarie del gruppo. E poi c’è Augusta Iannini, ex magistrato di Roma, capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia e poi vicepresidente dell’Autorità garante per la privacy. Iannini, moglie di Bruno Vespa, è entrata a far parte del consiglio d’amministrazione della holding e in quello dell’Ospedale San Raffaele, fiore all’occhiello del gruppo.

E dunque: Alfano, Maroni, Iannini. Impossibile non notare come gli organigrammi del gruppo siano pieni di figure che vengono da partiti e da ministeri, personalità che di certo durante la loro carriera hanno tessuto non pochi rapporti. Inoltre, gran parte del fatturato del San Donato proviene dai soldi pubblici, tramite gli accreditamenti che i suoi ospedali hanno ottenuto, a partire dai bei tempi della riforma di Roberto Formigoni che ha aperto il sistema sanitario lombardo ai privati (un modello che durante la crisi Covid ha mostrato tutti i suoi limiti).

Ma forse la politica non basta. Al gruppo evidentemente serve anche chi ha avuto esperienze di primo piano nelle strutture dell’intelligence.

Divisa nazista e saluto romano: Meloni faccia chiarezza sul fascismo

Giorgia Meloni, si sa, è furba. Continua a dire che lei del fascismo non si occupa perché è troppo giovane, e ciò basterebbe a garantire che non è mai stata fascista. Ma non può foderarsi gli occhi di prosciutto o, se preferite, tenere i piedi in due staffe.

Ieri il suo partito ha pubblicato (e poi rimosso) la fotografia di un militante che faceva il saluto romano davanti a un banchetto per la raccolta firme nel centro di Parma. Contemporaneamente veniva divulgata l’immagine di un consigliere comunale friulano di FdI, Gabrio Vaccarin, con indosso la divisa da SS nazista e alle spalle il ritratto di Adolf Hitler. Per non parlare di Ignazio Larussa che proponeva di trasformare il 25 aprile in giornata nazionale di lutto per le vittime del Covid. E del presidente siciliano Nello Musumeci che fieramente proclama: “A nessun albero si può chiedere di rinnegare le sue radici”.

Giorgia Meloni deve prenderne atto: non si dà in natura un partito politico che sia contemporaneamente di destra democratica e fascista. Le due cose sono incompatibili perché il fascismo è una dottrina che nega la democrazia.

Quando, nel 2003, Gianfranco Fini dichiarò a Gerusalemme che “il fascismo è il male assoluto”, molti degli attuali dirigenti di Fratelli d’Italia, da Francesco Storace a Daniela Santanchè, lo presero a male parole. E irrisero la sua scelta di indossare una kippà a Yad Vashem, il sacrario della Shoah.

La formazione politica di cui Giorgia Meloni ha assunto la guida nel 2014, ripristinando la fiamma tricolore del Msi nel suo simbolo, nacque in diretta polemica con la svolta afascista che Fini aveva impresso a Alleanza Nazionale. I nostalgici del Duce tornarono ad assumervi ruoli di primo piano, sia a livello nazionale che nelle amministrazioni locali. L’esponente di FdI che lei stessa ha indicato come candidato del centrodestra nella regione Marche per le elezioni del settembre prossimo, Francesco Acquaroli, ha presenziato il 28 ottobre scorso a una cena celebrativa della marcia su Roma, sul cui invito comparivano un fascio littorio e lo stemma del suo partito. Potrei continuare con altri numerosi esempi.

Non solo in Italia, ma in tutto il mondo, il fascismo è una pianta infestante che si ramifica in forme nuove. Troppo facile liberarsi del problema con una scrollata di spalle sostenendo che si tratta di un fenomeno del passato. Nessuno è così stupido da pensare che ritornino le camicie nere di Mussolini, anche se, come dimostra da ultimo la divisa nazista esibita dal consigliere Vaccarin (non pensino di cavarsela dicendo che non ha la tessera del partito: lo hanno eletto loro) i nostalgici di quella pagina infame della storia nazionale pullulano ringalluzziti da troppa scandalosa indulgenza. Così come i sostenitori della “democrazia illiberale” che già vediamo in azione in Ungheria.

Giorgia Meloni pretende di mostrarsi donna moderna protesa alla guida di una destra di governo, ma intanto si avvale di una struttura di partito composta in larga misura di epigoni del passato che non passa. A essere benevoli, si potrebbe dire che li tollera. Anche se è più verosimile ritenere che faccia il doppio gioco: confidando sulla sua immagine di giovanile intraprendenza per nascondere sotto il tappeto qualcosa che somiglia più a brace ardente che a polvere.

