Rossi lancia la “buona destra”

La domanda non è nuova: c’è spazio in Italia per una destra liberale, moderna, europeista e non becera, populista e razzista? Secondo Filippo Rossi sì.

Per chi non se lo ricorda, Filippo Rossi è stato uno degli uomini più vicini di Gianfranco Fini nell’ultima parte del suo percorso, con Futuro e Libertà. Di Fli Rossi è stato uno degli intellettuali di riferimento. Ora, a 7 anni dalle elezioni del 2013, e dopo aver diretto per molti anni a Viterbo la manifestazione culturale Caffeina, Rossi si riaffaccia in politica con l’intenzione di fondare un nuovo partito di cui ieri, a Roma, è stato presentato il manifesto politico. “Manifesto per una nuova destra”, è il titolo, che si rifà a un saggio pubblicato proprio da Rossi poco tempo fa. Con lui c’erano due ex parlamentari del Pdl, Nicola Bono e Daniele Toto. Le tappe sono un’assemblea costituente in autunno e il primo congresso in inverno, per correre col nuovo partito alle Politiche. “In tutti i Paesi europei ci sono due destre, ma quella liberale non è mai alleata di quella estremista. Gli eredi di De Gaulle in Francia sostengono Macron, non vanno a braccetto con Marine Le Pen. In Italia vogliamo offrire un’alternativa a Salvini e Meloni, che non sono vera destra, ma puro populismo”, ha spiegato Rossi ieri, alla presentazione del manifesto, a Roma. Dove invece oggi saranno in piazza proprio Meloni e Salvini.

Tante, a sentirlo, le differenze con Lega e Fdi. “La destra non deve parlare per slogan, non deve andare dietro alla pancia delle persone ma deve guidarle, non si può essere contro l’Europa. Noi, per esempio, siamo favorevoli al Mes”, osserva Rossi. “La destra, come la politica, deve pensare al domani e al dopodomani, e invece Salvini arriva al governo e fa quota 100, pensando solo ai pensionati, cioè al passato. La risposta della destra all’immigrazione è quella di lasciar morire un bambino in mare? Io non credo…”, continua l’ex finiano. “Il problema – conclude – è che la politica deve avere il coraggio di decidere: il politico è l’architetto che costruisce il palazzo, non l’amministratore di condominio. Invece in giro vedo solo amministratori e anche mediocri…”.

“Cari 5S, aiutate Emiliano: così decarbonizziamo l’Ilva”

“Non è il momento di essere retrogradi, ma quello di costruire insieme. È il momento del coraggio di chi si taglia i ponti alle spalle”. Francesco Boccia, ministro degli Affari regionali, dopo l’esperienza dell’emergenza Covid ha un obiettivo politico primario: continuare a lavorare affinché l’alleanza tra Pd e M5S diventi sempre più stabile e non di “circostanza”.

Ministro, Conte ha fatto un appello per le alleanze Pd-M5S alle Regionali.

Noi del Pd lo abbiamo molto apprezzato. E io continuo a portare avanti l’idea di un’alleanza tra due forze politiche che hanno alcune radici simili, come la sensibilità ambientale, il solidarismo, l’attenzione per il rafforzamento di alcuni diritti, come la tutela e la difesa della sanità territoriale pubblica e della scuola pubblica.

Ma l’alleanza decolla fino a un certo punto. E in nessuna Regione Pd e M5S allo stato sono alleati. Che propone?

Dobbiamo trovare le ragioni di un’alleanza di prospettiva. Noi siamo l’alternativa alla destra pseudo-nazionalista e sovranista. Altrimenti, tutto finirà con la fine della legislatura. Oggi serve coraggio. A M5S e agli altri partiti di maggioranza dico: se lasciate solo il Pd alle Regionali vince la destra, ma non si può chiedere al Pd di fare tutto da solo. Di più: se i gruppi territoriali locali insistono nella scelta di andare divisi, gli elettori inevitabilmente sceglieranno tra i due candidati favorevoli e si polarizzerà il voto. E quelli sono ovunque quello del centrodestra e quello del Pd.

È uscito un sondaggio della Ghisleri che vedrebbe centrosinistra e M5S uniti ottenere una vittoria schiacciante. Sia Renzi sia alcuni dei suoi colleghi di partito stanno lavorando per convincerlo al ritiro. Che ne pensa?

Emiliano è stato uno dei protagonisti assoluti della rivoluzione civica di una delle Regioni che vanno meglio in Italia, che crescono di più. Una rivoluzione iniziata con Vendola e con una classe dirigente che è giudicabile ogni giorno. Tutti sanno cos’era la Puglia 15 anni fa e cos’è oggi. Nessuno ha il diritto di dare diktat a Michele, dopo i risultati ottenuti. E poi ha vinto le primarie.

