Un collaboratore di giustizia, ex affiliato alla camorra, è stato condannato a 9 anni per violenza sessuale dal tribunale di Firenze, con l’accusa di aver abusato in almeno tre occasioni della figlia 15enne. In base alla indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Luca Tescaroli, le violenze sarebbero avvenute nell’abitazione della famiglia, in Toscana, quando l’uomo, detenuto in un carcere del Nord Italia, poteva tornare a casa grazie a dei permessi. Il processo è celebrato con richiesta di giustizia immediato da parte della procura. Gli accertamenti sono partiti da una segnalazione fatta dalle educatrici di una comunità dove la ragazza è stata ospitata.
Bergamin, Cassazione: “Pena non prescritta”
Non è prescritta la pena di 16 anni e 11 mesi per l’ex terrorista Luigi Bergamin, condannato per concorso morale negli omicidi commessi da Cesare Battisti del maresciallo Antonio Santoro e dell’agente Andrea Campagna (pena prescritta nel 2008), avvenuti nel ‘78 e ‘79. Lo ha deciso la Cassazione che ha accolto il ricorso del pm Adriana Blasco contro due precedenti decisioni della Corte d’Assise di Milano. L’ex militante dei Proletari armati per il comunismo, 73 anni, si era costituito in Francia dopo l’ormai noto blitz della fine di aprile 2021 e l’udienza a Parigi sull’eventuale estradizione riprender il 20 aprile.
Pestaggi in carcere: via a 32 patteggiamenti
Trentadue proposte di patteggiamento per le posizioni “più marginali” sono state avanzate dai pm di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) nel corso dell’udienza preliminare sui pestaggi ai danni dei detenuti avvenuti nel carcere locale il 6 aprile 2020. Sono 108 gli imputati tra agenti della Polizia penitenziaria e funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria). Il pm Alessandro Milita ha proposto pene da 1 anno e 8 mesi a 2 anni con la condizionale per quegli agenti “responsabili di condotte di lieve gravità”, che ora dovranno decidere se accettare la proposta. Sono 88 le parti civili ammesse a processo.
Palazzo di Londra, Mincione e Torzi “erano d’accordo”
Il broker Gianluigi Torzi e l’imprenditore Raffaele Mincione avevano “verosimilmente preconcordato” le cifre dell’affare del Palazzo di Londra, in maniera “tutt’altro che casuale” e “alle spalle della Segreteria di Stato”. Ne sono convinti i pm del Vaticano, a leggere i nuovi atti depositati nel processo sulla gestione dei fondi della Santa Sede, che hanno fatto ripartire il processo. Torzi e Mincione sono a processo per peculato. Nello specifico, quando il Vaticano ha chiesto a Mincione di uscire dall’investimento dei 230 milioni di sterline per l’ex sede dei magazzini Harrods a Chelsea, la Gutt Sa di Torzi è subentrata alla Athena Sicav di Mincione, portando il Vaticano a versare altri 40 milioni di pounds. Nei nuovi documenti depositati dal promotore di giustizia ci sono anche le chat di whatsapp fra i due. Il 2 novembre 2018, Torzi scriveva a Mincione: “A proposito su sloane c’è un buon compromesso in vista”, ed il secondo rispondeva: “ok cross fingers”. L’accordo sarebbe stato trovato durante le riunioni del 21 e 22 novembre. Scrivono i pm vaticani: “Già la mattina del 20 novembre 2018 – ma verosimilmente pure prima – gli accordi erano stati raggiunti e Mincione e Torzi stavano lavorando, con i propri consulenti, sui testi contrattuali da far firmare alla Segreteria di Stato (…) l’accordo risultava raggiunto ed il conguaglio di 40 mln/gbp risultava essere stato pattuito, nella misura voluta da Mincione e verosimilmente preconcordata con Torzi”. La “bozza fedele del framework agreement” è stata depositata e, secondo i pm, “costituisce una prova davvero granitica”.
