Con Cortellesi e Albanese il gatto torna in tangenziale

Come un gatto in tangenziale la commedia di Riccardo Milani con Paola Cortellesi e Antonio Albanese accolta due anni fa con unanimi consensi da critica e pubblico (incassati 10 milioni) avrà un sequel le cui riprese inizieranno a Roma e dintorni a partire da fine agosto. Il regista e protagonisti torneranno sul set per portare in scena in chiave brillante ulteriori sviluppi dell’incontro/scontro tra Monica, verace ex cassiera di supermercato residente nella periferia di Roma, e Giovanni, intellettuale impegnato e profeta dell’integrazione sociale che vive nel centro storico. Come il fortunato prototipo il nuovo film è sceneggiato da Milani e Cortellesi con Giulia Calenda e Furio Andreotti e sarà prodotto da Wildside e con la collaborazione di Sky e Vision Distribution.

Si gira da qualche giorno Con le mie mani, un drammatico noir interpretato da Francesco Montanari e Laura Chiatti e diretto da Fabio Resinaro che ha adattato il romanzo-verità Ero in guerra ma non lo sapevo di Alberto Torregiani in una sceneggiatura scritta con Mauro Caporiccio e Carlo Mazzotta. Prodotto da Luca Barbareschi per Casanova Multimedia e Rai Cinema il film ripercorre come il libro la tragica giornata del febbraio 1979 in cui un commando dei P.A.C. su mandato del terrorista Cesare Battisti uccide a Milano in un agguato l’orefice Pierluigi Torregiani e ferisce gravemente suo figlio Alberto costretto da allora su una sedia a rotelle.

Matteo Rovere dirigerà in inverno per Groenlandia, Rai Cinema e partner stranieri in via di definizione un adattamento per il cinema scritto con Massimo Guadioso e Luca Infascelli de Il sergente della neve, il racconto autobiografico di Mario Rigoni Stern sull’esperienza da ufficiale nella Ritirata di Russia del 1943.

Da bimba guerriera ad adolescente pensierosa: Hanna è diventata grande

Al netto delle sparatorie e degli inseguimenti, della Cia e dei programmi supersegreti, Hanna (la seconda stagione da ieri su Amazon Prime Video) è una serie in cui non è così difficile immedesimarsi. Riappropriarsi della propria vita e poter decidere cosa farne, senza alcuna costrizione: in fondo non è un desiderio che abbiamo provato tutti almeno una volta?

Hanna è una ragazza di 15 anni. Erik l’ha cresciuta in una foresta della Polonia, l’ha addestrata come un piccolo soldato ma non le ha mai raccontato la verità sul suo passato. Hanna non sa che Erik non è il suo vero padre, non sa che lui l’ha sottratta alla Cia quando era appena nata per evitare che la trasformassero in un’arma al servizio del governo. Prendere dei neonati, modificare il loro Dna e addestrarli per creare dei super soldati: ecco in cosa consiste il programma Utrax. Per 15 anni Hanna è rimasta lontana da tutto questo, finché l’agente Marissa Wiegler non ha ricevuto l’incarico di trovarla.

Nella prima stagione, basata sul film Hanna con Saoirse Ronan, la protagonista ha cercato e faticosamente trovato la sua identità. La seconda si muove invece su territori inesplorati. Hanna non ha più Erik accanto e deve occuparsi di Clara, che ha aiutato a fuggire. La Cia, intanto, si è riorganizzata: ha trasferito le ragazze del programma Utrax in Inghilterra e ha dato loro una nuova vita e un nuovo nome, l’ultimo passaggio prima di metterle alla prova sul campo. L’unico ostacolo a questo progetto è rappresentato proprio da Hanna.

Con il secondo capitolo è arrivato il momento delle scelte: “Hanna entra in contatto con ragazze come lei che rappresentano una possibile famiglia. Ma è davvero quello che vuole, far parte della macchina omicida creata dal governo?” ha spiegato l’autore della serie David Farr. Ridotta all’osso, Hanna è la storia di un’adolescente che improvvisamente perde tutti i suoi punti di riferimento e deve decidere, da sola, che donna vuole diventare.

