La Regione: 300mila euro per “l’armonia dei bilanci”

Settecentomila euro di consulenze esterne per farsi spiegare le norme scritte di proprio pugno. È il paradosso che vive da anni Regione Lombardia, colpevole di aver creato un sistema di gestione della contabilità sanitaria talmente complicato, che nessuno è più in grado di comprenderlo. Un mare magnum formato da flussi di soldi tra Ats, Asst, Aziende ospedaliere e Regione, norme sovrapposte, anticipazioni di cassa, compensazioni… E il bello è che quel sistema – tecnicamente “Gestione sanitaria accentrata” (Gsa) – era stato adottato nel 2012 proprio per rendere più chiara la spesa sanitaria regionale, una torta da 19,2 miliardi l’anno.

A dimostrazione della difficoltà, se non proprio sbando, in cui versano gli uffici deputati alla Gsa, ci sono, nel 2017, i circa 400 mila euro versati a Kpmg, i cui esperti dovevano fornire “un supporto al percorso di riallineamento contabile” e redigere relazioni sull’attività svolta. Risale al 20 aprile 2017 il primo affidamento attraverso gara pubblica da 331.779 euro, cui fa seguito, un mese dopo (il 25 maggio), un secondo affidamento, questa volta diretto, da 42.621 euro. Ma nonostante Kpmg, la situazione non è migliorata. Tanto che Aria SpAl’Azienda regionale per l’innovazione e gli acquisti – ha appena pubblicato il nuovo bando da 300 mila euro per “il servizio di assistenza tecnica in materia di armonizzazione dei bilanci ex d.lgs 118/2011 per la tenuta della contabilità economico-patrimoniale, la predisposizione del bilancio di esercizio e del bilancio consolidato di Regione Lombardia, la riconciliazione tra le poste del bilancio regionale della gestione sanitaria accentrata e quelle iscritte nel bilancio regionale”. Durata del contratto: 36 mesi. Scadenza del bando: 15 luglio 2020.

E che ci sia bisogno di aiuto è indubbio. Lo ha ribadito la Corte dei Conti, nei giudizi di parifica sui bilanci lombardi. E lo ha sancito pochi giorni fa, il 30 giugno scorso, Oracl’Organismo regionale per le attività di controllo –, nella delibera “Istruttoria su Bilancio 2018 relativo alle Aziende Sociosanitarie Regionali Regolazione delle posizioni debitorie/creditorie pregresse”.

L’organo di controllo indipendente ha scavato nei rivoli dei finanziamenti erogati dal Pirellone tra il 1999 e il 2015, tentando di capire perché nei bilanci non torni circa un miliardo di euro. Si tratta di “regolazioni pregresse”: il consultivo dei debiti-crediti sanitari, una somma algebrica che dovrebbe fare zero, ma che zero non ha mai fatto. Tanto che Regione Lombardia è riuscita ad approvare i bilanci di esercizio del 2015, 2016 e 2017, solo a tardo 2018, quando per legge dovrebbero essere chiusi entro il 30 aprile dell’anno successivo.

Il giudizio di Orac è tranchant: “La creazione di una situazione contabile non perspicua appare dovuta anche alla scelta di percorrere per anni canali di finanziamento difficilmente ricostruibili ex post; poiché questi ultimi non appaiono del tutto allineati a talune regole, affiancandosi o sovrapponendosi ad esse (anticipazioni finalizzate e altro)”.

Un pasticcio, al quale il Pirellone ha messo una “pezza” a fine 2019, con una sanatoria (ma all’appello mancherebbero comunque ancora 180 milioni). Ed è stato per arrivare a quella sanatoria che la Regione ha dovuto chiedere aiuto ai consulenti. La cui opera però sembrerebbe andata persa. Scrive infatti Orac: “La Direzione Bilancio non ha trasmesso le relazioni del consulente (Kpmg) che pure sono state richieste ripetutamente; questa lacuna limita oggettivamente la possibilità di approfondimento tecnico della vicenda e va colmata mediante l’invio delle medesime relazioni”.

Intanto, però, il Pirellone è costretto a pagare degli esterni per spiegare al suo personale come interpretare norme scritte dalla Regione stessa per rendere più trasparente la spesa sanitaria. “Oggi Regione Lombardia ha una contabilità incomprensibile”, commenta Michele Usuelli, consigliere di +Europa (e uno dei due nomi in predicato per presiedere la famosa Commissione d’inchiesta regionale sul Covid, ancora oggi fantasma). “Ed è l’unica regione italiana ad aver adottato questo metodo di analisi. Una situazione peraltro ammessa anche dall’assessore al Bilancio, Davide Caparini, il quale in Commissione Bilancio ha promesso che dall’anno prossimo le cose miglioreranno… Tuttavia mi chiedo cosa succederà con il Covid 19: se già non si riusciva a rendicontare l’ordinario, cosa accadrà con la gestione di tutte quelle spese fatte in emergenza?”.