Ma i 5S non ci stanno.

A loro dico: “Venite e diteci come possiamo migliorare insieme la sanità e l’agricoltura. E come possiamo andare avanti verso una transizione energetica, decarbonizzando l’Ilva e l’industria rendendo lo sviluppo sempre sostenibile e tecnologicamente avanzato”.

Molti nel Pd parlano di questo come del governo dei rinvii. Su molti dossier pesano le differenze tra voi e M5S.

Mi pare ingiusto. Non ci dimentichiamo che veniamo da 3 mesi e mezzo in cui abbiamo dovuto prendere un numero impressionante di decisioni per mettere in sicurezza salute e vita degli italiani. E ora proteggiamo lavoro ed economia. Su Alitalia abbiamo scelto. Su Ilva e Autostrade i ministri sono pronti. E comunque la politica ha bisogno dei suoi tempi.

L’emergenza Covid ha mostrato sia le differenze tra una Regione e un’altra, sia una guerra tra Regioni e governo. Non crede sia il tempo di ripensare l’autonomia?

Il tema non è chi gestisce cosa. Pensa che da Roma si possa gestire meglio un ospedale? Comuni e Regioni sono emanazioni dello Stato. Conta la leale collaborazione come ci ricorda sempre il presidente Mattarella. Quello di cui dovremmo discutere è se alla luce del Covid lo Stato deve imporre alle Regioni la capillarità nella prevenzione sanitaria pubblica. E poi, bisogna pretendere alcuni livelli essenziali su terapie intensive, scuola, trasporti pubblici locali.

L’emergenza Covid è passata?

I diversi focolai che ci sono stati dimostrano che abbiamo rafforzato la nostra rete territoriale sanitaria.

Ha qualcosa da chiedere a questa maggioranza?

Voglio esortare tutti alla massima responsabilità. Non c’è nessuna alternativa per i democratici a questa maggioranza. E Conte è un valore aggiunto.

Io dico Sì a Silvio senatore a Vita

So di andarecontrocorrente. Mi rendo perfettamente conto che i miei amici radical chic mi perseguiteranno. Ma ve la dico tutta: io sono favorevole. Sì, io voglio che a Silvio Berlusconi venga restituito l’onore. Deve essere nominato senatore a vita come ha proposto l’ex giornalista Vittorio Feltri (per l’occasione a Feltri dovrà essere restituita anche, a sua insaputa, la tessera dell’Ordine dei giornalisti).

Il motivo è soprattutto uno: l’ex Cavaliere (restituire anche il cavalierato) riconosce per la prima volta che le registrazioni sono valide, utili e doverose. E ci vuole molto coraggio da parte sua per prendere questa decisione. Chissà a quante altre condanne, per fatti passati, presenti e futuri, l’ex marito di Veronica Lario e di Elvira Dall’Oglio (restituire i certificati di matrimonio e di annullamento di matrimonio) potrebbe andare incontro. Durissima la reazione di Repubblica: Berlusconi non può essere nominato senatore a vita per questo motivo: ce ne sono già cinque, Segre, Monti, Rubbia, Piano e Cattaneo. Ma questo non è un motivo valido, ragazzi. Si tratta di cinque incensurati! Silvio Berlusconi senatore a vita sarebbe un onore per tutti noi italiani. Né può essere considerato ostativo il fatto che a questo punto, seguendo il successo per la nomina dell’ex fidanzato di Francesca Pascale (restituire il barboncino Dudù), Vittorio Feltri chiederebbe di fare senatore a vita anche lo stalliere Mangano (no, Vittorio, Mangano è morto). Ma una soluzione bisogna trovarla. L’ex protettore di Emilio Fede (restituire un paio di olgettine) deve assolutamente diventare senatore a vita. Sono stati senatori Totò Cuffaro, Marcello Dell’Utri, Domenico Scilipoti e il cavallo di Caligola. Berlusconi alzerebbe il livello morale.

Dall’audio a Forza Italia Viva Il disperato Renzusconi bis

C’è stato un momento, un anno fa, in cui i rapporti tra i due erano inesistenti. “Renzi mi ha profondamente deluso. Non ha la stoffa…”, andava dicendo Silvio Berlusconi, dopo aver varcato grazie a lui la soglia proibita del Nazareno.

