Ma mi faccia il piacere

Poliglotta. “Il libro di Annalisa Chirico: ci vorrebbe la triade Salvini-Draghi-Renzi” (Vittorio Feltri, Libero, 5.7). Ma poi ci vorrebbero pure tre lingue come le sue per leccarli tutti e tre.

Autonomia differenziata. “Se il Covid è ripartito la colpa è anche del governo” (Luca Zaia, Lega, presidente Regione Veneto, La Stampa, 5.7). É l’“autonomia differenziata”: se il virus sparisce, è merito della Regione; se ricompare, è colpa del governo.

Nostalgia canaglia. “Genova, lettera di Autostrade al commissario: ‘Siamo pronti a gestire il nuovo ponte’” (La Stampa, 5.7). L’assassino torna sempre sul luogo del delitto.

La Mes-tatrice. “Attivare il Mes per essere più credibili in Ue” (Veronica De Romanis, La Stampa, 29.6). Se non lo vuole nessuno, è perchè fanno tutti a gara a chi è meno credibile.

Ball Party/1. “Fondo un partito perchè per lasciare l’Ue ci vogliono le palle” (Gianluigi Paragone, ex Lega, ex M5S, ora gruppo misto, Libero, 29.6). Quelle che racconta lui.

Ball Party/2. “Voglio stampare moneta” (Paragone, ibidem). Ha già trovato la tipografia: quella di Totò e Peppino.

Transennate i seggi. “Veneto, per i renziani c’è Sbrollini” (Corriere della sera, 4.7). Ah, beh, allora: sono soddisfazioni.

Berticasta. “Se rinuncerei al vitalizio? Domanda stupida a cui sarebbe stupido rispondere di sì” (Fausto Bertinotti, ex leader Rifondazione comunista, 27.6). Mai come gli stupidi che ti han votato per 20 anni.

La pulce con la tosse. “Conte si muova: le risorse ci sono” (Emma Bonino, La Stampa, 30.6). Se no?

Senti chi inquina. “L’onda verde che non tocca il Belpaese” (Massimiliano Panarari, La Stampa, 3.7). Ha parlato l’house organ del Tav Torino-Lione.

Brava Lucia. “Nella gara tra incapaci la Azzolina stravince” (Maurizio Belpietro, La Verità, 28.6). “La perfida Azzolina lascia senza docenti le scuole del Nord” (Libero, 3.7). Servono altre prove per dimostrare che è bravissima?

Mai dire anti. “L’antiberlusconismo è stato il più grande incubatore del populismo della storia italiana. Prima sarà chiaro e prima saremo in grado di combattere davvero il populismo” (Claudio Cerasa, Il Foglio, 3.7). Quante parole per dire che B. paga meglio di tutti.

Solo in Italia. “Salvini ‘disgustato’ dai pm: ‘Solo in Italia esistono certi tribunali’” (Libero, 2.7). Quelli che, se rubi 49 milioni allo Stato, te li lasciano restituire in comode rate per 79 anni.

Il palo. “E Bonafede fa scappare pure il super bandito Mesina” (il Giornale, 4.7). Gli ha annodato personalmente il lenzuolo alle sbarre.

L’estremo oltraggio. “Il giudice Franco, una persona perbene” (Silvio Berlusconi, Il Riformista, 3.7). Povero defunto, non meritava.

Martellate. “Voglio restituire l’onore ai socialisti. Il principale punto di distinzione fra me e Craxi riguarda la questione morale” (Claudio Martelli, ministro della Giustizia e vicesegretario Psi, 4.9.1992). “Craxi non ha voluto usare la scopa o la spada contro i corrotti” (Martelli, 12.9.92). “Se il Psi rischia la liquidazione, è̀ anche perchè Craxi ha invitato i cittadini ad andare al mare anzichè votare i referendum. C’è chi ha lasciato che il malcostume si diffondesse e ha risposto in modo improvvido alle inchieste giudiziarie sulla corruzione” (Martelli, 28.11.92). “Io ero una specie di ideologo del partito, ho avuto la fortuna di non dovermi occupare di tangenti. Le mie campagne elettorali le ha sempre pagate il partito, proprio per il mio ruolo e il mio rapporto con Craxi. Chi le ha pagate? Questo, per fortuna, non lo so. Ma a Milano io vedevo quel che accadeva e denunciavo. Dal 1982” (Martelli, 23.12.92). “Il plotone di esecuzione per Berlusconi lo conosciamo bene: è quello che ha preso la mira su di noi nel 1993, decidendo di far fuori una classe politica” (Claudio Martelli, pregiudicato per la maxitangente Enimont, Il Riformista, 1.7.2016). Solo che, mentre il plotone di esecuzione prendeva la mira, Martelli già sparava da mesi.

Somaretti. “Certo è proprio un ciuccio: gli spieghi le cose, chiare chiare, poi gli dici: ‘ripeti’, e lui ripete tutto sbagliato. Sto parlando di Marco Travaglio, l’avete capito, no? C’è un argomento che proprio non gli entra in testa: il Diritto… Gli avevamo spiegato che non è vero che il 1° agosto 2013 sarebbe scattata la prescrizione e il processo a Berlusconi sarebbe morto lì, e che per questo motivo i giudici della Cassazione si spicciarono e scelsero la sezione feriale… Non è vero: la prescrizione non sarebbe scattata il primo agosto. Lui niente. Ieri ha fatto tutta intera, o quasi, la prima pagina… ripetendo la sciocchezza. Il 1° agosto, il 1° agosto! E ha pure pubblicato la foto di un foglio di carta, che viene dalla Corte d’Appello di Milano, con scritto: ‘Urgentissimo, la prescrizione scatta il primo agosto’…” (Piero Sansonetti, Il Riformista, 1.8). Naturalmente le annotazioni “Urgentissimo” e “Prescrizione 1.8.2013” sono della III sezione della Cassazione, come si vede dalla gigantesca intestazione “Corte Suprema di Cassazione”. Che Sansonetti non sapesse scrivere, era noto: ora è ufficiale che non sa neppure leggere.

Raffaello, il Beethoven della pittura che amava le signore, l’Urbe e la classicità

La mostra dedicata a Raffaello alle Scuderie del Quirinale, nel cinquecentesimo anniversario della prematura morte, è stata l’avvenimento culturale più importante dell’anno. L’ha organizzata la Ales, di proprietà del ministero per i Beni e le attività culturali, presieduta da Mario De Simoni. Altrettanto importante è il volume al Sommo dedicato dalla stessa mostra (edizioni Skira), a cura di Marzia Faietti e Matteo Lafranconi.