Questo doppio gioco non può continuare a lungo. Il suo silenzio è sinonimo di complicità. Né può nascondersi dietro alla sua giovane età: 43 anni sono sufficienti per dire con parole chiare cosa pensa del fascismo e dei fascisti cui continua a dare spazio nel suo partito.

“Alleanze possibili, però il Pd cambi nomi e idee”

Discutere con il Pd di alleanze nei territori si può: però serve di più dai dem, ossia “è necessario che diano segnali sui programmi e sui nomi, nel segno della discontinuità”. Così la pensa Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente del Parlamento europeo, 5Stelle al secondo mandato in Europa.

Il premier Giuseppe Conte ha invocato accordi nelle Regioni tra voi e il Pd.

Condivido le finalità dell’intervento del presidente del Consiglio. Il M5S è sempre stato aperto al confronto sui temi, per portare avanti programmi ambiziosi imperniati su punti come la tutela dei beni comuni, la transizione energetica e il potenziamento del sistema sanitario pubblico. Ma a noi non interessano accozzaglie di liste per accaparrarci poltrone. Quindi dal Pd ci aspettiamo discontinuità, nei programmi e nei nomi. E finora non si è vista a sufficienza.

Scendiamo nel dettaglio delle singole regioni.

In Liguria facciamo fatica a confrontarci con le tante sensibilità diverse dei dem. Mentre in Campania già mesi fa avevamo proposto come candidato un uomo della legalità come il ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Ma ha prevalso la logica del controllo del territorio, quindi la ricandidatura di Vincenzo De Luca.

Nelle Marche e in Puglia?

Nelle Marche auspico che possa esserci un confronto, mentre in Puglia capisco che vi siano criticità e sensibilità da parte dei consiglieri uscenti del Movimento rispetto al presidente Michele Emiliano. Anche se a mio avviso Emiliano ha un profilo migliore e più affine a noi di De Luca. Ma il nodo è più generale: il Pd deve accettare un salto nell’impostazione, sui temi e sui nomi. Servono figure di alto profilo. I dem non possono calare candidati e programmi dall’alto, perché il M5S non può appiattirsi su uno schema altrui.

Se le Regionali dovessero andare male soprattutto per il Pd, il segretario dem Zingaretti rischierebbe grosso. E con lui il governo Conte. È d’accordo?

Le Regionali non sono un voto nazionale. Però è indubbio che un esito molto negativo potrebbe creare malumori e instabilità che avrebbero ripercussioni sull’esecutivo. Dobbiamo tenerne conto e promuovere il confronto: ma senza mercanteggiare al ribasso su nulla.

Il no del Movimento al Mes sembra traballare. Luigi Di Maio ha detto al giornale austriaco Die Presse che “sul fondo salva stati non c’è alcuna battaglia ideologica, ma un negoziato aperto che sta portando avanti il premier Conte, e noi abbiamo fiducia nelle sue parole”.

Condivido le parole di Di Maio quando sottolinea che sul Mes la nostra non è una battaglia meramente ideologica: le nostre critiche sono sempre state nel merito, ossia sul profilo giuridico del fondo salva stati.

Tra i vostri affiora più di un dubbio, è evidente.

La grande maggioranza del Movimento era e rimane su un’impostazione critica. Anche se sono state allentate le condizionalità per l’accesso al fondo, ne restano alcune per il rientro dal prestito, come il sistema di allerta rapido e i controlli post programma. Nessun Paese lo vuole utilizzare. E se lo facesse l’Italia rischieremmo l’effetto stigma, ossia di riconoscere in via implicita che non sappiamo finanziarci sul mercato, esponendoci così al rischio di speculazioni.

La distanza tra voi e il Pd sul Mes può far sbandare il governo, no?

Noi e i dem siamo d’accordo sul fare ricorso a Sure, Bei e Recovery Fund: e non è affatto poco. Dopodiché, non vorrei che qualcuno insistesse sul Mes per fini elettorali, magari pensando di sbandierare risorse e promesse per la sanità di singole Regioni. Sarebbe profondamente sbagliato. E c’è altro.

Cioè?

Tra chi spinge per il fondo salva stati c’è anche qualche nostalgico del Patto del Nazareno tra Pd e Forza Italia. Ma il M5S è l’antidoto a tutto questo.

Sicuro che i voti di Fi non siano un tentazione anche per il Movimento?

Per la stragrande maggioranza del M5S no, glielo assicuro.

