Salvare i lavoratori dal Coronavirus

In un mondo che stenta a uscire dal coronavirus, le parole d’ordine sono “assoluta sicurezza”. Ma le imprese pubbliche e private stanno operando in assoluta sicurezza? Una domanda pressante dopo che non poche istituzioni sembrano aver fatto a gara nell’abbandonare le imprese nel limbo di rassicurazioni verbalmente facili, ma sostanzialmente inconsistenti. Eppure, non è questa la strategia adottata dal nostro legislatore, attento a coinvolgere le stesse imprese nella delicata, e proprio in questi giorni ancor più decisiva, opera di contenimento del virus, a tutela dei lavoratori e per conseguenza delle stesse popolazioni.

Nel dibattito in corso, ha assunto rilievo il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro” sottoscritto dalle parti sociali il 14 marzo 2020 e integrato il 24 aprile 2020. Non pochi vorrebbero ridurre gli obblighi di sicurezza in tempo di coronavirus alle misure prescritte dal Protocollo. Eppure, è proprio il Protocollo a precisare che “contiene misure che seguono e attuano le prescrizioni del legislatore”. Con la conseguenza che le imprese dovranno assumere come insuperabile riferimento la legge primaria in materia, e, cioè, il temuto Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro, il decreto legislativo n. 81/2008. A partire, naturalmente, da quell’obbligo fondamentale che impone alle imprese di valutare il rischio coronavirus: un obbligo, dopo qualche iniziale sbandamento, ribadito da ormai quasi tutte le istituzioni nazionali (dall’Inail ai ministeri della Salute e della Giustizia) in linea con una Direttiva dell’Unione europea del 3 giugno 2020 da recepire alla svelta entro il 24 novembre 2020.

Un’altra strada è stata percorsa da chi cerca di liberare le imprese dal fardello del Tusl: limitarne gli obblighi all’osservanza delle misure di contenimento del virus previste nei decreti legge, nei Dpcm, nelle linee guida, che si stanno susseguendo in questi mesi, e, per giunta, affidare ai prefetti la regia della vigilanza sulla sicurezza anticoronavirus. Ma così trascurando quel che stabiliscono gli stessi decreti legge: e, cioè, che il mancato rispetto delle misure di contenimento è punito con le sanzioni amministrative applicate dai prefetti, “salvo che il fatto costituisca reato”, ed è noto che gli obblighi previsti dal Tusl sono generalmente presidiati da sanzioni penali. Eppure, sapientemente, proprio il ministero dell’Interno in una circolare del 2 maggio 2020 ha avvertito a chiare lettere che la violazione delle prescrizioni dei protocolli comporta l’applicazione di sanzioni amministrative, “salvo che il fatto costituisca reato”, e che la verifica dell’eventuale sussistenza di un reato dovrà fare riferimento alle norme di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro stabilite dal decreto legislativo n. 81/2008. Ben vengano, dunque, i controlli prefettizi, ma irrinunciabile è lo svolgimento di autonomi accertamenti ispettivi sui luoghi di lavoro in questa fase emergenziale e con riguardo al rischio coronavirus proprio da parte degli organi specializzati nel settore (prime fra tutte le Asl). Ecco perché semmai dovremmo arricchire gli organici, curare le professionalità, garantire il coordinamento, dei servizi di vigilanza specializzati in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. A tutela dei lavoratori, ma anche delle stesse imprese. Per evitare, ad esempio, che ispettori non adeguatamente formati considerino pericoloso un agente lavorativo che non lo è, costringendo l’impresa a investire risorse anche ingenti in misure non necessarie.

Grande è stata l’emozione prodotta da un fatto pur elementare: le infezioni da Covid-19 possono essere un reato, l’omicidio colposo o la lesione personale colposa.

Salvo, beninteso, l’ingrato compito riservato all’autorità giudiziaria di sviluppare ogni accertamento circa l’effettiva riconducibilità del caso a una condotta colposa del datore di lavoro. E si badi: una responsabilità penale configurabile anche per un’affezione occorsa a un terzo, come il paziente di una struttura ospedaliera o un ospite di una causa di riposo.

Il Comitato di esperti in materia economica e sociale nella prima delle schede di lavoro presentate l’8 giugno 2020 ha proposto di “escludere il contagio Covid-19 dalla responsabilità penale del datore di lavoro per le imprese non sanitarie”, ventilando una soluzione in parte collimante con quella accolta dall’art. 29-bis introdotto nel Dl n. 23/2020 convertito nella legge 5 giugno 2020 n. 40: il datore di lavoro adempie all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nei protocolli, nelle linee guida, negli accordi di settore. Contrariamente alle aspettative di alcuni (e dello stesso Comitato tecnico), a ben vedere, una norma come questa – lungi dall’introdurre il cosiddetto scudo penale – conferma la responsabilità penale a titolo di colpa del datore di lavoro che violi protocolli o linee guida o accordi; e non esclude la responsabilità penale del datore di lavoro che, pur rispettando protocolli o linee guida o accordi, non adempia ai distinti obblighi previsti da leggi specifiche quale il Tusl.