Davigo chiede: “Il mio processo a porte aperte”. Ma il gup dice no
“Questa vicenda è di interesse pubblico e siccome io non ho nulla da nascondere, pretendo l’udienza a porte aperte”. Così Piercamillo Davigo, ex magistrato ed ex componente del Consiglio superiore della magistratura, ieri a Brescia: aveva chiesto che fosse pubblica l’udienza preliminare iniziata per decidere se rinviarlo a giudizio per rivelazione di segreto d’ufficio. La Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa per l’udienza pubblica nel giudizio abbreviato: Davigo lo chiedeva, per estensione, anche in questo caso. La gup di Brescia Federica Brugnara ha detto no e ha respinto la richiesta. L’udienza è così iniziata, come di consueto, a porte chiuse: con l’interrogatorio, durato circa tre ore, del pm milanese Paolo Storari, accusato con Davigo di aver fatto uscire dalla Procura di Milano i verbali segreti degli interrogatori di Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, sulla cosiddetta loggia Ungheria. Il difensore di Storari, Paolo Della Sala, ha dichiarato di “non voler entrare nel merito dell’esame” del suo assistito e ha aggiunto soltanto di essere “molto lieto, come cittadino, dell’archiviazione a Brescia dell’ex procuratore Francesco Greco. Ma questa decisione”, ha aggiunto, “non interferisce in modo inevitabile con la posizione del mio assistito”. Nel decreto d’archiviazione per Greco, il giudice avanzava critiche ai comportamenti di Storari e Davigo nella vicenda dei verbali di Amara, resi tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020 e poi, a inizio aprile, consegnati da Storari a Davigo. Il primo lamentava l’inerzia investigativa della sua Procura e si cautelava informandone Davigo. Questi aveva rassicurato il collega, sostenendo che non poteva esserci violazione del segreto investigativo informando un consigliere del Csm. Nei mesi seguenti, i verbali arrivavano poi per altre vie a due quotidiani e al consigliere Csm Nino Di Matteo. Lunedì 7 febbraio sarà interrogato Davigo, assistito dal legale Francesco Borasi. Subito dopo inizierà la discussione sulla richiesta di rinvio giudizio avanzata dalla Procura di Brescia. La gup ha intanto accolto la richiesta di essere parte civile nel processo presentata dal consigliere del Csm Sebastiano Ardita, assistito dall’avvocato Fabio Repici.
Giustizia segreta, Lo Voi: “Troppe note alla stampa”
C’è una circolare della Procura di Roma che racchiude l’essenza, e con essa tutte le conseguenze negative, della legge sulla presunzione di innocenza voluta da Enrico Costa (Azione). È una nota inviata il 19 gennaio dall’appena insediato procuratore di Roma, Francesco Lo Voi. I destinatari sono il questore, il comandante provinciale dei Carabinieri e quello della Guardia di finanza e, per conoscenza, i magistrati capitolini. Nella nota, Lo Voi dice ai comandanti di mettere un freno alle richieste dei diversi reparti di polizia giudiziaria che chiedono l’autorizzazione a emettere comunicati stampa: quelli che contengono informazioni su indagini e misure eseguite e che dovrebbero informare i cittadini. Non lo permette il decreto legislativo del novembre scorso che, recependo (ma andando oltre) una direttiva europea, prevede due cose fondamentali. Il divieto per le autorità giudiziarie di “indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. È superfluo ricordare quanto tempo la giustizia impieghi per una sentenza definitiva. Il decreto, nel regolare i rapporti con la stampa, prevede anche che il procuratore possa scrive comunicati stampa, ma solo quando ci sono “specifiche ragioni di interesse pubblico”; e “nei casi di particolare rilevanza pubblica” indire conferenze con la partecipazione dei giornalisti.
La legge è legge e Lo Voi, che però evidentemente ne dà un’interpretazione molto restrittiva, una volta insediato ha scritto ai comandi provinciali: “Ho potuto registrare, sin dai primissimi giorni della mia dirigenza di questo Ufficio, il rilevante numero di richieste di autorizzazioni alla diffusione di comunicati stampa che provengono da vari organi di polizia giudiziaria”. Per il procuratore “la gran parte di tali comunicati si riferisce a vicende che – fermo restando l’interesse delle parti offese così come la lodevole attività realizzata dalle Forze dell’ordine – non rivestono una rilevanza tale da essere fatta oggetto di comunicato, anche in considerazione della pressoché generale assenza di indicazioni sulle generalità dei soggetti raggiunti da provvedimenti restrittivi”. In altre parole: degli indagati verranno riferite solo le iniziali di nome e cognome e verrà ribadita la loro innocenza fino a sentenza definitiva, ma questo non basta. E dunque la nota conclude: “Poiché la diffusione di comunicati stampa va limitata ai soli casi di particolare rilevanza delle vicende che hanno dato oggetto a iniziative giudiziarie o di polizia o che rivestano caratteristiche di speciale interesse per l’intera opinione pubblica, sarò grato alla SS.LL. se vorranno impartire agli uffici e comandi dipendenti le opportune disposizioni finalizzate al rispetto delle superiori indicazioni”. Dunque i comandi generali dovranno avvisare i vari reparti di limitare le richieste. Risultato: meno informazione per i cittadini.