 

“Gangs of London”, che gentaglia

Dall’alto in basso. Così gli inglesi hanno spesso osservato il resto del mondo. Forse per questo anche la degna vendetta di un patricidio deve consumarsi dall’altro di un grattacielo calando il colpevole a testa in giù, incendiando la corda a cui è appeso: un’esecuzione spietata, spettacolare e – dal punto di vista del punitore – “inevitabile”. Non lascia spazio a equivoci la prima sequenza di Gangs of London, serie action-criminale girata e ambientata nella capitale intimamente più contraddittoria del pianeta, che ha già infuocato gli ascolti in madrepatria con 2,23 milioni di spettatori nell’esordio del 23 aprile. Un successo di pubblico (ma anche di critica local) che ha già garantito la seconda stagione. Produzione Sky Original in 9 puntate, approda in Italia su Sky Atlantic e NOW TV dal 6 luglio. E, come ironicamente annota il Guardian, “benché si vedano i tetti di Londra, non si tratta esattamente di Mary Poppins”; al contrario, infatti, Gangs è quanto di più estremamente ed esplicitamente violento sia apparso nella serialità televisiva, quasi fosse l’esplosione a catena di un ordigno tenuto finora costretto e nascosto. Ma non si tratta di efferatezza fine a se stessa, ab origine emerge la rabbia ancestrale dei sudditi reietti di Sua Maestà, “i figli bastardi e illegittimi del grande impero britannico”, quelli del cui sangue multietnico si è da sempre nutrita la suburbia monarchica e sovversiva per diventare se stessa, il cuore della perfida Albione nella sua espressione più dark, sanguinaria e mortifera. Emblematico Gangs of London arrivi nel periodo più buio della storia britannica contemporanea, afflitta da una pandemia più resistente che altrove, endemica e separatista, con Brexit tuttora un mistero per i più.

Anche le tracce d’ispirazione del creatore – il gallese Gareth Evans – sono composite e sovrapposte: dalle esplicite arti marziali indonesiane di cui è cultore (ha siglato la saga The Raid) e tutto il cinema e tv cop, gangster & action degli inevitabili Scorsese, Coppola, Tarantino e Sollima, alle più implicite radici scespiriane, dell’eterna tragedia che elabora la lotta per il potere e la succession al trono (di spade..) attraverso guerre fratricide, qui estese a gang di barbarica brutalità, fra nomadi barbuti, spacciatori senza scrupoli e finanzieri glaciali. E un’epica criminale che si rispetti non può che innervarsi da una famiglia, i Wallace, il cui patriarca “padrino” Finn (Colm Meany) – già emigrato irlandese e povero da piccolo divenuto padrone incontrastato dei traffici illegali londinesi e garante della convivenza tra cosche – viene assassinato: da quel momento l’ordine costituito salta, il caos esplode e i legami di sangue vanno al setaccio. Il legittimo erede è il figlio Sean (Joe Cole), coadiuvato “obliquamente” dal fraterno compare del padre, Ed, anch’egli migrante bambino dalla Nigeria che con Finn sopravvisse al razzismo imperante del “no Blacks, no Irish”, e dal giovane underdog Elliott (Sope Dirisu) venuto dal nulla. A corollario emergono dall’underground vari personaggi di ogni lingua, cultura e colore (oltre ai neri anche pakistani, albanesi, curdi…), ciascuno legittimato da una causa, tutti inferociti. L’impatto visivo di questa gomorra dal Dna British è (pre)potente: un cinema formato tv che non lascerà indifferenti.

Gangs of London

9 puntate in onda su Sky Atlantic e NOW TV a partire dal 6 luglio

Vendicarsi quando la terra ti toglie la vita

Per ritornare in sala, in tempi di Covid-19, ci vuole una buona ragione: Nel nome della terra è addirittura ottima. Per sintassi cinematografica, resa stilistica, prove attoriali e, sopra tutto, storia che è storia vera merita di essere visto, sul grande schermo. Lo distribuisce dal 9 luglio la sempre sorprendente Movies Inspired, e se temete il fondo di magazzino, l’invisibile di turno e altre amenità vi sbagliate di grosso: Au nom de la terre, esordio al lungometraggio di finzione del fotoreporter Edouard Bergeon, in Francia ha avuto più di due milioni di spettatori, tre nomination ai César 2020 ed è diventato argomento di discussione nazionale. Facile capire perché: la MSA (Sécurité Sociale Agricole) stima che Oltralpe si tolga la vita un agricoltore ogni due giorni, e Bergeon nei bellissimi paesaggi delle Alpi Mancelles trova il luogo, una fattoria familiare e insieme simbolica, il reato, istigazione al suicidio, e il colpevole, l’ultracapitalismo.