Invece ora tra i due il rapporto è ripartito alla grande. Si parlano e si sentono. In un primo momento tramite Gianni Letta. Poi anche direttamente. Il Renzusconi, dunque, è vivo e lotta insieme a noi. O comunque i due lasciano intendere che lo sia. Fanno asse, si mandano segnali di fumo, salvo smentire tutto quando vengono richiamati all’ordine dai rispettivi alleati. L’obiettivo, raccontano bene informati nel mondo renziano e in quello del centrodestra, è fondere i due partiti, dopo le Regionali. L’unione di due debolezze, si potrebbe dire. Ma anche un progetto che il fiorentino accarezza da sempre, fin da quando scalava il Pd: prendere l’eredità di Silvio, conquistarsi i suoi voti moderati.

Intendiamoci, non tutti in Forza Italia e in Italia Viva ne sono consapevoli. E neanche sono tutti d’accordo. Ma le Regionali per entrambi rischiano di essere un bagno di sangue. L’unica regione, per esempio, dove FI può sperare di tenere è la Campania. Ma Vincenzo De Luca stravincerà e i berluscones non potranno nemmeno contare sui voti della famiglia Cesaro. Il passaggio a Palazzo Madama del forzista Vincenzo Carbone, molto vicino Giggino ’a purpetta, a Italia Viva viene letto proprio come un disimpegno della famiglia in quella terra: si guarderà altrove. E sempre in Senato altri due forzisti sarebbero in procinto di passare coi renziani. Qualcuno punta il dito su Lady Mastella (Clemente alle Regionali appoggia De Luca), ma lei per ora smentisce: “Resto dove sono”.

Spiega una fonte forzista, “dopo le Regionali il nostro partito imploderà: una parte di noi passerà con Salvini, ma gli altri, con Letta e lo stesso Silvio, finiranno dritti a fare un nuovo partito con Renzi”. O comunque “rimarranno in una Forza Italia ridotta e alleata di Italia Viva”, a sostegno di “una nuova maggioranza, magari guidata da Dario Franceschini”. Con il capodelegazione, Renzi ha ripreso i rapporti, tramite Ettore Rosato. Ma lo scenario più probabile è che resti premier Giuseppe Conte, visto che nelle ambizioni di “Dario” sembra esserci solo il Quirinale. E visti anche i buoni rapporti tra “Silvio” e “Giuseppi”. Ancora una volta, Renzi si vuole porre come ago della bilancia e come salvatore della patria. In autunno, quando le cose per il governo potrebbero mettersi male, sarà lui a garantire l’allargamento della maggioranza necessario ad andare avanti. I passaggi sono attesi non solo da Forza Italia, ma anche dai Cinque Stelle.

In questa chiave andrebbe letta, assicurano alcuni, l’intervista di due giorni fa dell’ex Cavaliere a Repubblica. “Se in questo Parlamento si creassero le condizioni per una maggioranza diversa…”, eccetera.

Ma l’operazione Renzusconi bis, dopo i fasti del Nazareno con Renzi premier, va puntellata, anche dal punto di vista giudiziario. Perché Berlusconi “va fatto digerire” ancora una volta al Pd e alla sinistra, e magari – hai visto mai – pure ai pentastellati. Così, guarda caso, spunta fuori proprio ora, grazie al Riformista di Alfredo Romeo e Deborah Bergamini e a Quarta Repubblica, la registrazione delle parole dell’ex giudice di Cassazione Amedeo Franco che tentano di “assolvere” l’ex premier dalla condanna del 2013 per frode fiscale e ad avvalorare la tesi della persecuzione giudiziaria nei suoi confronti. Insomma, bisogna ricostruire una verginità a Silvio. “Non tocca a me giudicare, ma politicamente ho il dovere di dire che non può essere ignorata la richiesta di fare chiarezza su una vicenda che coinvolge un ex presidente del Consiglio”, le parole di Renzi sul tema. Nel frattempo, ieri, l’ex premier è tornato a parlare di legge elettorale in senso maggioritario. Col Pd a ricordargli che invece “aveva sottoscritto un accordo per il proporzionale”. Con le sue percentuali di oggi, Iv non si può permettere un proporzionale e con sbarramento al 5%.

Testi sospetti, pm al lavoro ma incombe la prescrizione

La Procura di Napoli proseguirà per qualche altra settimana gli accertamenti sull’esposto presentato dal giudice in pensione, Antonio Esposito, contro i tre dipendenti di un albergo di Lacco Ameno sull’isola d’Ischia, di proprietà della famiglia del senatore di Forza Italia Domenico De Siano. I tre – un cameriere, un bagnino termale, uno chef – dicono di averlo ascoltato ingiuriare Silvio Berlusconi durante brevi vacanze sull’isola verde, in anni antecedenti alla sentenza della sezione feriale di Cassazione presieduta da Esposito, che nel 2013 rese definitiva la condanna a 4 anni di B. per frode fiscale.