Le disposizioni date da Lo Voi mettono al riparo i magistrati da ulteriori insidie della legge, quando prevede la possibilità per l’indagato – qualora non ritenga rispettata la presunzione di innocenza – di ottenere una rettifica. Se non la condividono, i magistrati rischiano di vedersi trascinare in tribunale per un comunicato. E così questo decreto legge ha messo con le spalle al muro non solo i cittadini, che saranno sempre meno informati, ma anche l’autorità giudiziaria.
Pure di questo si discute infatti nelle chat dei magistrati. Eugenio Albamonte, sostituto procuratore di Roma, in un articolo pubblicato su “Il penalista”, un portale dedicato ad avvocati e magistrati, è netto: “La forte riduzione della comunicazione ufficiale amplierà il campo della circolazione clandestina delle informazioni, con un forte rischio sia relativo alla loro correttezza e attendibilità, sia alla loro creazione o al rafforzamento di canali occulti e privilegiati di comunicazione”. Una soluzione prospettata da Albamonte sarebbe quella di un intervento del Csm che indichi delle linee guida. Ma ormai il danno è fatto e le conseguenze sono tangibili.
Applaudono la riforma che hanno bloccato
Come se la riforma del Csm non fosse nelle sabbie mobili per responsabilità politica, ieri deputati e senatori si sono sperticati in una standing ovation a Sergio Mattarella, che è tornato a sollecitarla durante il giuramento bis da presidente della Repubblica. Fino a oggi, però, governo e Parlamento hanno platealmente ignorato i suoi ripetuti appelli, il primo dei quali nel lontano giugno 2019, affinché ci fosse la riforma del governo autonomo della magistratura, disastrato per colpa dello scandalo nomine, il caso Palamara. E non è certo una coincidenza che, archiviate le rispettive aspirazioni quirinalizie, ieri mattina il presidente del Consiglio Mario Draghi e la ministra della Giustizia Marta Cartabia si siano incontrati per sbloccare l’agenda.
Ieri, Mattarella in Parlamento ha lanciato il suo nuovo monito: “Mi preme sottolineare che un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia. Per troppo tempo è divenuta un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività”. E qui la bacchettata è tutta per la politica, diversi i governi caduti a colpi di scontri sulla giustizia, reali o pretestuosi. E ancora: “Nella salvaguardia dei principi, irrinunziabili, di autonomia e di indipendenza della magistratura – uno dei cardini della nostra Costituzione – l’ordinamento giudiziario e il sistema di governo autonomo della magistratura devono corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità”.
Il presidente prosegue con un’altra bacchettata, questa volta per le toghe: la riforma è necessaria “affinché il Csm possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la magistratura può contare, superando logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono restare estranee all’Ordine giudiziario. Occorre, per questo, che venga recuperato un profondo rigore”. Le correnti sono di nuovo avvertite: “I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone. Va sempre avvertita la grande delicatezza della necessaria responsabilità che la Repubblica affida ai magistrati”. Sia la magistratura che l’avvocatura, conclude Mattarella, “sono chiamate ad assicurare che il processo riformatore si realizzi, facendo recuperare appieno prestigio e credibilità alla funzione giustizia, allineandola agli standard europei”.
A queste parole, dai politici fioccano comunicati di plauso, compreso quello del re delle leggi ad personam, Silvio Berlusconi: “Mattarella ineccepibile”. Matteo Salvini, che avrebbe voluto al Quirinale Elisabetta Casellati, si precipita a telefonare a Mattarella e pure l’altro Matteo, Renzi, si congratula per il discorso, “specie sulla giustizia”.
Ma la grande assente delle riforme, quella del Csm, tanto sbandierata come priorità dal governo Draghi, è stata finora messa da parte mentre non ha ha potuto vedere la luce quella progettata dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, approvata nell’agosto 2020 dal Consiglio dei ministri, per la caduta del governo Conte-2. Un anno fa l’arrivo del governo dei “migliori”, con il cambio, tra l’altro, del ministro della Giustizia: via Bonafede, entra Cartabia. La ministra avrebbe potuto presentare la sua idea di riforma già l’anno scorso, basti pensare che la commissione voluta da lei stessa, presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani, ha depositato la sua relazione in primavera; in commissione Giustizia della Camera, il testo base, quello Bonafede, è stato votato ad aprile 2021, i gruppi parlamentari, ha ricordato il presidente della Commissione Mario Perantoni, “hanno presentato le proposte emendative alla scadenza fissata del 3 giugno 2021, aspettiamo quindi i pareri e i preannunciati emendamenti del governo”. Che finora non ci sono stati perché la partita del Quirinale ha alimentato lo stallo. Con evidenza si capisce all’ultimo Consiglio dei ministri pre-natalizio, quando la riforma non compare.