Al tema aveva già dedicato il documentario I figli della terra, per cui riceve “regolarmente email da famiglie che testimoniano la morte di un genitore. Inoltre, sappiamo che ogni anno in Francia scompaiono diecimila fattorie”. Un perfetto e devoto – la chierica non è protesica, se l’è fatta sul serio – Guillaume Canet interpreta Pierre Jarjeau: bello e appassionato, ha venticinque anni quando torna dal Wyoming per riabbracciare la sua Claire (Veerle Baetens, super) e, lui provetto cavallerizzo, prendere le redini della fattoria di famiglia. Venti anni più tardi, l’azienda zootecnica e agricola s’è allargata, e così la famiglia: Thomas (Anthony Bajon, ne sentiremo parlare) ed Emma, e i quattro non potrebbero stare meglio. Eppure, il futuro è una terra straniera: l’amore coniugale e filiale non può quasi nulla, il padre (Rufus) dickensiano potrebbe ma no, Pierre si ammazza di lavoro, i debiti si accumulano, l’orizzonte s’incupisce. Stare con i piedi per terra non elude la follia, anzi: Pierre non regge fisicamente e psicologicamente; fumo, alcool e farmaci lo prendono per mano; prestiti, diversificazione (accanto alle capre i polli) e amministrazione controllata lo prendono per la gola. Ci fa male questa felicità perduta, perché Pierre e famiglia sono buoni, e l’evoluzione scellerata del mondo agricolo degli ultimi quarant’anni li condanna, povericristi, all’estinzione: andarsene o morire. Una tragedia che richiede misura, controllo e un surplus di umanità, Ebergeon assolve: venire a sapere che ha plasmato Pierre a immagine e somiglianza del proprio padre fa sussultare d’ammirazione e persino gridare alla vendetta – artistica – compiuta.

Sarebbe piaciuto a Ermanno Olmi, e piacerà a chiunque capisca di cinema e di vita: nel nome del padre si può morire, nel nome della terra si può morire, ma un film può sublimare. E aprire alla speranza: non che il mondo, agricolo e tutto, migliori, ma che una storia ben raccontata rimanga. Nel nome del figlio.

 

“Colibrì”, lustrini e dolcetti: lo Strega rapido e indolore

In mancanza del buffet di cui sparlare, toccherà occuparsi di libri: sei i finalisti, in questa 74esima edizione del Premio Strega Covid-free appena archiviata. Ha vinto Il colibrì di Sandro Veronesi (La nave di Teseo), già trionfatore nel 2006 con Caos calmo (Bompiani): un terzo dei voti è andato a lui (200 su 605). Fine della letteratura. Resta un dubbio: come avrà fatto a entrare Jonathan Bazzi con la Febbre (titolo)? Andiamo per gradi.

Contingentati. Per accedere al Ninfeo di Villa Giulia serve un’autocertificazione – di buona salute ed educazione –, quasi come negli States: lei ha la tosse? Ha il colera? È tossicodipendente? Ha mai intrapreso attività a scopo terroristico o di genocidio? Segue termometro per scongiurare la febbre. “Ma me l’ha misurata la temperatura?”: Corrado Augias incalza gli addetti alla sicurezza, varcando intanto la soglia.

Freestyle. È molto ligio Augias e da giovedì – si è scoperto – è anche esperto di #MeToo. Altro che Valeria Parrella: sottotesto carpito al presentatore della serata sulla Rai, Giorgio Zanchini. Una serata Covid-free, ma pure plastic-free (l’acqua è solo in lattina), ma pure gender-free. Uomini che parlano di donne e #MeToo, uomini nel bagno delle donne, uomini con trucco e parrucco, lustrini e unghie decorate dalla scritta “femminuccia”: quanti uomini ci sono. Più che gender-free, women-free.