Il volume contiene la riproduzione a colori degli opera omnia dell’Urbinate e una serie di saggi critici di notevole livello. A sfogliarlo, si resta stupiti per la mole di lavoro affrontata da Raffaello in soli trentasette anni di vita; la mia attenzione si volge poi soprattutto sulla quantità dei disegni e dei cartoni: sono capolavori in se stessi, e basterebbero a palesare la primazia al loro Autore attribuita dal concorde mondo dell’arte. Lo si definì il Virgilio della pittura, ed è così: l’Urbinate accosta ai toni intimi e preziosi delle Madonne una grandiosità classica: La scuola di Atene, L’incendio di Borgo, La cacciata di Eliodoro dal tempio. Sono tre affreschi delle Stanze vaticane. Onde non mi sembra di accettare il consueto binomio Raffaello-Mozart; piuttosto l’Urbinate va accostato a Beethoven.

I disegni, i dipinti e gli affreschi palesano il legame intimo, e che spezzare sarebbe impossibile, di Raffaello con il mondo classico e con la città di Roma. L’incendio di Borgo, un miracolo cristiano dell’anno 847 e celebrato da Leone IV, diventa per lui un pretesto per una rievocazione dell’Eneide, con Enea, in primo piano a sinistra, trasportante sulle spalle il padre Anchise.

Invero, ciò testimonia anche sulla profondità di cultura e libertà di pensiero del Pontefice committente. Leone X, secondogenito di Lorenzo il Magnifico, aveva studiato tre anni con Angelo Poliziano; da lui e dal suo ambiente aveva ereditato un culto dei classici, la conoscenza del greco e del latino. Proveniva da un ambiente ricco e festevole; intuì subito il genio di Raffaello, lo antepose a ogni altro artista, Michelangelo compreso, si fece indimenticabilmente ritrarre. Sopravvisse all’Urbinate poco più di un anno ma guidò il cordoglio per la sua scomparsa, che coinvolse tutta Roma.

Il Papa, che aveva nominato Raffaello prefetto di tutte le pietre e tutti i marmi dell’Urbe e responsabile della Fabbrica di San Pietro, gli commissionò anche una pianta della città antica.

Il lavoro intrapreso e lasciato cadere per la morte è perduto; ma ci resta un’epistola esortativa al Papa, chiamata Il pianto di Roma, stesa in italiano da Baldassar Castiglione su invito e con argomenti dell’Urbinate. Anche archeologo, s’era fatto; il genio non conosce confini.

Axen: “Sarò Moana, una donna colta e libera”

Non è un caso che uno dei piatti svedesi tradizionali preferiti dall’attrice italo-svedese Euridice Axen sia il ricchissimo Janssons frestelse (la tentazione di Jansson). La leggenda vuole che il nome abbia origine dal celebre cantante lirico di fine ottocento Per Janzon ricordato come un godereccio buongustaio. È una pietanza dal gusto molteplice e sfaccettato: caldo, acido, sapido e dolce (lo troviamo a tavola nei giorni di festa nei romanzi di Kjell Westö, Camilla Läckberg, Arne Dahl).

Figlia dell’attore Adalberto Maria Merli e dell’attrice svedese Eva Axén (nota al pubblico italico come Eva Tavazzi), allo stesso modo Euridice negli ultimi dieci anni di indefessa attività ha dimostrato un gusto e un talento nastriforme dalle fiction al cinema: autorevole e misteriosa Capitano dei Ris, stronza e ammaliatrice in Le tre rose di Eva, e soprattutto di tamarra e verista bellezza nel dittico Loro per la regia sul grande schermo di Paolo Sorrentino. In mezzo, molti spettacoli teatrali col plauso di critica e platea.

Ed è proprio con il teatro che Euridice torna sulla scena, il 7 luglio al Napoli Teatro Festival con uno spettacolo su Moana Pozzi dal titolo Settimo Senso, tratto da un racconto di Ruggero Capuccio, adattato da Nadia Baldi, che ne cura anche la regia. “Moana, per me, è sempre stata un’icona e ho desiderato a lungo interpretarla. Per questo motivo, provo quella tipica e benevola ansia da debutto per lo spettacolo, che poi è un lungo monologo, il mio primo, che racconta con sincerità chi era davvero Moana, la donna che c’era dietro il personaggio, al netto della percezione che gli altri avevano di lei”. La percezione, infatti, è il velo di Maya con cui gioca il monologo. Prosegue Axen: “Moana è stata una donna libera, colta, intelligente, raffinata, ribelle. A un certo punto, in scena dico ‘Io sono il gioco per il gioco, il nulla per il nulla’ per esemplificare il fatto che la vera pornografia è promettere ciò che non si è, vendere la menzogna e per denunciare al contempo la corruzione e la politica, dato che, come dico sul palco, ‘Voi che non riempite quello che promettete, voi siete pornografici’. La reputo una cosa molto vera”

“Una vera e propria sfida anche fisica questo monologo,” spiega Euridice che ha dovuto lavorare molto sulla gestualità. “A somigliarle fisicamente, riempendo e imbottendo lì dove mi manca qualcosa (ride), c’è il trucco e parrucco. Ma ho molto lavorato nei gesti e nella voce. Ho dovuto, come dire, rallentarmi: laddove io sono scattante e rapida, son dovuta diventare morbida, calda e flessuosa.” Su un palco ricolmo di veli, infatti, Euridice-Moana si atteggia conturbante come un’epifania, o meglio una rêverie, che siede su di un trono enorme e appare di notte a uno scrittore, cui lei parla ora spaesandolo, ora seducendolo. Lui, fino alla fine, non sa se cederle o se tradirla per uno scoop giornalistico. È proprio vero quello che si chiede Margherita di Navarra nell’Heptaméron: “È meglio parlare, o morire?”.

“Le pallonate con Moretti e le continue bugie su di me: agli uomini faccio paura”

Che poi con Asia Argento basterebbe ascoltare le remote sfumature della voce per non affondare nell’inganno, per non associarla al suo alter ego, la dark lady tutto acceleratore, tutto spinto, tutto estremo, ogni manifestazione del corpo e dell’anima fuori dai parametri di sicurezza.

Asia Argento è altro, e quando parla sembra la Magnani che esalta le sue rughe: allo stesso modo non nega le sue cicatrici.

Per lei, oggi, l’emozione arriva con l’esame di maturità della figlia, “vissuta in prima persona, con addosso una tensione non gestibile. Alla fine sono scoppiata a piangere. Però ero lì, volevo essere lì, non potevo lasciarla sola come è capitato a me da bambina”.