Calciopoli, la P3 e le nomine: le “porte girevoli” di Cosimino

Chi lo frequenta giura che è tranquillissimo. E che non ha certo perso il sonno da quando è venuto fuori che fu proprio lui a portare al cospetto di Silvio Berlusconi il giudice Amedeo Franco, desideroso di cospargersi il capo di cenere per la condanna che aveva collaborato ad infliggere al Cav: Cosimo Maria Ferri è del resto famoso per la sua abilità di passare tra una goccia d’acqua e l’altra restando sempre asciutto e indenne alle intemperie. Sebbene si sia spinto molte volte ben oltre il limite dei 110 all’ora cari a suo padre Enrico: Calciopoli, inchiesta P3, Trani-Gate, Caso Saguto lo hanno sfiorato senza mai coinvolgerlo né comprometterne la carriera. Anzi le carriere. In politica e in magistratura dove ha bruciato le tappe riuscendo ad entrare giovanissimo al Csm e poi ad espugnare l’Associazione nazionale magistrati con un pienone di voti mai visti assicurati grazie alla creatura di famiglia, Magistratura Indipendente, di cui è dominus incontrastato proprio come lo era stato suo padre. Che poi si era buttato nell’agone politico percorrendolo spericolatamente al Psdi a Forza Italia fino a Mastella. Sempre facendo base a Pontremoli (Massa), il feudo di famiglia dove i Ferri sono l’alfa e l’omega, nonostante gli inciampi.

Da un anno e più Cosimo, oggi deputato renziano, è finito nel tritacarne per l’affaire Palamara, mentre suo fratello Filippo è uno dei poliziotti condannati per il G8 di Genova. Dismessa la divisa non è certo rimasto a piedi: ha trovato lavoro nel 2012 alla corte di Berlusconi, come capo della sicurezza del Milan. Il terzo fratello Jacopo fa invece politica con alterne fortune: trombato alle Europee è riuscito a farsi eleggere a Pontremoli nonostante una condanna per tentato peculato. Va detto che a Cosimo invece piace giocare da sempre in serie A, anche se il calcio ha rischiato di costargli caro. Nel 2006 si dimise dall’incarico in Figc per evitare il processo sportivo che rischiava di subire per via degli uffici che lo avevano fatto ben volere al patron della Lazio, Claudio Lotito.

Ma questo non gli ha precluso l’elezione al Csm dove si è dato da fare anche per faccende collaterali: tra una pratica e l’altra a Palazzo dei Marescialli, aveva anche trovato il tempo per fare da consigliere a Giancarlo Innocenzi, commissario berlusconiano dell’Agcom che brigava per imbavagliare Michele Santoro che si ostinava a “processare” ad Annozero il Cav. Ma non è tutto: nel 2010 il suo nome venne fuori anche nelle telefonate di Pasqualino Lombardi, giudice tributarista coinvolto nell’inchiesta P3 poi deceduto, interessato alle nomine in alcuni uffici giudiziari strategici, come quella di Alfonso Marra per la Corte di Appello di Milano, a cui Ferri ben volentieri aveva accordato il suo appoggio.

Ma il telefono di Cosimo Ferri è restato rovente pure dopo aver lasciato il Csm: nel 2015 Silvana Saguto era riuscita ad incontrarlo certa di poter contare sul suo appoggio quando era già sottosegretario alla giustizia e nonostante il clamore delle polemiche per la gestione da parte della magistrato dei beni confiscati alla mafia.

L’anno prima c’erano stati i messaggini per sponsorizzare i “suoi” candidati al Csm. Sulle prime si era pensato che Matteo Renzi potesse addirittura chiedergli le dimissioni, ma poi non successe un bel nulla. Anzi. Pochi mesi più tardi tutto era talmente dimenticato che Andrea Orlando, ora numero due del Pd, e allora ministro della Giustizia, lo aveva addirittura encomiato: in 14 pagine fitte di lodi che erano valse al suo sottosegretario uno scatto di carriera da magistrato ancorché da tempo fuori ruolo. Per l’eccezionale ed instancabile energia lavorativa, l’assoluta affidabilità, l’empatia. “Il dottor Ferri – aveva scritto Orlando – risulta oggi portatore di una ragguardevole e completa esperienza, maturata tanto in ambito giudiziario quanto in ambito ministeriale, in uno scambio osmotico e virtuoso a tutto beneficio delle istituzioni”. La stessa capacità osmotica su cui conta per cavarsela ancora quando la Camera deciderà se autorizzare l’uso delle intercettazioni che lo chiamano in causa per il Palamara Gate.

