Gli amplessi da incubo tra il barone guascone e la duchessa (adultera)

Dai Racconti apocrifi di Gian Dauli. A Parigi, tutti sapevano quanto il celebre pittore Jean Fouquet fosse geloso della giovane consorte, la bellissima Francesca Amboise, duchessa di Bretagna, nonché vedova di Pietro II, duca di Borgogna (morendo, disse che la lasciava pura come l’aveva ricevuta, l’ingenuo cornuto). Poiché si diceva pure che ne fosse perdutamente innamorato Maximilien de Clisson, barone di Pontchâteau, un guascone aitante e rapido di spada che era suo cugino, Fouquet, per proteggerla dalle insidie nefande, la faceva sorvegliare in sua assenza da clerici ottuagenari.

Maximilien, in effetti, pensava spesso al flessuoso, eccitante corpo nudo di Francesca, che da adolescente sbirciava spesso attraverso un buco di serratura, masturbandosi. Quando sarebbe stata finalmente sua? Per quanto tempo avrebbe dovuto accontentarsi di ammirarla da lontano, mentre passeggiava lungo il corso sottobraccio al marito pittore? Da bambino, giocando nel castello, aveva scoperto un tunnel segreto che portava alla stanza dei bagni, al pianterreno; ma come accordarsi con lei per l’agognato rendez-vous? L’occasione gli capitò il giorno in cui venne a sapere che il vecchio Padre Eusebio stava cercando un assistente per reggere il messale dei riti dell’Avvento. Sapeva che Francesca non sarebbe mancata; forse avrebbe potuto scambiare qualche parola con lei, nonostante la presenza del marito. Padre Eusebio fu sorpreso, ma felice, della proposta: “Non ho dimenticato le tue braccia vigorose, Maximilien. Da chierichetto nessuno riusciva a reggere il messale tanto a lungo quanto te”. E così, la prima domenica d’Avvento, nella superba cattedrale di Notre-Dame, Maximilien si trovò a offrire il Messale da baciare ai fedeli in coda davanti al coro; e quando Francesca si piegò in avanti verso le pagine miniate del volume, le disse con un soffio di voce: “Francesca!”. Le labbra di lei risposero, senza un suono: “Maximilien!”. La domenica successiva, riuscì a dirle solo “Ti”. La terza domenica, aggiunse: “Amo.” La quarta domenica, Francesca baciò il Messale così a lungo che Maximilien poté completare la frase: “Francesca, ti amo da morire. Vediamoci domani mattina ai bagni al pianterreno. Sarò lì grazie a un tunnel segreto”. Un cenno di lei gli confermò che il messaggio era penetrato. La giovane sposa di Jean Fouquet fece sforzi immani per non sorridere di gioia, nella carrozza che la riportava al castello col marito. Che bella idea aveva avuto Maximilien! Il rito mattutino delle abluzioni era l’unico momento della giornata tutto per sé, senza sorveglianti a scocciarla. La stanza dei bagni al pianterreno era meno comoda di quella accanto alla sua camera da letto, ma Parigi vale bene una messa.

Il giorno dopo, si lamentò col marito che nel bagno c’era uno spiffero d’aria fastidiosissimo. Allora la cameriera disse: “La signora duchessa potrà usare quello al pianterreno. È meno ampio, ma non ha spifferi”. Fouquet, sospettoso, controllò i muri di pietra: “Ti aspetterò in corridoio”. La cameriera riempì di acqua bollente la vasca e uscì. Francesca chiuse a chiave il portone. Dopo un’ora, l’ansioso Fouquet bussava con forza: “Francesca! Ti senti bene?”. “Sì, tesoro”, disse lei, inondata di allegrezza e letizia, sciogliendosi con riluttanza dall’abbraccio dell’amante. “Credo di essermi addormentata”. “Devi avere avuto un incubo, sai? Giurerei di aver sentito un tuo grido. Ed era pieno di angoscia”.

Tante sedie vuote e i soliti slogan: il centrodestra fa flop in piazza

“Se non funziona il governo giallorosso, perché mai dovrebbe un esecutivo arcobaleno con tutti dentro… Dai, non scherziamo. Io mi fido delle parole di Mattarella: dopo Conte c’è solo il voto…”. La manifestazione del centrodestra a Piazza del Popolo – Insieme per l’Italia del lavoro – si è appena conclusa e Giorgia Meloni si ferma a parlare coi cronisti. “Da Conte non andremo a prendere tè e pasticcini. Aspettavamo il documento del governo sui prossimi provvedimenti: ci hanno mandato una ‘tavola sinottica’ con solo i titoli…”, aggiunge Meloni. Che sul palco, mezz’ora prima, ha scaldato la platea contingentata: ingresso uno per volta, misurazione della temperatura, sedie distanziate secondo le regole, mascherine vivamente consigliate. I posti erano 4280, ma le persone sono molte meno, con tante sedie vuote. Un mezzo flop.

Per la prima volta da tempo, causa le ultime news giudiziarie, Salvini e Meloni tornano a parlare dal palco di Silvio Berlusconi. “Non serviva una registrazione per sapere che un pezzo della magistratura l’ha perseguitato fino a farlo decadere da senatore. Bisogna riformare la giustizia!”, afferma la leader di FdI. Ma l’ex Cavaliere si evoca anche per le sue aperture di credito al governo e l’ipotesi di nuove maggioranze. “Mi fido totalmente di Berlusconi. La prossima squadra di governo è qui”, taglia corto il leader leghista, tentando di spazzare via le polemiche degli ultimi giorni, comprese le manovre in corso tra FI e Italia Viva. Tra i manifestanti, però, non tutti sono convinti. “Di Silvio non ci fidiamo, quello ci molla alla prima occasione, ma per ora ci serve…”, dicono alcuni sostenitori leghisti.

