Fontana e i camici forniti dal cognato “Turbativa d’asta”

Milano

Corrono i magistrati, resta immobile la maggioranza di Attilio Fontana. La vicenda dei camici “regalati” dalla società Dama Spa della Fontana Family al Pirellone – un affidamento diretto da 513 mila euro, trasformatosi in regalo, ma solo dopo l’inizio delle indagini di Report poi anticipate dal Fatto Quotidiano – corre su binari paralleli.

O meglio, corre su quello giudiziario, tanto che la Procura di Milano da ieri indaga per turbativa d’asta, sebbene sempre a carico di ignoti. Non si tratta più di un fascicolo “modello 45”, perché ora l’ipotesi di reato c’è. Ed è pesante. Le indagini sono state affidate alla Guardia di finanza. A coordinarle, i pm Luigi Furno e Paolo Filippini, con l’aggiunto Maurizio Romanelli. Nel fascicolo, aperto lo scorso 8 giugno, è finito anche un esposto del Codacons.

La vicenda risale al 16 aprile, quando la Centrale acquisti della Regione Lombardia (Aria spa) concede a Dama spa un affidamento per 75 mila camici e 7 mila set con calzari e cappellini, per complessivi 513 mila euro. Proprietaria della Dama, per il 10%, è Roberta Dini, consorte del presidente Fontana. Per il restante 90% la società è controllata dal di lei fratello, Andrea Dini, che ne è anche amministratore. Un affidamento che il Pirellone onora, emettendo ordini di pagamento sulle fatture emesse da Dama, il 30 aprile. Crediti che la società decide però di stornare il 22 maggio, sostenendo di aver sbagliato. Perché quella fornitura doveva essere una donazione. Una giravolta giunta dopo che i giornalisti di Report avevano iniziato a indagare sulla faccenda. E non sembra aver convinto i magistrati.

Ma se il binario giudiziario è più che industrioso, quello politico è morto. Il presidente Fontana, pur sollecitato da tutti i capigruppo della minoranza, si è sempre rifiutato di andare in Consiglio a chiarire. Oltre a un “Non ne sapevo nulla”, non si è mai spinto. Anche Aria non ha certo brillato per limpidezza, come spiega il capogruppo M5S al Pirellone Marco Fumagalli, che aveva chiesto che la controllata riferisse in Commissione bilancio: “Il presidente della Commissione ci ha informati che ad Aria il 25 giugno ‘è stata inviata una richiesta di un contributo scritto in attesa di un’eventuale audizione’. Morale niente Aria…”. Così come senza risposta è rimasto l’accesso agli atti presentato dalla presidente della Commissione Antimafia della Regione, Monica Forte, i cui termini però scadranno la prossima settimana. Stessa via del silenzio che la controllata ha abbracciato sul caso Diasorin, altro discusso affidamento senza gara per i test sierologici poi bloccato.

“Fontana non ha mai voluto chiarire”, commenta il consigliere Pd, Pietro Bussolati, “sembra voler sfuggire ogni spiegazione su una storia che invece andrebbe precisata in ogni suo punto”.

La sede naturale per fare luce non solo su camici e Diasorin, ma su tutte le note dolenti della gestione dell’emergenza Covid – strage all’ospedale di Alzano, mancata zona rossa, ospedale alla Fiera, ecc… – sarebbe la commissione di inchiesta regionale. Ma è ancora al palo, paralizzata dalla volontà della maggioranza di “scegliersi” il presidente, contravvenendo ai regolamenti della Regione. “È chiaro che Regione preferisce stare nel torbido, perché la trasparenza potrebbe portare alla luce fatti e misfatti che probabilmente nemmeno nella nostra peggiore delle ipotesi ci potrebbe sovvenire”, chiosa cupo Fumagalli.

Zaia contro l’“untore” veneto: “Qui serve il ricovero coatto”

Colpirne uno, per educarne cento. Luca Zaia, presidente del Veneto, finora un modello nella lotta al Covid-19, utilizza un metodo caro a Mao Tse-Tung per esporre alla colonna infame (Alessandro Manzoni, peste del 1630) un imprenditore vicentino rientrato dalla Bosnia con il morbo. Un novello untore o solo una persona che ha sottovalutato i consigli medici? “Un signore torna il 25 giugno da un viaggio di lavoro, compaiono subito i sintomi. Il giorno dopo ha avuto un sacco di contatti, una festa privata, riunioni di lavoro e un funerale. Solo il 28 giugno è andato in ospedale: gli hanno proposto il ricovero. Questo signore ha rifiutato. Rifiutato? Il ricovero dev’essere coatto…”. Perde la pazienza il leghista capace di ammortizzare ogni critica. “Hanno depenalizzato chi lascia l’isolamento. Voglio da Roma una norma per il ricovero coatto dei sintomatici positivi e tolleranza zero per i positivi in isolamento. Il rischio in Veneto da basso è tornato elevato”.