Per lei, oggi, l’emozione arriva da aver diretto e interpretato un film proprio con sua figlia, ambientato nel mondo della moda, per raccontare la collezione di Antonio Grimaldi. Ed essere finalmente tornata a lavorare dopo un periodo (“troppo lungo”) di assenza e buio. “Mi sono ispirata al mito greco di Elettra, raccontato da Euripide e Sofocle, ma anche agli scritti di Jung; secondo Jung quando uccidi la madre, poi la fai rinascere, perché acquisti la sua moralità, quello che rinnegavi”.

Come mai ci ha pensato?

Volevo lavorare con mia figlia, non solo per questioni di oggettivo piacere: siamo state insieme in quarantena, desideravo esplorare gli effetti su noi due.

Risultato?

Ci sono stati dei contrasti, delle sue piccole ribellioni, dei piccoli bronci, poi degli abbracci: qualcosa di potente, ma prevedibile; tra me e lei scoppiano liti, ma durano cinque minuti, poi ci chiediamo scusa. Reciprocamente.

Genitore e amico.

No, genitore, e ancora genitore, poi amico; ci deve essere una componente di rispetto, per entrambi: non mi metto su un piedistallo, non detto regole e legge, però ai miei figli do la certezza delle presenza.

Lei c’è.

Sempre, compreso accompagnarli a scuola alle sette del mattino, o per la maturità.

Emozionata.

(Cambia tono, e un sospiro accompagna le parole) Una situazione pazzesca, da stare male, e poi è la mia prima volta.

Cioè?

Non ho frequentato l’ultimo anno di liceo, lavoravo, quindi in realtà ho la terza media, sono autodidatta; così non ho vissuto l’impatto dell’esame, ma ora un po’ ho recuperato.

Insomma, presente.

Non mi sono mai mossa, ho sudato tutto il tempo, poi cercavo di fingere sicurezza per non trasmette ansia. Lei calma. Lucida. Io fierissima. Quando ha finito sono scoppiata a piangere, singhiozzavo… (silenzio).

Sua figlia interviene nelle sue scelte?

Purtroppo sì, è protettiva, a volte giudicante, con una morale diversa dalla mia; ieri le ho detto: non ti ho insegnato a essere bacchettona! E poi io sono più solitaria di lei.

Vera Gemma racconta: “Tra me e Asia è nato qualcosa di speciale perché sono stata la prima a darle importanza”.

È vero, ma a 13 anni ero strana, sia come aspetto fisico, quindi un po’ rachitica, un maschiaccio con i denti storti, sia per il carattere timido: non mettevo le persone a loro agio.

Bel binomio.

E poi affrontavo un mondo interiore anomalo, mentre le mie sorelle erano le cocche di casa, il centro dell’attenzione.

E allora…

Gemma aveva quattro anni più di me e, nonostante la presenza delle mie sorelle, ha scelto di diventare mia amica. Incredibile. Finalmente potevo condividere, ascoltare e venir ascoltata. (Sorride). E poi la trovavo bellissima, corteggiata, intelligente e buffa; quello che avrei voluto essere io.

E…

Grazie a lei ho acquisito sicurezza; (ci pensa) oltre a Vera ho solo un’altra amica. E mi sono state vicine anche quando ero sconosciuta.

La prima volta che ha capito di essere un personaggio pubblico.

È stato allucinante; quella sensazione l’avevo già percepita accanto a mio padre, ma nulla ti può preparare al momento in cui entri in un posto e tutti ti guardano. All’inizio non capisci il motivo, pensi di avere qualcosa sul viso, di puzzare; poi comprendi.

Come perdere la verginità.

Per difendermi ho creato una sorta di alter ego, che poi gli altri hanno definito dark lady o cazzate simili, mentre l’obiettivo era preservare il mio giardino privato e non permettere a nessuno di entrare e scapricciare.

Altrimenti…

Quel giardino interiore non sarebbe sopravvissuto rispetto a questo mondo di falsità; per anni anche i miei coetanei mi hanno trattato con superiorità, schifati, poi all’improvviso tutti volevano dimostrarsi amici.

Un classico…

Per reazione mi sono ulteriormente isolata; (cambia tono) negli anni la dark lady è diventata un simulacro dello scandalo, le persone si fanno i cazzi miei, e a volte mi sento costretta ad andare in televisione per difendere la mia posizione.

Si riferisce a Weinstein…

Lì mi hanno pure definita “prostituta”, e sono stata malissimo, eppure questo mostro ora è in prigione ed è previsto un altro processo a Los Angeles.

Per stupro.

Appunto, e mi ha violentata quando avevo appena 21 anni: da quel giorno tutti i festival sono diventati una persecuzione, un inferno. Una volta ero a New York con un amico per girare un film: di notte Weinstein scopre dove siamo, arriva, solita scena, dà i pugni alla porta chiusa, fino a quando ci siamo così tanto spaventati da nasconderci in un armadio.

Eppure silenzio generale.

È arrivato a corrompere i portieri degli alberghi; il problema è che ci sono voluti anni per far capire all’opinione pubblica come stavano le cose, che lui era il maiale e io non ero la mignotta. (Pausa). E lo dico con il rispetto per le prostitute.


Su di lei c’è accanimento?

A volte mi domando perché la vita mi mette davanti queste prove, con una scadenza quasi perversa: quello che mi stupisce è come ogni volta io riesca a superarle nonostante il livello di sofferenza e difficoltà.

Una conquista.

Non voglio cadere nella sfera democristiana, ma forse un giorno verrò ripagata con la serenità giusta; (sorride). Ah, c’è pure una componente di sfiga.

In uno di questi casi è stata allontanata da X Factor.

È stata una cattiveria e un’ingiustizia, non sfiga; in un mondo di maiali viene cacciata una donna perché un quasi diciottenne dichiara che l’ho stuprato; anche meccanicamente è una barzelletta…

Quindi?

Lì ho pensato: non lavoro più.

Ne era certa.

In quel periodo ho pensato di vendere casa, sulla quale pago il mutuo; poi devo ringraziare Barbara D’Urso e i programmi come i suoi se mi sono ripresa, altrimenti era finita. Sono stata costretta a mettere la faccia.

Così non ha perso il suo percorso artistico?

E cosa dovevo fare? In poco tempo sono passata dai riflettori per Weinstein alla morte violenta del mio compagno (lo chef Anthony Bourdain, ndr). Stavo a terra e continuavano ad arrivarmi colpi, calci in viso, calci in pancia; voglio vedere qualsiasi artista alle prese con una situazione del genere e ho impiegato anni per riprendermi.

