Corte Costituzionale, il ricambio (infinito) dei presidenti in serie

L’immagine parrà irriverente, perché riferita alla quinta carica dello Stato. Ma è un fatto che i presidenti della Corte costituzionale si susseguono a una velocità da cinema muto. Dall’inizio del 2000 fino ad oggi ne sono entrati e usciti dalla porta di Palazzo della Consulta in 24, compresi due facenti funzione. E ben 15 di loro sono rimasti in carica per meno di un anno. Fra questi l’attuale ministro della Giustizia Marta Cartabia, che durò nove mesi, e Giuliano Amato, nominato il 29 gennaio scorso, che saluterà tutti il prossimo 18 settembre: otto mesi scarsi, 232 giorni compresi i week-end. Statisticamente, il più veloce di tutti sembra essere stato Mario Rosario Roselli, il terz’ultimo presidente, che si fermò alla Consulta a quattro giorni dai tre mesi di mandato, seguito a ruota da Giovanni Maria Flick, con tre mesi e quattro giorni, e da Giuseppe Tesauro, tre mesi e nove giorni.

Non era questo l’auspicio dei padri costituenti, che all’articolo 135 della Carta hanno scritto: “La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dell’ufficio di giudice”. Ma come si è ottenuta questa vorticosa rotazione, autogestita dai quindici giudici della Corte: inducendo un presidente a dimettersi, per poi eleggerne un altro? Niente affatto. Viene più semplicemente scelto al vertice un giudice che di lì a poco concluderà i nove anni del suo mandato. Essere vicini alla scadenza è una buona ragione, oltre al tuo valore e al tuo prestigio, per essere papabile. Dell’articolo 135 della Costituzione, si valorizza dunque soltanto quel “fermi in ogni caso i termini di scadenza dell’ufficio di giudice”. Un unico presidente, in questo scorcio di secolo, aveva la prospettiva di concludere un mandato pieno: Alessandro Criscuolo, eletto il 12 novembre 2014, per poi dimettersi però dopo quindici mesi e restare fra i giudici della Corte fino alla scadenza dell’11 novembre 2017.

Ma quali sono le ragioni di una simile volatilità della carica? Certamente il prestigio di guidare l’organismo che fa da guardiano alla nostra Costituzione, di essere accanto al presidente della Repubblica in tutte le circostanze più importanti, di decidere i giudici relatori di ciascuna causa, di fissare il calendario dei lavori, di far valere il proprio voto come doppio, nel caso in cui in un giudizio via sia parità di voti. E magari di guadagnarsi un futuro ancora più glorioso. Anche se la nostra “Corte dai presidenti corti” è tuttora dominata dalle chiome bianche, e quasi tutte di sesso maschile. Va poi detto che non sempre vi sono giuristi che si staccano nettamente sugli altri, tanto è vero che i presidenti vengono scelti in diversi casi con un piccolo scarto di voti (non Giuliano Amato, eletto all’unanimità).

Ma vi è pure un’altra ragione, di carattere economico, che incentiva la corsa alla presidenza. Il tetto Renzi di 240 mila euro l’anno, peraltro appena ritoccato dal governo Draghi, venne applicato alla Corte con un margine di vantaggio: 362 mila euro per i giudici, da aggiungere alla pensione di cui eventualmente già godono, e 432 mila per il presidente, che ha una sua indennità di rappresentanza. Queste somme, fra le più alte al mondo (siamo al doppio di quanto percepiscano i giudici americani e al 50 per cento in più di quelli britannici), si trasformano al termine dei nove anni in liquidazione e pensione. Ma perché anche l’indennità di rappresentanza incida sull’assegno di quiescenza, è necessario, spiegò in passato l’ufficio stampa della Corte costituzionale, che il presidente sia stato in carica per un anno o più. E questo almeno limita i danni di un costume che è assolutamente necessario correggere.

