Anticipiamo uno stralcio di “Scrivere è dare una forma al desiderio”, un inedito libro-intervista di Annie Ernaux con Pierre Bras, in uscita giovedì con Castelvecchi
Dalle lettere che ricevo mi rendo conto che, attraverso i miei libri, i lettori rileggono la loro vita, o episodi e situazioni della loro vita, e li rileggono in modo diverso, spesso si liberano dalla vergogna sociale o sessuale, vedendola in qualche modo assunta su di sé dalla narratrice e messa in una prospettiva a cui non avevano pensato. È molto più difficile, invece, modificare credenze collettive particolarmente radicate, l’ho percepito bene con l’accoglienza ricevuta da Guarda le luci, amore mio: alcune lettere riflettevano, confessavano un’animosità verso le grandi distribuzioni, senza definirla, e non erano pronte a vederne la realtà umana. Sarebbe molto presuntuoso pensare che un libro possa emancipare le persone dall’oggi al domani. Lo mostro in Memoria di ragazza: Il secondo sesso mi ha fatto capire cosa avevo vissuto l’estate precedente, ma non mi ha permesso di comportarmi liberamente in quello stesso momento, in quella società antecedente al 1968. Ma ciò che il libro mi ha svelato è stato fondamentale in seguito.
PIERRE BRAS: Questa fede nella letteratura le viene da sua madre? È stata la sua influenza a suscitare in lei l’interesse per la letteratura…?
Non del tutto. Mia madre aveva anche una visione utilitaristica della lettura, dico anche perché la sua prima idea di letteratura era il piacere che vi si trova. Ma pensava anche che, queste le sue parole, “apre la mente”, “riempie la mente”. Doveva pensare che la lettura fosse un vantaggio negli studi, anche se non vedeva di preciso come. Anzi, sentiva certamente di aver imparato molto dalla lettura, aveva avuto accesso a mondi sconosciuti. Penso fosse di questo tipo la sua esperienza della lettura. Più tardi, quando ero studentessa universitaria in Lettere e le dissi che stavo scrivendo un romanzo, il suo viso si illuminò letteralmente per la felicità e mi disse parola per parola: “Anche a me sarebbe piaciuto, se fossi stata in grado”. In grado di scrivere. Aveva abbandonato la scuola all’età di dodici anni e mezzo per lavorare nella fabbrica di margarina Astra. Allo stesso tempo, mi ha messo in guardia dall’idea che avrei potuto vivere di letteratura. Era convinta della superiorità, della bellezza della letteratura, ma era una convinzione corredata di realismo, del tipo che la scrittura non dà da campare né agli uomini né alle donne. Io l’avevo integrata questa doppia percezione. Credere nella letteratura… ma come fai a non crederci?
A sua madre deve il titolo di uno dei suoi libri.
“Non sono più uscita dalla mia notte”… Ho messo il titolo tra virgolette per indicare che le parole sulla copertina erano di mia madre. In realtà, trovavo che fosse un po’ un cliché da romanzo. Mia madre ha scritto questa frase quando, malata di Alzheimer e consapevole della perdita della memoria, aveva cominciato a redigere una lettera a un’amica che poi non aveva potuto continuare e aveva strappato. “Cara Paulette, non sono uscita dalla mia notte”. Ciò che mi aveva turbato in questa frase era che mia madre non mi ha mai scritto cose del genere.
A casa sua funziona tutto al contrario: suo padre, un ex operaio, lava i piatti, mentre suo marito – pur appartenendo alla nuova generazione – si rifiuta, facendone una questione di virilità, anche se è un borghese…
A casa mia era il contrario. Ma penso che la rappresentazione dei rapporti fra i sessi nelle classi popolari sia troppo appiattita.
Sua madre sceglie suo padre in particolare perché non beve, avendo cura di proteggersi dall’alcolismo, molto diffuso nel suo ambiente e nella sua famiglia.
Era la sua prima “qualità”.
E poi i suoi genitori hanno una solida strategia per influenzare il corso sociale della sua vita… In effetti, la sua famiglia non rientra fra le casistiche classiche. Eppure funzionava.
Mi è sembrato importante, necessario, quando scrivevo alla fine degli anni Settanta, contestare un certo femminismo che collegava i padri e il mondo borghese al trionfo del padre nella società, anche nel mondo popolare. Per dimostrare, non avendo io avuto l’esperienza della dominazione maschile in famiglia, che poteva esistere un altro modello, come funzionassero le cose in casa mia; e quanto avesse strutturato il mio sguardo e il mio comportamento in una società in cui l’egemonia maschile è ovunque la regola.
Ma allora era una singolarità all’interno di uno spazio sociale. Un sociologo, invece, è alla ricerca di leggi generali.
In questo caso specifico, non ne troverà.
D’altra parte, la utilizzeranno nei libri di sociologia come esempio.
Sempre, perfino ne Gli anni, in cui l’“io” è assente… Per me è molto importante la mia regola di base: arrivare al reale. Ma in primo luogo occorre partire dalla realtà così come si mostra, così com’è visibile ai miei occhi e alla mia memoria.
© Annie Ernaux, 2020. Per gentile concessione di Lit Edizioni Sas; originariamente pubblicato in © “Journal des anthropologues”, 2017