Lei attrice.

Non mi piace molto, da troppi anni sono su un set; amo più il teatro, da lì ricevo le emozioni giuste, c’è disciplina, costruzione, il confronto, e ti porta via da te, dalle cazzate.

Mentre il cinema?

Sono disamorata, perché ho dato tutto; meglio ancora la musica: ho appena inciso un disco, metà in romano, metà in inglese, e ci ho lavorato da casa mentre stavo a letto sempre con la gamba rotta.

Quando ha capito di essere un’artista?

Forse ci sono arrivata a 27 anni quando ho diretto il mio secondo film…

Con un “però”.

Dietro quella pellicola c’è un’enorme delusione, una ferita mostruosa: ero convinta che la storia fosse vera (tratta dal libro “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa”, una vicenda drammatica e in teoria autobiografica, poi rivelatasi una truffa); non ho cambiato una virgola del romanzo perché desideravo una sorta di catarsi, e invece mi hanno propinato balle per tre anni.

Truffatori.

Presa per il culo da un’associazione a delinquere; l’unica consolazione è che sono in buona compagnia con Madonna e Bono Vox.

Una botta…

Mi capita spesso: se mi fido di qualcuno, poi vengo sbugiardata dalla vita, ed è colpa mia perché non so scegliere le persone.

L’artista a cosa rinuncia?

Il più delle volte a se stesso, ad avere personalità; devi diventare una scatola vuota, e di questo non sono mai stata totalmente capace

Pericoloso.

L’azzardo peggiore è quando alla fine ci credi, pensi di essere qualcosa di importante, di bellissimo, il numero uno; la mia fortuna è stata quella di vivere differenti fasi: successi, capitomboli, nuovi successi, ti vogliono, si negano, e via così. Ho capito che non sono la più importante né la numero uno.

Non si è mai sentita una numero uno?

Solo da ragazza, poi la vita mi ha sistemata.

Sul set ha iniziato nel 1985, uno dei primi ruoli con Moretti.

(Tono bassissimo) Terribile. Dopo quel film ho smesso per tre anni.

Addirittura.

C’è una questione cruciale: sul set ero sola, i miei genitori non mi accompagnavano e la produzione pagava qualcuno per stare con me.

Forzata?

No, era una mia scelta, da bambina insicura avevo bisogno di attenzione, quando recitavo stavano tutti zitti ad ascoltarmi, per me il massimo, ed è diventato un antidoto contro la fobia del prossimo.

Ma ha definito il set “terribile”.

Moretti cambiava spesso idea, le riprese dovevano durare due settimane, invece è diventato un mese, e quando non giravo stavo chiusa in hotel a giocare da sola con il collage; (sorride) in una scena mi lancia il pallone in testa, l’avremo ripetuta 80 volte: alla sessantesima pallonata, ho pianto.

A sua figlia avrebbe consentito la stessa scelta?

No, al limite sarei stata sul set a controllare; per il film della Comencini ho iniziato a soffrire d’insonnia a soli 11 anni: quando ho vinto il Globo d’oro, non c’era nessuno con me.

Un suo pensiero felice.

(Ripete la domanda tre volte) Quando mi dimentico di me perché penso all’altro: la più grande gioia è condividere.

L’atteggiamento degli uomini con lei è cambiato?

Suscito paura, neanche ci provano, forse mi immaginano come un’assatanata con esigenze sessuali pericolose.

Invece…

Sono semplice, non amo situazioni strane, neanche gli schiaffi sul sedere. Sono da missionaria, romanticona.

Ha mai confuso vita e set?

Resto ore a fissare il soffitto e fumare. Quale regista potrebbe girare un film così? (Cambia tono). Da un certo momento in poi mi hanno chiamata solo per interpretare la prostituta, e quel ruolo l’ho declinato in tutte le forme; forse anche per questo Vittorio Feltri e altri mi hanno dato della mignotta, ma li ho querelati.

È una sopravvissuta?

Mi sento come un gatto di strada: non so quante vite ho sprecato, ma ho ancora qualche cartuccia da sparare.

(Cantano i Nomadi in “Dio è morto”: “Dentro le nuvole di fumo, nel mondo fatto di città, essere contro o ingoiare la nostra stanca civiltà…”).

Trumpusconi e il 4 luglio contro la sinistra

Un 4 luglio ad alta tensione, per le proteste che attraversano l’Unione, e ad alto rischio di contagio, soprattutto per Donald Trump: il coronavirus in piena recrudescenza, dopo una riapertura affrettata, sta infilando record di nuovi casi a raffica – se ne temono 100 mila al giorno, sono già quasi 60 mila – e attacca pure la famiglia del presidente. La fidanzata del figlio maggiore del magnate, Donald Jr, è positiva: Kimberly Guilfoyle era al Mount Rushmore, con Trump e 7.500 sostenitori accalcati senza distanza e senza mascherina; con il marito, ora, se ne sta tornando a casa in auto, un viaggio di 2.624 km. È almeno la terza volta in due settimane che il virus sfiora il presidente. Il discorso di Trump al monumento nazionale nel South Dakota dove sono incisi nella roccia i volti di George Washington, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln, Theodore Roosevelt – quattro grandi presidenti –, ha segnato l’avvio delle celebrazioni dell’Independence Day: un discorso – è il giudizio del New York Times – “tetro e divisivo”.

Il presidente vede il suo sforzo per essere rieletto come una battaglia contro “un nuovo fascismo d’estrema sinistra” che vorrebbe cancellare la storia dell’Unione, valori, tradizioni, monumenti. Trump ha annunciato un decreto per un giardino nazionale con le statue degli eroi americani: ci saranno – nelle intenzioni del magnate – Ronald Reagan, ma non John F. Kennedy, l’attivista dell’abolizione della schiavitù Harriet Tubman, ma non Rosa Parks. L’arrivo del presidente al Mount Rushmore è stato preceduto e accompagnato da proteste di nativi americani, che, davanti al Mount Rushmore, stanno da decenni allestendo un “contro monumento” a Cavallo Pazzo, un capo Sioux fra i vincitori al Little Big Horn. I manifestanti, fra cui c’erano militanti di Black Lives Matter, hanno bloccato una delle strade principali, costringendo la polizia e la Guardia nazionale a intervenire. Ieri sera, sul Mall di Washington sono stati allestiti i tradizionali fuochi pirotecnici, voluti da Trump particolarmente grandiosi, mentre città e piccoli centri hanno cancellato i consueti spettacoli, nel timore di assembramenti che aggravino la pandemia. Anche numerosi politici, fra cui Joe Biden, il candidato democratico alla Casa Bianca, hanno rinunciato a parate e altri eventi patriottici. E molti barbecue hanno avuto una dimensione familiare. Quanto al movimento anti-razzista, un altro segnale della forza della spinta iconoclasta diretta contro i simboli razzisti e colonialisti è la decisione della squadra di football di Washington, che sono i Redskins, i “pellerossa”, di cambiare nome, cedendo alle pressioni degli sponsor, già a partire dalla prossima stagione, che comincerà in autunno. Neil Young è l’ennesimo artista a dirsi contrario all’uso delle sue canzoni negli eventi di Trump, che al Mount Rushmore ha utilizzato Rockin’ in the Free World. “Non mi sta bene”, twitta Young.