 

Re Sergio il buono regna sul Titanic della politica

Dotato per fortuna di sufficiente autoironia, ieri a Montecitorio re Sergio il Buono aveva l’aria di non prendere troppo sul serio il clima sovreccitato che ha contraddistinto la sua incoronazione. Si è concesso un pizzico di ipocrisia definendo “inattesa” la “nuova chiamata” cui ha deciso di non sottrarsi, estendendo a 14 gli anni del suo mandato presidenziale. Se lo porterà a termine, come gli auguriamo – anche perché le alternative rischiano di essere peggiori – batterà ogni record di durata in una democrazia occidentale. Charles de Gaulle si ritirò dopo un decennio. L’insostituibilità di Mattarella non costituisce certo un sintomo di buona salute della nostra democrazia. L’esultanza che prorompeva ieri a scatti nell’emiciclo dei grandi elettori – con l’unica eccezione dell’estrema destra fiduciosa di trarre vantaggio dalla crisi di sistema incombente – somigliava a una cortina fumogena destinata presto a dissolversi, svelandoci un assetto istituzionale già in buona misura modificato. Tutto ha avuto inizio esattamente il 2 febbraio dell’anno scorso, quando, per la prima volta nella storia della Repubblica, il presidente Mattarella ha chiesto al Parlamento di conferire la fiducia a un governo “che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Si badi bene: unità nazionale energicamente suggerita dall’alto. Cioè non maturata nel confronto fra i partiti, che anzi fino all’ultimo la escludevano, ma legittimata per l’appunto in altezza, dal suo “alto profilo”: Draghi, la pattuglia dei suoi tecnici, e i ministri politici da lui selezionati fra i più consenzienti. È bastato restituire per una settimana ai partiti la titolarità della scelta del capo dello Stato perché si determinasse quello che Mattarella ieri ha definito “uno stato di profonda incertezza politica che non poteva prolungarsi”. È apparso cioè chiaro che Draghi eletto al Quirinale, com’era nei desiderata dei diretti interessati, avrebbe comportato l’inevitabile sua sostituzione alla guida del governo da parte di un altro tecnico; perché nessuna forza politica dell’attuale maggioranza avrebbe mai concesso quell’incarico ai rivali. Di qui la rapida marcia indietro di Mattarella, in nome della “stabilità di cui si avverte il bisogno”. Non si poteva che lasciare le cose come stanno. Una forzatura costituzionale tira l’altra. L’anno scorso, la scelta tecnocratica; quest’anno, per la seconda volta di fila, la riconferma di un presidente in carica che continua a ritenerla indispensabile.

La domanda allora è: fino a quando? Tutti i partiti della maggioranza attuale, pur nella loro evidente diversità che ha paralizzato gli ultimi mesi del governo Draghi, si son dichiarati favorevoli a rinnovare un “patto di legislatura”. Strano, visto che la legislatura sta giungendo a scadenza. Che intenzioni manifesteranno i partiti di governo ai loro elettori fra qualche mese, anche per giustificare la scelta compiuta?

Una cosa è sicura: non potranno chiedere il voto su programmi contrapposti in materia sociale, economica, fiscale, di diritti civili, e al tempo stesso aderire all’invito di Draghi e Mattarella che all’unisono gli chiedono di continuare a governare insieme.

Qualcuno, difatti, ha cominciato ad auspicare che Draghi continui il suo lavoro anche dopo il 2023, perché è il più bravo e perché l’emergenza non si esaurirà in un anno. I più intraprendenti consigliano di intestarselo candidato premier già in campagna elettorale. Ormai i “draghiani” si fanno sentire in ogni partito e stringono patti trasversali, sul modello dell’inedita coppia Di Maio-Giorgetti.

Svincolarsi da questa realtà di “doppio presidenzialismo” imperniata sul binomio Draghi-Mattarella risulterà difficilissimo, anche se proseguire col governo degli opposti comporterà uno snaturamento dei partiti che ne fanno parte, e la disaffezione di molti loro sostenitori.