Csm, dopo Palamara basta politici: solo avvocati e professori

Caro Direttore, lo scandalo Palamara, oltre a far emergere il marciume che si annidava dietro il gioco incrociato delle correnti per la conquista dei vertici dei tribunali, delle corti e degli Uffici del Pubblico ministero, fortunatamente limitato a una ridottissima percentuale di soggetti coinvolti nelle nomine pilotate, ha originato tutto un fiorire di proposte riformatrici del Csm. Queste riguardano non solo il sistema di elezione (primarie con sorteggio, collegio unico nazionale o collegi pluriregionali, sistema maggioritario con ballottaggio, ecc.) ma addirittura talune modifiche della Costituzione.

Infatti c’è chi propone il ribaltamento dell’attuale rapporto della composizione dell’Organo di rilevanza costituzionale (art.104 Cost.) per cui i membri magistrati scenderebbero da due terzi alla metà mentre i membri laici aumenterebbero da un terzo alla metà, nominati in parte dal presidente della Repubblica, e in parte dalla Corte costituzionale. Il Parlamento verrebbe così escluso dal potere di nomina con un vulnus alla sua funzione di supremo reggitore del sistema istituzionale, espressione della sovranità popolare, fulcro della separazione dei Poteri di cui il presidente della Repubblica, che è anche il presidente del Csm, è il primo garante.

In questo balenare di proposte riguardanti la nomina e la composizione del Consiglio superiore sembra prevalere la spinta a evitare che le nomine dei laici riguardino personaggi politici o di governo (parlamentari in carica, ministri e sottosegretari) contro ogni possibile commistione tra la sfera politica e quella della magistratura che si autogoverna, con la maggioranza dei due terzi e con i membri laici, attraverso il Csm. Questa giusta preoccupazione non sembra però tener conto che non servono improbabili riforme costituzionali poiché l’argine contro possibili incursioni della politica militante esiste già ed è rappresentato proprio dall’art. 104 il quale prevede che, per un terzo i componenti del Consiglio siano eletti dal Parlamento in seduta comune tra “professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio”.

Si tratta, per l’elezione, di requisiti inderogabili sui quali soltanto si dovrà fondare la designazione che verrà pertanto esclusa se costoro rivestono cariche politiche (nel Parlamento o nell’esecutivo). Al riguardo va ricordato che nella discussione in Assemblea Costituente sulla composizione del Consiglio emerse in modo costante la preoccupazione di tenere distinta e distante dalla politica la designazione degli avvocati e dei professori.

Infatti, rispondendo al relatore on. Ruini, l’on. Leone così si espresse: “A garantire soprattutto contro questo pericolo varrà la delimitazione delle categorie degli eleggibili… che risponderà al duplice scopo di assicurare elementi provvisti di preparazione e di sensibilità ai problemi della magistratura e di garantirne l’imparzialità e la serenità” (Res. Ass. Cost. pagg. 2114 ss.). Nella seduta comune per l’elezione dei membri laici basterà quindi applicare la Costituzione per tenere la politica al di fuori del Palazzo dei Marescialli.

Le giravolte di “Stampubblica” sul caimano: ora tifa per B.

Non possiamo sapere se il Capo dello Stato, nella sua infinita magnanimità, accoglierà o meno la richiesta di nominare Silvio Berlusconi senatore a vita, perorata dall’ex giornalista Vittorio Feltri che s’è appena dimesso polemicamente dall’Ordine professionale e ha promosso una raccolta firme per riabilitare l’ex Cavaliere. C’è da dubitare che il presidente Mattarella, uno dei cinque ministri della sinistra democristiana che trent’anni fa lasciò l’incarico in dissenso sulla legge Mammì con cui Craxi e Andreotti elargirono l’immunità televisiva a Sua Emittenza, voglia concedere il laticlavio al leader redivivo di Forza Italia: se non altro in forza di quell’articolo 54 della Costituzione secondo cui chi svolge funzioni pubbliche deve adempierle con “disciplina e onore”. E questo non è certamente il caso del Nostro.

