L’immagine parrà irriverente, perché riferita alla quinta carica dello Stato. Ma è un fatto che i presidenti della Corte costituzionale si susseguono a una velocità da cinema muto. Dall’inizio del 2000 fino ad oggi ne sono entrati e usciti dalla porta di Palazzo della Consulta in 24, compresi due facenti funzione. E ben 15 di loro sono rimasti in carica per meno di un anno. Fra questi l’attuale ministro della Giustizia Marta Cartabia, che durò nove mesi, e Giuliano Amato, nominato il 29 gennaio scorso, che saluterà tutti il prossimo 18 settembre: otto mesi scarsi, 232 giorni compresi i week-end. Statisticamente, il più veloce di tutti sembra essere stato Mario Rosario Roselli, il terz’ultimo presidente, che si fermò alla Consulta a quattro giorni dai tre mesi di mandato, seguito a ruota da Giovanni Maria Flick, con tre mesi e quattro giorni, e da Giuseppe Tesauro, tre mesi e nove giorni.
Non era questo l’auspicio dei padri costituenti, che all’articolo 135 della Carta hanno scritto: “La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dell’ufficio di giudice”. Ma come si è ottenuta questa vorticosa rotazione, autogestita dai quindici giudici della Corte: inducendo un presidente a dimettersi, per poi eleggerne un altro? Niente affatto. Viene più semplicemente scelto al vertice un giudice che di lì a poco concluderà i nove anni del suo mandato. Essere vicini alla scadenza è una buona ragione, oltre al tuo valore e al tuo prestigio, per essere papabile. Dell’articolo 135 della Costituzione, si valorizza dunque soltanto quel “fermi in ogni caso i termini di scadenza dell’ufficio di giudice”. Un unico presidente, in questo scorcio di secolo, aveva la prospettiva di concludere un mandato pieno: Alessandro Criscuolo, eletto il 12 novembre 2014, per poi dimettersi però dopo quindici mesi e restare fra i giudici della Corte fino alla scadenza dell’11 novembre 2017.
Ma quali sono le ragioni di una simile volatilità della carica? Certamente il prestigio di guidare l’organismo che fa da guardiano alla nostra Costituzione, di essere accanto al presidente della Repubblica in tutte le circostanze più importanti, di decidere i giudici relatori di ciascuna causa, di fissare il calendario dei lavori, di far valere il proprio voto come doppio, nel caso in cui in un giudizio via sia parità di voti. E magari di guadagnarsi un futuro ancora più glorioso. Anche se la nostra “Corte dai presidenti corti” è tuttora dominata dalle chiome bianche, e quasi tutte di sesso maschile. Va poi detto che non sempre vi sono giuristi che si staccano nettamente sugli altri, tanto è vero che i presidenti vengono scelti in diversi casi con un piccolo scarto di voti (non Giuliano Amato, eletto all’unanimità).
Ma vi è pure un’altra ragione, di carattere economico, che incentiva la corsa alla presidenza. Il tetto Renzi di 240 mila euro l’anno, peraltro appena ritoccato dal governo Draghi, venne applicato alla Corte con un margine di vantaggio: 362 mila euro per i giudici, da aggiungere alla pensione di cui eventualmente già godono, e 432 mila per il presidente, che ha una sua indennità di rappresentanza. Queste somme, fra le più alte al mondo (siamo al doppio di quanto percepiscano i giudici americani e al 50 per cento in più di quelli britannici), si trasformano al termine dei nove anni in liquidazione e pensione. Ma perché anche l’indennità di rappresentanza incida sull’assegno di quiescenza, è necessario, spiegò in passato l’ufficio stampa della Corte costituzionale, che il presidente sia stato in carica per un anno o più. E questo almeno limita i danni di un costume che è assolutamente necessario correggere.