I giornali e i vecchi amici: così è di nuovo risorto il Caimano

Non ce ne eravamo accorti, ma l’Italia ha un nuovo eroe. Nuovo per modo di dire, visto che la carta d’identità dice 1936 e il nome suona familiare da un pezzo: Berlusconi Silvio, professione imprenditore, politico e molto altro. In questi giorni è infatti riuscito a riunire intorno a sé schiere di amici più o meno dichiarati, tutti in fila per difenderlo e togliere la polvere da quelle litanie un po’ antiche che il declino politico di Silvio avevano fatto dimenticare: complotto dei giudici, giustizia di sinistra, colpo di Stato.

Il caso è noto: Berlusconi – o chi per lui – ha tirato fuori una registrazione in cui Amedeo Franco, il magistrato relatore della sentenza di Cassazione che ha condannato B. per frode fiscale a quattro anni, parla di “porcheria” e “condanna a priori”. La notizia non è parsa vera – o meglio: è parsa fin troppo vera – a Il Riformista, Il Giornale e Libero, che hanno gridato (nell’ordine) alla sentenza “forse” pilotata, al golpe e alla “vigliacchieria”. Il quotidiano di Vittorio Feltri e Pietro Senaldi ha pure lanciato una petizione per rendere Berlusconi senatore a vita. Più sorprendente l’atteggiamento di Repubblica, che un tempo si faceva vanto delle battaglie contro il Cav: mercoledì il quotidiano ora degli Elkann non ha messo in prima pagina la notizia della registrazione né la sua analisi, ma il giorno dopo ha onorato il nemico di una volta con un’intervista a tutta pagina. Fa ancor meglio Il Foglio: ieri ha dedicato una pagina al grande ritorno di Silvio (“Altro che ritiro, il Cav è tornato”) e ne ha riempita un’altra (“La politica sconfitta”) con “gli ultimi interventi di Berlusconi quando era senatore” (da notare: “discorsi, non tweet”).

Ampio contributo al processo di beatificazione sta poi arrivando dalla politica. Tra i più ardimentosi si segnala Sestino Giacomoni (FI): “Se ci fosse l’elezione diretta del Capo dello Stato, Berlusconi sarebbe stato già eletto da tempo. Però non è mai troppo tardi”. Il senatore Claudio Fazzone preferisce una citazione renziana, seguita dalla mai appassita polemica anti-pm: “Il tempo è galantuomo. La sentenza pilotata è l’emblema dell’uso politico della giustizia”. Alla parata della riabilitazione partecipa anche Stefania Craxi: “La vicenda di mio padre ormai non può aver riparo, ma per quella di Berlusconi mi auguro ci sia un gesto coraggioso da parte del presidente della Repubblica, che potrebbe nominarlo senatore a vita”. Parole a cui fa eco l’ex Psi Claudio Martelli: “Il plotone di esecuzione per Berlusconi? Lo conosciamo, è quello che ha preso la mira su di noi nel 1993, decidendo di far fuori una classe politica. Berlusconi è stato l’italiano più perseguitato della storia”.

Per difendere Silvio si scomoda pure l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara che, forse in vena di riferimenti autobiografici, chiede chiarezza su un caso di registrazioni ambientali e presunte trame di magistrati: “Sono accaduti dei fatti rispetto ai quali deve essere interesse di tutti chiarire e comprendere cosa è accaduto”.

Non manca poi il sostegno degli alleati. Matteo Salvini riesce nel non scontato compito di solidarizzare con B. facendo la vittima: “Dopo le intercettazioni di Palamara contro il sottoscritto, spunta un altro audio di un magistrato che ammette l’uso politico della giustizia. Solidarietà a Berlusconi per il processo farsa di cui è stato vittima”. E così Giorgia Meloni: “Un pezzo di magistratura fa politica e attacca avversari politici, invece di cercare la giustizia e dare risposte ai cittadini”. Una difesa di Silvio a cui volentieri partecipa Matteo Renzi: “Dobbiamo spogliarci delle casacche di parte. Mi colpisce che qualcuno cerchi di far finta di niente. Non sappiamo quello che è successo, ma una vicenda che coinvolge un ex premier non può essere ignorata”.