Non bastavano le pubblicità della Locride contro le spiagge di Jesolo dove ci si ammala. Né le polemiche per i gruppi selvaggi. Il report sull’ultima settimana in Veneto, ha fatto scattare l’allarme rosso. Dopo aver interrotto martedì una no-stop di 130 giorni di conferenze stampa, Zaia ha riconvocato i giornalisti. Perché l’indice Rt di contagio si è moltiplicato di quattro volte in pochi giorni: da 0,43 (fino al valore 1 la diffusione cala) a 1,63. “Con chi mi complimento? Con chi diffonde teorie vigliacche, i complottisti. Se continuiamo ad andare in giro senza mascherina negli assembramenti e a pensare che il virus sia un’invenzione, è inevitabile. Questo virus fa male. Non chiedetevi se torna in ottobre, perché ce lo abbiamo già qui”.

Una scudisciata in diretta Facebook, a causa di cinque nuovi positivi, un’ottantina di persone in isolamento e un caso di “comportamento irresponsabile”. Eccoci all’imprenditore vicentino di 64 anni, a capo di un’azienda con 200 dipendenti. È tornato dalla Bosnia con alcuni amici. “Quel signore, dopo aver rifiutato il ricovero viene ricoverato l’1 luglio dopo tanta insistenza. Ora è in rianimazione. Ci ha dato una lista di contatti dal 23 al 30 giugno, vuol dire che anche con il tampone positivo è andato a fare contatti stretti”. Gli investigatori sanitari hanno ricostruito la catena. Il 30 giugno è risultato positivo asintomatico un collega che era in auto con lui. L’1 luglio si è presentato un terzo compagno di viaggio, positivo. Il 3 luglio l’Usl di Verona segnala la positività di un quarto componente del gruppo. Infine, una donna che ha avuto contatti con il “paziente zero” del focolaio. “Questo primo signore è stato in contatto con 37 persone, tra cui cinque bambini. Meglio non continui a leggere, se no m’incazzo davvero…” è sbottato Zaia.

Per questo invoca ricoveri coatti, addirittura il carcere. E in isolamento (negativo), c’è anche l’ex sindaco-sceriffo di Albettone, Joe Formaggio, ora consigliere regionale di Fratelli d’Italia. Zaia annuncia una nuova ordinanza, su tamponi e trattamenti sanitari. Ma deve incassare il sarcasmo del virologo Andrea Crisanti. “Dice che non basta la multa di mille euro? Bisognerebbe cominciare a farle. In questo momento si avvale di due esperti, il coordinatore dei laboratori di microbiologia del Veneto e il suo virologo di fiducia. Entrambi hanno firmato la lettera di Zangrillo che dice che il virus non ci sta più. E ora improvvisamente Zaia lo riscopre?”. Puntualizzazione del viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri: “La quarantena è già un metodo di trattamento sanitario obbligatorio e violarlo è già punito”.

I dati del monitoraggio settimanale riferiti al periodo 22-28 giugno, diffusi ieri da ministero della Salute e Istituto superiore di sanità per tutto il Paese, confermano che il “controllo dell’infezione” è “efficace” ma “va mantenuta alta l’attenzione”. Due Regioni hanno Rt, il tasso di riproduzione del virus che calcola quante persone sono contagiate mediamente da un infetto, rimane a 1,04 nel Lazio ma è in diminuzione e risale 1,28 in Emilia-Romagna. In tutte le altre Regioni è sotto 1. L’incidenza settimanale dei nuovi casi diminuisce quasi ovunque, specie nelle Regioni più colpite (in Lombardia 6,48 casi per 100 mila abitanti: 2,29 in meno).