Oggi chi soffre di più questo dilemma è la Lega, timorosa di venir cannibalizzata da Fratelli d’Italia, avendo constatato che anche in Italia, così come già accade in Francia, la tecnocrazia al potere lascia alla destra il monopolio dell’opposizione. Mentre la sinistra, ispirata da un malinteso senso di responsabilità, vede frantumarsi le sue componenti minoritarie più radicali e convergere al centro il grosso del Pd.

Acclamando Mattarella come il loro salvatore, i parlamentari ieri rendevano certo omaggio a una personalità dal profilo specchiato come se ne contano ormai poche nei loro banchi; ma gli applausi tributati a ogni buona causa elencata dal presidente segnalavano anche una disperata propensione al trasformismo.

Re Sergio si è mostrato benevolo nei loro confronti. Ha evitato di indicarli fra gli artefici dell’astensionismo che dilaga fra i cittadini. Spero di sbagliarmi, ma temo che ricorderemo la cerimonia d’incoronazione celebrata a Montecitorio alla stregua dell’ultimo gran ballo del Titanic.

 

Forever Young, il cinismo di Spotify sul podcast no-vax: serve una legge

Un mese fa, 250 membri della comunità scientifica e medica statunitense hanno inviato un appello a Spotify, la piattaforma di contenuti streaming on demand (brani musicali e podcast), affinché smetta di diffondere contenuti pericolosi per la salute pubblica come quelli di The Joe Rogan Experience, il podcast più ascoltato negli Usa. L’allarme è dettagliato: “Durante la pandemia di Covid-19, Joe Rogan ha diffuso ripetutamente affermazioni fuorvianti e false sul suo podcast. Ha scoraggiato la vaccinazione nei giovani e nei bambini, ha affermato erroneamente che i vaccini a mRna sono ‘terapia genica’, ha promosso l’uso dell’ivermectina per trattare la Covid-19 (contrariamente agli avvertimenti della Fda) e ha diffuso una serie di teorie complottiste infondate. Rogan ha ospitato il dottor Robert Malone, già sospeso da Twitter per aver diffuso disinformazione su Covid-19, che ha promosso altre affermazioni infondate, comprese diverse falsità sui vaccini Covid-19 e una teoria infondata secondo cui i leader della società hanno ‘ipnotizzato’ il pubblico. Il dottor Malone è uno dei due recenti ospiti di Rogan che hanno paragonato le politiche sulla pandemia all’Olocausto. Questi atti non sono solo discutibili e offensivi, ma anche pericolosi dal punto di vista medico e culturale”. A questo punto, Neil Young ha posto un aut aut a Spotify (“O me o Rogan”) e Spotify ha scelto Rogan, la superstar cui ha fatto un contratto da 100 milioni di dollari l’anno. Alcuni artisti hanno sostenuto Young facendo la sua stessa scelta anti-economica (uscire dal catalogo Spotify) poiché il problema è serio. Come dice Joni Mitchell, “gente irresponsabile sta diffondendo bugie che la gente paga con la vita”. Quando l’ex principe Harry contestò le sue tirate anti-vacciniste, Rogan replicò: “È colpa mia se prendi consigli sul vaccino da me?”. Che è come se Zuckerberg dicesse: “È colpa mia se prendete consigli sui Rohingya da Facebook?”. Be’, se promuovi l’ivermectina invece dei vaccini approvati fai da megafono alla pseudoscienza: quindi sì, è colpa tua, come quando le Iene disinformarono su Stamina (bit.ly/2ZHSoLi). Vanno rilevate due cose. Innanzitutto, la querelle Spotify ricalca episodi analoghi che hanno riguardato Facebook (casi Myanmar, hate speech, nazi, QAnon: bit.ly/3Gdz9Zz) e Netflix (caso Dave Chappelle: bit.ly/3ucbXIK) poiché il modus operandi delle multinazionali digitali è tossico: permettono il traffico di qualsiasi contenuto, meglio ancora se controverso, senza alcun controllo, pur di fare soldi; e se ne fregano delle conseguenze. In secondo luogo, le multinazionali digitali invocano una malintesa “libertà di espressione” per non assumersi alcuna responsabilità rispetto ai contenuti che ospitano (e che promuovono facendo contratti milionari alle star, come una media company). Vogliono evitare ogni obbligo deontologico e legale (fra cui i costi del controllo sui contenuti): ma Facebook, quando grossi inserzionisti minacciarono di cessare le sponsorizzazioni se Facebook non avesse eliminato account di propaganda nazista, rimosse subito quegli account. Spotify non ha inserzionisti, ha abbonati: che si cancellino in massa è assai improbabile; ma Spotify è sensibile alle star della musica. Come nota il New York Times, un tweet di Taylor Swift a Spotify sarebbe la fine di Rogan. Domenica, Rogan si è scusato dei contenuti “fuori controllo” del suo podcast, e Spotify ha annunciato che apporrà un disclaimer alle puntate controverse. A meno che non vengano costrette, insomma, le multinazionali web non intervengono. Serve una legge che le tratti come le media company che sono: il laissez faire digitale ha già fatto troppi danni.