Il concetto è caro anche a Amedeo Laboccetta, ex deputato e ora presidente dell’associazione Polo Sud: “Ai tanti Don Abbondio e a chi ha memoria corta, ricordo che fu Napolitano il regista che avviò il colpo di Stato nei confronti di Berlusconi”. Per fortuna della destra, però, qualcosa si muove, come assicura Antonio Tajani: “Le istituzioni europee devono valutare se la magistratura abbia adempiuto al proprio compito in modo imparziale. Ho informato personalmente capi di Stato e di governo e li terrò aggiornati sugli sviluppi”. Si annuncia una saga avvincente.

Il Ferri degli scandali è sempre giudice: Pg e Csm stanno fermi

Quella del magistrato (in aspettativa) Cosimo Ferri, politico di lungo corso, è una storia lastricata di incontri, di telefonate tutte da chiarire. Alcune volte sull’orlo di un esame del Csm, dell’Anm che ha i processi interni per violazione del codice deontologico, finora l’ex consigliere del Csm, re delle nomine prima ancora di avere al fianco Luca Palamara, era stato un intoccabile. Quando, però, si è appreso a fine maggio 2019 dell’incontro notturno che c’era stato il 9 all’hotel Champagne, nella capitale, insieme a Palamara, al deputato renziano Luca Lotti e a 5 togati del Csm, per determinare il procuratore di Roma, anche per Ferri le cose si sono messe male.

Il deputato renziano avrà un mese di luglio pieno di spine. Venerdì prossimo si riunisce il Cdc dell’Anm, il “parlamentino” del sindacato delle toghe. Sarebbe l’occasione per votare su quale sanzione comminare a Ferri. Secondo quanto risulta al Fatto, però, al momento il suo caso non è all’ordine del giorno perché non è certo che il collegio dei probiviri, che deve proporre la sanzione ai “giudici” del Cdc, si riunisca in tempo. Già il 20 giugno scorso Ferri poteva o essere espulso dall’Anm, come Palamara, o sospeso magari per 5 anni, come l’ex Csm Paolo Criscuoli tra i presenti all’hotel Champagne (gli altri 4 ex togati si erano dimessi).

Invece, per Ferri c’è stato un ritorno della pratica ai probiviri perché avevano dato ragione all’attuale deputato: non ho pagato le quote associative, quindi non faccio più parte dell’Anm. Ergo, non potete giudicarmi. Tesi sbugiardata dal Cdc: ha pagato le quote, carta canta e, diversamente, sarebbe moroso, non fuori dall’Anm. Ma i probiviri, nonostante la magra figura di non esserci arrivati da soli a una conclusione così elementare, non si sono ancora riuniti. Come se non ci fosse di mezzo la credibilità della magistratura, precipitata nell’abisso. In questi giorni si è pure appreso che Ferri, nel 2014, quando era sottosegretario alla Giustizia, ha accompagnato il giudice della Cassazione Amedeo Franco dal suo ex imputato Silvio Berlusconi per dissociarsi dalla sentenza di condanna che aveva firmato.

I guai più seri per Ferri, comunque, arrivano dalla procura generale della Cassazione guidata da Giovanni Salvi: è finito sotto processo disciplinare per la vicenda dell’hotel Champagne così come Palamara e i 5 ex togati del Csm. La sua posizione è, però, particolare, dato che è un deputato: su richiesta del Pg, il 21 luglio, alla prima udienza, il collegio disciplinare del Csm dovrà chiedere, con un’ordinanza, un’ autorizzazione alla Camera per l’uso delle intercettazioni.

Nonostante sia finito spesso nella bufera, una sola volta Ferri, in passato, ha rischiato in concreto di avere una pratica aperta al Csm: nel marzo 2010 la chiesero, senza successo, ben 15 consiglieri al Comitato di presidenza a guida Nicola Mancino. Volevano verificare i rapporti tra Ferri, allora togato di Magistratura Indipendente e il commissario dell’Agcom Giancarlo Innocenzi, che gli aveva chiesto suggerimenti su come scrivere un esposto per far chiudere Annozero di Michele Santoro, sulla Rai, dietro richiesta di Berlusconi. Non ebbe conseguenze neppure nel 2014 quando da sottosegretario alla Giustizia, quindi con un ruolo politico, Ferri inviò sms ai magistrato per far votare al Csm due suoi pupilli: Luca Forteleoni e Lorenzo Pontecorvo, eletti. Una grave interferenza che, però, per l’Anm meritò solo un comunicato di critica.