Liguria paralizzata dai lavori in autostrada. I cinesi “abbandonano” il porto di Genova

Non fosse bastato il Covid, i traffici del porto di Genova (-16,4% nelle merci e -70% nei passeggeri nei primi cinque mesi del 2020), il più importante per le industrie del Nord Italia, rischiano ora il tracollo definitivo per il caos autostrade. Nei giorni scorsi si sono registrate decine di chilometri di coda sul nodo genovese dove convertono 4 direttrici autostradali, con conseguente paralisi anche del traffico cittadino. La causa è il programma di manutenzioni sulle 285 gallerie dell’area avviato da Autostrade per l’Italia a gennaio e proseguito durante il lockdown. Secondo quanto ricostruito da Aspi, pur essendo state preliminarmente comunicate, le modalità sarebbero state contestate dal ministero dei Trasporti solo a fine maggio, costringendo a reimpostare un lavoro completato al 90 per cento e terminarlo in breve. Da qui il rigido piano di chiusure totali e parziali che, in progressivo smaltimento, si protrarrà tuttavia per tutto luglio, dilatando i tempi di spostamento sulle strade liguri. E inasprendo il rimpallo di responsabilità e di minacce legali in corso fra Regione, Mit e Aspi. Al quale non sono presumibilmente estranee né le imminenti elezioni regionali né le trattative governative apparentemente congelate sulla possibile revoca della concessione.

Dopo la ferita del Morandi, a subire le conseguenze della disastrata situazione del nodo autostradale genovese (nel weekend saranno sospesi i pedaggi) è l’intera economia ligure. Turismo e soprattutto portualità, essendo del tutto inadeguate per storiche ragioni le alternative ferroviarie. Come rivelato dalla testata specializzata Shippingitaly.it, tre giorni fa la rappresentanza italiana di Cosco, compagnia armatoriale cinese, terzo player mondiale, che da sola vale il 7-8% dei 2 milioni e mezzo di container movimentati a Genova e cogestisce il terminal di Vado Ligure (Sv), ha scritto ai clienti per avvisarli di possibili disservizi sui tempi di consegna e invitarli a valutare “scelte alternative” ai porti liguri. Che, per attori globali come il liner di Pechino, non sono necessariamente italiane. Le associazioni di categoria degli operatori portuali genovesi stanno valutando una class action, i sindacati hanno inserito il tema fra le rivendicazioni di una giornata di scioperi portuali già proclamata (per altre ragioni) per il 24 luglio, l’Autorità Portuale del capoluogo preme per un intervento istituzionale che nei prossimi mesi almeno regoli i diversi flussi di mezzi (tir, pendolari, scuole, etc) affluenti in città, mentre Aspi sta approntando una riduzione dei pedaggi per l’utenza. La Via della Seta coi suoi ritorni erariali e occupazionali e i molti altri traffici internazionali che alimentano i porti liguri, però, rischiano nel frattempo di trovare sbocchi meno congestionati.

L’ultima carta di Ubi contro Intesa SanPaolo

Ora Ubi è pronta ad accelerare sulle nozze che dovrebbero dare vita al terzo polo bancario italiano. Con Intesa alla porta, l’offerta di acquisto “non sollecitata” parte lunedì, il Cda della ex popolare lombarda ha dato mandato all’ad Victor Massiah “di sottoporre alla nostra attenzione target di acquisizioni entro fine anno”. Ovviamente ciò avverrà solo nel caso in cui i soci di Ubi decidessero di non accettare l’offerta di Intesa, che quanto meno ha il merito di aver ridato slancio all’ipotesi che oltre alla stessa Intesa e Unicredit, in Italia nasca una banca con le spalle abbastanza larghe da poter fare il terzo concorrente. Una genesi a lungo vagheggiata in questi anni, ma che nell’Italia delle mille parrocchie non si è mai concretizzata. Se Ubi rimanesse autonoma, quindi, “accelereremo sulle aggregazioni”, ha sottolineato Massiah che ora è pronto a un cambio di passo. Il mandato è “a tutto tondo, senza limiti”, non esclude nessuno.

Da Mps, fino addirittura a Bper, con cui Ubi Banca aveva già intavolato “avanzate discussioni”, salvo poi diventare l’acquirente degli avanzi di Intesa, come ha spiegato ieri il banchiere a valle della maratona con cui il Cda ha aggiornato il piano industriale aumentando il monte dividendi. E ha bocciato la proposta di nozze di Carlo Messina. Quest’ultima è definita “pericolosa” e “dannosa” per i soci di Ubi, che sarebbero penalizzati da un prezzo “non congruo” a differenza di quelli di Intesa, a cui andrebbe “un’allocazione del valore e delle sinergie molto più favorevole”. Da chiarire poi i livelli occupazionali del piano Intesa su cui gravano le incertezze relative alle operazioni straordinarie. A giocare la partita, in ogni caso, saranno i soci di Ubi. Proprio su questo fronte si registrano le prime illustri defezioni in area bergamasca, la stessa che all’indomani del lancio dell’offerta si era compattata sul no. Salvo rialzi del prezzo.