Citazioni colte (qua e là). Presiede la giuria il vincitore dello Strega numero 73, Antonio Scurati (M., Bompiani): “È la prima volta che sono presidente di qualcosa”. Un cameriere nel frattempo serve ai tavoli il dessert; a chi si lamenta, risponde: “Se non le piace, c’è un’altra composta di dolce”. Boh. Accoglie, infine, le signore alla toilette una massima antica e pensosa: “Schifo i musei (siamo in quello etrusco, ndr), meglio il McDonald’s”.

On the menu. Niente cena né vini assortiti, niente code né assalti al buffet: solo prosecco, due tipi di cocktail allo Strega, mandorle salate e dolcetti. Tutti i presenti – poco più di un centinaio – hanno un posto a sedere. Comodo: se ci si alza, la mascherina è obbligatoria; la votazione si segue su uno schermo; i convenevoli sono limitati al minimo. L’atmosfera è sobria, la premiazione meno sfilacciata e lunga del solito. Ma, al solito, noiosissima.

MAXI SCHERMO. Mai vista al Ninfeo un’erba così curata e folta, non deturpata dalle zampacce degli ospiti: spostarsi non è necessario; anzi, è sgradito. Tanto la cerimonia avviene là in fondo, dietro le quinte, per così dire, in un cortile inaccessibile: qualche cronista se n’è tornato a casa perché – schermo per schermo – il proprio divano davanti alla tv è più comodo. Molti sono incollati a guardare i monitor, anche la deliziosa Kasia Smutniak; poi certo c’è chi è incollato a guardare lei, o in alternativa la schiena abbronzata e nuda di una signora color carne.

Diamo i numeri. Davvero elegante e composto, nonostante la delusione, Gianrico Carofiglio, sconfitto con La misura del tempo (Einaudi) e 132 voti. I rumors degli ultimi giorni l’avevano forse illuso, dandolo quasi per vincitore, ma si sa, “erano tutte fesserie di quelli di Milano per creare un po’ di scompiglio”, sussura un collega smaliziato. Terza classificata Valeria Parrella con Almarina (Einaudi, 86 voti); quarto Gian Arturo Ferrari con Ragazzo italiano (Feltrinelli, 70 voti); quinto Daniele Mencarelli con Tutto chiede salvezza (Mondadori, 67 voti); sesto Jonathan Bazzi con Febbre (Fandango, 50 voti). Poi di corsa tutti a casa a vedere Temptation Island.

Grazianeddu fugge di nuovo: “Così evasi le altre nove volte”

Il piano era questo. Un detenuto doveva aprire la porta della cella usando dei ganci. Poi si sarebbe entrati nell’aula utilizzando una copia della chiave. Praticando un’apertura saremmo sbucati nell’ufficio del maresciallo. La porta. La strada. La libertà. Era settembre del ’62. Venni a sapere che il maresciallo aveva chiesto un giorno di permesso. (…) Dei miei due compagni di avventura uno era un ergastolano ormai definitivo e c’era il rischio che da un giorno all’altro lo trasferissero. Il piano scattò. Aprimmo la porta della cella, entrammo nell’aula e incominciammo a scavare il muro con alcune stecche di ferro tolte dalle brandine. Alla fine della nostra fatica avevamo praticato un piccolo foro. Un brigadiere si fermò sulla porta annusando nell’aria la polvere che avevamo sollevato. “Venite fuori. Vi ho scoperto”. “Va bene. Ci è andata male”. “Che cosa stavate facendo?”. “Un piccolo forno per cuocere il pane”. Ci misero in isolamento tutti e tre. I due amici uscirono poi per decorrenza dei termini.