Un geco ai Ferri

Ma che deve ancora fare Cosimo Maria Ferri per essere cacciato dalla magistratura? Nato nel 1971 a Pontremoli; figlio del ministro Enrico (quello del Psdi e dei 100 km all’ora, anche lui magistrato, poi eurodeputato FI); fratello di Jacopo, consigliere regionale FI condannato a 1 anno per tentata truffa, e di Filippo, ex poliziotto condannato a 3 anni e 8 mesi per falso aggravato nel processo per la mattanza alla scuola Diaz (G8 a Genova), dunque capo della sicurezza del Milan berlusconiano; giudice a Carrara. Grazie ai rapporti politico-clientelari ereditati dal padre, diventa il ras della corrente di destra MI e inizia a collezionare incarichi extragiudiziari. All’Ufficio vertenze economiche della Federcalcio, viene intercettato nel 2005 dai pm di Calciopoli mentre ringrazia il vicepresidente Figc Innocenzo Mazzini a nome dell’amico Claudio Lotito, patron della Lazio, per aver fatto designare un arbitro che ha favorito i biancazzurri: “Mi ha detto Claudio di ringraziarti. Sei un grande!”. Il Csm archivia e pochi mesi dopo si ritrova Ferri (a soli 35 anni) membro togato, eletto con ben 553 voti. La sua scalata di spicciafaccende fra politica, giustizia e affari prosegue nel 2009: B. tenta di far chiudere Annozero di Santoro e i pm di Trani intercettano Giancarlo Innocenzi, membro forzista dell’Agcom, che gli porta buone nuove: “Mi sono incontrato anche con Cosimo e abbiamo messo insieme un gruppo giuristi amici di Ferri, analizzato tutte e 5 le trasmissioni e riscontrato tutta una serie di infrazioni abbastanza gravi…”. Ben 15 membri del Csm chiedono di aprire una pratica su Ferri, ma il Comitato di presidenza (Mancino&C.) sorvola pure stavolta, sennò Ferri dovrebbe giudicarsi da solo.

Così il Mister Wolf della Lunigiana continua a trafficare. E a farsi beccare. Nel 2010, indagando sulla P3, i pm romani scoprono che spinge le toghe protette dalla loggia: Alfonso Marra per la Corte d’appello di Milano e non solo lui. Pasqualino Lombardi, faccendiere irpino della P3, chiama la segretaria di Ferri: “(Al Csm, ndr) han fatto pure il pubblico ministero di Isernia?”. E quella: “Aspe’, chi ti interessava?”. Lombardi: “Paolo Albano, che è pure un amico!”. Lei lo richiama due ore dopo: “Ho chiesto a Cosimo di Albano… m’ha detto che non ci dovrebbero essere problemi”. Un’altra fulgida prova di indipendenza, che non gli impedisce di pontificare sul Riformista per la “trasparenza in magistratura” e i “criteri meritocratici” contro la nefasta “influenza correntizia” che porta certi colleghi (ce l’ha con Ingroia, mica con se stesso, ci mancherebbe) ad “apparire di parte”, creando “confusione fra i cittadini”.

Nel 2010 il Csm scade e si libera di lui. Che però, con quel pedigree, diventa segretario di MI e nel 2012 è il magistrato più votato di sempre all’Anm (1199 preferenze). Nel 2013 FI lo impone sottosegretario alla Giustizia nel governo Letta. Lui si dà subito da fare per scongiurare la condanna di B. in Cassazione per frode fiscale: va a trovare il presidente Esposito per invitarlo al Premio Bancarella nella natia Pontremoli. Il giudice, per ovvi motivi, declina. B. viene condannato e decàde da senatore. Il 6 febbraio 2014 Ferri porta al neopregiudicato il giudice relatore della sentenza, Amedeo Franco, che viene registrato mentre viola (mentendo) il segreto della camera di consiglio. Pur essendo un magistrato, Cosimino non denuncia i presunti reati segnalati da Franco, nè il sicuro reato (violazione di segreto d’ufficio) commesso da Franco. Nel giro berlusconiano – rivela Tommaso Labate sul Corriere – lo chiamano “il Geco” perché “aspetta nascosto dietro le piante alte dell’ingresso posteriore di Palazzo Grazioli che gli ospiti serali se ne vadano. Poi, incassato il via libera dalla segreteria, sale in casa per conferire col n. 1”. Pochi giorni dopo, l’Innominabile lo conferma sottosegretario alla Giustizia, stavolta in quota Verdini (amico di famiglia). E Napolitano non fa una piega, anche se ha appena respinto Nicola Gratteri come ministro perché “Via Arenula non fa per i magistrati” (almeno per quelli perbene).