Eppure, la ministra si era incontrata il 7 dicembre con Draghi, e dal ministero della Giustizia avevano fatto filtrare che la riforma era “imminente”, che l’intenzione della Cartabia era di farla approvare dal governo prima di Natale. Infatti, ignorando la proposta della sua stessa Commissione sul sistema elettorale (il voto singolo trasferibile), aveva illustrato la sua idea per il rinnovo dei togati, il maggioritario binominale, sia ai capigruppo della maggioranza sia ai vertici dell’Anm, senza consegnare uno straccio di testo scritto. Cartabia, dicono ambienti politici maliziosi, avrebbe voluto spendersi la riforma per la corsa al Quirinale, ma non aveva fatto i conti con Draghi, l’aspirante numero 1 al posto di Mattarella, che iberna la riforma a Palazzo Chigi. Una riforma, quella della ministra, bocciata in dicembre dall’Anm, che si è detta “fortemente contraria” al maggioritario bi-nominale: “Qualsiasi sistema maggioritario privilegerebbe gruppi maggiori, aumentando il potere che si vuole limitare” delle correnti. Cioè provocherebbe il contrario di quanto auspicato da Mattarella. Senza contare che la maggioranza degli oltre 4 mila magistrati, su oltre 7 mila aventi diritto, che hanno votato al referendum consultivo dell’Anm, vorrebbe un sistema proporzionale puro.
Già al prossimo Consiglio dei ministri dovremmo avere il testo ufficiale della proposta Cartabia, dopo l’incontro di ieri con Draghi, perché Mattarella, che è anche il capo del Csm, vuole una riforma “immediata”. Non a caso la notizia dell’incontro è filtrata dopo l’intervento del presidente, così come il comunicato del vicepresidente del Csm, David Ermini, in cui ribadisce che la riforma “è urgente”. Cosa accadrà in concreto è tutta un’altra storia.
Giorgetti pretende i “pieni poteri” e litiga con Salvini
Ai deputati leghisti che dopo il giuramento di Sergio Mattarella lo avvicinano in Transatlantico per chiedergli se vuole davvero dimettersi dal governo, Giancarlo Giorgetti risponde irritato. Si scalda, il ministro dello Sviluppo Economico, parlando di Matteo Salvini. Con Giulia Bongiorno, fedelissima del segretario, si sfoga sull’atteggiamento tenuto dal leader del Carroccio negli ultimi giorni. Quell’indicazione di andare in Consiglio dei ministri mercoledì e non votare il decreto Covid proprio non è piaciuta al titolare del Mise, che già sabato aveva minacciato le dimissioni dal governo, temendo l’inizio dell’affondo di Salvini nei confronti di Draghi. E così Giorgetti e Salvini, risultato positivo al Covid nel pomeriggio, si sono visti ieri mattina in via Veneto perché dovevano chiarirsi. Dovevano fare pace, ma il gelo è rimasto: “Giancarlo vuole proteggere Draghi, Matteo la Lega” confida al veleno un salviniano di ferro.
E dunque, nel faccia a faccia di ieri, Giorgetti è stato molto netto con il suo numero uno: “Non possiamo ricominciare a bombardare il governo – il senso delle parole del ministro draghiano a Salvini – così crolla tutto”. Il ministro dello Sviluppo Economico, che i suoi definiscono “stanco”, sospetta che entro un mese il leader leghista voglia dare il benservito a Draghi e uscire dalla maggioranza. Ma ieri il segretario gli ha risposto spiegandogli che al momento non ha nessuna intenzione di portare la Lega fuori dal governo (“ci stiamo lealmente”) ma che “bisogna incidere sui problemi reali del Paese”. Che, è il pensiero di Salvini, vuol dire anche “strappare” ogni tanto, per poi ricucire. E soprattutto che la linea la decide lui, senza ammettere dissensi interni. Quindi Salvini ha imposto a Giorgetti di restare al governo e di “metterci la faccia”, come ha spiegato nel consiglio federale di martedì. Quindi niente rimpasto e il capodelegazione della Lega dovrà battagliare in Cdm: “Non posso essere sempre io in prima linea – ha detto ieri il segretario al suo numero due – dovete esporvi anche voi ogni tanto”. Il succo del ragionamento di Salvini a Giorgetti, insomma, è questo: devi saper dire qualche no a Draghi, per il bene del partito.