L’abbacchio, mazzetta km 0 del Comune di Piglio (Fr)

Due spicchi d’aglio, qualche foglia di salvia, poi rosmarino, due bicchieri di vino bianco (ma secco), sale, pepe, farina e sua maestà l’agnello. Anche un abbacchio serviva per intortare i carabinieri, deviare il corso dell’appalto e agevolare la libera impresa nell’esercizio delle sue disfunzioni.

La tangentocrazia, il potere di riportare la norma a un’opzione, meno di una mera clausola di stile, sviluppa nel Paese, secondo il possente rapporto dell’Autorità anticorruzione, una frenesia a spingere sempre più in giù il livello della propria dignità e della concezione di cosa sia la legge. Così il neopresidente dell’Anac ci ha fatto conoscere la richiesta che un funzionario del comune di Piglio, nel frusinate, ha avanzato a due imprenditori per agevolare l’appalto: mille euro cash, un’auto di alta cilindrata per un weekend memorabile, e poi come consolazione gastronomica: l’abbacchio. Non sappiamo ancora con certezza se l’abbacchio fosse nel recinto delle considerazioni per qualificare meglio i lavori di efficientamento energetico della scuola del paesino ciociaro oppure fosse servito a velocizzare, nell’imperativo di dare efficienza alla pubblica amministrazione, le azioni di disinfestazione, cioè di pulizia profonda di Piglio e delle sue viscere. L’abbacchio nella Ciociaria è il mattatore della tavola e l’impiegato ha voluto dare un segno del genius loci alla sua richiesta, avanzata nel rispetto della tradizione. È finita come si sa, purtroppo, e la pubblicità ulteriore è solo merito dell’agnello che, bisogna dirlo per la cronaca, grazie all’intervento dei caramba non è stato poi sacrificato. Uguale misera sorte (arresti domiciliari) è toccata a tre funzionari dell’agenzia delle entrate di Frosinone che, amanti invece del mare, utilizzavano i pesci, anzi i “pesci gialli”, come metafora delle singole dazioni. I donanti, cioè i pesci, cioè i cittadini, per ogni pratica “complessa” sganciavano una somma la cui modestia (ora cinquanta, ora cento euro) dev’essere inquadrata nel segno della dilagante crisi economica. Si arraffa quel che si può.

Telefonia, truffati in migliaia per i giochi e le suonerie. Anche il procuratore Greco

Undici indagati e 12 milioni di euro sottoposti a sequestro preventivo. La Procura di Milano assesta un duro colpo alla truffa che da anni saccheggia i clienti delle compagnie telefoniche, vale a dire i servizi a valore aggiunto (Vas) come l’oroscopo, la chat erotica o il meteo, a cui ci si ritrova iscritti sfiorando solo con il dito lo schermo del cellulare. Nessun consenso, insomma, come anche per le sim installate per far funzionare sistemi d’allarme o caldaie su cui vengono attivati i Vas al momento della sottoscrizione. Una frode in cui è stato coinvolto anche lo stesso procuratore milanese Francesco Greco che si è accorto di pagare 20 euro al bimestre per l’acquisto di giochi. Tra gli indagati ci sono tre dirigenti di WindTre e Luigi Saccà (figlio di Agostino, ex dg della Rai), finito sotto indagine in qualità di responsabile, all’epoca dei fatti, del “team servizi Vas” per Wind. Le indagini non hanno riscontrato un cartello tra i gestori, ma si sospetta che il metodo sia “comune”. Per questo è stata inviata una lettera all’Agcom in merito alla posizione di Vodafone e Tim.

“Ci dicevano classi da 15, poi da 20… A settembre sciopero”

“È la mancanza di serietà la cosa che più ci colpisce: prima parlano di classi da 15, poi da 20 alunni, ora sembra che non sia successo niente e lasciano tutto nelle mani delle regioni autonome, se non addirittura ai distretti scolastici. Il governo non ci ascolta, se prosegue l’incertezza e non si scrivono misure chiare per il rientro a scuola, abbiamo in programma uno sciopero per inizio corso”. Maria Luz González (nella foto) è responsabile dell’Azione della Confederazione spagnola dei sindacati dei lavoratori e delle lavoratrici dell’insegnamento (StemIntersindacal), vive nella regione di Castiglia e León, una delle più colpite dalla vacuità delle direttive ministeriali per il rientro in classe post-Covid. “Si parla di aule-bolle, ma il personale scolastico non ha idea di cosa si tratti”.