Il 6 luglio si elegge il nuovo Csm e Ferri, dal ministero, invia sms agli ex colleghi di MI per far votare i suoi protegé Pontecorvo e Forteleoni (puntualmente eletti). Ormai è un conflitto d’interessi vivente: membro del governo, interferisce nell’“organo di autogoverno” dei magistrati. Che però continua a fregarsene. Come pure l’Innominabile e i partiti di destra, che fingono di combattere le toghe politicizzate e invece le vorrebbero tutta così. Ferri resta sottosegretario pure con Gentiloni. Poi nel 2018 viene eletto deputato del Pd per grazia renziana ricevuta (passerà presto a Iv). Lui, berlusconiano di ferro. Lui che, quando si candidarono Grasso e Ingroia, invocò “nuove regole per tutelare la credibilità della magistratura davanti ai cittadini”. Credibilità a cui continua a contribuire nei vertici notturni all’hotel Champagne con i due Luca, il togato-indagato del Csm Palamara e il deputato-imputato Lotti, per scegliere i procuratori di Roma, Perugia e Firenze più graditi al Giglio Magico nella triplice veste di politico, giudice e faccendiere. Che l’Innominabile se lo tenga stretto, si capisce: con tutti i guai che ha in famiglia, può sempre servire. Ma il Csm che aspetta a radiarlo dalla magistratura? Il Geco, con quella faccia, è capace pure di tornarci.

Le avventure di Marco Polo nella terra del dragone

Quante miglia percorse Marco Polo, uno degli esploratori più famosi del mondo, affrontando “deserti polverosi, pantani limacciosi e cumuli di neve”? Che cosa vide e scoprì? Partito adolescente nel 1271 da Venezia col padre e lo zio mercanti, tornerà alla Serenissima 24 anni dopo. Come ha poi narrato nel celeberrimo Il Milione, e come si racconta nel volume per i più piccoli Marco Polo. Viaggio nella terra del dragone (il testo, capace di restituire la magia del viaggio, è del traduttore e critico letterario slovacco Patrick Oriešek e le illustrazioni, tavole molto geometriche giocate sul giallo, blu, rosso, bianco, verde e nero sono dell’artista Han), Polo era diretto in Catai, remota regione della Cina occidentale anche detta Terra del Dragone. Il fine? Incontrare, impiegarono tre anni!, l’imperatore Khan, nipote del famoso Gengis Khan, a Khanbaliq, l’antica Pechino. Khan cercava qualcuno di fidato e colto che collezionasse per lui notizie su come si svolgeva la vita all’interno del suo vasto impero, compito a cui Polo – che ne diventò consigliere, ambasciatore e informatore – assolse puntualmente, esplorando la Cina in lungo e in largo e arricchendosi, economicamente ma ben di più nello spirito. Un’avventura unica e appassionante che accende la curiosità per ciò che non conosciamo e l’interesse per una materia non sempre amata come la geografia.

 

Marco Polo. Viaggio …, Patrick Oriešek, Pagine: 28, Prezzo: 18, Editore Jaca Book

Salvemini racconta l’Italia di Giolitti: “Preparò la strada a Benito Mussolini”

È un piacere, al di là della condivisione o meno del contenuto, ripercorrere lo stile brioso e polemico di Gaetano Salvemini in questo scritto riproposto da Bollati Boringhieri. La riscoperta, in anni di pensiero politico moribondo, dell’argomentare coraggioso e pugnace di uno dei massimi esponenti della corrente liberal socialista italiana, tra i fondatori di Giustizia e Libertà, tenace antifascista e polemista arguto. Il suo libro su Giovanni Giolitti, Il ministro della mala vita costituisce un pilastro dell’analisi della fase giolittiana e, va ricordato, un’ispirazione per le polemiche di Roberto Saviano contro l’allora ministro Matteo Salvini.

La rivoluzione del ricco costituisce un’estensione della polemica contro Giolitti che visse “da ottimo burocrate, alla giornata, non facendo nulla finché si poteva non far nulla e tappando i buchi dove si aprivano dei buchi che occorreva tappare”. E poi anche più di questo: ministro dei “mazzieri” per le pratiche di manipolazione elettorale nel Sud d’Italia dove “vendeva il prefetto e comprava il deputato”. Ovviamente dopo Giolitti avvenne il peggio, ma Salvemini invita a cogliere la continuità tra il Giolitti, “Giovanni Battista” che “preparò” la strada a Mussolini. Tanto che quando lo statista liberale attaccò nel 1928 la riforma della legge elettorale voluta dal Duce, questi lo apostrofò in aula: “Verremo da lei a imparare a fare le elezioni”.