In isolamento pensai di nuovo a fuggire. Per un fatto ereditario perdo sangue dal naso. Volevo sfruttare questa circostanza. Mi feci venire un’epistassi più violenta del solito. Mi sistemarono all’ultimo piano, con due carabinieri a sorvegliarmi, portandomi via i vestiti e le scarpe. Ogni sera mi tiravo il lenzuolo sul viso per dormire. Faceva già parte del piano. C’era una bella infermiera che veniva spesso a trovarmi. “Mi tocca dormire in mutande”, mi lamentavo con lei. Una sera estrasse un pigiama da sotto la gonna. (…) La stanza era d’angolo. Lungo il muro correva un tubo per l’acqua. Fingevo di stare male. Scivolai dal letto, sistemai il cuscino in modo che fosse scambiato per la mia sagoma e stesi sopra il lenzuolo. (…) Scivolai sul pavimento. Andai alla finestra socchiusa. Il pigiama era bianco, larghissimo, mi faceva assomigliare a un frate. Scavalcai il davanzale, mi afferrai al tubo dell’acqua e incominciai a scendere. Un medico si affacciò a una finestra. “Ma dove vai che sei malato?”. Telefonò alle guardie: “Mesina sta scappando”. “Ma no, è a letto che dorme e russa”. In quel momento scavalcavo il muro di cinta dell’ospedale. Fuori stavano costruendo una fognatura nuova. Scesi nel fossato e mi infilai in un grande tubo di cemento. Mi raggomitolai come un gatto. Restai in quella posizione per tutta la notte e per l’intera giornata successiva.

4 aprile 1942: nasce a Orgosolo, penultimo di 11 figli.

Maggio 1960: durante i festeggiamenti del paese, spara a un lampione. Portato in caserma, evade dopo avere forzato la porta e aver fatto crollare un muro. È la prima delle sue nove evasioni. Si rifugia in montagna, ma si costituisce per le insistenze della madre.

12 luglio: il cadavere del commerciante Pietrino Crasta, sequestrato giorni prima, viene rinvenuto a Lenardeddu dove i fratelli Mesina hanno il pascolo. Vengono arrestati.

Gennaio 1961: Graziano Mesina viene scarcerato.

24 dicembre: a Orgosolo uno sconosciuto spara a Luigi Mereu, zio di uno degli imputati nella vicenda Crasta. Mesina è arrestato e condannato a 16 anni per tentato omicidio. A Macomer tenta di fuggire.

Settembre 1962: tenta di evadere dal carcere di Nuoro.

6 settembre: evade dall’ospedale di Nuoro calandosi lungo un tubo dell’acqua.

13 novembre: in un bar a Orgosolo, spara col mitra al fratello di Grussotto Muscau, coinvolto nel caso Crasta. È condannato a 26 anni.

Gennaio 1963: tenta l’evasione dal carcere di Nuoro. Viene trasferito a Porto Azzurro.

Estate 1964: è atteso da un processo in Sardegna. Tenta la fuga dal treno.

Fine 1964: è trasferito a Viterbo. Appicca il fuoco in un magazzino e cerca di fuggire.

11 settembre 1966: è in carcere a Sassari. Fugge scalando il muro e gettandosi sotto. Poi prende un taxi, quindi a dorso di un asino, e a piedi. Inizia la latitanza, con Miguel Atienza.

17 giugno 1977: i baschi blu circondano Mesina e Atienza a Osposidda. Mesina scappa, Atienza muore, colpito.

26 marzo 1968: Mesina viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Badu e Carros.

1973: passa per le carceri di Porto Azzurro, Volterra, Saluzzo, Augusta, Roma: cerca di evadere da tutti.

20 agosto 1976: Mesina guida la fuga di 12 detenuti da Lecce. Sfugge alla cattura arrampicandosi su un albero.

16 marzo 1977: è arrestato a Caldonazzo. Detenuto a Favignana, tenta la fuga. Trasferito a Trani e poi a Fossombrone, Cuneo e Novara. Alla fine dell’82 è a Porto Azzurro.

12 aprile 1985: ottiene un permesso di 12 ore. Allo scadere, non rientra in carcere. Raggiunge a Milano Valeria Fusè, una ragazza che gli scriveva in cella. Irrompono i Carabinieri. Finisce in carcere a Novara. È l’ultima delle sue 9 evasioni.

(Questa la storia fino a due giorni fa…)

“Demosisto era rischioso: vogliono arrestarci tutti”

Pechino stritola Hong Kong: a capo della neonata Agenzia per la Sicurezza Nazionale manda il durissimo Zheng Yanxiong. Riusciamo a contattare Isaac Chang, 20 anni, attivista pro-democrazia, a 20 anni leader degli studenti superiori, vicepresidente di Demosisto, una delle principali associazioni pro-democrazia fino a martedì, quando è stata dissolta in conseguenza dell’approvazione, in Cina, della legge di sicurezza nazionale che strozza le garanzie democratiche della città. Nella sua biografia, il bivio in cui si trova Hong Kong. “A sei anni – afferma – ero un volontario pro-Pechino”.