Cosa non vi convince delle indicazioni ministeriali?

Prima cosa le disposizioni sul numero massimo di studenti per classe, in continua variazione. Non ci sembra serio. Poi le misure di protezione per gli insegnanti e i lavoratori, non c’è nessuna indicazione, a parte quella di lavarsi le mani.

La mancanza di direttive è anche causata dall’autonomia scolastica regionale.

Ma la responsabilità politica se la deve assumere qualcuno. Quando vuole il governo si sa imporre, a noi sembra che vada piuttosto dietro alle pressioni di questo o quel gruppo di potere, come le scuole private o parificate che hanno tutto l’interesse di tornare in classe a settembre come se niente fosse.

Il governo ha anche promesso l’assunzione di migliaia di insegnanti.

Non sta accadendo questo, anzi, al massimo si sfruttano le risorse lavorative già presenti e molti insegnanti non sanno neanche dove andranno a settembre.

Eppure gli investimenti per l’emergenza dovrebbero andare alla scuola oltre che alla sanità.

Finché non lo vedo, non ci credo. Per ora non è così, a meno che non si riferiscano alle scuole private o a quelle parificate.

Questo doveva essere il governo che puntava sulla scuola pubblica. Ha cambiato programma?

Succedono cose molto strane in questo Paese.

Sulla scuola post-Covid in realtà pare che un po’ tutti i Paesi d’Europa siano disorientati.

Noi facciamo parte dell’internazionale dei sindacati scolastici di tutto il mondo; abbiamo svolto riunioni sul tema sia durante il confinamento che in vista della riapertura. Le problematiche sono le stesse ovunque, è un tema complesso. Soprattutto tutti vorremmo le maggiori garanzie possibili che rientrare a scuola per l’anno 2020/2021 non significhi tornare a doverci richiudere tutti. Non vogliamo per prima cosa che i nostri alunni tornino a essere rinchiusi a casa e restino senza scuola. La scuola è un luogo importante per la vita dei ragazzi, per non parlare dei bambini. Non basta l’insegnamento online anche se funzionasse, dal punto di vista dell’apprendimento, la socializzazione è necessaria.

Tutto questo lo avete segnalato al governo Sanchez?

Abbiamo provato, nell’unica riunione di giugno. Ce ne sarebbe dovuta essere un’altra, ma non ci hanno più convocato. Ci informano delle decisioni senza coinvolgerci. Eppure siamo noi a sapere di cosa avrebbero bisogno gli insegnanti e gli alunni.

Secondo lei, la crisi ha evidenziato difficoltà già presenti?

Sì, ha portato alla luce il gap digitale che dipende da quello sociale. A un bambino che ha fame ed è chiuso in 20 mq non va di studiare.

Il covid-19 a scuola, l’anno zero dell’Europa

Il primo mezzo anno scolastico del dopoguerra (se non di sempre) si è da poco concluso o si sta concludendo un po’ in tutta Europa. Dappertutto – non solo in Italia – quello scolastico (almeno a livello temporale) è stato il settore più colpito dal lockdown. Dappertutto – non solo in Italia – si tentano piani per la ripartenza a settembre che variano dalle ipotesi Covid free a quelle – nefaste – di una nuova ondata della pandemia. Ecco come si stanno organizzando alcuni Paesi.