Ieri è stato il giorno della “manifestazione ordinata”, dopo quella caotica del 2 giugno scorso, dove l’immagine di assembramenti e mascherine abbassate aveva fatto il giro del mondo. La più efficace, dal palco, è l’ex-ministra. Che, insieme ad Antonio Tajani, evoca le elezioni, mentre Salvini non ne parla. “Vinceremo le Regionali, poi a ottobre torneremo in piazza e saremo 2 milioni. Allora chiederemo a gran voce di poter tornare alle urne…”, attacca Meloni. Che poi punge il governo. “Dopo aver sistemato i compagni di elementari e medie, ora Di Maio si dedicherà a quelli del liceo…”. “Il bonus monopattino serve solo a chi vive in centro. Chi sta in periferia se lo da in faccia…”. “Il decreto rilancio ha fatto ripartire una sola attività: quella degli scafisti!”. La folla si anima, i tricolori forniti dall’organizzazione sventolano e il selfie di Giorgia è di rito.

Tocca a Salvini e a presentarlo c’è Maria Giovanna Maglie. “In tv non m’invitano perché dico cose scomode…”, afferma la giornalista. Evidentemente quella che vediamo sullo schermo da mane a sera dev’essere la sorella gemella. “Oggi è il 4 luglio, auguri agli Stati Uniti e al suo presidente Donald Trump…”, esordisce Salvini (svolta atlantista). Che poi, in un comizio breve e noioso, punta il dito sui giornalisti che “vogliono dividerci”, se la piglia con Lucia Azzolina (“va sostituita”) e plaude al nuovo corso di Confindustria targata Bonomi: “È tornata a fare il suo mestiere” (svolta confindustriale).

Invocando “un’Italia federale e presidenziale”, ringrazia pure Papa Francesco “per aver incontrato i medici e gli infermieri lombardi” (svolta bergogliana). Silenzio, invece, su tutto ciò che divide gli alleati, tipo il Mes. Ma ha tempo, infine, per attaccare Virginia Raggi “che verrà ricordata solo per le buche, la spazzatura, i rom e i topi”. Accostamento, quello tra gli umani e i ratti, che farebbe storcere il naso a molti, ma qui non fa scandalo. “Siamo una coalizione unita, altro che Pd e 5 Stelle…”, dirà poi, più tardi, Berlusconi, che ha seguito la kermesse in tv.

Il doppio gioco di B. (e Renzi fa da lavatrice)

Secondo il leghista Giancarlo Giorgetti, anche stavolta come ogni volta, a metà legislatura si assiste al fenomeno migratorio di senatori e deputati. “Durante la prima parte di mandato il parlamentare è attratto dai gruppi più numerosi di Camera e Senato, poi è spinto, in stato di incoscienza e per mero spirito di sopravvivenza, verso i gruppi che saranno più numerosi dopo le elezioni”, Giorgetti rivendica la proprietà intellettuale di questo studio e lo chiama il codice von Georgen.

Le migrazioni sono in pieno svolgimento, le previsioni di Giorgetti sono esatte: i gruppi leghisti accolgono ex Cinque Stelle, però ci sono trasbordi da Forza Italia a Italia Viva che rimpolpano la maggioranza di Giuseppe Conte e aumentano il potere di Matteo Renzi sul destino del governo. Il codice von Georgen difetta in un punto: per Silvio Berlusconi (e le sue aziende) è meglio essere decisivo in maggioranza, tramite Italia Viva, che ininfluente all’opposizione sopraffatto dai cori di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Renzi funge da lavatrice: ripulisce il berlusconiano e lo rende edibile per i palati, un tempo fini, dei Cinque Stelle. È la strategia di Gianni Letta, l’anima istituzionale di Berlusconi, l’interlocutore di Palazzo Chigi. I contatti tra Letta e Conte sono rafforzati dall’antica amicizia tra lo stesso Letta e l’avvocato Guido Alpa, considerato il mentore del premier.

La nomina di Maria Bianca Farina in Poste ha suggellato la sintonia tra Conte e Letta: fra le società quotate a controllo pubblico, la lettiana Farina è l’unico presidente che ha ottenuto la riconferma.

Il mediatore Letta è vitale in Parlamento per l’esecutivo, tant’è che Andrea Orlando, vicesegretario del Partito democratico, vuole “coltivare con cura” il dialogo con Forza Italia (intervista al Corriere). Perché l’ex Cavaliere, conteggiato da Iv e da Pd, dovrebbe riparare sulle barricate di Salvini?

La disamina di Niccolò Ghedini, avvocato di Berlusconi e senatore di Forza Italia, si può sintetizzare così: la linea di Letta è “quasi rottura pur senza rompere” con il centrodestra per distinguersi da Meloni e Salvini; Gianni si sente più a suo agio al governo, pure se con Stalin, anziché in minoranza. Aggiunge Ghedini: Renzi non rappresenta il “futuro” né di Forza Italia né dei parlamentari che s’iscrivono a Italia Viva, ma è “immanente”, garantisce il presente e l’intera legislatura. E Berlusconi resta fermo, insciente, mentre ciò accade? Ancora Ghedini: il suo motto sono le elezioni e il suo ambiente è il centrodestra, ma gli fa piacere avere rapporti cordiali col governo. Perché? “Noi veneti diciamo: no se sa mai. Va pronunciato tutto d’un fiato”.