Una specie di Balilla fascista?

Sì, qualcosa del genere. Ma crescendo mi sono reso conto delle bugie che mi erano state dette. A 15 anni ho scelto l’attivismo pro-democrazia. E ho aderito a Demosisto.

Perché è stato necessario scioglierla?

La nuova legge ci mette tutti in pericolo. Siamo stati arrestati varie volte, come tanti attivisti negli ultimi anni, ma ora qualsiasi azione è punibile con il carcere. La legge non è retroattiva, ma pensiamo che il governo andrà alla ricerca dei leader delle proteste del passato, ha bisogno di capri espiatori e farà di tutto per trovarli.

Anche fabbricando prove?

Forse, ma non è detto sia necessario: le maglie della nuova legge sono strettissime. Martedì un manifestante è stato arrestato solo per aver gridato Lunga vita Liverpool (considerata istigazione all’indipendenza di Hong Kong, ndr). Anche ora che Demosisto è stata dissolta ci aspettiamo arresti ed estradizioni in Cina per l’attività del passato.

L’avete dissolta per proteggerne i membri?

Non solo: i più in vista non li possiamo proteggere, io stesso sono preoccupato per la mia libertà e per la mia sicurezza. Ma una delle nostre attività era quella di lobbying all’estero, che la nuova legge vieta con il reato di “collusione con forze straniere”. Senza Demosisto possiamo essere più flessibili.

Hai partecipato alle ultime proteste? Sei in un posto sicuro?

Sono in un posto sicuro, ma non posso commentare sulla mia attività o i nostri piani.

Cosa succederà ora? La legge vi lega le mani…

È troppo presto per dirlo. Ma la protesta non si fermerà, sono scesi in piazza anche due milioni di persone. Per quanto la repressione possa essere brutale, troveremo modi creativi di opporci, per esempio sostenendo l’economia gialla, i negozi pro-democrazia.

Ma questa stretta del governo centrale può radicalizzare la popolazione?

Sì, credo sia possibile, perché hanno visto la brutalità di questo regime.

Ora puntate all’indipendenza?

No, assolutamente. La richiesta resta quella del suffragio universale.

Cosa ti spinge, a 20 anni, a rischiare tanto per la causa?

La libertà e la democrazia non arrivano gratis. Sono il risultato di lunghe lotte… Anche se non la cerchi, la politica viene da te. I miei genitori erano pro-Pechino. Ma hanno visto il volto della Cina e ora sono con me.

Saranno in molti a riparare nei paesi che hanno aperto le porte, come Nathan Law che se n’è andato per combattere da fuori?

Andarsene in massa non è un’alternativa. Lo faranno quelli in serio pericolo, ma ho fiducia che la popolazione resterà a combattere. Hong Kong è casa.

E non è la Cina.

Io sono un cittadino di Hong Kong, non un cittadino cinese.