 

Il locura festival di Radio Leopolda

Radio Leopolda è la locura. Nella leggendaria definizione di Valerio Aprea in Boris: “Il peggior conservatorismo, che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes… un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”. Ovvero il Festival di Sanremo sulla web radio renziana: una perla di trasmissione condotta dallo sghignazzante Luciano Nobili e dall’opaca Lisa Noja. Grandi ospiti (Tommaso Labate, Pier Luigi Pardo, Roberto Burioni), tanti parlamentari (Boschi, Scalfarotto, Fregolent), impossibile tenere il conto degli attimi di magia dissipati in 90 minuti di streaming. Ne citiamo solo alcuni. Nobili: “La ricetta del successo dei Maneskin è un po’ come quella di Italia Viva, vero?” (e ride da solo, fortissimo, di questo memorabile momento di autoironia). Burioni: “Churchill liberò il mondo dal nazismo e poi perse le elezioni, ai leader capita”. E Lucianone, subito: “Mi permetto di aggiungere Matteo Renzi” (applausi finti in sottofondo: locura!). Pardo e Labate insieme: “Tutto il resto è Noja”, dedicato ovviamente alla senatrice Lisa. Ancora Nobili, con aria guascona, ma in odore di omofobia loca: “Ivan (Scalfarotto), con Mahmood e Blanco sei in modalità groupie”. La Rai ci pensi: nessun dopo Festival può essere meglio di così.

La musica è finita, richiudete le porte

Si spengono le luci sulla pista da ballo quirinalizia e pure sui divanetti del Transatlantico, teatro degli assembramenti della scorsa settimana: ora il palazzo torna a farsi fortino e l’intenzione è di tenerlo chiuso per tutto febbraio. Bisogna garantire il metro di distanza tra i deputati durante il voto, spiegano, quindi il salone a cui hanno accesso i giornalisti dovrà nuovamente essere occupato dagli scranni, come accade da quando esiste la pandemia. Pazienza se “siamo in una fase e in un tempo nuovo”, per dirla con le parole usate mercoledì dal ministro Speranza mentre illustrava le nuove regole anti-Covid a scuola: perché aprire le porte quando c’è ancora un appiglio per tenerle chiuse?