Continuità che oltre all’uomo politico chiama in causa la fase post-risorgimentale in cui in Italia non ci fu una vera democrazia. Ci fu “la democrazia del ricco” di chi fece la vera rivoluzione, quella dell’oligarchia liberale che, al massimo, rese l’Italia una “democrazia in cammino”. Ma non compiuta. Per capire l’avvento del fascismo è bene ricordare la pesante eredità del liberalismo di inizio 900, Giolitti e non solo Giolitti. E Salvemini lo ricorda magistralmente.

 

La rivoluzione del ricco, Gaetano Salvemini, Pagine: 136, Prezzo: 12.50, Editore: Bollati Boringhieri

 

Nelle piazze d’Italia si scova la bellezza

Il sole che da nord bagna la torre massiccia e fulva che, come una matrona, troneggia su di uno slargo deserto; o ancora l’impasto di luce e ombre che conquista il vuoto desolato dei larghi corridoi di terra pronti ad ammantare monumenti e statue nella serie Piazze dItalia di Giorgio de Chirico (che è il primo tema ricorrente figurativo del De Chirico metafisico) sembrano tornare di toccante attualità, con tutto il loro fascino apocalittico, nelle fotografie del progetto curato e ideato dal fotografo Marco Delogu le Piazze [In]visibili.

Promosso dal ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e realizzato da Punctum press, l’idea è stata quella di riunire 21 nostre piazze durante il recente periodo del confinamento primaverile narrate su un doppio binario di linguaggio da fotografi e scrittori insieme. Sfila così Piazza Navona fotografata da Francesca Pompei e raccontata da Valerio Magrelli, che ravvisa nella Fontana dei Fiumi del Bernini la matrice della Tour Eiffel; insieme a Piazza Carignano a Torino, il cui scatto firmato da Eva Frapiccini ben argomento quando Elisabetta Cibrario la descrive come una “bella smagliatura vistosa nello schema di facciate ordinate, di strade larghe e diritte”.

E ancora Piazza Duomo a Catania, vista dall’alto in tutta la sua fatale e barocca bellezza da Alice Grassi, in cui Salvatore Silvano Nigro riesce a isolare il murmure della Fontana dell’Elefante che, come un carillon, richiama rapinoso e incessante il teatro giocattoloso della piazza; accanto a Piazza della Signoria a Firenze, che Daniele Molajoli ritrae invece dal basso, all’altezza dello sguardo, per far cogliere – come sottolinea Carlo Carabba – “secoli di stratificazioni”. Negli scatti selezionati da Delogu c’è però, un canto della bellezza che supera la visione metafisica e astratta di De Chirico, che pure resta pertinente poiché avvalora la funzione heideggeriana dell’arte nella ricerca di quella verità che il pensiero razionale disattende. Questa collezione di “fotografie parlanti” racconta di uno sforzo – in cui riescono solo gli strumenti dell’arte – di scovare dove si annida la gioia.

Delogu, allora, segue un’intuizione massimalista e per riempire il silenzio terrifico delle piazze deserte – in cui la presenza umana è assente – si affida alle costruzioni, ai marmi nivei, alle facciate tinte, all’acqua delle fontane, al selciato luccicante, alla linea discontinua dello skyline, alle finestre aperte, alle illuminazioni: memorie che sanno calmierare l’attesa di una nuova felicità.

Le Piazze [In]visibili a cura di Marco Delogu

Intrigo internazionale tra Francia e Olanda: il primo caso di Gerard, bel commissario 007

Due solitudini. Un uomo, Gerard, e una donna, Sahar. E un intrigo internazionale tra Parigi, Marsiglia e Amsterdam. La prima scena è proprio nella città olandese. Mick Hendriks lavora per la Seleksoft, importante azienda informatica. Hendriks è un esperto di crittografia e sta completando un software fuorilegge per “iniettare” mappe, messaggi e ogni genere di segreti in immagini comuni, dentro un puntino invisibile. Si chiama steganografia iniettiva. Sta sorgendo l’alba e lui ha finito quando c’è l’irruzione di un commando. Un uomo mascherato lo minaccia, si fa consegnare le pen drive e lo uccide.

Seconda scena. François Gerard è un maturo commissario dei Servizi francesi. Si trova nel nord della Francia con un’amica occasionale e incrocia per caso un suo vecchio collega, l’ispettore Legrand. Si vedono a cena e Legrand gli racconta il suo ultimo caso: un contabile precipitato dal campanile di un priorato. Omicidio? Suicidio? Incidente? Gerard sembra quasi annoiato dalla descrizione dell’inchiesta ma poi il suo amico poliziotto viene ritrovato ucciso a Marsiglia. Ed è qui che abita Sahar, magnetica tunisina che fa la commessa in una libreria e sconta un amore ormai consumato con Farid. Lei è femminista e laica. Lui un integralista musulmano.