1 Germania

La scuola in Germania non è ripresa in modo regolare dopo la fine del distanziamento sociale in maggio. Anche lì mantenere le distanze di 1,5 metri e proseguire le lezioni in presenza 5 giorni su 5 con orario pieno si è rivelata una sfida impossibile. La “nuova normalità” della fine d’anno scolastico 2019/2020 è stata fatta di lezioni una volta a settimana, o a settimane alterne ma con orari ridotti, in assenza di insegnanti sopra i 60 anni (gruppo a rischio) e con lezioni online a discrezione dei volenterosi. Chiaro che non si potesse andare avanti così. E per questo la conferenza dei ministri dell’istruzione dei 16 Land ha concordato che “al più tardi dopo le vacanze estive si torni al regolare svolgimento delle lezioni”. Regolari quanto? È bastato rimuovere la regola sull’obbligo delle distanze: “I Land concordano che il regolamento sulla distanza di 1,5 metri deve essere omessa, a condizione che il procedere del contagio lo consenta”, mentre saranno mantenute le altre norme di igiene. I primi a tornare sui banchi saranno il 1° agosto i ragazzi della costa del Baltico, in Meclemburgo-Pomerania e si vedrà con quale esito. “Certo c’è bisogno di disciplina”, ha detto la presidente della conferenza dei ministri dell’istruzione (Kmk), Stephanie Hubig. Ma per il prossimo anno ci si prepara comunque a un mix di didattica a distanza e in presenza, ha detto la ministra federale dell’istruzione Anja Karliczek. Intanto i sindacati della scuola protestano: “Finché le regole sulla distanza valgono per la società, devono valere anche per le scuole”, dice la presidente Marlis Tepe. Nel disinteresse pre-festivo in cinque scuole del Baden- Wuerttemberg sono state registrate qualche giorno fa cinque nuove infezioni, con conseguente quarantena e chiusura degli istituti.

2 Francia

Le linee guida per la riapertura delle scuole, che in Francia si chiudono oggi, saranno pubblicate a giorni, ma il ministro dell’Educazione Blanquer, che sta aspettando il parere dell’Authority per la Salute per fissare le ultime misure (mascherine, distanza, mense, ecc.), è ottimista: secondo lui le condizioni sanitarie permetteranno di tornare in classe in condizioni “quasi normali”, con il rispetto di regole d’igiene semplici. In Francia le scuole hanno riaperto un poco alla volta dall’11 maggio e dal 22 giugno è stato applicato un protocollo meno rigido che potrebbe essere in parte ripreso per settembre (si è passati per esempio dalla regola dei quattro metri quadrati a bambino a un metro di distanza tra i banchi). Per precauzione sono stati elaborati tre “scenari” possibili: 1. il virus è “sparito” per cui la scuola riprende in condizioni normali; 2. il virus circola poco, come oggi, per cui i bambini tornano in classe rispettando regole “semplici” di distanziamento sociale; 3. i contagi ricominciano a crescere per cui si applicano regole più strette e le lezioni si svolgono in piccoli gruppi.

3 Regno Unito

Nel Regno Unito le scuole chiudono per le vacanze estive a metà luglio: durante il lockdown tutte, pubbliche e private, sono rimaste sempre aperte per i figli dei lavoratori essenziali. Dal 1° giugno, su base volontaria, sono rientrati anche asilo e primo e ultimo anno delle elementari, mentre per gli altri sono stati attivati moduli di istruzione online, anche se non omogenei per quantità e qualità. Gli esami di fine elementari sono rimandati; cancellati quelli delle superiori, al loro posto ci sarà una valutazione scritta secondo parametri centralizzati. L’obiettivo del governo è tornare alla normalità dopo l’estate, fra agosto e settembre, con multe salate per le famiglie che rifiutino il rientro. Famiglie e personale insegnante hanno autonomia nell’implementare le linee guida del governo: incrementare la pulizia degli ambienti, gestire eventuali contagi o bambini in contesti vulnerabili, garantire il distanziamento sociale tramite la suddivisione degli alunni in piccoli gruppi, far lavare le mani spesso, testare e isolare gli allievi ai primi sintomi.

4 Spagna

“La vuelta al cole” degli alunni spagnoli a settembre non è chiara. Molto è lasciato alle autonomie regionali, anche per questo le direttive del ministero dell’Educazione sono vaghe, delegandone l’applicazione alle direzioni regionali o scolastiche. Ciò che la ministra Isabel Celaá ha fatto sapere è che più che a distanza, gli alunni staranno per “bolle” e in gruppi di massimo 20: era partita da 15. Le bolle dovranno stare a 1,5 metri e dai 6 anni in su sarà obbligatoria la mascherina. Agli altri, basterà lavarsi le mani. La novità assoluta e contro cui si sono scagliati i sindacati è che si tratterà di corsi interamente presenziali. Tutti in classe, dunque, con lo stesso numero di professori.

Quanto alle mense, non è ancora chiaro come e se funzioneranno. Forse anche lì sarà necessario posizionare qualche cattedra.