I verbali dei tre lavoratori, raccolti nell’aprile 2014 attraverso le indagini difensive condotte dall’avvocato Bruno Larosa, sono stati allegati al ricorso di Berlusconi alla Corte europea dei diritti dell’uomo per provare a dimostrare la presunta parzialità del magistrato. Con l’obiettivo di ottenere una pronuncia favorevole, un prerequisito verso la revisione del processo e la riverginazione giudiziaria del Cavaliere.

Esposito ha saputo di quei verbali solo cinque anni dopo, e attraverso una causa civile per diffamazione contro Berlusconi. Cinque anni che hanno inferto un colpo quasi mortale alla possibilità di ottenere un processo che accerti la genuinità o meno delle parole dei tre dipendenti dell’hotel.

La prescrizione galoppa per il reato di false informazioni a un legale, per il quale il fascicolo (assegnato al pm Mariella Di Mauro) è passato da modello 45 – senza indagati né ipotesi di reato – a modello 21, con l’iscrizione di nomi e cognomi sul registro degli indagati. Una accusa che si prescrive in sei anni. Sarebbero già scaduti. Possono diventare sette e mezzo in caso di sospensioni o interruzioni. Nelle prossime settimane il pm tirerà le somme e farà le sue valutazioni: tra le ipotesi, quella di chiedere al Gip un’archiviazione per prescrizione. Senza entrare nel merito sulle ragioni e sui torti di questa vicenda.

Dudù, i natali di Ruby e il pisello di Fede: la folle versione del Cav.

La pallina di Dudù, l’intimità di Emilio Fede, la furbizia di Ruby, le cene eleganti, la spallata di Renzi… La conversazione rubata con Amedeo Franco e Cosimo Ferri ci consegna un altro prezioso romanzetto berlusconiano. Una fotografia della sua ultima stagione, quella della sconfitta. Il 6 febbraio 2014, quando riceve i due magistrati a Palazzo Grazioli, il Cavaliere è un uomo amareggiato. Condannato, destituito dal Senato, in procinto di essere assegnato ai servizi sociali a Cesano Boscone. Berlusconi straparla e racconta la sua versione della storia, una perla di comicità e malinconia.

Maledetto Dudù. Silvio è malconcio: “Sono caduto su una scala, ho fatto un volo di quattro metri, ma guardi che roba qua”. Evidentemente mostra i lividi agli interlocutori. “Ho messo il piede su quelle palle che do al mio cagnolino, mi piace che le lanci e torna indietro”.

Le tisane. Palazzo Grazioli ha visto tempi migliori. Cene eleganti, clima frizzantino, discreta gradazione alcolica. Ferri e Franco invece chiedono a Berlusconi soltanto una tisana. Tre uomini di una certa età che bevono un infuso. Silvio non nasconde un comprensibile amarezza: “Era meglio altro, ma la linea… devo prepararmi per andare in televisione”.

Cene eleganti. Berlusconi ci mette la mano sul fuoco: tutto il filone delle escort e dei suoi rapporti a luci rosse è un ridicolo teorema della magistratura. “Le invenzioni delle mie cene con il club delle ragazze, che non c’è stato un atto… ho giurato su tutto quello che ho di più caro, che non ho mai visto un atto che potesse essere inelegante”.

La nipote di Mubarak. E poi c’è lei: “La ragazza Ruby dichiarava a tutti di avere 24 anni, ha un’intelligenza e una furbizia riconosciuta anche dalla Boccassini”. Berlusconi assicura che Ruby l’ha fregato: “Lei si era dichiarata figlia di una famosa cantante egiziana, parente di Mubarak e noi le abbiamo… creduto”. Tanto che ne ha parlato con lui in persona: “Io faccio un summit con Mubarak, a Villa Madama e verso la fine della colazione (…) gli ho detto: ‘Ho conosciuto una ragazza egiziana, dice di essere tua parente’”.

Con Mubarak d’altra parte c’era grande confidenza: “Ci davamo del tu, veniva ogni anno nove giorni in vacanza da me in Sardegna, e io gli lasciavo casa. Gli dico: ‘Questa ragazza ha detto di essere figlia di questa cantante’. Mubarak conosceva benissimo la cantante, e guarda caso era anche vero che fosse una sua… nella sua cerchia familiare’”. Mubarak dice di non conoscere Ruby, ma Silvio è convinto sia una bugia. Quando la ragazza finisce nei guai, quindi, alza il telefono e chiama la Questura di Milano (“Quel giorno a me passa nella testa: ‘Oddio, faccio un incidente diplomatico con Mubarak?’”).