Al settennato sopravviverà soltanto lui

Cinquantacinque applausi sono pure pochi per come Sergio Mattarella ha condotto la partita del Quirinale. L’intensa e sapiente campagna mediatica (gli scatoloni, il trasloco) per non essere rieletto (con tutti gli altri che sgomitavano per essere eletti). L’attesa corrucciata e silente, mentre Salvini&C. facevano strame di candidati. La benevola accoglienza ai penitenti dell’unità nazionale (a eccezione di una) recatisi a implorare l’estremo sacrificio, come scrive la grande stampa (anche se il comprensivo accoglimento della supplica avrebbe convinto, scrive Repubblica, il 60% degli italiani ma non un 40%, e non sono pochissimi) Poi, ieri pomeriggio, l’apoteosi in Parlamento a cui egli si è sottoposto apparendo sorridente e in gran forma (ma quale stanchezza! Presidente lei ci sotterra tutti). Quindi un discorso d’insediamento ricco di spunti, toccante in quei ripetuti e sinceri richiami alla tutela delle tante “dignità” offese di questo Paese. Ma anche abile nell’essere onnicomprensivo, ecumenico (forse è mancato soltanto un saluto ad Amadeus e alla campagna acquisti della Juve). Un testo dal quale non traspariva nessuna intenzione di accorciare il secondo mandato, in stile Napolitano. Perché ci sembra chiaro che (e glielo auguriamo di cuore) nei prossimi sette anni (e fanno 14) lui sarà ancora lì al Quirinale, fresco come un bocciolo. Non avremmo, invece, le medesime certezze per i comprimari che in questi giorni gli hanno fatto la ola. Soprattutto perché il Mattarella Bis attraverserà tre legislature e con i chiari di luna della politica italiana scommettereste un euro che (a parte l’immarcescibile Casini) i vari Salvini, Letta, Conte, Renzi nel 2029 saranno ancora lì, in prima fila? Per non parlare di Mario Draghi, che soltanto un paio di mesi fa sembrava l’asso pigliatutto e che oggi guida un governo uscito azzoppato dalla battaglia del Colle. Con un interrogativo su tutti: in queste condizioni quanto potrà resistere il Migliore a Palazzo Chigi? Presidente Mattarella, perdoni l’impertinenza, ma se l’aveva davvero pensata così lei è un genio.

“Una donna su quattro ha partorito con il virus”

Negli ultimi sette giorni una donna su 4 ha partorito con il Covid. È quanto emerge dall’analisi degli otto ospedali “sentinella” della Fiaso (Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere). Tra il 25 gennaio e il 1º febbraio la percentuale di donne in gravidanza ricoverate nelle aree Covid ed entrate in sala parto è cresciuta fino al 26%. La settimana prima le partorienti positive erano il 16%.

Tra le donne risultate positive al momento del parto, il 49% non era vaccinato e l’11% aveva sviluppato sintomi respiratori e polmonari tipici della malattia da Covid. Tra tutte le partorienti, sia positive che negative al virus, la percentuale delle vaccinate era solo del 55%.

“Il numero di partorienti che arrivano in ospedale e risultano positive al Covid è in crescita e crea pressioni sulle strutture sanitarie costrette a duplicare i percorsi e a dirottare risorse per aree ostetriche Covid – commenta il presidente di Fiaso, Giovanni Migliore –. Occorre più che mai rivolgere un appello non solo a mamme e papà, ma anche e soprattutto ai medici, in particolare i ginecologi, che seguono le gravidanze e con i quali le future madri hanno un rapporto di fiducia: avviino una campagna seria di sensibilizzazione per fugare i dubbi delle donne sulla sicurezza del vaccino e convincerle a vaccinarsi”.

E dopo Novavax, le cui prime dosi dovrebbero arrivare a marzo, altri due vaccini potrebbero presto essere autorizzati dall’Agenzia europea del farmaco: “La valutazione dei vaccini Valneva e Sanofi Pasteur potrebbe avanzare verso una possibile approvazione – ha sostenuto Ema durante il consueto punto stampa – ma non è possibile dire con precisione se ci sono possibilità di avere un’approvazione entro Pasqua”.

Checco Zalone fa “lu virologo”. I “colleghi” offesi: “Ci rispetti”

“Ci sta scrittu su lu pattu di Ippocrate, lu virologo deve essere in disaccordo con un altro virologo, se no ti radiano dall’ordine”. Parola di Oronzo Carrisi, di professione virologo a Cellino San Marco (Brindisi), altrimenti noto come Checco Zalone, pronunciate dal palco dell’Ariston di Sanremo durante la seconda serata del Festival edizione 2022.