Come da prassi, la politica parlamentare e gli interessi economici di Berlusconi s’incrociano. La pubblicità e le frequenze di Mediaset, i temi che vengono sollevati più spesso, sono roba del secolo scorso. È vero: il Biscione campa di spot e gli spot scarseggiano, ma il mercato è spento e neppure il governo di Conte può aiutarlo. È vero: tra un anno l’Italia deve completare il passaggio di frequenze al digitale terrestre di nuova generazione, ma si tratta di una tecnologia superata per le televisioni. Non sono più gli anni Novanta. Il dilemma di Berlusconi, invece, è il solito: assicurare un’esistenza senza dissidi e una rendita finanziaria ai cinque figli e strappare Mediaset all’agonia a cui è destinata la televisione generalista se non è capace di produrre contenuti su scala globale e Mediaset, nonostante l’ambizioso progetto europeo, non ne è capace.

Per Berlusconi sarebbe un’opportunità irripetibile partecipare alla formazione di una società nazionale della rete unica telefonica e diffondere ovunque internet in banda larga, socio di Telecom e soprattutto di Cassa depositi e prestiti (cioè dello Stato).

Un modo per risolvere anche la contesa con i francesi di Vivendi, azionisti di rilievo di Telecom e di Mediaset, rimasti incagliati nella campagna d’Italia avviata cinque anni fa dal capo Vincent Bolloré. Pier Silvio, Marina e gli altri eredi potrebbero continuare a divertirsi con il genere televisivo e, per le cose più solide, diventare i “cassettisti” di una società della rete, investitori stabili che a ogni bilancio aspettano di incassare i dividendi senza l’onere d’impresa. È il vecchio sogno di Berlusconi. All’opposizione, però, non c’è niente da sognare.

Altro che spallata: un popolo attempato rischia l’insolazione

Il centrodestra seduto e transennato visto a piazza del Popolo ha un aspetto irriconoscibile. Come se il misterioso virus, tra i tanti effetti collaterali, avesse fiaccato, a causa del perfido distanziamento, il tradizionale spirito gagliardo, caciarone ma sempre arrembante.

Al posto del caos ribaldo, del sudore e degli spintoni dei giovanotti di Atreju, la milizia studentesca di Giorgia Meloni, una composta rappresentazione della terza età scamiciata. Timorata, destinata alla gloria dell’insolazione, ordinata. Una platea che si ritrova, speculare, in una di quelle grandi riunioni degli evangelici.

E la mestizia generale grava, come l’afa romana, sul ritmo della manifestazione che già Antonio Tajani, portavoce di Forza Italia e ambasciatore di Silvio Berlusconi, naturalmente assente, si è impegnato ad abbassare. Una signora dai capelli platinati e t-shirt Moschino, leghista motorizzata: “Vengo da Lumezzane. Sono qui per far cadere il governo. Almeno penso”. Coetanea, accento locale: “Quartiere Trieste io. Che dire, penso che il centrodestra debba ritrovare intorno a Berlusconi una certa unità”. Sguardo irato della sua compagna d’avventura e lei intimorita: “Ho una certa età”.

“Andare avanti, prego accomodarsi”, il solito volitivo Ignazio La Russa spinge la piccola folla a non rendere voragini i buchi già consistenti in platea. Il punto è questo: l’organizzazione così perfetta, puntuale, e il servizio d’ordine curato, e le transenne ben disposte, ha cambiato i connotati al centrodestra. Da grande recipiente della periferia e attrattore di giovanotti e giovanotte, a un club attempato di vecchi conservatori. Artrosi, a prima vista, più che passione. Delle 4.280 sedie disposte dentro la cornice sempre meravigliosa di piazza del Popolo, una quota significativa è rimasta libera e desolata. Se ne è accorta subito Giorgia Meloni: “Vogliono farci andare con le mascherine, vogliono metterci il bavaglio. Ma ad ottobre saremo due milioni”.

Per chi e soprattutto perché è stato convocato il popolo al sole cattivo di un mattino di luglio è il mistero. È questa una manifestazione per mandare a casa il governo o in pensione Silvio Berlusconi? Giuseppe, impiegato dell’agenzia delle entrate: “Di Berlusconi non mi fido più, andrà con Conte”. Dunque il governo non cade? “Nun se po’ dì”. La spallata serve? “Questo è un altro discorso, vediamo a novembre”.

Il discorso è che Matteo Salvini deve trovare l’energia di un tempo e soprattutto il popolo di un tempo. E oggi la convocazione sembra andata male. Lui: “Mi aspetto che da un momento all’altro arrivi un lockdown. Questi vogliono chiuderci in casa, non farci parlare”. Anche i selfie non sono più quelli del Papeete, senza dire che la Meloni, malvagia, si è messa a fare concorrenza, tracciando sul terreno per i fan più ardimentosi perfino dei segnapassi per ridurre il margine di errore da assembramento selfista.

Dieci tiepidi battimani, tre volte lo sventolio delle bandiere, quello per Salvini più deciso. Nessun fischio, nessun buuu, niente di niente.