Il piano del governo: “7 miliardi alle scuole e mai più condoni”

L’Italia era rimasto l’unico grande Paese Ue a non averlo ancora inviato a Bruxelles. Il Piano nazionale di Riforma è però pronto al ministero dell’Economia. L’intenzione di Giuseppe Conte e del ministro Roberto Gualtieri è di approvarlo al prossimo Consiglio dei ministri, tra oggi e domani. Stando alle bozze, le idee sono, per così dire, ambiziose: basta condoni, riforma fiscale, salario minimo e maggiori investimenti, specie in infrastrutture, ma anche su scuola, università e sanità.

Di norma il Pnr viene allegato al Documento di economia e finanza di aprile. È un sunto di buone intenzione con scarso peso politico. Stavolta però serve al governo per dare le linee guida del “Recovery plan”, il programma che a settembre consegnerà alla Commissione per illustrare come vuole usare i soldi (quanti, e in che modalità, ancora non è chiaro) del piano europeo anti-crisi, in discussione al prossimo Consiglio europeo del 18 luglio.

“Non vi è tempo da perdere per evitare una fase di depressione economica”, premette Gualtieri nel testo. Il primo obiettivo dell’esecutivo è “una riforma complessiva della tassazione diretta e indiretta”, compresa quindi l’Iva. Il governo promette di stringere sulla lotta all’evasione, ma “non sono previsti nuovi condoni”. Non è una banalità, perché finora gli ultimi tre esecutivi hanno fatto cassa con le “rottamazioni” delle cartelle esattoriali mettendo a bilancio come “lotta all’evasione” ricavi ottenuti da condoni in piena regola. La promessa è anche di insistere per far entrare in vigore nel 2020 la web tax portando avanti il negoziato in sede europea.

Sul lato sociale, il governo ritenta anche la carta del salario minimo orario, “collegato alla contrattazione collettiva”. Tradotto: piu che fissare una soglia a priori si useranno i minimi del contratti nazionali (idea cara al Pd, ma non ai 5Stelle, visto che in diversi casi si tratta di cifre assai basse). L’impegno è anche a potenziare il sistema dei centri per l’impiego e il Reddito di cittadinanza, che sarà sottoposto a un monitoraggio per valutarne “l’efficienza e l’efficacia” nel “migliorare la condizione del percettore” e delle politiche attive (a oggi circa 60mila percettori hanno trovato lavoro, il 20% di quelli presi in carico dai centri per l’impiego). Il testo ricorda anche la legge delega sul “family act”, che prevede nel 2020 un assegno universale per i figli e il sostegno all’educazione, e promette di riorganizzare la normativa sui congedi parentali e la promozione del lavoro femminile. Quota 100, la mini riforma delle pensione del governo Gialloverde, verrà invece lasciata scadere nel 2021, ma sul dopo le idee sono restano abbastanza vaghe (ci si limita a dire di voler favorrire “l’equità generazionale”).

La parte più rilevante, in chiave europea, riguarda gli investimenti. Il Pnr promette di portare gli investimenti al 3% del Pil nei prossimi 4 anni, grazie ai fondi del piano europeo (nel 2019 si sono fermati al 2,3% e l’obiettivo prima de Covid era di arrivare al 2,6% nel 2021). Il governo prevede di connettere in fibra ottica tutte le scuole statali superiori e medie nei prossimi due anni e di mettere fine al fenomeno delle “classi pollaio”. Per il rilancio post-Covid, spiega ancora il testo, “si punterà ad incrementare la spesa pubblica per la ricerca e per l’istruzione, in special modo terziaria, in misura pari complessivamente a 0,4 punti percentuali di Pil nei prossimi tre anni”, circa 7 miliardi.

Il governo spiega anche di voler investire nella sanità, specie nell’edilizia sanitaria dove “il fabbisogno di intervenit infrastrutturali è di 32 miliardi”, cifra molto simile ai 36 miliardi di prestiti che offre il controverso Meccanismo europeo di stabilità (Mes) a cui il Pd vorrebbe accedere nonostante i rischi dello strumento. Il grosso della spesa, però, sarà sulle infrastrutture, quelle digitali (5G e banda ultralarga), ma soprattuto quelle di trasporto. Qui spicca l’Alta velocità ferroviaria, che l’apposito piano nazionale vuole portare da Nord a Sud (così da “poter arrivare da tutta Italia a Roma in 4 ore e mezza”), grandi infrastrutture costose, con tempi lunghi e bassa sostenibilità finanziaria.