5 Belgio

In Belgio (dove medie e licei hanno aperto il 15 maggio durante la pandemia, ma per piccoli gruppi di studenti) è previsto che i bambini delle materne e elementari tornino comunque a scuola, qualunque sia il livello di contagio, mentre per i più grandi la situazione varierà in funzione della situazione medica. Sono stati elaborati quattro scenari. Scenario “verde”: sul piano medico si torna alla normalità, tutti gli allievi possono rientrare in classe, come prima della pandemia. Scenario “giallo”: è quello che sembra più probabile e che corrisponde alla situazione sanitaria attuale. Esso prevede che tutti gli allievi di materne e elementari tornino a scuola regolarmente, mentre per le medie e i licei la presenza in classe è limitata a quattro giorni a settimana, con il mercoledì di lezioni a casa. Scenario arancione: il contagio riprende, il numero di allievi per classe delle scuole medie-superiori viene dimezzato e la presenza in classe è limitata a due giorni a settimana. Scenario rosso: come per lo scenario arancione, ma con regole di distanziamento sociale più rigide.

“Per allearsi servono persone e idee, non basta solo il collante anti-destra”

Per uscire dallo stallo si è esposto anche il premier Giuseppe Conte, che due giorni fa ha parlato di “sconfitta personale” nel caso in cui Pd e 5 Stelle non trovassero l’accordo per allearsi alle regionali. Eppure secondo Paolo Flores d’Arcais, filosofo e direttore di MicroMega, “probabilmente l’appello del premier non avrà effetti”: i giallorosa resteranno divisi nonostante estendere l’intesa a livello locale dovrebbe essere “un riflesso condizionato”.

Paolo Flores d’Arcais, come mai ritiene che il presidente si sia esposto in prima persona?

Perché avverte che sia M5S che Pd lo considerano sempre meno il “loro” premier.

Il risultato delle Regionali inciderà sulla tenuta del governo?

Ovviamente sì, ma il punto cruciale è: se l’unica cosa che tiene insieme gli alleati è impedire che vinca la destra, per quanto sia intento nobile, è del tutto insufficiente e rischia di preparare il terreno a un ritorno della destra stessa. Il problema è con quali programmi e con quali candidati ci si presenta agli elettori.

Su questo M5S e Pd non hanno fatto abbastanza?

Qualcosa meno di zero. Ferruccio Sansa in Liguria aveva elencato le cose necessarie, ma essendo un programma di rottura con trent’anni di potere del partito del cemento – versione “sinistra” e versione destra – Renzi ha posto il veto e il M5S si è accodato. Se queste due forze volessero davvero avere un futuro e magari costruire una speranza per l’Italia, dovrebbero comportarsi in maniera opposta rispetto a come hanno fatto finora.

In che senso?

Allearsi in ogni regione e concordare programmi e candidati con essi coerenti dovrebbe essere, per chi sta insieme al governo, un riflesso condizionato. Ma programmi “giustizia-e-libertà”, capaci di mobilitare di nuovo quelle enormi forze della società civile, di “cittadinanza attiva” presente nelle lotte, nel volontariato, nell’impegno culturale (alla fondazione di MicroMega, 34 anni fa, la chiamavo “sinistra sommersa”) di cui l’Italia locale pullula e che politicamente non sono rappresentate, finendo per non andare a votare o per scegliere Pd e 5 Stelle per disperazione più che per convinzione.

L’emergenza Covid sembra aver sgretolato la narrazione del buon governo della destra in alcune regioni. È un’occasione per Pd e 5 Stelle?

La retorica del buon governo delle destre può funzionare solo per i ciechi (e nel Veneto i meriti contro l’epidemia sono del professor Crisanti). Ma le destre torneranno a stravincere sia a livello locale che nazionale, perché le non-destre, che a me piacerebbe chiamare forze progressiste, non sanno o forse non vogliono essere forze giustizia-e-libertà, realizzare quella politica di rivoluzione della legalità, primato dell’ecologia come forma di rilancio economico, guerra all’evasione fiscale, alle mafie e a tutto ciò che paralizza il Paese. Mentre l’epidemia non ha fatto che manifestare quanto sia improcrastinabile trovare soluzioni che mettano l’eguaglianza al primo posto.

Questo come si traduce a livello locale?

I livelli sono intrecciati. Per esempio abbandonare le “grandi opere”, puntando sulle “piccole” di cui c’è necessità estrema. Che poi, nell’insieme, non sono piccole affatto, anzi: l’assetto idrogeologico, fiumi, foreste, moltiplicazioni dei parchi protetti, i beni culturali locali, la liberazione capillare dei territori dagli abusi edilizi, le case antisismiche …

La mancata alleanza nelle regioni è figlia della difficoltà di trovare candidati adatti?