Immigrati e clandestini: quasi zero carbonella. Parecchia partita iva, molto zero tasse, molto “non rompere i coglioni a chi lavora con le cartelle di Equitalia”. Tanto sudore. Meloni: “All’élite non piace il sudore. Ma il popolo suda, non sta in villa, sta in piazza”. Una legnata terribile alla Cina: “Regime infame”, dice Salvini. Una lode a Trump, “il 4 luglio è il giorno dell’indipendenza”. Del Mes tracce perdute, dell’Europa quasi.

Tutto fila via così liscio che quasi indispone. “Dobbiamo una buona volta decidere con chi vogliamo stare. A me sembra che Salvini e Meloni devono stare insieme e nessuno più”, illustra ai compagni d’arme un militante leghista romano (“tessera Ugl”). “Meloni e Salvini mi convincono, Berlusconi no”, secondo militante. Terzo: “A ottobre saremo di più”. Quarto: “Falla tu una cosa così il 4 luglio a Roma, di sabato”. Quinto: “Bisogna trovare anche un sindaco nostro”.

Ecco Salvini: “Ci aiutate a trovare un sindaco bravo per Roma?”. Il comizio finisce quando una lettiga porta via una signora accaldata. L’infermiere: “Abbassamento di pressione, succede”.

Dall’aeroporto al No-Langer: la “guerra fredda” della Svp

“Dall’aeroporto alla magistratura. La Süd Tiroler Volkspartei (Svp) alla conquista dell’Alto Adige. Ma l’Anac per fortuna ha bocciato la cessione ai privati dell’aeroporto”. Tuona Paul Köllensperger, consigliere provinciale di Bolzano (Team K). In questi giorni negli ambienti ovattati del potere altoatesino, da decenni dominato dal partito di lingua tedesca (Svp), si sta combattendo una battaglia campale. Uno scontro, però, di cui si parla poco in città. Forse, sottolinea Köllensperger, “perché quasi tutti i principali organi di stampa qui sono proprietà della Athesia della famiglia Ebner: il Dolomiten e il Zett in lingua tedesca, poi Alto Adige, Adige e Trentino di lingua italiana, per non dire di società pubblicitarie, radio e siti”. Parliamo della famiglia di Michl Ebner già deputato e poi parlamentare europeo della Svp e oggi presidente della Camera di Commercio di Bolzano. Nonché per un anno membro (indicato dalla Lega) della Commissione dei Sei, organo chiave della politica altoatesina.

Un potere quasi assoluto, quello della Svp, partito etnico, moderato, ma di fatto indifferente a coloriture ideologiche; dall’alleanza con il Pd di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi (eletta qui), è passata a una coalizione con la Lega. Ma ecco la tegola: l’Anac – l’Autorità Nazionale Anti Corruzione – ha bocciato la cessione dell’aeroporto dalla Provincia di Bolzano ai privati. Un’operazione targata Svp. Ma 576 cittadini hanno presentato ricorso all’Anac e l’Autorità ha prodotto una delibera: “Il soggetto giuridico che ha presentato istanza nel 1999 per la concessione totale (Abd, allora controllata dalla Provincia, ndr) è soggetto diverso dall’aggiudicatario della gara”. In pratica, racconta l’avvocato Renate Holzeisen che è ricorsa anche al Tar, “l’affidamento della concessione era legato alla proprietà pubblica della società. Non si possono vendere ai privati la spa e insieme la concessione”. Josef Gostner, amministratore della nuova spa privata ribatte: “Tutto lecito, faremo ricorso”. Ma la privatizzazione racchiude altri nodi. C’erano le polemiche sugli acquirenti: “Le quote sono divise tra società legate a Gostner, Hans Peter Haselsteiner e René Benko”, racconta l’opposizione. Gostner è un imprenditore nelle rinnovabili. Haselsteiner – austriaco, ma bolzanino d’adozione – è un colosso mondiale delle costruzioni, l’uomo della Strabag impegnata nella costruzione del tunnel del Brennero. Ma soprattutto c’è Benko, miliardario austriaco quarantenne che con il via libera degli enti locali ha avviato a Bolzano operazioni immobiliari per un miliardo. “Società legate a Gostner e Haselteiner”, sostiene Köllensperger, “Sono finanziatrici (legalmente) della Svp”. Soprattutto c’è la questione del prezzo di vendita ai privati, sollevata dal Team K e da Riccardo Dello Sbarba (Verdi): “La società ceduta vantava la proprietà di immobili e un patrimonio netto di 36,5 milioni. Oltre a disponibilità liquide di 5,6 milioni. Eppure è stata ceduta per 3,8 milioni”. Ora cosa succederà? Se non avesse più la concessione, potrebbe far funzionare lo scalo?

Quello davanti all’Anac non era l’unico ricorso tentato da chi si oppone all’operazione. Altri ne sono stati avviati al Tar e alla Corte dei Conti. E qui si inserisce l’altro corno della polemica: “Nei giorni scorsi – ricorda Holzeisen – è stata presentata una norma che prevede la nomina politica di metà dei giudici della Corte dei Conti. Mentre già i giudici del Tar, caso unico in Italia, in Alto Adige sono di nomina politica. Chi governa, in particolare la Svp, avrebbe tutto in mano”.