Perché insomma, diciamo la verità, chi di noi non ha pensato almeno per un minuto che l’unico punto di accordo fra i virologi ai tempi del Covid fosse quello di “non averci capitu nu cazzu”, come ha sintetizzato, con la schiettezza che si conviene, Checco Zalone-Oronzo Carrisi?

Oronzo, il virologo che per tutta la vita è stato solo il cugino di Al Bano, vede finalmente riscattata la sua vita all’ombra dell’ingombrate parente grazie alla pandemia che lo eleva agli onori della notorietà, relegando Al Bano a “lu fessu de cantante cugino de lu virolgo”. Ma “la pacchia sta finendo” e l’ormai disilluso Oronzo intona Pandemia ora che vai via (testo e musica di Bassetti/Brusaferro/Burioni/Capua/Crisanti/Galli/Fauci/Locatelli/Pregliasco/Rezza/Viola/LaFoche/Zangrillo/Lopalco) che ironizza sul triste cono d’ombra in cui le virostar di questi anni sono destinate in futuro causa estinzione del virus. Alzi la mano chi – certo maliziosamente – almeno una volta non ha pensato anche questo.

Ora, al netto dell’ottimismo che si spera beneaugurante per quanto un po’ prematuro, il talento di Zalone è (come nel caso della assai più delicata fiaba calabrese sull’omofobia e della parodia, ma parodia fino a un certo punto, del rapper-trapper “poco ricco”) quello di raccogliere e remiscelare l’attualità. Prova ne sia che i virologi – non ce ne vogliano, ma vien da sorridere – sembrano dividersi anche sulla gag sanremese.

Gli entusiasti La tessera numero uno del club va a Matteo Bassetti: “Zalone è fantastico, eccezionale – dichiara all’AdnKronos – Ha colto nel segno, ha colto questo anno dei virologi, credo sia bello ridere anche su questo aspetto della comunicazione di questi due anni”, salvo poi precisare che “mi sono sentito poco tirato in ballo perché non sono un virologo ma un infettivologo”.

“Ci sono rimasto male, avrei preferito un duetto con Zalone – scherza invece Pier Luigi Lopalco –. Ironizzare non è sminuire o derubricare, quando guarderemo indietro, a questi anni alcune azioni ci sembreranno esagerate e potremmo avere anche la liberà di riderci sopra”.

Il pragmatico Taglia corto Massimo Galli: “Immagino che Checco Zalone abbia voluto raccogliere un sentimento generale degli italiani che non ne possono più della pandemia. Sorrido e basta, non starei a farci dei castelli di carta sopra”.

Il prudente “Siamo ancora in una fase non così tranquilla – puntualizza Fabrizio Pregliasco, ricordando l’ancora altissimo numero di vittime – però mi aspetto che tutto ciò possa avvenire e che io possa tornare a occuparmi di quella rosolia citata nella canzone”.

Il finto snob “Non vedo Sanremo da quando avevo 14 anni e mi sono perso Checco Zalone – racconta Andrea Crisanti –. Però vorrei precisare una cosa: prima della pandemia facevo una vita molto più gratificante. La gente pensa, ora ha la notorietà perché va in televisione. Invece la pandemia ha peggiorato la mia qualità di vita, come quella di tutti”.

Il fuoriluogo “Grazie ma preferisco non commentare” è invece la reazione dell’immunologo Roberto Burioni, che però tiene a precisare di non avercela con la satira ma di aver da tempo deciso “di non parlare più di argomenti non strettamente legati alla medicina”.

La risentita “Checco Zalone ha esagerato – ribatte Maria Rita Gismondo – non abbiamo certo bisogno di una pandemia per avere da lavorare. Porti rispetto. È vero che ci sono stati da parte di alcuni esperti comportamenti discutibili, ma siamo tutti impegnati in prima fila, rinunciando da due anni anche alla vita personale”.