Patriot pub: sobri da 3 mesi, via alla sbornia del secolo

Old Ed si è svegliato all’alba, full English Breakfast al People’s choice Coffee di Baltic Road, Barbican e, dalle 11, al solito tavolo del Two Brewers di Fortune Street – a pint, bring your own food. “They asked for my name and address”, hanno chiesto il nome e l’indirizzo, dice indignato.

Le linee guida del governo: riapertura dei pub, da ieri, ma con identificazione dei clienti. “Vengo da 10 anni! Bloody lockdown”. Aspetta l’amico di sempre, che non vede da più di tre mesi. Ma George ha famiglia, verrà dopo pranzo. Per Ed è stata più dura: tassista in pensione, vedovo, il Two Brewers è l’unico posto dove non si sente solo.

Al Wetherspoon di Highbury sono aperti dalle 8. Alcool e cibo a buon mercato, freccette, maxischermo per lo sport, quando c’è. Mia figlia esclama, sollevata: “È tornato tutto come prima del Covid!”. Non proprio. La gente nei pub c’è, divisa in piccoli gruppi separati, qualcuno con la mascherina, boccali e patatine che si accumulano sui tavolini di legno. Ma la giornata è livida, l’umore sospeso. Per un po’ di allegria bisognerà aspettare l’euforia alcolica del pomeriggio e la follia della sera. Una fonte Nhs mi conferma che nel suo ospedale i colleghi del traumatologico hanno tirato a sorte per il turno del weekend. Dopo tre mesi di sobrietà, polizia e pronti soccorso si aspettano la madre di tutte le sbornie e, con quella, risse e incidenti stradali. È una riapertura controversa, a cui erano contrari proprio quegli scienziati a cui, a lungo, Downing Street ha attribuito l’ispirazione di ogni scelta: mostrano allarmati i dati, gli almeno 36 possibili nuovi focolai; una città di 350 mila abitanti come Leicester dove i contagi sono tornati a preoccupare, tanto da rendere necessario il prolungamento del lockdown per altri 15 giorni; il potenziale devastante della deroga ufficiale alla precauzione dei due metri di distanziamento – provaci, a tenere distanziati due ubriachi al pub – senza parlare dello scoop del Financial Times che sostiene il governo stia nascondendo i reali numeri dei nuovi casi. “That’s bullshit” sibila Nick da dietro il bancone. “Stronzate. Non ho mai messo una mascherina e non l’ho preso. Ma senza aprire come pago l’affitto?”. La mette semplice, ma rappresenta le ragioni dei molti che del virus temono il devastante conto economico quanto il macabro bollettino delle vittime, più 137 venerdì, per un totale di 44.131. Nel difficile equilibrio fra tenuta economica e salute pubblica il governo britannico si prende un grosso rischio, con la riapertura, ieri, di pub, ristoranti, parrucchieri, cinema, anche luoghi di culto.

Lo ammette anche Boris Johnson, che venerdì in conferenza stampa ha detto: “Voglio che la gente senta che è sicuro uscire e divertirsi, ma deve essere fatto in modo responsabile. Non è assolutamente una mossa priva di rischi, siamo in equilibrio su un filo sottile”. Con lo slogan, c’è sempre uno slogan, Let’s not blow it, non roviniamo tutto. Ma la mossa di Boris non è solo il soccorso necessaria ad una economia in grande affanno e a un paese stremato dalla pandemia. I pub sono il cuore dell’identità popolare inglese, il principale luogo di relazione, dibattito e svago per un popolo senza piazze. Riaprirli significa riattivare una interazione sociale vitale. È un richiamo patriottico, un rassicurante messaggio politico. È l’ottimismo di Boris. Negli ospedali, intanto, si preparano per una nuova ondata già ad agosto.

Srebrenica, a 25 anni dal genocidio c’è chi costruisce la speranza

Kasapićè uno dei tanti piccoli villaggi che sorgono nel comune di Srebrenica, situato nel lembo orientale della Bosnia Erzegovina. Prende il nome dal torrente che lo bagna. Qualche modesta casa, una falegnameria, mucche e pecore, campi di tabacco, orzo e granturco. E cinque mulini: il pane non mancava mai. Così andava la vita a Kasapi, prima della guerra.

Quando il 6 luglio 1995 le truppe serbo-bosniache lanciarono l’offensiva finale su Srebrenica, cercando di completare il processo di pulizia etnica in quest’area, ultimo bastione bosgnacco (musulmano) del Paese, gli abitanti del villaggio fuggirono. Alcuni si nascosero nei boschi, salvandosi; altri nelle caverne scavate dal tempo nelle montagne circostanti, ma vennero uccisi. Il resto scese a valle, a Srebrenica, che sarebbe caduta l’11 luglio. Nei giorni seguenti si consumò il genocidio: 8.372 bosgnacchi furono massacrati, compreso qualche residente di Kasapić.

Oggi il villaggio, abbandonato dopo la guerra, sta tornando a vivere grazie all’impegno di Irvin Mujcic, un ragazzo di 32 anni che sta realizzando la “Casa della natura”, fatta da cinque casette in legno e un mulino. “Sarà una fattoria didattica, per insegnare ai bambini a lavorare la terra, e al tempo stesso un campo base per fare trekking”, spiega Mujcic, che già da tempo organizza escursioni nella natura, potente, che avvolge Srebrenica: boschi, ruscelli, pendii, animali.