Com’è cambiata Nicole. Come noto a prendere Ruby in Questura ci va la Minetti. Berlusconi è deluso: “La Minetti allora era, per noi, una bravissima ragazza, presentata da Don Verzé, poi è diventata… il successo le ha dato alla testa”.

Filantropia. Berlusconi è incredulo: come fanno a processarlo per aver dato una mano a giovani donne in difficoltà? Come ripete ai suoi interlocutori, non le pagava per testimoniare il falso, ma per senso di colpa: “Ho ritenuto, a un certo punto, che queste ragazze avessero bisogno di essere aiutate, perché? Perché hanno avuto la vita devastata (…) Di fronte a una cosa di questo genere, e ai carichi di tutte queste ragazze che non riuscivano a trovare lavoro, io cosa dovevo fare? Cosa avevano fatto ste ragazze? Avevano accettato un invito a cena rivolto da un amico… per andare a cena dal presidente del Consiglio”.

Gli attributi di Emilio. Qui il racconto di Berlusconi ha un passaggio fantasmagorico: “Sei testimoni hanno detto invece che le ragazze estraevano il pisello di Fede, 82 anni, Presidente (si rivolge a Franco), mi autorizza a dire pubblicamente che per trovare il pisello a lui, specie dopo la mezzanotte, occorre organizzare una regolare caccia al tesoro. Ma se lo vede, uno che va lì e… trenta persone, una che va lì e tira fuori il pisello?”.

Bastava l’iPad. Silvio insiste: “Perché io avevo bisogno del signor Tarantini per portarmi due escort? Ma basta prendere l’iPad, si fa così… Roma… ma ci sono anche Busto Arsizio, Monza, hanno le loro escort, con anche il prezzo, per partecipare a una cena 150 euro. Io posso portarmi 24 escort, basta che telefoni alle due, alle tre del pomeriggio, le invito qua. Ho bisogno di andare… di prendere Tarantini? Ma cose da pazzi!”.

La faccia di De Gregorio. Altro giro, altro processo: la compravendita di senatori per far cadere il governo Prodi. E i soldi dati a De Gregorio: “Come mai (De Gregorio) si è deciso a fare questa confessione spontanea? Dice che gli è apparso in sogno il padre. Basta guardarlo in faccia, questo qui è una cosa… è una persona immonda, ecco”.

Nostradamus. Finite le lamentazioni sui suoi guai giudiziari, Berlusconi fa un pronostico politico: “Adesso vediamo cosa fa Renzi, accetto scommesse, entro il 20 di febbraio manda a casa questo governo (quello guidato da Enrico Letta, ndr) e si mette lui presidente del Consiglio”. Era il 6 febbraio, una settimana dopo Letta si dimette. Il 17 febbraio Renzi riceve l’incarico da Napolitano.

B. & il giudice: obiettivo grazia. “Parliamone a Napolitano” Le mosse di Silvio sul Colle

Agganciare direttamente Giorgio Napolitano – tramite un consigliere giuridico del Colle – per riaffrontare il tema della grazia. È una delle strategie che, il 6 febbraio 2014, Silvio Berlusconi pensa di mettere in campo dopo la batosta della condanna in Cassazione nel 2013 a quattro anni per frode fiscale e la decadenza da senatore. Di questo parla con Amedeo Franco, giudice relatore di quello stesso verdetto che poi davanti a Berlusconi ha rinnegato. Quel giorno la conversazione tra i due, come è noto, viene registrata ed è stata poi depositata dalla difesa dell’ex presidente del Consiglio nel ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Alcune frasi – quelle in cui Franco parla di “plotone d’esecuzione” e di sentenza “porcheria” – sono state già pubblicate. Altre no. Come quelle in cui Berlusconi parla con il giudice della grazia: richiesta che al Colle non arriverà mai.

Nella conversazione del 6 febbraio di sei anni fa, quindi, il giudice Franco (deceduto lo scorso anno) si mostra disponibile a lavorare per il riscatto di Berlusconi. “Bisognerebbe trovare un modo – dice – in cui sia efficace questa, perché a me non è che mi dispiacerebbe sollevarmi la coscienza e dire: ‘Io ho fatto, ho accettato di fare questa cosa perché è un modo per esprimere la mia solidarietà al presidente Berlusconi (…) perché a mio avviso… come si sono svolte le vicende, ma a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subìto una grave ingiustizia’”. “Però – aggiunge Franco – che si faccia una lettera… bisogna pensare il modo, perché se si fa una lettera al presidente della Repubblica, noi soprattutto se è segreta, secondo me non va bene”. Berlusconi interviene: “E chiedergli un incontro?”. E Franco: “E che gli dico? Io posso andare non da lui, posso andare da Lupo in qualsiasi momento, dico di ricevermi, ma non serve a niente”.