Gerard e Sahar si rincorrono senza saperlo per tutta la trama della Fuggitiva, thriller d’esordio di Carlo Lefebvre, saggista, accademico di Geografia economico-politica ed esperto di progetti d’investimenti che ha collaborato anche con Palazzo Chigi. La costruzione oltre che avvincente è meticolosa sotto vari aspetti: la padronanza “politica” del contesto, l’antropologia delle città in cui si muovono i protagonisti, il vissuto privato di Gerard e Sahar. Non resta che aspettare il secondo caso di questo nuovo commissario francese.

 

La fuggitiva – Carlo Lefebvre, Pagine: 454, Prezzo: 16, Editore: Giunti

Ricordare l’amore è l’unica salvezza

Quando un bastone di ferro le si conficca nella pancia, la ventottenne Sayo sta ascoltando Lover, Lover, Lover di Leonard Cohen mentre il fidanzato, scultore, guida accanto a lei. Un istante ed ecco aprirsi lo spartiacque tra il prima e il dopo, cioè quello che accadrà in seguito all’incidente che si porta via lui mentre lei sopravvive. Sayo non sarà più la stessa. Il poi sarà un lento percorso di riabilitazione alla vita, di superamento del lutto. A segnarla le cicatrici, fisiche ma egualmente simboliche, come quelle su testa e addome, a cambiarla nuove consapevolezze: “La morte è sempre a un passo da noi” anche se spesso ce ne scordiamo; ognuno vive col peso del dolore che ha provato e quel fardello non deve essere condanna ma memento per incedere nel tempo che ci resta con grazia; chi ci lascia non se andrà mai del tutto se ne onoriamo il ricordo, come lei farà con Yichi, catalogando e monitorando le sue opere sparse per il mondo e tenendone in ordine lo studio-appartamento a Kyoto, teatro del loro amore.

Ne Il dolce domani (il titolo in inglese è Sweet hereafter ed è curioso notare che hereafter può significare “da questo momento in avanti” ma anche “l’aldilà”), 29esimo romanzo tradotto in italiano della nipponica Banana Yoshimoto, si ravvisano la consueta ariosità e delicatezza di stile e i temi a lei cari, quasi marchio di riconoscimento: la perdita di qualcuno amato che però continua a vibrare, a volte tramite ciò che gli è appartenuto – “Le sue opere”, di Yichi, “erano i nostri figli, presenze degne d’amore che esistevano, e vivevano” -, il senso di solitudine che è effetto diretto della mancanza di ciò che prima era certo, l’amicizia che sostiene, come quella che Sayo intreccia con Ataru, trasparente e priva di secondi fini essendo lui gay, e ancora il rapporto virtuoso tra giovani e adulti. Per esempio Sayo pensa al nonno perso quando era bambina come a un faro guida (nei sogni dettati dal coma lui la incoraggia a resistere) ed è affezionata ai genitori di Yichi che in lei sentono pulsare l’energia del figlio defunto come lei sente lui respirare in loro.

Non da ultimo spicca il topos della morte che lascia dietro di sé un’eco di malinconia cui si affianca però la speranza di un domani normale, dolce nel senso di lieve, di cui cogliere “la bellezza dei fiori su un davanzale. Incrociare lo sguardo di qualcuno che, come noi, è abbattuto e vive nell’ombra”. Momenti da custodire, “come quando infiliamo in tasca il guscio liscio di una conchiglia”, e da cui trarre forza. Non manca neanche la presenza dei fantasmi (qui si tratta di yrei, per i giapponesi gli spiriti di chi ha subito una morte violenta o improvvisa), punto di contatto con una dimensione altra, l’hereafter cui si accennava, che possiedono ancora forti emozioni e legami a trattenerli nel nostro mondo.

Sullo sfondo sempre il natio Giappone, le cui zone meno caotiche, come Kyoto, sono nidi a cui tornare per attutire gli urti. Scritto nel 2011 come omaggio alle popolazioni colpite dal terremoto-tsunami di Fukushima, questo romanzo merita di essere descritto con le parole che Yoshimoto ha riservato a uno dei personaggi del suo Ricordi di un vicolo cieco (2003): “Dolce e soave”, nonostante le ombre che lo innervano, “come i boccioli dei ciliegi che si schiudono”.

 

Il dolce domani, Banana Yoshimoto, Pagine: 112, Prezzo: 12, Editore: Feltrinelli