La Svp è potente. Tanto da mettere finora il veto anche sull’intitolazione di una strada alla memoria di Alexander Langer. Sì, il verde scomodo, il pacifista, uno dei figli più nobili dell’Alto Adige, che morì suicida proprio il 3 luglio 1995. Langer, soprattutto che criticò le “gabbie etniche” in cui viveva la sua terra. Eppure venticinque anni dopo la sua scomparsa ancora si attende: “Strade nuove non ce ne sono e cambiare nome a quelle esistenti è complicato”, taglia corto la consigliera comunale Sylvia Hofer (Svp).

Generazione virus: “crollano” i fuori sede

Le università hanno voglia di ripartire, ma “tutti in aula” da subito è ancora impossibile. “E allora perché il genitore di un neo diplomato fuori sede dovrebbe decidere di immatricolare il figlio all’università, sostenendo spese ingenti per affitto e quant’altro, pur sapendo che frequenterà le aule solo per una frazione risibile del semestre?”. È racchiusa in questa domanda del sindaco di Pisa Michele Conti la battaglia che i Comuni che ospitano gli atenei stanno combattendo in queste settimane contro i rettori ancora poco propensi a riprendere tutte le lezioni in presenza per garantire tutte le precauzioni sanitarie necessarie. L’evidente rischio di un controesodo degli studenti è un impoverimento economico, culturale e umano delle città.

I numeri ricostruiscono bene il fenomeno. Su 1,7 milioni di studenti universitari, nell’anno accademico 2018/2019 (l’ultimo dato Miur a disposizione), i fuori sede che frequentavano un corso di laurea in una Regione diversa da quella di residenza erano mezzo milione. Un dato in continua crescita dal 2013/2014, quando la quota di studenti emigrati in un’altra Regione era al 24,5%. Mentre quest’anno, così come emerge da un’indagine condotta da Skuola.net, il coronavirus ha innescato “una rimodulazione degli obiettivi degli studenti che cambieranno strategia per limitare i danni prodotti dall’emergenza sanitaria”, come i problemi economici, le difficoltà di spostamento, fino a eventuali seconde ondate di contagi. In media, quasi 2 studenti su 3 immaginano di iscriversi in un ateneo della propria Regione. Un dato che – spiega Skuola.net – al Nord (area geografica che di solito accoglie più studenti di quanti ne lascia partire) supera il 70%. Un altro 10% è ancora indeciso. Mentre solo 1 su 4 ha intenzione di trasferirsi ugualmente, con un picco leggermente più alto (30%) tra gli studenti del Sud, tradizionalmente più inclini all’esodo.

Se fosse così, a settembre si interromperà la tradizionale vita da fuori sede con un effetto economico concreto per le amministrazioni che ospitano gli atenei. Nel caso di Pisa, tra i casi politici più accesi, si tratterebbe di 5 mila neo matricole in meno, dal momento che lo scorso anno sono stati 7 mila gli iscritti al primo anno che risiedevano in una Provincia diversa da quella pisana. Numeri che salgono vertiginosamente nelle altre città universitarie come Bologna (gli iscritti al primo anno fuori sede nel 2018/2019 erano oltre 10 mila), Ferrara (6.102) o Siena dove gli iscritti al primo anno fuori sede rappresentano il 65% del totale. Significa che ci saranno centinaia di appartamenti sfitti e una contrazione dei consumi tra bar, ristoranti e negozi che affosseranno ulteriormente l’economia delle città.

Del resto, tra il blocco dei licenziamenti in scadenza, la cassa integrazione che arriva a singhiozzo e troppe attività che non sono riuscite neanche a riaprire, le famiglie non possono permettersi di sovvenzionare un figlio universitario lontano da casa sostenendo il costo delle tasse universitarie, quello dei libri e soprattutto l’affitto di un immobile in condivisione (spesso in nero) che, tra vitto e alloggio, fa sborsare in media 650 euro al mese. Altre soluzioni non ce ne sono: in Italia l’offerta di residenza per gli studenti fuori sede copre appena l’8% del fabbisogno con 50 mila posto letto, di cui il 40% in Lombardia, Toscana ed Emilia-Romagna. Tutti gli altri devono andare in affitto. Ma ora con l’emergenza coronavirus, le famiglie non possono rischiare di esporsi troppo. Negli scorsi mesi solo una manciata di universitari sono riusciti a trovare un compromesso col proprietario di casa per farsi rimborsare la quota dell’affitto della stanza in cui non hanno più vissuto durante il lockdown. E solo negli scorsi giorni un emendamento al decreto Rilancio ha previsto che una parte del Fondo per il sostegno alle locazioni affitti venga utilizzato per rimborsare gli affitti degli studenti fuori sede con Isee inferiore o uguale a 15 mila euro. Sempre che i contratti siano stati registrati.

L’impoverimento delle famiglie rischia però di abbattersi soprattutto al Sud. Secondo l’ultimo rapporto Svimez – che ha confrontato questa crisi con quella del 2008 – il prossimo anno accademico rischia di registrare un crollo degli iscritti di almeno 10mila di cui circa 6.300 nel Mezzogiorno e 3.200 nel Centro-Nord. Un’ulteriore contrazione che si somma al lento declino registrato negli ultimi 12 anni che ha portato il Mezzogiorno a registrare i tassi di proseguimento scuola-Università più bassi dell’intera area euro. Un allarme che ha spinto diverse Regioni del Sud a intervenire con un contributo per facilitare il rientro degli studenti fuori sede presso le proprie università non facendo pagare la tassa regionale per il diritto allo studio universitario e le tasse universitarie. Una contromossa che potrebbe spingere anche le storiche città universitarie a proporre canoni di locazioni più flessibili o la copertura totale delle borse di studio.