Sappiamo, tuttavia, che intanto l’ex Cavaliere è stato già nominato senatore a vita da “Stampubblica”, il giornale di casa Fiat guidato da Maurizio Molinari, proprio quel giornale che a suo tempo condusse la campagna mediatica contro gli usi e gli abusi, gli affari e i malaffari, i costumi e i malcostumi del regime berlusconiano. Lo stesso giornale che, sotto la direzione di Ezio Mauro e l’impulso di un cronista di razza come Giuseppe D’Avanzo, formulò le famose “dieci domande” sugli scandali sessuali che inchiodarono il Caimano alle sue responsabilità, coinvolgendo giovani donne come Noemi Letizia, Patrizia D’Addario e Ruby Rubacuori. Una campagna di stampa che mobilitò un’ampia area dell’opinione pubblica, aggregando giornalisti e intellettuali, giuristi, costituzionalisti, lettori e lettrici, cittadini comuni.

A quell’epoca, l’ex premier si rifiutò per 175 giorni di rispondere a Repubblica, ma alla fine si affidò a un collaudato e compiacente cerimoniere della televisione pubblica come Bruno Vespa. Oggi, invece, a vent’anni di distanza, Berlusconi accetta di parlare con “Stampubblica” per rimestare l’acqua sporca nel mortaio della giustizia, riesumando la registrazione postuma di un magistrato defunto che sottoscrisse la sentenza di condanna nei suoi confronti per frode fiscale e ora lo riscatterebbe – come in una seduta spiritica – quale vittima designata di un complotto, a cui contraddittoriamente quello stesso magistrato avrebbe partecipato. Dopo aver “oscurato” il primo giorno la montatura giornalistica contro la presunta macchinazione giudiziaria, l’indomani il giornale di Molinari s’è preoccupato di interpellare l’ex Cavaliere, per consentirgli di immolarsi sull’altare mediatico nei panni dell’agnello sacrificale e di “sparare” sulla Cassazione. E tentare così di rifarsi un’immagine e un’identità, come in un’operazione chirurgica di plastica facciale, non potendo più rifarsi evidentemente una verginità.

Con tutto il rispetto per Scalfari e Mauro, in questo momento il pensiero corre in primo luogo alla memoria di D’Avanzo: ci ha lasciato il cuore e la vita, il povero Peppe, in quella vicenda torbida e ambigua. Ma chissà quanto urlerebbe fino a far tremare i vetri lo storico condirettore di Repubblica, Gianni Rocca, un altro indomito collega che a quel giornale ha dato l’anima fin dall’inizio, come e più di tanti altri. E che cosa direbbero o scriverebbero l’intransigente giurista Franco Cordero, l’irriducibile Paolo Sylos Labini, i promotori (autentici) di Libertà e Giustizia, l’amica Sandra Bonsanti… La verità è che, consapevolmente o meno, “Stampubblica” marca in questa occasione la sua distanza siderale dal prototipo originario: un modello di giornalismo che sta come una Ferrari a una Duna, per usare un paragone forse più comprensibile ai colleghi di casa Fiat.

 

Conte a Villa Nazareth: vivaio laico dei cattolici

Chi è veramente, da dove viene Giuseppe Conte? Soltanto dallo studio prestigioso di un “barone” come Guido Alpa o ha frequentato altre “scuole”? È soltanto il “Giuseppi” sfottuto da commentatori politici poco informati sul mondo cattolico, oppure questo 55enne di Volturara Appula, figlio di segretario comunale (quindi già addentro ai problemi dell’amministrazione locale) e di una maestra, che si è subito rigirato bene in Europa crescendo in sicurezza e in capacità di navigazione fra le macerie del Salvini spaccatutto, ha avuto altre scuole-guida?

Pochi hanno reagito alla indiscrezione che Conte avesse frequentato, sia pure non da borsista, gli ambienti dell’Università di Villa Nazareth creata nel 1946 da Domenico Tardini per ragazzi rimasti orfani, di grandi capacità e di famiglia povera. Dopo Tardini, alla presidenza era stato chiamato un sacerdote venuto dalla Romagna faentina, “isola bianca” in terra rossa e nera, rossa, verde, da Brisighella, patria di 9 cardinali, da Domenico Spada dell’omonimo splendido Palazzo, fino ad Achille Silvestrini, quel neo laureato che Tardini aveva pescato prima che facesse un sol giorno di parrocchia e portato a Roma negli uffici della Segreteria di Stato. E don Achille a trent’anni aveva già una conoscenza approfondita dell’Oriente, Cina, Vietnam e altro e poi di quello medio-orientale, della stessa Urss per quel “disgelo” al quale avrebbe contribuito quale ministro degli Esteri di un grande segretario di Stato, il piacentino Agostino Casaroli, sostenitore, come lui, di una Ostpolitik che non poteva piacere al papa polacco. Questi voleva imprimere una spallata a quell’impero ormai traballante e la impresse, con risultati finali assai discutibili (ci sono Paesi meno cristiani?) rispetto al gradualismo di Casaroli-Silvestrini. Con don Achille smistato al Tar, la Segnatura, poi richiamato per sanare i cento contrasti che il Segretario di Stato, il mediocre Sodano, e Wojtyla, non sapevano sanare: con le Chiese orientali, per esempio. Un ruolo fondamentale Silvestrini aveva avuto pure nella preparazione del nuovo Concordato con l’Italia del 1984 (governo Craxi).