Sì, e anche l’inverso. È una sinergia viziosa. Pd e 5 Stelle ormai selezionano gruppi dirigenti che per motivi diversi sono tragici rispetto alla situazione, eppure nelle sue metamorfosi antecedenti (a partire dal Pci) il Pd aveva la tradizione della “sinistra indipendente”, con cui valorizzava persone come Laura Balbo, Antonio Cederna, Claudio Napoleoni, Giorgio Nebbia e molti altri (i giovani possono leggerne su Google le biografie). L’ultimo capogruppo è stato Stefano Rodotà.

Che il M5S ha candidato alla presidenza della Repubblica.

È esattamente il tipo di persona che intendo. Ce ne sono ancora e il M5S, prima di ingaglioffirsi alleandosi col protofascista Salvini, alcune le aveva contattate per candidarle o farne dei ministri. L’unica strada, per salvare l’Italia, resta questa, ma temo che ormai Pd e M5S la prospettiva giustizia-e-libertà l’aborrano o quasi.

Regionali, le Marche al bivio: i 5 Stelle aprono al voto sul Pd

Apertura nelle Marche, ancora stallo in Liguria dove alla fine l’accordo si dovrebbe trovare entro domenica. Mentre in Puglia il patto tra Pd e M5S sembra ormai svanito. Le parole del premier Giuseppe Conte di giovedì (“non fare le alleanze nelle Regioni sarebbe una sconfitta per tutti, anche per me”) e un Nicola Zingaretti che teme ripercussioni sul suo operato di segretario del Pd, produce i primi sussulti in vista delle regionali di settembre. La notizia del giorno arriva da Ancona dove il centrosinistra prova a resistere all’assalto del centrodestra di Francesco Acquaroli (FdI): il candidato del Pd, Maurizio Mangialardi, fa un appello per un’alleanza con il M5S e i grillini aprono con l’ipotesi di un voto degli attivisti locali. Non è un “sì”, ma si tratta.

Proprio sulle Marche si sarebbe soffermato Zingaretti nell’incontro con Conte: lì, è il ragionamento del segretario dem, il centrosinistra può vincere solo con l’aiuto dei 5 Stelle e sarebbe fondamentale tenere la Regione rossa per la maggioranza. Una sorta di Ohio, il piccolo Stato Usa decisivo per l’elezione del Presidente, in grado di salvare anche la tenuta del governo. “Ho apprezzato molto le richieste di unità di Conte e Zingaretti – dice al Fatto il candidato Mangialardi – non ho mai chiuso la strada al M5S: possiamo accordarci su alcuni punti. Per esempio su welfare, innovazione e sanità”. Poi l’invito: “Come candidato sono avanti nei sondaggi rispetto ad Acquaroli ma come liste siamo indietro e un accordo con il M5S sarebbe utile per vincere – conclude Mangialardi – Anche per loro sarebbe storico governare una regione: se fanno un passo verso di me, io ci sono”. Il M5S risponde con una timida apertura: nella riunione dei parlamentari marchigiani di ieri pomeriggio è stato deciso di “andare a vedere le carte” anche se poi la decisione finale spetterà al candidato Mario Mercorelli e agli attivisti locali. “A noi interessa il programma – dice il senatore marchigiano M5S, Sergio Romagnoli – parliamo dei temi, ma dobbiamo metterci alle spalle il sistema di potere che per decenni ha governato la regione”.

In Liguria rimane lo stallo: tutto si deciderà domenica nella riunione tra gli alleati. Al momento sia Ferruccio Sansa che Aristide Massardo non convincono il Pd che ha lanciato un terzo nome, Paolo Bandiera, ottenendo il secco “no” dei 5Stelle. In Puglia invece l’alleanza giallorosa è lontana e i grillini non sono disponibili a mollare Antonello Laricchia per sostenere Michele Emiliano che da tempo corteggia il Movimento: secondo un sondaggio di Euromedia , il governatore Pd sarebbe avanti di due punti contro Fitto (39,8-37,8%) ma potrebbe rafforzare il suo vantaggio con l’aiuto del M5S che in Puglia è dato al 17.6%. In Veneto invece nessuna alleanza e ieri Iv ha annunciato la candidatura della senatrice Daniela Sbrollini.