Covid-19, l’autunno caldo delle università

In presenza, tutto, dalle lezioni agli esami: l’università di settembre nelle intenzioni del ministro Gaetano Manfredi è questa. Ne ha parlato con i rettori della Crui (la Conferenza dei rettori italiani) nei giorni scorsi e lo ha ribadito nella prima uscita pubblica a Milano, scelta come città simbolo. Oggi, gli atenei si dividono tra chi ha ripreso gli esami in presenza e chi preferisce aspettare ancora. A settembre, invece, la scelta dovrà essere condizionata solo da uno stato di effettiva necessità o impossibilità a fare diversamente. Le differenze territoriali saranno però inevitabili: gli atenei godono di un’autonomia ancora più ampia di quella di cui godono le scuole, soprattutto per quanto riguarda la didattica. Questo vuol dire che ognuno potrà organizzare la routine e le regole come riterrà più opportuno, purché si rifaccia alle linee guida del ministero e ai protocolli sanitari per prevenire e contenere la diffusione del Covid-19. Anche se la volontà è far tornare tutto a com’era prima, in realtà tutto potrebbe cambiare. E gli atenei più deboli potrebbero risentirne.

Didattica blended. Di sicuro c’è che la didattica a distanza sarà messa “a sistema”: piattaforme, lezioni, materiali condivisi e anche banche dati trasversali: la teoria racconta che sia importante fare in modo che sia garantito l’insegnamento anche agli studenti stranieri bloccati all’estero e che possa essere una valida alternativa nel caso di una nuova emergenza che potrebbe rendere impossibile per gli studenti italiani spostarsi tra le regioni o tra le città. Nella pratica però non è escluso che possa venire considerata una alternativa valida (e pratica) anche per gli altri studenti. Anche questo sarà a discrezione degli atenei ma, spiegano dal ministero, l’intenzione di Manfredi è mantenere saldo “il concetto di università come comunità”. Gli esami, salvo impedimenti gravi e dimostrabili, saranno in presenza. In mezzo c’è la possibilità che venga gradualmente meno la distinzione tra università tradizionali e telematiche.

Protocollo di sicurezza. Di certo si dovrà rispettare un protocollo di sicurezza contro il Covid-19 e la possibilità di nuovi focolai. È al vaglio del ministero della Salute e del Comitato tecnico-scientifico, conterrà regole molto simili a quelle già introdotte per gli uffici pubblici e in generale per la società civile: distanziamento, dispositivi di protezione, realizzazione di percorsi di entrata e uscita separati, regolazione degli orari di accesso, gestione organizzata dei flussi per i laboratori, le biblioteche e le mense. Come già per le scuole, i protocolli dovranno essere declinati in base alle caratteristiche delle diverse università.

Test ingresso. Si terranno in presenza i test di ingresso ai corsi di laurea gestiti a livello nazionale, come ad esempio i quiz di medicina. Per farlo, dovrà essere garantito il distanziamento e le linee guida prevedono che sia aumentato il numero delle sedi per svolgerli. In pratica, se prima gli aspiranti corsisti dovevano fare il test nella sede scelta per il corso, adesso potranno farlo nella sede universitaria più vicina al luogo di residenza. Per i test d’ingresso gestiti dagli atenei, invece, saranno le singole università a decidere se farli in presenza o a distanza.

Raddoppio dei corsi. Per evitare assembramenti e fare in modo che gli studenti mantengano le distanze, una soluzione sarà quella di smembrare i corsi di fatto raddoppiandoli (magari in base al cognome, come già accade) e alternandoli durante la giornata o durante la settimana. Sarebbe una risposta anche alle recenti proteste contro la didattica mista che, secondo le centinaia di docenti universitari che hanno firmato una lettera-appello a Manfredi, avrebbe rischiato di riservare “l’insegnamento in presenza a pochi eletti”.

No tax area. L’iniziativa più recente riguarda l’allargamento della “no tax area” per evitare il crollo delle immatricolazioni su cui ha dato l’allarme l’ultimo rapporto Svimez (i dettagli sono nell’articolo accanto). Sono stati stanziati 165 milioni di euro – a valere sul Fondo per il finanziamento ordinario – suddivisi in 50 milioni di euro per il totale taglio del contributo unico universitario per gli studenti con Isee entro i 20 mila euro, e in 65 milioni di euro destinati a coprire gli sconti fino all’80% per coloro che hanno un Isee tra 20-30 mila euro. Gli altri 50 milioni di euro sono destinati a ulteriori interventi di esonero “autonomamente definiti dalle università, in relazione alle condizioni specifiche di ciascun Ateneo”.

Gli altri stanziamenti. Molti soldi per l’università sono arrivati con il decreto Rilancio. Sessantadue milioni sono destinati agli studenti che non hanno accesso a strumenti per la didattica telematica, insieme ai 50 stanziati col Cura Italia. Inoltre, serviranno a finanziare l’accesso da remoto a banche dati e a risorse bibliografiche e l’accesso a piattaforme digitali. Anche con l’intenzione di poter favorire l’interscambio di banche dati tra gli atenei. Previsti poi 40 milioni per rifinanziare il fondo integrativo statale per le borse di studio, cui se ne dovrebbero aggiungere altrettanti dalle regioni. Proprio a Milano, giovedì, gli studenti hanno protestato chiedendo che la Regione aumenti i fondi per coprire anche gli idonei esclusi che, hanno sottolineato, aumenteranno sempre più.