La pupilla di don Achille era Villa Nazareth dove anch’io venni invitato per dibattere coi giovani borsisti temi di attualità. Una sera a cena a casa della vecchia madre in Vaticano, un ex partigiano “bianco” con Mattei, Peppino Restelli, direttore editoriale al Giorno, Giuseppe Ratti, Eni, un altro matteiano, lui filo-socialista, che dialogava alla pari coi capi arabi e io saggiammo l’alto livello di don Achille il quale ci spiegò il senso della notizia del giorno: Mosca aveva ritirato dal Corno d’Africa gli advisor militari. “Per l’Impero sovietico è cominciata una crisi irreversibile, hanno esaurito le risorse, loro e quelle dei Paesi satelliti”. Mancavano ancora 4-5 anni alla caduta del Muro di Berlino. Suo grande e “fraterno amico” era il cardinale Carlo Maria Martini del quale condivideva in pieno la necessità di “cercare nuovi linguaggi, di uscire dall’ambito ristretto delle sagrestie, di declericalizzarsi” insomma. Rammento bene in Rai, per il Giubileo, una conferenza di Martini dal titolo quanto meno inatteso: “Gesù Cristo grande profeta ebraico”.

Silvestrini manifestò apertamente la propria opposizione alla nomina di Ratzinger facendo già il nome di Bergoglio. Che, dopo il “ritiro” del papa tedesco, appoggiò risolutamente. E papa Francesco è divenuto assai presto un “amico” di Villa Nazareth visitandola spesso, con Silvestrini, lucidissimo, ma su una sedia a rotelle. Avendo però Pietro Parolin quale direttore e assistente spirituale. In quel periodo Giuseppe Conte frequenta Villa Nazareth. Per cui, quando viene inopinatamente prescelto quale primo ministro di una coalizione molto problematica che esige un valido mediatore, ha un retroterra politico-culturale al quale rifarsi, uno dei più laici del mondo cattolico e dei più aggiornati, specie in politica internazionale. Vicepresidente della fondazione è ora l’arcivescovo Claudio Maria Celli, altro romagnolo, di Rimini, altro esperto di politica internazionale. È lui ad accompagnare papa Francesco nella prima visita a Villa Nazareth inaugurando un rapporto che continua. “Qui non si insegna ai giovani ad arrampicarsi”, ma ad avere un impegno, una missione, ha detto il papa e Silvestrini, ormai in sedie a rotelle, sorrideva avendo adottato, scrisse un suo “nemico”, “Conte come un figlioccio”. Coltivava un ultimo sogno: Pechino quale sede del prossimo Festival della Gioventù.

 

All’Arena di Verona filari di viti e pergolati al posto dei seggiolini

Questa rubrica è un passito da meditazione. Va goduta a piccole dosi, preferibilmente dopo i pasti. Che questa modesta fatica giovi ad allietare il caro lettore! (Una frase che basta e avanza perché la rubrica appaia come un’opera filantropica, invece della volgare speculazione che è.) Inviatemi pure una coppia di selfie: prima e dopo i pasti, preferibilmente en déshabillé. La metterò in vendita sul dark web.