A Jean Castex l’amico di Sarkò prima il Covid poi il governo

Èun uomo vicino all’ex presidente Nicolas Sarkozy, il nuovo primo ministro che si è scelto Emmanuel Macron, Jean Castex. I francesi non lo conoscono per nulla o quasi (come del resto non conoscevano il suo predecessore dimissionario, Edouard Philippe. Chi ne ha sentito parlare è per il soprannome che a un certo punto, durante l’emergenza sanitaria, gli è stato affibbiato, “monsieur déconfinement”. Ad aprile, nel pieno della crisi, Castex era stato infatti chiamato per gestire la “fase 2” dell’emergenza Covid e guidare la ripartenza del paese dopo il lockdown. Era stato proprio l’ex premier, Philippe, a chiamarlo d’urgenza. Di lui aveva detto: Castex è “un alto funzionario che conosce a perfezione il mondo della sanità ed è formidabilmente efficace”. L’uscita dal lockdown del resto si è svolta senza intoppi in Francia e Macron, che ha apprezzato molto il suo lavoro, lo ha dunque premiato. Per guidare il suo nuovo governo, il presidente ha sostituito un uomo di destra con un altro uomo di destra ma che, a differenza del popolare Philippe, non dovrebbe fargli ombra prima del 2002, prossima scadenza elettorale per l’Eliseo. Dopo aver saputo che Macron lo voleva alla guida del nuovo esecutivo, che nascerà nelle prossime ore, Castex ha scritto un comunicato: “Il presidente della Repubblica mi ha proposto la nomina di primo ministro. Tenuto conto delle circostanze senza precedenti nelle quali si trova il nostro paese, ho accettato”. Quindi ha consegnato il tesserino del partito Les Républicains. A 55 anni, Castex, padre di quattro figlie, è colto, apprezzato, competente e pare anche molto simpatico. I francesi gli perdoneranno il forte accento del sud. Come Macron, ha studiato nella prestigiosa scuola Ena, dove si formano i futuri leader della République. Nel 2005 è entrato al ministero della Sanità dove si è occupato del settore ospedaliero. L’anno dopo è diventato capo di gabinetto di Xavier Bertrand, prima al ministero della Salute, poi a quello del Lavoro. Nel 2010 è consigliere per gli affari sociali del presidente Sarkozy e l’anno dopo diventa il suo segretario generale dell’Eliseo. La lista dei suoi numerosi ruoli non è finita qui. È anche sindaco di Prades, comune dei Pirenei, dal 2008, ed è stato presidente dell’Agenzia nazionale dello Sport e delegato interministeriale per l’organizzazione delle Olimpiadi del 20024, a Parigi. “È come un coltellino svizzero – ha detto di lui Franck Louvier, ex direttore della comunicazione di Sarkozy –. Ha connessioni un po’ dappertutto, fa sempre la cosa giusta al momento giusto”.

Macron gli dà il ben servito. Philippe gli faceva ombra

Emmanuel Macron dà il ben servito a Edouard Philippe e consegna le redini del suo governo a un altro uomo della droite, Jean Castex. Da alcuni giorni si parlava di un probabile rimpasto di governo in Francia e le dimissioni di Philippe, e con lui di tutto il suo governo, erano attese da un momento all’altro. Macron aveva inoltre promesso ai francesi che avrebbe dato una nuova “svolta” alla sua politica, con una dimensione ecologista in più, visto il boom dei Verdi alle recenti Municipali. A corto di popolarità, uscito sconfitto dallo scrutinio di domenica, Emmanuel Macron ha bisogno di rilanciarsi.

Ma affida il rinnovamento a un altro esponente del partito di centrodestra Les Républicains, proprio come il suo predecessore (una base elettorale importante per lui, da cui attingere voti), con fibra ecologista magari vicina allo zero, e fondamentalmente semi-sconosciuto (ma che di sicuro non gli fa ombra). Date le premesse, chi si aspettava quella svolta ora e subito, rimarrà deluso. In queste ore è già partito il rompicapo della formazione dell’esecutivo. La lista dei nuovi ministri dovrebbe essere annunciata entro mercoledì. In un’intervista alla stampa regionale, Macron dice che vuole “un governo di lotta”, composto da “volti nuovi” e “nuovi talenti”. Queste le priorità: la rifondazione della sanità pubblica, già in crisi anche prima del Covid-19, la ricostruzione dell’economia uscita esangue dal lockdown e un progetto per i giovani, “le prime vittime della crisi” del virus, secondo Macron.