La festa e il “terzetto dei miei sogni”: il manager, Joe Formaggio e Cruciani

Considero, senza scherzi, Giuseppe Cruciani, il famoso conduttore della trasmissione “La zanzara” sulle frequenze di Radio 24, portavoce impareggiabile del nuovo corso di Confindustria. E dunque mi ha fatto piacere apprendere che ci fosse anche lui, la settimana scorsa, tra gli invitati all’ormai famosa festa di compleanno cui partecipava, già febbricitante, l’anonimo manager della ditta Laserjet ricoverato poi in terapia intensiva all’ospedale di Vicenza. A completare il terzetto dei miei sogni, non mancava il consigliere regionale Joe Formaggio di Fratelli d’Italia a sua volta noto per i suoi ritratti con fucile in mano e per le sue minacce ai rom.

Naturalmente Cruciani e Formaggio precisano di aver salutato solo di lontano il contagioso manager, definito “brava persona”, o di essersi accomiatati per tempo da quel consesso. Dove si è fatto in tempo a notare che il suddetto manager non ha assaggiato neanche una fetta di torta, “lui che di solito mangia anche i tavoli”. Devo questi preziosi dettagli alla cronaca di Andrea Pasqualetto sul Corriere della Sera, che ringrazio.

Quanto a Cruciani e Cipolla, auguro loro buona salute, ci mancherebbe, e lo stesso augurio rivolgo alla “brava persona” che ora giace in ospedale a pancia in giù: che egli si ristabilisca in tempo per assaporare il coro di improperi suscitati dalla sfrontatezza del suo aggirarsi col virus nei paesi del Nordest, oltre che per incorrere nei rigori della legge che ha violato. Spero che le maestranze della sua fabbrica, al rientro, gli riservino il trattamento che merita. E che si trovi una forma di risarcimento morale anche per la profumiera descritta maliziosamente sui giornali dopo aver avuto dei contatti con lui.

Tra dipendenti coscritti ad accompagnarlo in Serbia e in Bosnia, gli altri che ha frequentato al ritorno nello stabilimento di Pojana Maggiore, partecipanti a un funerale (“ha abbracciato la vedova”) e infine alla festa, son più di un centinaio i malcapitati finiti in quarantena.

Se esordisco, però, con la citazione di Giuseppe Cruciani, non è solo per la sua meritata celebrità. Riconosco in lui un autentico campione dell’Italia del “me ne frego” contemporaneo, l’involontaria ciliegina sulla torta di quel compleanno funestato dal Covid. Maestro di turpiloquio, strizzatore d’occhio alle peggiori nefandezze razziste, misogine, omofobe, prostituzionali del pubblico che alleva, di più egli si erge per ciò stesso a campione di libertà. E come tale si è meritato il ruolo di uomo di punta della radio della Confindustria.

Libertà, sì: libertà d’improperio contro le gabbie del “politicamente corretto” (che barba, mi hai rotto i coglioni!) di pari passo con la libertà d’impresa dell’associazione degli imprenditori (la politica fa più danni del Covid). Anche girare senza mascherina, per lorsignori, sembra essere diventata una sfida di libertà.

Non a caso Alberto Gottardo, partner di Cruciani a “La zanzara”, anche lui presente alla festa, il 7 marzo scorso protestava: “Una classe dirigente senza coraggio blocca il Paese che al 90% è immune da rischi seri da questo coronavirus”.

Lo stesso concetto cui si rifacevano probabilmente gli imprenditori della Val Seriana che alla faccia dei divieti andavano e venivano con l’aereo da Lugano, contando sul servizio di autisti privati.

Il presidente della regione Veneto, Luca Zaia, quello che contrapponeva l’igiene della razza Piave alla sporcizia dei cinesi, ora è montato su tutte le furie. Farebbe meglio a riesaminare gli effetti patologici infettivi che allignano nella retorica del “fai da te” e infischiatene delle regole, prosperata nel nome di un malinteso spirito imprenditoriale.

Veneto, Romagna e Toscana. Caccia ai nuovi mini-focolai

“Ogni focolaio è una battaglia”, spiega il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri. E con la curva dei contagi che sale a ritmo lento ma costante (+235 ieri), le battaglie vanno vinte a tutti i costi. Così l’imprenditore veneto che andava in giro con la febbre, infettando 5 persone e costringendone a casa 89, è stato segnalato in Procura dall’Ulss di Vicenza. L’uomo, 65 anni, era rientrato in auto dai Balcani (Serbia e Bosnia), mostrando tutti i sintomi del Covid – e il paziente serbo che lo avrebbe contagiato sarebbe addirittura morto mercoledì secondo quanto detto dal governatore Zaia – ma non si è messo in quarantena. Anzi ha partecipato a una festa e a un funerale. Anche a tampone positivo, ha rifiutato il ricovero senza rispettare l’isolamento. Un comportamento “irresponsabile e denso di profili penali”, dice il consigliere scientifico del ministero della Salute Walter Ricciardi. Mentre Zaia, che invoca il ricovero coatto, annuncia un’ordinanza per “dare più potere ai sanitari” nel trattamento dei positivi.