Il titolare del Mise accetterebbe pure – d’altronde, fanno notare i fedelissimi, è stato proprio lui al federale a chiedere di “portare a casa più risultati possibili” – ma solo se con un mandato pieno per poter trattare in autonomia con il presidente del Consiglio. Condizione che Salvini non può concedergli. Non è una questione di lana caprina, per Giorgetti, che negli ultimi mesi si è sentito spesso scavalcato dal suo numero uno e si è dovuto piegare a strappi che hanno fatto tremare il governo. Ed è proprio sul litigio tra chi deve parlare e mediare con Draghi che scoppiano i conflitti in casa Lega. Salvini non ha per niente apprezzato la partita in solitaria di Giorgetti per mandare Draghi al Quirinale (“Voleva diventare premier lui, per questo Matteo ha messo il veto” dice un salviniano), mentre il ministro teme i nuovi fronti che il segretario è pronto ad aprire: “no” alla riforma del catasto, guerra sulle bollette, green pass illimitato per i guariti non vaccinati e stop a nuovi sbarchi.
Conte non può più fermarsi. Ma adesso va convinto Grillo
Il Movimento che sta in mezzo alle due fazioni, cioè la maggioranza dei parlamentari, è preoccupato, già esausto di una guerra che non è ancora neppure deflagrata. “Sembrano tutti marziani” sussurra un big, mentre contiani e dimaiani si evitano o fanno finta di sorridersi dentro Montecitorio. Però i marziani a 5Stelle continuano a correre, verso il regolamento di conti. Così Giuseppe Conte lo ribadisce ai suoi: “Indietro non si torna, sono successe cose gravi, con azioni muscolari che minano i nostri valori”. Ergo, “per il chiarimento con Luigi Di Maio basterà aspettare alcuni giorni”. Però il primo problema è il come. Perché è vero, l’avvocato pensa sempre a un’assemblea aperta agli iscritti, in streaming, in cui chiedere conto al ministro di parecchie cose. E nella quale magari lanciare una votazione sul web per farsi ribadire la fiducia come leader del Movimento, quasi fosse una nuova investitura. Ma è solo un’ipotesi tra le diverse su cui riflette in queste ore Conte. Ieri a L’Aria che tira ha assicurato: “Non siamo alle gogne, e questa non è una questione privata tra me e Di Maio. Però dobbiamo arrivare a un chiarimento pubblico”. Si voterà online? “Non anticipo nulla, ma gli iscritti saranno coinvolti” ha promesso l’avvocato.
Di certo i piani alti del M5S vorrebbero togliere a Di Maio il ruolo cruciale di membro del comitato di garanzia. E l’ex capo l’ha già capito, tanto da aver subito organizzato un lungo incontro con un altro membro del comitato, Virginia Raggi, anche lei non certo contiana. Come a fare muro contro ribaltoni. E comunque per spostarlo da lì servirebbe il consenso del Garante, ossia di Beppe Grillo. “I singoli componenti del Comitato possono essere sfiduciati dall’assemblea su iniziativa congiunta del presidente e del Garante” recita infatti lo Statuto del M5S. E qui si arriva al nodo gordiano, visto che Grillo di giubilare Di Maio – da lui fortemente voluto nell’organo – non pare avere voglia. Raccontano che da Roma gli avessero chiesto un post più duro di quello di due giorni fa, con cui il fondatore ha invitato tutti ad accettare “ruoli e regole” e a parlare con “una sola voce”, quella del leader. “Ma la prima versione del testo era più dura” dicono. Poi il Garante l’ha sfumato. Perché a Di Maio non vuole rinunciare. Però ora predica ordine, Grillo. E a chi lo ha sentito in questi giorni lo ha detto così: “Conte lo avete scelto voi, ora state buoni e ve lo tenete”. Difficile che vada oltre. Ma il pressing dei contiani non si fermerà. Come non si attenua la loro voglia di un redde rationem con il ministro. “Altrimenti Luigi ci logorerà fino alle Amministrative e poi dopo il voto chiederà la testa di Conte” prevedono. E sullo stesso concetto continua a sgolarsi un ex molto ascoltato dall’avvocato, Alessandro Di Battista: “Tra lui e Di Maio serve una resa dei conti alla luce del sole, altrimenti sarà la fine dei Cinque Stelle”. Sullo sfondo, un veterano: “Ormai ci sono due Movimenti: quello di Conte guarda ai progressisti, mentre Di Maio vorrebbe un M5S equidistante, pronto ad allearsi con chiunque”.