È ricominciata la corsa all’oro del prosecco, stavolta nel cuore del Veneto: l’Arena di Verona, dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Con i timbri della legalità e le autorizzazioni regionali, ma a dispetto delle rassicurazioni politiche secondo cui i posti in platea non sarebbero stati divelti per far posto alle vigne che valgono un tesoro. E che gli affari non avrebbero maramaldeggiato con l’acustica. Non credeva ai propri occhi il consigliere Alberico Arrivabuono, vicepresidente della commissione ambiente della Regione Veneto, alla prima uscita post-pandemia in quell’angolo di paradiso che è l’anfiteatro romano. Alcuni cittadini lo hanno condotto davanti a un cartello che segnala l’inizio delle attività. C’è la ragione sociale dell’azienda agricola committente. E anche il nome del geometra, direttore dei lavori per l’intervento di sistemazione dei gradoni e rimozione dei sedili. “Per carità, non li chiami così, altrimenti nei palazzi veneziani si offendono”, ironizza Arrivabuono. “Per loro, gradoni e sedili sono ‘ostacoli paesaggistici’. La realtà è che la platea e la cavea scompaiono, e al loro posto sorgono i filari di viti”. La scorsa estate la polemica fu rovente, perché vennero fatte entrare le ruspe al secondo atto dell’Aida, durante la Marcia trionfale: si accodarono agli elefanti, nello stupore di Radames. “Qui è patrimonio Unesco, ma assistiamo a una corsa verso nuovi vigneti, con distruzione di posti a sedere, aumento di pesticidi e gravi ripercussioni economiche per la stagione lirica, che prima o poi si sperava di far ripartire”. Anche l’Arena era alle prese con gli interrogativi da recessione mondiale post-Covid. Lo stop agli spettacoli aveva inferto un duro colpo. Adesso, per la Fondazione Arena, il 2019 da record (più di 26 milioni di euro il fatturato in biglietteria, per una media di 500 mila euro a serata) è già un ricordo lontano. Data di inizio lavori: 30 giugno 2020. “Il progetto non lascia dubbi, né speranze: considerato anche il terrazzamento, si passerà dai 20 mila posti a sedere attuali a undici”, chiosa Arrivabuono. L’autorizzazione a piantare l’uva dentro l’Arena risale al 2018. Si tratta di lavori in deroga, a seguito di domande anticipate, segnalati e denunciati anche dal comitato “Rigoletto”. Gli interventi comporteranno l’abbattimento delle sedute, poi l’area verrà sbancata per ospitare filari e pergolati. Al Comune di Verona, l’assessore di competenza si difende scaricando sulla Regione Veneto: “Il vigneto in Arena ha ottenuto tutte le autorizzazioni, e il Comune può solo monitorare che i lavori siano eseguiti secondo progetto”. Dall’iter emerge l’ok della commissione edilizia, quindi il via libera della Regione, dove la pratica è stata esaminata dalla Direzione Pianificazione Territoriale, dalla Forestale Est e dalla Soprintendenza alle Belle Arti, con pareri del Genio Civile e dell’Agenzia regionale per l’ambiente. Infine, il nullaosta.

Mail box

 

Era giusto che Fontana fosse a Bergamo

Gentile direttore, ho letto la lettera di Luca Fusco sul FQ. Premesso che a criticare e a contestare sono sempre in prima fila (se si organizzasse una manifestazione per cacciare il duo malefico della Regione Lombardia, ci sarei), nel caso della commemorazione di domenica scorsa al Cimitero Monumentale di Bergamo bisogna fare dei distinguo. Invitare tutti i parenti di chi ci ha lasciato sarebbe stato impossibile, invitarne alcuni avrebbe scontentato gli altri. I sindaci (bravi, belli, brutti o della lega, seppure troppi), bene o male rappresentano tutti i cittadini bergamaschi. Mattarella doveva esserci e infatti era lì, e purtroppo doveva essere invitato anche Fontana. Doveroso, giusto e necessario è lottare per cercare la verità e rendere giustizia ai nostri cari ma gli obiettivi devono essere mirati, diversamente si perde in efficacia. Il Donizetti Opera Festival ha lavorato in modo encomiabile per allestire una degna commemorazione con la lettura de l’Addio monti di Manzoni e l’esecuzione de la Messa da Requiem di Donizetti. La commemorazione di domenica scorsa è stata molto toccante e certamente non ha contribuito a “rimarcare quel senso di abbandono che la gente della mia terra ha provato e prova tuttora”.

Franco De Pasquale

 

Prescrizione: la riforma Bonafede “l’è bona”

La vicenda del giudice Amedeo Franco è la perfetta dimostrazione della bontà della riforma Bonafede della prescrizione. Infatti se la disciplina della prescrizione rimane quella oggi in vigore, vi saranno sempre moltissimi processi che (arrivati in Corte di cassazione) potranno conoscere la prescrizione a seconda che la data della decisione sia fissata qualche giorno prima o qualche giorno dopo, con la conseguenza che invece di dover decidere se il ricorso contro la sentenza d’appello sia fondato o infondato si debba decidere preliminarmente sulla data della decisione; con l’ulteriore conseguenza che, se fissata prima della prescrizione, qualche imbecille potrà dire che è stata oggetto di un “plotone d’esecuzione”; se invece viene fissata dopo, scatterà la prescrizione e non se ne parlerà più, risultando inoltre vanificato il lavoro di tutti i magistrati di primo e secondo grado che se ne erano occupati. Quindi la vicenda dovrebbe spingere i politici che oggi ci governano a tenere ferma la riforma “Bonafede” della prescrizione la quale, arrestando il corso della prescrizione al momento della decisione di primo grado, salva dall’assurdo anullamento tutti quei processi che dovessero tardare a essere decisi in ultimo grado e li metterebbe al riparo da vicende come quelle alimentate dalle dichiarazioni del giudice Amedeo Franco (assurde in quanto sembrerebbero ipotizzare che il dovere dei magistrati di cassazione, di fronte ad un processo prossimo alla prescrizione, sia quello di lasciar prescrivere il processo anziché decidere se il ricorso sia fondato o infondato e se la pronuncia d’appello sia giusta o meno).