Il Lupo citato potrebbe essere Ernesto Lupo, presidente di Cassazione dal 2010 al 2013, che lascia il posto pochi mesi prima della condanna di Berlusconi. Poi diventa consigliere per gli Affari di giustizia al Quirinale, con Giorgio Napolitano presidente. Su Lupo il discorso torna più volte. Franco dice di avergli parlato della sentenza che, dopo aver firmato, rinnega. Circostanza questa che Lupo, in un’intervista al Corriere della Sera, ha già spiegato: “La camera di consiglio è segreta. Sarebbe stata una scorrettezza grave per lui violare quel segreto e anche per me se lo avessi indotto a farlo. (…) Per questo cambiavo argomento e tornavo sul motivo delle chiamate ripetute: la sua promozione. Non per sviare”.

Parlando dunque di Lupo, Franco ribadisce: “Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo, ecc ecc. Ho cominciato a dirglielo e ha cambiato subito opinione, ha chiuso il discorso. Ma lo sa, figurarsi…”. E Berlusconi: “Però aveva capito?”. “Sì che aveva capito – risponde il giudice – ma non è diciamo che c’ho molta confidenza con lui… non è che… mi posso permettere di dirglielo apertamente. Casomai ritorno al Quirinale, ci devo parlare per quell’altra questione, ci vado… ritorno al Quirinale, glielo dico (…) in via riservata”. “Va bene, ci pensi un po’, lei veda un po’”, conclude Berlusconi. Che poco dopo, durante la stessa conversazione, torna alla carica sul tema della grazia: “L’unico modo – dice l’ex premier – potrebbe essere questo, che lei telefoni a Lupo e gli dice (…) ‘Guarda, io ho un peso sulla coscienza, siccome so che adesso c’è il fatto grazia sì, grazia no per Berlusconi, vorrei venire a dire…’”.

Sentito dal Fatto, Ernesto Lupo smentisce nettamente: mai il giudice Franco gli ha parlato della grazia per Berlusconi. Insomma quella dell’ex presidente del Consiglio rimase una intenzione non realizzata, con Franco come pedina per provare ad arrivare al Colle. Ma Napolitano aveva già messo i suoi paletti: il 13 agosto 2013 aveva fatto sapere che non c’erano le condizioni per la grazia.

Merdaset

1996. Stefania Ariosto rivela a Ilda Boccassini che B. e gli avvocati Previti e Pacifico compravano giudici e sentenze. Giornale e Panorama accusano la Boccassini di aver offerto 500 milioni a un pentito per incastrare l’ex pm e deputata FI Tiziana Parenti in un traffico di droga: tutto falso. Allora Renato Farina, sul Giornale di Feltri, scrive che la Boccassini ha arrestato ingiustamente una somala, Sharifa, sottraendole il marito e due bambini (“Quella Procura che rapisce i bambini”): balle anche quelle.

1998. L’Avanti! pubblica un falso dossier sulla Ariosto agente dei servizi segreti. E i media berlusconiani la accusano di essere prezzolata dalla Finanza: altra maxi-balla, con le solite condanne per diffamazione. Ma ecco due nuove campagne sulle testate di B. (Rai inclusa) contro la Boccassini e Gherardo Colombo: i due pm avrebbero manipolato con lo Sco l’intercettazione dei giudici romani Renato Squillante e Francesco Misiani al bar Mandara (tutto falso, appurerà il gup di Perugia). E occultato le prove dell’innocenza di B. e Previti nel fascicolo segreto 9520/95, negato illegalmente ai difensori (tutte balle, stabilirà il gup di Brescia).

2001.Mentre il governo B. è impegnato ad abolire le rogatorie che incastrano il premier e Previti e a opporsi al mandato di arresto europeo, Panorama e Giornale pubblicano uno scoop di Lino Jannuzzi (“Il gioco dei quattro congiurati”) che racconta nei dettagli un incontro segreto in un hotel di Lugano fra la Boccassini e i colleghi Carlos Castresana, Carla Del Ponte ed Elena Paciotti per architettare l’arresto del presidente del Consiglio. Poi i congiurati dimostrano che quel giorno si trovavano in quattro città diverse e piuttosto lontane: Boccassini a Milano, Castresana a Madrid, Paciotti a Bruxelles, Del Ponte in Tanzania. Jannuzzi, anziché andare a nascondersi, giura di avere “le prove”. Il Cda di Panorama chiede lumi al direttore Carlo Rossella. Che difende Jannuzzi perché, vertice o non vertice, “il problema esiste”. Sarà condannato per diffamazione. Jannuzzi si farà eleggere al Senato e nominare al Consiglio d’Europa, con doppia immunità.