E forse si riferiva a quello ieri l’ex premier, quando ha detto: “Il punto è dove vuole andare il M5S”. Ma il punto è anche dove vuole arrivare Di Maio. Ieri il ministro è parso lanciare segnali di tregua per interposti dimaiani: cioè Sergio Battelli sul Corsera (“Serve un confronto faccia a faccia”) e il meno irenico Vincenzo Spadafora su Repubblica (“Conte si faccia aiutare da Luigi”). Da ambienti vicini al ministro spiegano: “Serve una sintesi politica, un chiarimento vero per poi ripartire davvero tutti assieme. E le amministrative non cambierebbero nulla, Luigi è leale”. Però per arrivare all’armistizio serve un disarmo bilaterale.
Tradotto, Di Maio teme l’assemblea come la gogna che Conte giura di non volere. “Giuseppe potrebbe trasformarla in uno show come quello che fece contro in Senato contro Matteo Salvini” scandisce un dimaiano di certa fede. Mentre nel Transatlantico della Camera a scuotere la testa è il deputato Gianluca Vacca, anche lui vicino all’ex capo: “Un’assemblea in streaming con gli iscritti come la fai?”. Per questo alcuni pontieri spingono per un confronto ristretto, così da stemperare il clima. Solo dopo, si arriverebbe a un’assemblea congiunta. Nell’attesa, centristi vari continuano a lanciare segnali a Di Maio. “Ma la verità è che Luigi vuole contare nel M5S, decidere, e cambiare un assetto che non lo convince” teorizza un grillino che non vuole schierarsi. Uno dei tanti, a temere la guerra.
Reuters (Uk): “Tutti tranne lui: così s’è alienato gli elettori”
“Tutti tranne Draghi”, titola Reuters. Sottotitolo: “Come è fallito un tentativo presidenziale”. Il pezzo dell’agenzia britannica, firmato da Gavin Jones insieme ad Angelo Amante e Giuseppe Fonte, si apre così: “Lo scorso fine settimana, per la prima volta nella sua dorata carriera, Mario Draghi ha mancato una promozione”. Una sorpresa, viste le premesse: “Era il favorito dei bookmaker per diventare presidente della Repubblica. Aveva fatto sapere di ambire al prestigioso incarico, con il suo mandato di sette anni e un notevole peso politico. Ma in otto turni di votazione che alla fine hanno coronato per un secondo mandato il presidente uscente Sergio Mattarella, Draghi non ha mai ottenuto più di cinque voti dai 1.009 parlamentari e delegati regionali che hanno preso parte alle elezioni”.
Jones e i colleghi di Reuters hanno raccolto le impressioni di una dozzina di parlamentari italiani, che hanno confermato come il principale ostacolo all’ascesa di Draghi al Quirinale fosse la preoccupazione per una possibile crisi di governo, che avrebbe mandato a casa gli eletti senza far scattare la pensione e (per molti) con esigue possibilità di riconferma. Ma la sconfitta di Draghi non è dipesa solo dai calcoli personali dei parlamentari. Reuters riporta le parole del leghista Claudio Borghi: “Il messaggio che ho ricevuto dalla maggior parte di loro (i grandi elettori, ndr) è stato che avrebbero preso in considerazione la possibilità di votare per chiunque tranne Draghi” anche per “il disagio per quello che ha definito un approccio ‘autocratico’ al governo da parte dell’ex capo della Banca centrale europea”.
“Come il suo predecessore (Giuseppe Conte, ndr), Draghi ha spesso fatto ricorso alla decretazione d’urgenza – sottolinea Reuters – lasciando al Parlamento poco spazio per discutere e modificare la legislazione. Questo senso di esclusione gli è costato il sostegno tra lo stesso gruppo di persone che eleggono il capo dello Stato”. Una disapprovazione “cresciuta non appena iniziate le votazioni, quando Draghi ha aperto i colloqui con i leader di partito, in quello che è stato ampiamente interpretato come un tentativo di assicurarsi il loro sostegno”.