I presidi a Figliuolo: “Le sue ffp2 costano 24 milioni di troppo”

Una differenza di pochi centesimi che però, se moltiplicata per il crescente fabbisogno di mascherine Ffp2 delle ottomila scuole italiane diventa di quasi 24 milioni di euro. Calcoli e accuse rivolte alla struttura del commissario Figliuolo questa volta arrivano dai dirigenti scolastici e dal presidente di Dirigentiscuola, Attilio Fratta. Da circa un mese, infatti, i presidi possono rifornirsi di mascherine Ffp2 (obbligatorie per docenti e studenti in autovigilanza) nelle farmacie e dai rivenditori convenzionati: per una convenzione tra il commissario, Federfarma e Assofarma, non potranno essere pagate più di 0,75 euro l’una. Solo in un secondo momento il governo liquida le fatture.

Nei giorni scorsi, però, molti dirigenti scolastici si sono accorti che le stesse mascherine sono vendute su Mepa (la piattaforma per gli acquisti in rete della Pubblica amministrazione, utilizzata dai dirigenti scolastici) a 0,20 euro ognuna per un lotto da seimila pezzi, il minimo per una scuola di media grandezza sostengono i presidi. “Una differenza di 55 centesimi, che fa 3.300 euro per ogni lotto” spiega Fratta. Il calcolo è facile: moltiplicato per circa ottomila istituti scolastici si arriva a 23,4 milioni di euro per un fabbisogno di soli pochi giorni: “Un fatto gravissimo e un enorme danno erariale per lo Stato, che i dirigenti non possono evitare, a meno che, ed è questa la risposta che il capo dipartimento del ministero dell’Istruzione Jacopo Greco ha dato, non provvedano all’acquisto con i fondi delle scuole”.

Il protocollo d’intesa con le farmacie e rivenditori è arrivato a inizio gennaio e a fine gennaio è stato inserito nel “Sostegni ter” l’iter da seguire per comprare i dispositivi di protezione. Sono i dirigenti a quantificare il fabbisogno di Ffp2 nella loro scuola e poi a dover redigere e firmare l’ordine per il rivenditore, magari anche trattando sul prezzo e spesso – soprattutto quando le quantità sono molto elevate – aspettando che arrivino tutte. In media, infatti, le farmacie non ne hanno disponibili nell’immediato quantità elevate. In questa fase non c’è passaggio di soldi: sarà lo stato a saldare in un secondo momento. Se da un lato c’è per i presidi il vantaggio di non dover gestire i fondi, dall’altro si sono ritrovati vincolati ai prezzi del rivenditore e non riescono a spiegarsi come sia stato possibile che il governo si sia legato, con i soldi pubblici, all’offerta meno vantaggiosa. Alcuni temono il danno erariale dal momento che per prassi i dirigenti devono primariamente acquistare dalla piattaforma Mepa e possono rivolgersi al mercato solo in caso trovino prezzi inferiori. E sono loro a firmare l’ordine delle mascherine. La struttura commissariale si è tolta il peso della fornitura, ma ha generato un paradosso.

Dal punto di vista delle farmacie, si può invece dire che il prezzo calmierato – frutto di una trattativa del governo con le associazioni di categoria – provava ad appianare le differenze tra le farmacie più grandi e quelle rurali, isolate e con maggior difficoltà di approvvigionamento (sono 19 mila in tutto, di cui 6.500 rurali): viene infatti lasciata ai punti vendita la libertà di stabilire anche un prezzo più basso. Non è invece lasciata ai dirigenti scolastici, che se volessero acquistarle con propri fondi su Mepa, dovrebbero tagliare altre voci di spesa.

A ogni modo, ​​il decreto che stabilisce che le scuole debbano rifornirsi dalle farmacie e gli altri rivenditori convenzionati dovrà passare alle Camere. Sarebbe utile che qualcuno trovasse una soluzione.