La Casa della natura è molto più di un’opportunità economica, in una terra che il conflitto ha spogliato di tutto: fabbriche, aziende, fattorie. “Il progetto che porto avanti serve anche a capire la lezione di Srebrenica. Non basta dire ‘mai più’”, perché vediamo che nel mondo, nonostante Auschwitz, nonostante Srebrenica, i genocidi si ripetono. Occorre andare più a fondo. Comprendere, appunto, la lezione che il dramma di Srebrenica ci offre”. La chiave sta proprio nella natura, nella terra. “Oggi l’Europa è piegata dalla crisi economica e dal nazionalismo, gli stessi fattori causarono le guerre nei Balcani. La guardia va tenuta alta. Dall’altra parte – sostiene Irvin Mujcic – viviamo in una società alienata, sotto la minaccia dei cambiamenti climatici: la conseguenza dello sfruttamento eccessivo delle risorse primarie. Ecco, la vicenda di Srebrenica dimostra l’importanza della natura. Durante la guerra era impossibile importarvi cibo. Il sostentamento dipendeva dai villaggi, dalla capacità di lavorare la terra o riconvertire risorse. A Kasapi, i mulini servirono anche come centrali idroelettriche, e così si ovviò alla mancanza di elettricità, tagliata dai serbo-bosniaci”.

La riflessione sul genocidio può e deve suggerire un ripensamento dello stile di vita. “Bisogna ritrovare quella dimensione umana del saperti accontentare, del rispetto per la terra in cui vivi e da cui dipendi”, riflette Irvin, che proprio in queste settimane sta assemblando le casette di legno. Quando lo avevo incontrato, a novembre, aveva appena terminato di spianare il terreno su cui sorgeranno.

Per lunghi anni, Mujcicćha vissuto lontano da Srebrenica, che oggi conta 16 mila residenti. Serbi e bosgnacchi si equivalgono sul piano demografico. Nell’aprile del 1992, quando iniziarono gli scontri, lui, la madre, il fratello e la sorella riuscirono a fuggire. Raggiunsero come profughi l’Italia, stabilendosi a Cevo, un paesino della Val Camonica, in provincia di Brescia. La madre, Nadja, vive sempre lì.

Il padre restò a Srebrenica. Nel 1993, quando l’Onu la dichiarò area protetta, fu assunto come interprete per i caschi blu olandesi schierati in loco. Quando Mladi attaccò Srebrenica non opposero resistenza, né tutelarono sufficientemente i civili. Irvin parlava spesso al telefono con il padre. Dopo la caduta di Srebrenica non lo sentì più: fu ucciso.

Irvin è cresciuto in Val Camonica, poi ha lavorato a Roma, Bruxelles e in Nord Africa, nella cooperazione internazionale. “Da bambino sognavo di tornare nella Srebrenica assediata e di liberare papà. Nel corso degli anni ho visitato più volte il posto dove sono nato, ma non ho mai elaborato il trauma. Era un capitolo che avevo messo da parte”.

Nel 2014 la svolta. “Prendendo parte alla Marcia della pace, tra Tuzla e Sarajevo, a cui ogni anno partecipano i sopravvissuti del genocidio, si accese qualcosa. Mi chiesi che senso avessero la morte di mio padre, i sacrifici di mia madre per me e i miei fratelli e la mia scelta di vivere altrove, lontano; di rinunciare a migliorare questo posto distrutto. Queste riflessioni mi hanno spinto a tornare a Srebrenica”. E dunque rieccoci alla Casa della natura, il “villaggio magico” di Irvin, sostenuto anche da tante piccole donazioni private. Una piccola speranza, in questa terra difficile.

“Se lasciamo morire Srebrenica, il nazionalismo avrà vinto. La risposta che sentivo di dare è stata ristabilirmi qui, realizzare qualcosa, perdonare chi ci ha fatto del mare, riallacciando con loro relazioni. Mi piace pensare che Srebrenica sia come l’araba fenice, che brucia e rinasce poi dalle sue stesse ceneri”.

Le tre Repubbliche di CdB e quei soldi “a bocca di barile”

È stato l’Ingegnere di tre Repubbliche: la prima, la seconda e la sua. Nella prima ha costruito e disfatto imprese, fabbricando soldi. Nella seconda se li è giocati in Borsa, perdendo e guadagnando. Con la terza, quella di carta, ha raccontato le prime due, ne ha fatto un pulpito politico, un imperdibile gioco di società, oltre che uno specchio delle sue vittorie e dei suoi rancori. Compresi quelli accumulati con la recente sconfitta editoriale. Rancori che sono quasi sempre cattivi consiglieri, specie se indirizzati contro i figli e coniugati all’età che oggi sgocciola oltre gli 85 anni. Anche quando li si asseconda per fondare un nuovo giornale, a dispetto di quello vecchio, intitolato al futuro, Domani, ma che ha l’aria di un consuntivo dei troppi ieri trascorsi e quindi di un rimpianto.

Mai fu Carlo De Benedetti di carattere rotondo, semmai autoritario, spigoloso. E rampante per brevi e risoluti scatti verso l’alto. Cresciuto “con il coltello tra i denti” come si vantò di descrivere la sua cavalcata di piccolissimo imprenditore torinese che si fece largo tra i grandi e inarrivabili regnanti della famiglia Agnelli, per sfiorarne la storia, venirne estromesso, ritrovarsela tra i piedi mezzo secolo dopo, sebbene nella forma semplificata di John Elkann.

Il quale, dopo La Stampa e il Secolo XIX, si è appena comprato tutti i giornali del gruppo Repubblica-L’Espresso per farne una collana (o una catena, si vedrà) che l’Ingegnere aveva sventatamente regalato ai figli bollati come “incapaci, senza passione” Marco e Rodolfo, a conclusione di una storia di impresa familiare tormentata e tormentosa – passata per i primi computer, gli ultimi telex, la pasta Buitoni, i velluti delle banche europee, la polvere di Regina Coeli, le estati sul rompighiaccio Itaska, la residenza in Svizzera, la guerra contro Craxi e Berlusconi, la prima tessera del Pd, l’ultima disillusione per Renzi – durata quarant’anni ruggenti, finita ai giorni nostri più o meno dov’era cominciata, sotto l’ombra non accogliente della Mole Agnelliana.

De Benedetti la racconta in linea retta, anche se fu piena di buche. Il padre fabbricava tubi metallici flessibili. Lui studiava al ginnasio con Umberto Agnelli, poi Ingegneria, “ma sapendo che non avrei fatto l’ingegnere”. Racconta: “Portai la fabbrica da 50 a 1500 dipendenti”. In premio per tanta volontà e commovente sudore, lo volle l’Avvocato per governare il mastodonte Fiat che tanto lo annoiava. Andò. Era l’anno 1976. Sviluppò la Panda disegnata da Giugiaro, “che sarebbe diventata l’auto Fiat più venduta di sempre”. Poi vide i conti in rosso del mastodonte. Sussultò. Salì al piano paradiso dove Agnelli prendeva il fresco, gli disse: “Dobbiamo licenziare 60 mila operai”. Uno su tre. Quello sospirò, si fece trasportare da Amintore Fanfani, presidente del Consiglio, che gli disse, lei è matto Avvocato, ci sono le Brigate rosse, c’è in gioco la pace sociale. E in quell’amen, De Benedetti perse il posto durato solo tre mesi, per la somma gioia di Cesare Romiti che neanche sopportava l’intruso e festeggiò tenendosi la poltrona per altri venti anni e i debiti per sempre.