2003. La Cassazione sta per decidere sulla richiesta di B. di traslocare i processi a Brescia per “legittimo sospetto”. La triade Tg1-Studio Aperto-Giornale spara un nuovo scoop. In una bacheca della IV sezione del Tribunale di Milano, quella del processo Mondadori, i giudici avrebbero affisso foto di Previti sotto una frase di Platone contro i tiranni: la prova del nove che tutti i giudici milanesi sono prevenuti. Ma è una bufala. Le foto, ritagliate dai giornali, non sono nell’ufficio dei giudici, ma dietro una colonna della stanza di una cancelliera.

E la frase di Platone non c’entra: è lì appesa da 12 anni e non è contro i tiranni, ma contro i governi troppo corrivi con i moti di piazza.

2009. Il giudice civile Raimondo Mesiano condanna la Fininvest e B. a risarcire con 750 milioni di euro Carlo De Benedetti per lo scippo della Mondadori col famoso verdetto comprato e definisce il premier “corresponsabile nella corruzione” del giudice Vittorio Metta. E viene linciato da tv e giornali berlusconiani e pedinato dalle telecamere di Mattino 5 dal barbiere e al parco zoomando sui suoi calzini turchesi. “Tra la stravaganza del personaggio e la promozione del Csm, qualcosa non funziona”, denuncia il direttore Claudio Brachino. E Sallusti: “Non è solo stravaganza fisica, ma anche professionale”. Brachino verrà sospeso dall’Ordine dei giornalisti per due mesi.

2011. B. è indagato per la prostituzione minorile di Ruby e le chiamate in Questura per farla rilasciare. Il Giornale di Sallusti contrattacca con “Gli amori privati della Boccassini”, che nel lontano 1981 fu sorpresa da un“addetto alle pulizie del tribunale” nientemeno che a “baciare un cronista di Lotta Continua”.

2013. Il processo Mediaset (B. condannato in I e II grado a 4 anni per frode fiscale) arriva in Cassazione. Il Giornale blandisce il presidente Esposito e i giudici Franco, D’Isa, Aprile e De Marzo: “toghe moderate e di lungo corso”. Ma, appena questi condannano B., per i suoi house organ diventano dei farabutti. Tranne Franco, risparmiato chissà perché dal linciaggio, sebbene abbia firmato la sentenza come gli altri. Il Giornale accusa Esposito di aver definito B. “grande corruttore” e “genio del male” in una cena privata a Verona nel lontano 2009. Lui smentisce. Libero e Panorama gli scagliano addosso le accuse più fantasiose: persino una cena con l’attore Franco Nero, oltre al solito fango su tutti i parenti fino al terzo grado. Anche i giornali “indipendenti”, Corriere, Sole 24 Ore, La Stampa e Messaggero, sdraiati sul governo Letta Pd-FI, attaccano la sentenza e invocano l’amnistia o la grazia. Il Mattino intervista Esposito, che risponde solo su questioni generali senza entrare nel processo, ma poi gli infilano una domanda mai fatta sulla condanna di B. Un assist al Pdl, che scatena il putiferio, ricorre a Strasburgo, chiede la testa del giudice e la revisione della sentenza. Esposito viene trascinato dinanzi al Csm, dove ovviamente sarà prosciolto da tutto. Intanto il suo collega Franco sta spifferando i segreti (peraltro falsi) della camera di consiglio al neopregiudicato armato di registratore. Ma questo ancora nessuno lo sa: se ne riparlerà soltanto sette anni dopo, su Rete4 e sul Giornale. Nella migliore tradizione della casa.

(2 – fine)

Bonus e incentivi, l’attesa del mondo “motori”

Momento della verità per gli incentivi auto 2020, che potrebbero rivitalizzare un settore che ha scontato un netto calo delle vendite nel primo semestre, ma registra anche la situazione finanziaria difficile di molte concessionarie e un numero di auto invendute in giacenza che, secondo la stima di Gian Primo Quagliano, presidente del Centro studi Promotor, tocca ormai le 500.000 unità.