Il nuovo premier dovrà poi riprendere un dossier scottante: quello della riforma delle pensioni, che aveva scatenato le proteste e mesi di scioperi, sospeso durante la crisi sanitaria. Ma solo temporaneamente accantonato: “La riforma non è abbandonata. Sarà trasformata”, ha detto Macron. Per alcuni giornali francesi, sarebbe stato Macron ad annunciare a Philippe, in un incontro a due all’Eliseo, giovedì sera, che avrebbe dovuto lasciare il palazzo di Matignon. Molti francesi potrebbero restare delusi anche per questo: hanno imparato ad apprezzare il loro premier durante l’emergenza e, come indicato dai sondaggi, avrebbero voluto che restasse a capo del nuovo governo. Philippe era diventato troppo popolare e quindi ingombrante per Macron: il primo con un bel 50% di consensi, il secondo fermo al 38%. Il divorzio tra i due era diventato inevitabile anche per via dei disaccordi emersi durante la crisi sanitaria. Ma si può forse tornare anche un po’ più indietro. I francesi, che ora adorano Philippe, sembrano aver dimenticato che la famigerata “età di equilibrio”, la soglia minima fissata a 64 anni per ottenere la pensione piena, misura all’origine degli scioperi e poi sospesa, era stata un’idea sua. In ogni caso, l’ex premier, che ha vinto le Municipali di domenica scorsa a pieni voti andrà a fare il sindaco di Le Havre. Non ha mai accennato a eventuali ambizioni nazionali, ma con la scadenza elettorale per l’Eliseo vicina, due anni, non si può escludere che l’ex primo ministro punti alle elezioni del 2022. Ci si può chiedere se è anche per scongiurare il rischio, e tentare di legarlo a sé, che Macron gli ha affidato la missione politica di “ricostruire la maggioranza”. La scelta di Jean Castex intanto irrita la destra, che se ne vede scippare da Macron un altro. Mentre per la sinistra è un’occasione mancata: “Il giorno dopo sarà di destra come il giorno prima”, ha commentato Olivier Faure, segretario generale dei socialisti.

Fca-Psa, la cedola da 5,5 miliardi è ancora incerta. Ce la farà Elkann?

Fca è dovuta intervenire ancora una volta per smentire le indiscrezioni che parlano di una revisione del patto di fusione con Psa, in particolare per quanto riguarda il pagamento cash del dividendo straordinario da 5,5 miliardi. Questa volta, però, le indiscrezioni sono state pubblicate sul quotidiano Il Sole 24 Ore che in questa materia una certa credibilità ce l’ha.

Il quotidiano di Confindustria ha scritto che da qualche parte non precisata si starebbe discutendo “la natura” della maxi-cedola da 5,5 miliardi di cui non è in discussione il valore quanto la sua traduzione concreta che potrebbe avvenire “in asset”. Quindi partecipate azionarie sia di società del gruppo Fca sia di “alcuni asset francesi inizialmente rimasti fuori dal progetto”. Tra le ipotesi c’è la società di componentistica Faurecia (2,7 miliardi di valore) oppure la Sevel, la joint-venture che produce i furgoni Ducato e che è sotto l’osservazione della Commissione europea per eccessiva concentrazione azionaria (valore tra i 2,5 e i 3 miliardi). Il Sole 24 Ore tira in ballo anche Alfa Romeo-Maserati.

Fca ha però smentito la notizia: “La struttura e i termini dell’accordo di fusione sono stati concordati e rimangono invariati”, ha fatto sapere un portavoce. Psa però non ha rilasciato alcun commento.

Il problema è che le voci di un possibile cambiamento del piano di fusione si rincorrono costantemente soprattutto dopo che Fca ha chiesto il prestito garantito dallo Stato italiano di 6,3 miliardi. Una spia delle difficoltà di liquidità dell’azienda, che sono state prontamente sottolineate da un piccolo, ma combattivo azionista di Psa, il fondo Phitrust, che ha invitato l’azionista francese a rivedere i termini di parità della fusione.

Che Fca abbia bisogno di abbondante liquidità è confermato, poi, dall’emissione di nuove obbligazioni per un valore di 3,5 miliardi con tre scadenze (2023, 2026 e 2028) e con tassi molto importanti: 3,375% per la prima tranche da 1,25 miliardi, 3,875% per la seconda di uguale importo e addirittura il 4,50% per l’ultima tranche da 1 miliardo. Tassi molto alti per rating incerti: il debito Fca è infatti classificato tra BB+ e BBB- dalle varie agenzie e quindi è un titolo “spazzatura”. Secondo l’ultima trimestrale pubblicata, Fca a fine marzo possedeva 14,6 miliardi di liquidità contro i 17,5 di fine 2019. Dopo marzo, però, ha dovuto chiedere prima il prestito da 6,3 miliardi e poi emettere obbligazioni per 3,5 miliardi. Le notizie giunte ieri sera dalla chiusura delle Borse non sono state così tranquillizzanti con Peugeot a -2,2% e Fca a -0,9%.