Visitato l’Olimpo, l’Ingegnere scese per cento giorni nell’inferno milanese del Banco Ambrosiano, quello dell’infelice Roberto Calvi, assaltato dalla P2, dal cardinal Marcinkus, dalla banda della Magliana, da Cosa nostra, finito con il collo appeso al Ponte dei Frati neri e i piedi nel Tamigi. Nell’inferno non si trovò malissimo, ne trasse una ricca buona uscita e anche un orientamento verso sfide meno cruente. Per esempio prendendosi in dote la Olivetti dove si fabbricavano i lasciti funerari dell’umanissimo Adriano, macchine per scrivere e calcolatrici meccaniche, nei minuti esatti in cui a Cupertino nascevano i personal computer. Perse l’aggancio con Steve Jobs, “lavorava in un garage, aveva i capelli lunghi, i jeans strappati, mi chiese 30 milioni di dollari per il 20 percento della sua Apple, gli dissi, ma neanche per sogno”. In compenso, seguendo l’intuizione di quel geniaccio di Elserino Piol, trasforma Olivetti nel primo gestore privato della telefonia mobile, Omnitel, che si rivelerà il marchio con il più alto incremento di mercato. Fa soldi “a bocca di barile”. Ne perde altrettanti nella scalata al più grande gruppo finanziario del Belgio, la Société Générale. Altri li investe nell’editoria, la sua seconda passione dopo gli affari. Salva Repubblica dal fallimento, anno 1989, 300 miliardi di lire al principe Caracciolo, 90 a Eugenio Scalfari che anni dopo chiamerà “l’ingrato”. Investe in Mondadori, danza un valzerino con Cristina, l’erede, titolare con il figlio Luca del pacchetto azionario decisivo. Quando è sicuro di essere al traguardo, entra in scena “su ordine di Craxi” Silvio Berlusconi che paga di più “e in nero” dirà De Benedetti, inaugurando la “guerra di Segrate” per il controllo del gruppo. Guerra che durerà vent’anni fino all’ultima sentenza di Cassazione, quando si stabilì che Previti, per conto di Berlusconi, si era comprato un giudice per comprarsi la Mondadori. “E Berlusconi fu condannato a restituirmi 530 milioni di euro: il dente più doloroso che è stato estratto dalla sua vita. E io la persona più soddisfatta di averglielo estratto”.

Poi vennero i giorni neri di Sorgenia, che invece di fabbricare energia, fabbricò 2 miliardi di debiti con le banche, abbandonata alla benevolenza del salvataggio di Stato, coi soldi nostri. Oltre alla coda avvelenata della Centrale a carbone di Vado ligure con le sue tonnellate di emissioni nocive, le inchieste giudiziarie, le morti sospette. Lui sempre chiamandosi innocente, “di Sorgenia se ne occupò Rodolfo, io mai”. E collocandosi in perfetta solitudine nella sua invidiata ascesa. Circondato “da un Paese democristiano, massone, mafioso”. E dunque “isolato, ma sempre libero”. Credendosi, specialmente oggi, imprigionato dall’età. E non dall’oro che per tutta la vita gli ha luccicato intorno, senza essere mai abbastanza.

Spiegare una gag? Prendi un’aquila e poi Gasparri…

 

Ho 90 anni. Alla mia età,
i fiori mi spaventano.
– George Burns

 

Come abbiamo visto nelle puntate precedenti, una gag è un atto fisico e/o linguistico che non si adatta al contesto, secondo le tre tattiche (comica, spiritosa, umoristica) della prassi divertente. Il contesto è la correlazione fra fattori situazionali (“chi fa cosa a chi, quando, dove e perché”) e ci aiuta a comprendere la realtà (Salmon, 2018). Il significato dei nostri atti dipende dalla loro relazione con il contesto: dire “non è un’aquila” ha un senso ben diverso, se indichiamo un volatile o l’On. Gasparri.

Percezione e creazione della gag. Ogni essere umano è in grado di notare l’occorrenza di una gag se la sua coscienza (che è percezione + memoria) gli permette di valutare la congruità fra atti percepiti e contesto. L’addestramento alla comicità affina la competenza sulla pragmatica della comunicazione, e consente valutazioni di congruità più pertinenti e sofisticate, cioè migliora la percezione dei fenomeni divertenti (finezza) e la capacità di crearne. L’incongruità rispetto al contesto (marcatezza) è un parametro correlato a tutti gli aspetti comunicativi (lessico, morfologia, sintassi, fraseologia, prosodia, galateo &c.). A certe condizioni, la marcatezza ha un effetto divertente.

Traduzione di un atto neutro in una gag. I modi per tradurre un atto neutro in una gag sono due: 1) modificare l’atto neutro; 2) modificare il contesto (inserire l’atto neutro in un altro contesto).

Fenomenologia della gag. Ogni gag si fonda su un tema, cioè su un’idea buffa. L’idea buffa può essere un’immagine, un meccanismo linguistico-testuale, una combinazione sonora, un effetto grafico; ed è traducibile con espressioni diverse (le sue variazioni). La prassi divertente traduce gli atti neutri in gag giocando su tema e variazione con procedimenti metabolici (sottrazione, aggiunzione, sostituzione e permutazione) e tattiche (comiche, spiritose, umoristiche), applicabili a tutti i livelli comunicativi, contesto compreso. Il prodotto di tema, variazione, metabole, tattiche divertenti e modo comico è la marcatezza divertente. Un esempio di sottrazione comica (come contesto ignorato): Eduardo e tutta la compagnia furono ricevuti da Pio XII dopo il successo di “Filumena Marturano”. Salendo le scale del Vaticano, Tina Pica si avvicinò a Eduardo e gli disse: “Diretto’, ma che dite, sua Santità ce li dà due buoni numeri per giocarli al lotto?”.

La Fig.1 (“La vita senza Mozart”) è un esempio grafico di sottrazione spiritosa.