L’agenda parlamentare in pochi giorni è destinata a fornire risposte certe. La previsione di incentivi può essere formalmente contenuta infatti nel decreto Rilancio, la cui discussione in commissione Bilancio della Camera mostra margini per un accordo di massima tra le forze politiche, destinato a concretizzarsi a partire da oggi, con la fissazione della data definitiva per la discussione in aula. Fino a quel momento, sul tavolo resta la adozione o meno degli emendamenti che potrebbero portare a un contributo statale di mille euro, o duemila rottamando un’auto con più di dieci anni, affiancato da una identica cifra a carico del concessionario, per chi acquistasse una nuova vettura Euro 6. Provvedimento che andrebbe ad affiancarsi agli ecobonus già in vigore, che prevedono un contributo di 4.000 euro, che raggiunge i 6.000 euro in caso di rottamazione se si acquista un’auto con emissioni di CO2 da 0 a 20 g/km, oppure un bonus di 1.500 euro al quale se ne aggiunge un altro da 1.000 euro in caso di rottamazione di una nuova vettura con emissioni di CO2 comprese tra 21 e 60 g/km: ovvero auto elettriche e ibride plug-in.

Nell’accordo tra le forze politiche rientrerebbe proprio il rifinanziamento di questa misura con 100 milioni per il 2020 e 200 milioni per il 2021, che potrà eventualmente portare al via libera per eco-incentivi allargati. Per i quali si attendono ancora la definizione dei criteri di applicazione e soprattutto i fondi necessari.

Stretti i tempi per l’approvazione definitiva, che dovrà arrivare entro l’8 luglio anche da parte del Senato, in modo da rispettare la scadenza tassativa del 18 luglio per l’entrata in vigore della norma.

Auto, è semestre nero: dimezzate le vendite e a rischio i lavoratori

Il mese di giugno doveva essere una sorta di spartiacque per l’auto. Tra il trimestre del lockdown, con il quasi azzeramento del mercato, e il progressivo ritorno alla normalità. Ci si aspettava un’inversione di tendenza, insomma, rispetto al profondo rosso da Coronavirus. Che di fatto non c’è stata, dal momento che le vendite hanno fatto registrare un calo a doppia cifra: -23%, che poteva tranquillamente essere un -30% se non ci fosse stato un giorno lavorativo in più, e se l’odiosa pratica delle km zero non fosse stata ancora una volta ampiamente abusata.

Tornando ai conti, si sono immatricolate 40 mila vetture in meno rispetto a giugno 2019. Ma soprattutto mancano all’appello 500 mila veicoli, se si prende in considerazione il confronto fra i primi semestri di questo e dello scorso anno: 583.960 contro 1.083.184, con un calo del 46%. “Proiettando il dato di giugno sul secondo semestre, il mercato perderebbe altre 200.000 immatricolazioni, che, insieme al mezzo milione perso nei primi sei mesi, si tradurrebbero in un crollo della domanda di autovetture nel 2020 a 1.200.000 unità”, ha fatto sapere il presidente dell’Unrae, l’associazione dei costruttori esteri che operano nel nostro Paese, Michele Crisci.

Che si debba tenere in seria considerazione questo scenario, viene fuori anche da un’indagine condotta dal Centro Studi Promotor, secondo cui “il 70% dei concessionari dichiara bassi livelli di acquisizione di ordini, mentre il 62% lamenta anche una insoddisfacente affluenza ai saloni di vendita di interessati all’acquisto”. Ovvero pochi potenziali clienti che si recano negli showroom, e ancora meno contratti firmati. È di un’evidenza lampante, dunque, che le famiglie (ma anche le imprese), nonostante il lento riavvio delle attività economiche, non hanno certezze sul futuro e non mettono certo in conto l’acquisto di un’auto.

La domanda, dunque, continua a languire. Non è un caso, ad esempio, che a giugno il crollo sia stato generale: -7,7% il canale privati, -39% il noleggio (quello a breve termine addirittura -72%) e -44% le società.

Le conseguenze di un tale scenario, che evoca gli spettri della crisi economica di dieci anni fa, si annunciano pesanti. In primis, quelle occupazionali. Federauto, l’associazione che raccoglie i concessionari italiani, ha fatto sapere che se il trend negativo non si arresta, a fine anno “ci saranno 40 mila posti di lavoro a rischio”. Anche per lo Stato, questo semestre “dimezzato” si è rivelato un bagno di sangue. Dei 9 miliardi di fatturato complessivi andati in fumo, avrebbe dovuto incassarne 2 solo dall’Iva, per non parlare degli altri balzelli. Che sommati significano complessivamente mezzo miliardo di entrate in meno ogni 100 mila immatricolazioni mancanti. Da qualsiasi parte la si veda, dunque, un brutto colpo per un settore che vale l’11% del Pil italiano. E che ha bisogno, ora, del sostegno statale.