È proprio il Veneto la regione che preoccupa di più. Qui i focolai attivi sono 22, anche se Zaia li riconduce a casi d’importazione: “Tra i contagiati abbiamo 118 stranieri. Ci portano da fuori il virus. Noi non ci occupiamo delle frontiere, non siamo noi che dobbiamo chiedere a quel Paese o a quell’altro di fare le quarantene”. Poi c’è l’indice Rt, risalito fino a 1,64 nell’ultima settimana di giugno e a 1,12 nell’ultimo monitoraggio ministeriale. Ma “avendo noi una percentuale bassissima dei contagiati, siamo passati da 135 focolai ai 22 di oggi, è inevitabile che va su l’indice R”, minimizza il leghista.

Sotto osservazioneanche l’Emilia-Romagna, dove, su 51 nuovi casi, 40 sono asintomatici. Di questi, 13 sono braccianti agricoli arrivati nei giorni scorsi dal Bangladesh, stipati tutti insieme in un appartamento a Ravenna. E sempre il sovraffollamento abitativo è la causa dei tre cluster familiari scoperti ieri in Toscana, a Cortona e Pian di Scò (Arezzo) e a Impruneta (Firenze): in totale 18 stranieri, più del 40% dei nuovi casi registrati nella Regione. Per fermare sul nascere i focolai domestici, il presidente Enrico Rossi ha ordinato ai sindaci di trasferire i positivi negli hotel, cosa finora possibile solo su base volontaria. Nel Lazio i contagi triplicano in 24 ore e salgono a quota 31. C’è anche un bimbo di 10 mesi, ricoverato al centro Covid del Bambin Gesù a Palidoro: i genitori sono negativi, si testano i contatti stretti. Altri due sono dipendenti del World Food Program – l’agenzia Onu per l’assistenza alimentare, con sede a Roma – di rientro dalla Somalia. Domani partiranno i tamponi a tappeto sulla comunità del Bangladesh nella Capitale, annunciati dall’assessorato alla Sanità del Campidoglio dopo la scoperta di vari positivi. “Atteggiamenti spavaldi e irresponsabili mettono a rischio la sicurezza degli altri. Il virus è ancora in circolazione e abbassare la guardia ora è davvero sbagliato”, avverte il governatore e segretario Pd Nicola Zingaretti.

Il caso Dama SpA e la beneficenza a metà: 25mila camici mai donati

“Vogliamo capire cosa è successo e se ci sono responsabilità penali. Di sicuro la vicenda è molto poco chiara”. È il commento del capogruppo 5Stelle al Pirellone, Marco Fumagalli, sull’ennesima svolta nella vicenda camici-Dama SpA, la società di proprietà di Roberta e Andrea Dini (rispettivamente moglie e cognato del presidente Attilio Fontana), e la famosa fornitura da 513 mila euro accordata dal Pirellone, poi divenuta “donazione”. Una storia svelata da Report e anticipata dal Fatto. Martedì prossimo M5S e Pd presenteranno due interrogazioni in Consiglio regionale per capire che fine abbiano fatto gli oltre 25 mila camici restanti che Dama aveva inizialmente deciso di regalare, ma che non sono mai stati consegnati.

Erano l’ultima parte della famosa fornitura: 75 mila camici e 7 mila set di cappellini e calzari che il Pirellone aveva ordinato a Dama il 16 aprile scorso, attraverso un affidamento diretto. Materiale che Dama, subito dopo la firma del contratto, inizia a consegnare con scadenza quotidiana, emettendo regolari fatture per complessivi 359 mila euro. A fine maggio però (dopo l’inizio delle investigazioni di Report, dicono i maligni), la stessa Dama dichiara di essersi sbagliata: quella fornitura onerosa è una donazione. Il documento che sancisce la metamorfosi è una mail, datata 20 maggio, che l’amministratore della Dama, Andrea Dini, invia ad Aria, dove si ufficializza la volontà “di trasformare il contratto di fornitura in una donazione”, aggiungendo: “Certi che apprezzerete la nostra decisione Vi informiamo che consideriamo conclusa la nostra fornitura”. Che tradotto significa: non vi manderemo nulla oltre quanto già inviato. Ovvero, alla data del 20 maggio, 7 mila set completi e 49.353 camici, per un totale di 359.482 euro (l’esatto importo delle due fatture inviate). All’appello quindi, rispetto al capitolato originale che di camici ne prevedeva 75 mila, mancano ancora 25.647 camici, per un valore di circa 153 mila euro: non arriveranno mai. E nessuno si aspetta che arrivino, del resto. Sicuramente non Aria, che dal 20 maggio ritiene conclusa la partita.

La beneficenza di Dama si ferma così in concomitanza con i primi rumors dell’indagine della trasmissione tv: regala ciò che ha già consegnato, e non completa la fornitura prevista e promessa. “Ma se Aria aveva dato senza gara a Dama un appalto per 75 mila camici, significa che quello era il numero di camici ritenuto necessario – ragiona Fumagalli – e se, come sembra, 25 mila non sono mai arrivati, significa che i medici lombardi avranno dovuto fare senza… È incredibile: qui siamo davanti a una donazione, ma solo a metà! Hanno cambiato idea anche su questo”.

Sulla stessa linea l’avvocato Giuseppe La Scala: “Dai documenti emerge che abbiamo la stipulazione di un accordo che prevede di trasformare in donazione ciò che originariamente era una pubblica fornitura. Se è così, mi pare inconcepibile che possa essere interrotta, anche tenuto conto delle esigenze sanitarie dalle quali era scaturita. Dama avrebbe dovuto consegnare tutto”.