Un esempio di aggiunzione umoristica: Girò tutti i film di Frankenstein: “Frankenstein”, “La moglie di Frankenstein”, “Il figlio di Frankenstein”, e “Il miglior amico di Frankestein: Murray”. (Mel Brooks) La Fig. 2 è un esempio grafico di aggiunzione comica.

Un esempio di sostituzione satirica (come calligramma): Berlu$coni.

La Fig.3 è un esempio grafico di sostituzione comica.

Un esempio di permutazione spiritosa: Il produttore Lombardo chiede al suo direttore esecutivo, Bonotti, un parere su un nuovo soggetto di Risi: un gruppo di suore di clausura in un convento in mezzo alla neve. E Bonotti: “Dotto’, i film con le suore non fanno una lira, i film con la neve non fanno una lira, che volemo fa’, le suore su la neve?”.

La Fig. 4 è un esempio grafico di permutazione spiritosa.

Il rapporto fra atti e contesto, cioè il significato degli atti, cambia con il mutare delle coordinate cronologiche e geografiche, che modifica una gag in qualcos’altro (all’indietro, in atto neutro; in avanti, in una nuova gag, in un enunciato poetico &c.). Allo stesso modo, ogni intervento su una gag modifica le informazioni della gag, aggiungendovi informazioni relative al traduttore (personalità, umore, sapere, genere, ideologia, &c.) e alla sociocultura cui appartiene; e/o sottraendone altre. La ricezione di una gag, a sua volta, è una forma di traduzione, che aggiunge/sottrae informazioni: un destinatario ri-crea l’informazione ricevuta (Bloch, 2000). “Una letteratura differisce da un’altra, successiva o precedente, meno per il testo che per il modo in cui è letta” (Borges, 1952). Ne consegue che un effetto divertente non è mai replicabile in modo identico: ogni traduzione è una equivalenza (Catford, 1969), più o meno traditrice.

Tradurre una gag verbale da una lingua a un’altra consiste nel trasferire, insieme con il significato denotativo, quello connotativo, cioè la coloritura del significante ottenuta con il gioco di assonanze, dissonanze, sinonimie, contrasti &c. che sono il tessuto materiale della comicità, e che fanno scattare la risata. Il traduttore interlinguistico sceglie fra le variazioni possibili quella che, a suo giudizio, è equivalente alla gag di partenza (GP). La relazione di equivalenza è una corrispondenza pragmatica (Nida, 1964) che tenta di riprodurre, nella sociocultura di arrivo, la complessità con cui la GP viola convenzioni nella sua sociocultura. La congettura del traduttore interlinguistico non è arbitraria: è una abduzione (un’ipotesi) che segue il parametro della marcatezza, dunque è valutabile da altri specialisti. Due gag sono equivalenti se condividono la marcatezza divertente, cioè se la gag di arrivo (GA) sta alla sua sociocultura come la GP sta alla propria. Un traduttore può rendere più o meno divertente il testo di arrivo (TA) modificando la marcatezza delle gag e la quantità delle gag a marcatezza modificata. Le traduzioni anni ’70 dei testi di Woody Allen, per esempio, erano zeppe di battute modificate in peggio. Versione anni ’70: Questo denaro può venir più utilmente devoluto all’acquisto di fuochi artificiali. Versione corretta: I soldi restanti potevano essere spesi più proficuamente in vibratori.

Tradurre non significa riprodurre le intenzioni dello scrittore, perché queste sono ineffabili; sono sconosciute pure per lui, se la psicoanalisi ha qualche ragione. Né si tratta di essere “fedeli” a un testo “originale”. “Fedeltà” è un termine ambiguo: con esso si intende il calco, cioè la riproduzione di una struttura, che può riguardare un livello testuale (morfologico, sintattico, semantico, pragmatico &c.), ma non tutti i livelli insieme (Salmon, 2018). Il testo “originale”, poi, è una chimera, dato che ogni testo deriva la propria complessità dai rimandi alla letteratura precedente, ovvero è imitativo (Schleiermacher, 1813; Von Humboldt, 1816). Lotman (1970) aggiunge che la sinonimia non esiste: se si cambiano le parole di un testo con sinonimi, si crea un altro contenuto. Tanto vale dire, come fanno i Translation Studies, che ogni testo è “originale”, anche una traduzione (Salmon, 2018). Il testo precedente è solo “originario”. Nell’arte, secondo Nabokov, l’unica originalità è quella dello stile.

(11. Continua)

Miracolo: operazione San Gennaro all’Unesco

L’operazione è partita, San Gennaro si appresta a diventare patrimonio “immateriale” dell’Umanità. Se non proprio il Santo direttamente, il suo rito, le preghiere e il miracolo che due volte l’anno Gennaro, se ne ha voglia, regala alla città di Napoli e al mondo intero. Università, importanti centri culturali, associazioni di fedeli e “custodi” del tesoro, benedetti dal cardinale Crescenzio Sepe, hanno avviato la pratica per il riconoscimento da parte dell’Unesco. Parliamo di “pratica”, termine burocratico che poco si addice alla circostanza, perché San Gennaro è già patrimonio dell’umanità intera. Chi sa di queste cose, calcola in 25 milioni i suoi fedeli sparsi in tutto il mondo. Dall’Europa all’Australia. Insomma, in tutti i pizzi del globo dove un napoletano (inteso come meridionale) ha avuto la ventura di mettere radici nel corso dei secoli. A Mulberry Street, porta d’ingresso di quella che una volta era Little Italy a New York, il Santo si festeggiava per otto giorni interi. Come a Napoli più che a Napoli. Perché San Gennaro è il cuore dei napoletani.

E neppure il Covid è riuscito a fermarlo. Quest’anno, il primo sabato di maggio, le porte della Cattedrale erano sbarrate ai fedeli, il Santo era solo e poteva mostrarsi solo in diretta streaming, ma non si è scoraggiato: quando il cardinale Sepe ha preso in mano la teca, il sangue era già sciolto. Santo paziente, Gennaro, da secoli accetta le inutili dispute degli storici che hanno messo in discussione finanche il suo nome. Gennaro era il cognome (dalla famiglia Januarius), il nome vero era Procolo. È santo paziente che accetta i “vezzeggiativi scherzosi dei fedeli” (Matilde Serao), ma anche gli insulti delle sue “parenti”, le donne che aspettano, pregando e imprecando, il miracolo. È santo fatalista. Poco amato dalla Chiesa. Si racconta che Papa Paolo VI una volta espresse dei dubbi sul miracolo. Il Santo se ne ebbe a male. I napoletani lo consolarono con una scritta su un muro: “Gennarì, futtitenne”.