Emilio Zecca

 

Silvio deve ringraziare qualche magistrato

Gentile direttore, sono un magistrato ordinario in pensione e dimissionario dall’Anm da molto tempo. A partire dalla vicenda del giudice Franco (ritenendo che un magistrato che accetta favori o, molto peggio, che li chiede magari per carriera e visibilità, prima o poi sarà chiamato a restituirli, distorcendo la sua imparzialità e indipendenza per “riconoscenza”), immagino che i processi possano anche diventare o essere diventati terreno di scambio. Ma in entrambi i sensi: infatti occorrerebbe spiegare perché il B., da questa “giustizia” di scambio avrebbe dovuto subire solo danno (nel caso della condanna) e non anche lucrosi vantaggi (come nei casi delle numerose prescrizioni e delle sporadiche assoluzioni). Mi viene in mente l’assoluzione milanese, anch’essa estiva, dal caso Ruby. Se le sentenze su B. sono state frutto verminoso di una guerra per bande tra politici e magistrati di destra, di sinistra e di centro, allora magari questo potrebbe aver riguardato anche certe assoluzioni. No?

Paolo Sceusa

 

Sì all’Europa unita, no all’Italia sovranista

Sono un votante abbastanza consapevole, lettore e frequentatore degli eventi del FQ da prima che nascesse, fiducioso del governo e del premier attuali ma: d’accordo, Conte e Gualtieri sperano che con l’imminente raccolta da Btp Futura e altri collocamenti noi possiamo quest’anno fare a meno del Mes – lo diceva Travaglio su Loft – in attesa del Recovery Fund nel ’21. Però alle condizionalità del Mes, o alla Trojka che viene a controllare le nostre spese e i nostri conti, devo ammettere di non essere contrario. Del resto, se la finanza pubblica ce la troviamo così malmessa, è responsabilità nostra. Siamo più sviluppati della Grecia, ma nessuno comprerà le nostre aziende e monumenti in saldo. Che non sappiamo spendere i nostri soldi è risaputo. Del debito pubblico al 130%, presto al 160% per i noti problemi da blocco produttivo, siamo noi i responsabili: devo dire che una Merkel o il suo ministro del Mef, o anche un Cecco Beppe qualsiasi, saprebbero o avrebbero saputo meglio amministrarci. Ci si augurava che l’Europa fosse unita e uniforme: uguale fiscalità e tassazione, uguali parametri e norme per appalti e tutto il resto, stesso modo di spendere e prelevare. Cosa ce ne facciamo della sovranità o, peggio, dell’italianità se a casa nostra non sappiamo spendere i soldi?

Angelo Umana

Palazzo Chigi. La vera storia di smart working e straordinari

 

 

Nei giorni scorsi sono usciti numerosi articoli su presunte e assurde pretese economiche del personale della Presidenza del Consiglio dei ministri. Si tratta di notizie false, diffuse artatamente per mettere in cattiva luce chi, come noi, tutela i legittimi diritti del personale, ingiustamente ritenuto privilegiato e sovente esposto alla gogna mediatica, o per il rinnovo contrattuale (l’unico fermo dal 2009) o, nel caso di specie, per il ricorso al giudice del lavoro (per comportamento antisindacale) sui gravi abusi perpetrati da una dirigenza autoreferenziale e autoritaria, la vera “Casta” di questo Paese, in un periodo in cui a pochi dipendenti pubblici è stato richiesto lo sforzo preteso dal personale della Presidenza. Il ricorso non riguarda né lo straordinario, né lo smart working: la norma “generosa” sugli straordinari non esiste e, al contrario, il ministero dell’Economia è ben felice di non pagare, come dovrebbe, personale che da oltre 10 anni lavora ordinariamente 40 ore settimanali, autofinanziandosi le 4 ore aggiuntive. Proprio la violazione della norma del Contratto Integrativo che regola queste ore aggiuntive ordinarie è il vero oggetto del ricorso: un unico dirigente, per la verità, che ha deciso di sospendere la possibilità per i dipendenti di completare l’orario delle 40 ore settimanali, con la scusa del Covid. Ma le norme contrattuali non possono essere disapplicate per la smania di protagonismo di qualcuno. Non conosciamo i contenuti delle note difensive, non ancora depositate in tribunale (sic!) ma diffuse alla stampa, però qualcuno deve aver fatto confusione e se lo staff del presidente del Consiglio ritiene il ricorso addirittura temerario e, a quanto pare, non ne ha nemmeno capito il motivo, c’è da preoccuparsi (per il Paese).