Oms: pandemia quasi finita. Ma il DraghiPass è illimitato

Per la prima volta si intravede una tregua e sullo sfondo una plausibile fine della pandemia. A dirlo è il direttore dell’Oms Europa, Hans Kluge, che ha delineato un quadro ottimista nonostante l’altissimo numero di infezioni ancora in corso, perché i casi rilevati nella scorsa settimana sono stati 12 milioni, un numero mai visto dall’inizio della pandemia nella “regione europea” dell’Organizzazione mondiale della Sanità (che comprende una vasta area dall’Atlantico al Pacifico con 53 Paesi). Una diffusione “in gran parte determinata dall’elevata trasmissibilità della variante Omicron”, ma che non è coincisa con un’altrettanta pressione sui sistemi sanitari come avvenuto nelle altre ondate. “Nel complesso, i ricoveri in terapia intensiva non sono aumentati in modo significativo e per ora il numero di morti in tutta la regione sta iniziando a stabilizzarsi”, ha detto Kluge. Motivi sufficienti per intravedere il raggiungimento del plateau e di una certa immunità nella popolazione. Si tratta, insomma, di un contesto nuovo quello delineato dall’Oms, una situazione che “lascia pensare alla possibilità di un lungo periodo di tranquillità e a un livello molto più alto di protezione della popolazione. Non voglio dire che sia finita, ma ci sono tre elementi positivi che farebbero pensare bene: l’ampia copertura vaccinale e immunità naturale acquisita, l’uscita dalla stagione invernale e la minore gravità della variante Omicron. Tutto ciò fa ben sperare, a condizione che si continui a vaccinare completando le terze dosi e mantenendo alta la protezione della popolazione”. “Al momento non ci sono prove sufficienti per raccomandare la quarta dose di vaccini alla popolazione generale”, ha confermato l’Agenzia europea per i medicinali, che continuerà ad analizzare i dati provenienti dagli altri Paesi come Israele.

Quindi l’Oms intravede i segnali della fine della pandemia, paradossalmente, proprio mentre in Italia il governo Draghi ha reso “illimitato” il super Green pass. Misura che non torna al presidente della fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, come rileva nel consueto rapporto settimanale sulla pandemia: “Secondo le attuali evidenze scientifiche non è possibile definire una scadenza per il super Green pass condizionata dall’efficacia del booster e nemmeno escludere la necessità di una quarta dose. Ma, in quanto strumento che limita le libertà personali, la certificazione verde non può avere durata illimitata. Ovvero, qualunque decisione politica dovrà essere rivalutata nel tempo in base all’emergere di nuove evidenze, ma bisogna comunque fissare una precisa scadenza. Il Green pass, inoltre, oggi è poco efficace nell’arginare la diffusione del virus: la vaccinazione riduce il rischio di contagiarsi e di contagiare, ma l’efficacia declina dopo circa 90 giorni e con la variante Omicron è circa la metà della Delta. Tuttavia, il Green pass rilasciato dopo la terza dose di vaccino è fondamentale per tutelare la salute individuale e, indirettamente, anche quella collettiva. Infatti, la protezione nei confronti della malattia severa declina molto meno rispetto al contagio e, soprattutto, torna a livelli molto elevati dopo il booster anche con la variante Omicron. Pertanto, sul piano della regolamentazione, la disciplina del Green pass da vaccinazione dovrà essere valutata in relazione all’obiettivo di ridurre il sovraccarico ospedaliero e limitare il rinvio di prestazioni per patologie non Covid”. Se le previsioni dell’Oms saranno corrette sarà inutile anche quanto annunciato ieri dal coordinatore del Cts, Franco Locatelli, riguardo ai bambini più piccoli: “All’inizio della primavera potrebbe essere a disposizione in Italia il vaccino anti-Covid per la fascia di età 0-5 anni”. Intanto sono sono ancora 2,46 milioni i bambini nella fascia 5-11 senza nemmeno una dose di vaccino.