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In effetti dalla lettura del ricorso e della documentazione che le organizzazioni sindacali ci hanno fornito, non risultano rimostranze né sul pagamento degli straordinari, né sulle modalità dello smart working. Peraltro, la stessa Presidenza del Consiglio, ad aprile, aveva ampliato la possibilità di pagare le ore di lavoro straordinario, proprio per venire incontro al maggior impegno richiesto a tecnici e funzionari, in relazione alla pandemia. La retorica sui “fannulloni” ha purtroppo un’ampia letteratura, cui l’emergenza coronavirus ha fornito ulteriori elementi di racconto.

Pa.za.

Idea: senatore a vita il corruttore di senatori

Finiti i tempi di smart working, si torna al lavoro duro per guadagnarsi lo stipendio: Berlusconi vittima dei giudici rossi, non della frode fiscale in nero, strillano i suoi dipendenti. Anzi: Berlusconi riabilitato dalla nuova intercettazione. Meglio: Berlusconi senatore a vita, raccogliamo le firme per risarcirgli l’onore, con tanto di modulo in azzurro da ritagliare sulla prima pagina di Libero, firmare e spedire, speriamo non a Strasburgo, ma direttamente a Giochi Senza Frontiere.

Ottima idea. Bisognerà chiedere un parere a Sergio De Gregorio che fu senatore in morte del Senato. E in quanto a onore ne aveva da vendere, più o meno per 3 milioni di euro; uno in chiaro, due in nero, come gli capitò quella volta, passando da Arcore, e decidendo, al momento buono della sua carriera politica, di seguire il conto corrente della sua coscienza. Un eroe. Che incassò anche la condanna per truffa e false fatturazioni. Purtroppo lasciato solo dal suo dante causa, l’ex Cavaliere, che in quella circostanza processuale fu condannato per corruzione, ma poi fortunatamente prescritto, lasciandogli febbricitante l’onore che i giudici malvagi della Cassazione gli avevano appena infangato.

B. si stava trasfigurando ma un Nastro ce l’ha ridato

Fino a qualche giorno fa, Silvio Berlusconi godeva del meritato riposo, circondato dall’affetto dei suoi cari e dalla riconoscenza degli azionisti Mediaset. Perfino i tanti nemici del passato, anch’essi ormai incanutiti, deposte le armi sembravano non serbargli astio alcuno, non coltivando più memoria delle trascorse pugne. E se si parlava di lui si aveva cura di farlo sottovoce, come in certi caldi pomeriggi estivi accade con gli ottuagenari assopiti sotto il tiglio, cullati dal frinire delle cicale. Delle sue antiche birbonate si era perso perfino il ricordo, retrocesse a innocenti gherminelle quando le cronache, per esempio dopo un trasloco, tornavano a imbattersi, per dire, nel lettone di Putin, o nel palo della lap dance, o nell’atelier per infermiere sexy. Quanta nostalgia. Di tanto in tanto rilasciava un’intervista, per dichiararsi a favore del Mes e per fantasticare di nuove maggioranze (immaginate in realtà dagli amanuensi all’uopo stipendiati). Testi che egli faceva finta di approvare prima di perdersi nella luce declinante del giorno.

Tutto sembrava andare nel verso giusto, con la definitiva trasfigurazione del Caimano nel nonno buono delle favole quando, da parte di mani irresponsabili (e forse ostili), fu diffuso il nastro fatale. Sulla bizzarra natura del quale non ci soffermeremo, se non per denunciare il formidabile danno prodotto alla reputazione di un uomo che non meritava ulteriori sofferenze. Poiché, improvvisamente riemerso dal passato, il penoso reperto del defunto giudice Amedeo Franco non ha toccato di una virgola la sentenza di condanna. In compenso ci ha restituito di colpo, l’album di un Silvio che avevamo volentieri dimenticato. Con le immagini dell’incallito imputato in fuga dai processi. Del premier delle leggi “ad personam”, del gigantesco conflitto d’interessi televisivo, dell’editto Bulgaro contro Biagi, Santoro e Luttazzi. Fu lui che ospitò lo stalliere Mangano, spedito da Cosa Nostra? Il socio del condannato per mafia Marcello Dell’Utri? L’artefice dell’umiliante prostituzione del Parlamento all’incredibile balla di Ruby, nipote di Mubarak? Sì, fu proprio lui. Avevamo rimosso quasi tutto nell’illusione che, come il Jean Valjean di Victor Hugo, braccato dalla legge, il dono della grazia lo avesse riscattato concedendogli un’onesta vecchiaia. Ci hanno pensato i suoi amici a restituircelo tutto intero.

Seno nuovo all’amica e una sentenza pro B. L’identikit di Franco

Il giudice di Cassazione Amedeo Franco, deceduto il 9 maggio 2019, è l’uomo del momento. È stato uno dei componenti del collegio della Cassazione che il 1° agosto 2013 sottoscrisse con il presidente Antonio Esposito e altri tre magistrati la conferma della condanna per frode fiscale a carico di Silvio Berlusconi.

Dopo quella sentenza, Franco sentì il bisogno di recarsi presso il condannato Berlusconi per confidargli (opportunamente registrato probabilmente a sua insaputa) di non aver condiviso quella sentenza di condanna, da lui firmata eppure definita frutto di un “plotone d’esecuzione”.

In Cassazione dagli anni 90, Amedeo Franco però è anche lo stesso giudice che il 20 maggio 2014 fu relatore ed estensore – anche stavolta – di una sentenza che pare scritta apposta per smentire la sua firma dell’anno precedente. In quella sentenza si stabilì che, in caso di dimissioni dalla carica di amministratore delegato prima della compilazione della dichiarazione dei redditi, un soggetto non possa essere perseguito se privo di cariche societarie al momento dei fatti. Guarda caso, proprio come Berlusconi.

La “sentenza Franco” del 2014 è tra gli allegati all’integrazione del ricorso alla Cedu di Strasburgo che punta a dimostrare la persecuzione politico-giudiziaria contro Berlusconi. Non importa se all’epoca la Cassazione fu costretta ad emettere un comunicato, a seguito delle strumentalizzazioni del mondo berlusconiano, per precisare come la vicenda dell’ex premier e quella dell’anno successivo fossero totalmente diverse.

E proprio perché in quel verdetto del 2104 Franco criticò la sentenza Berlusconi, che lui stesso aveva scritto, il presidente Esposito presentò al Csm un esposto contro il giudice di cui non c’è stato riscontro. E a Strasburgo è stata depositata anche l’ormai celebre registrazione Franco-Berlusconi di palazzo Grazioli. Sorge a questo punto una domanda sulla tempistica: per caso, il colloquio registrato di nascosto e per ora genericamente collocato al 2014, risale proprio a quei giorni in cui il magistrato, secondo i giornali filoazzurri, avrebbe ristabilito i principi giurisprudenziali che avrebbero imposto l’assoluzione del Cavaliere? Purtroppo, Franco è morto il 9 maggio 2019 e non può rispondere.

Pochi mesi dopo la condanna per Mediaset, Berlusconi, però, incassò dalla Cassazione, terza sezione penale, con nel collegio sempre Franco, la conferma di un proscioglimento per il filone romano Mediatrade, diritti tv. Sta di fatto che nel 2015, poco prima della pensione, Franco è diventato presidente della Terza sezione penale della Suprema Corte, competente per i reati finanziari.

Con l’addio alla toga, però, sono arrivati i guai giudiziari. Nel marzo 2017 l’ormai ex giudice è stato indagato a Roma per corruzione nell’ambito di un’inchiesta su una storia di funzionari di Asl e imprenditori accusati a vario titolo di corruzione, turbativa d’asta e traffico di influenze. Tra i 19 indagati anche il re delle cliniche e deputato di Fi Antonio Angelucci, accusato di traffico di influenze. Angelucci avrebbe chiesto a un funzionario della Asl 1 di Roma, Maurizio Ferraresi, di avvicinare qualcuno in Cassazione dove pendeva un provvedimento di sequestro per una sua azienda. Ferraresi si sarebbe rivolto a Franco, appena andato in pensione.

L’ex magistrato accetta e in cambio, sempre secondo l’accusa, invece della classica mazzetta avrebbe chiesto a Ferraresi un certificato falso per un intervento al seno di una sua amica brasiliana, così da avere il rimborso dall’assicurazione per mastectomia “necessaria” e non estetica, altrimenti “l’assicurazione, scrive il gip , avrebbe di certo rifiutato la liquidazione delle somme”. Angelucci viene archiviato, Ferraresi è imputato in udienza preliminare, ma senza Franco. Non si può processare un defunto. Né tantomeno fargli qualche domanda.