In un mondo che stenta a uscire dal coronavirus, le parole d’ordine sono “assoluta sicurezza”. Ma le imprese pubbliche e private stanno operando in assoluta sicurezza? Una domanda pressante dopo che non poche istituzioni sembrano aver fatto a gara nell’abbandonare le imprese nel limbo di rassicurazioni verbalmente facili, ma sostanzialmente inconsistenti. Eppure, non è questa la strategia adottata dal nostro legislatore, attento a coinvolgere le stesse imprese nella delicata, e proprio in questi giorni ancor più decisiva, opera di contenimento del virus, a tutela dei lavoratori e per conseguenza delle stesse popolazioni.
Nel dibattito in corso, ha assunto rilievo il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro” sottoscritto dalle parti sociali il 14 marzo 2020 e integrato il 24 aprile 2020. Non pochi vorrebbero ridurre gli obblighi di sicurezza in tempo di coronavirus alle misure prescritte dal Protocollo. Eppure, è proprio il Protocollo a precisare che “contiene misure che seguono e attuano le prescrizioni del legislatore”. Con la conseguenza che le imprese dovranno assumere come insuperabile riferimento la legge primaria in materia, e, cioè, il temuto Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro, il decreto legislativo n. 81/2008. A partire, naturalmente, da quell’obbligo fondamentale che impone alle imprese di valutare il rischio coronavirus: un obbligo, dopo qualche iniziale sbandamento, ribadito da ormai quasi tutte le istituzioni nazionali (dall’Inail ai ministeri della Salute e della Giustizia) in linea con una Direttiva dell’Unione europea del 3 giugno 2020 da recepire alla svelta entro il 24 novembre 2020.
Un’altra strada è stata percorsa da chi cerca di liberare le imprese dal fardello del Tusl: limitarne gli obblighi all’osservanza delle misure di contenimento del virus previste nei decreti legge, nei Dpcm, nelle linee guida, che si stanno susseguendo in questi mesi, e, per giunta, affidare ai prefetti la regia della vigilanza sulla sicurezza anticoronavirus. Ma così trascurando quel che stabiliscono gli stessi decreti legge: e, cioè, che il mancato rispetto delle misure di contenimento è punito con le sanzioni amministrative applicate dai prefetti, “salvo che il fatto costituisca reato”, ed è noto che gli obblighi previsti dal Tusl sono generalmente presidiati da sanzioni penali. Eppure, sapientemente, proprio il ministero dell’Interno in una circolare del 2 maggio 2020 ha avvertito a chiare lettere che la violazione delle prescrizioni dei protocolli comporta l’applicazione di sanzioni amministrative, “salvo che il fatto costituisca reato”, e che la verifica dell’eventuale sussistenza di un reato dovrà fare riferimento alle norme di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro stabilite dal decreto legislativo n. 81/2008. Ben vengano, dunque, i controlli prefettizi, ma irrinunciabile è lo svolgimento di autonomi accertamenti ispettivi sui luoghi di lavoro in questa fase emergenziale e con riguardo al rischio coronavirus proprio da parte degli organi specializzati nel settore (prime fra tutte le Asl). Ecco perché semmai dovremmo arricchire gli organici, curare le professionalità, garantire il coordinamento, dei servizi di vigilanza specializzati in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. A tutela dei lavoratori, ma anche delle stesse imprese. Per evitare, ad esempio, che ispettori non adeguatamente formati considerino pericoloso un agente lavorativo che non lo è, costringendo l’impresa a investire risorse anche ingenti in misure non necessarie.
Grande è stata l’emozione prodotta da un fatto pur elementare: le infezioni da Covid-19 possono essere un reato, l’omicidio colposo o la lesione personale colposa.
Salvo, beninteso, l’ingrato compito riservato all’autorità giudiziaria di sviluppare ogni accertamento circa l’effettiva riconducibilità del caso a una condotta colposa del datore di lavoro. E si badi: una responsabilità penale configurabile anche per un’affezione occorsa a un terzo, come il paziente di una struttura ospedaliera o un ospite di una causa di riposo.
Il Comitato di esperti in materia economica e sociale nella prima delle schede di lavoro presentate l’8 giugno 2020 ha proposto di “escludere il contagio Covid-19 dalla responsabilità penale del datore di lavoro per le imprese non sanitarie”, ventilando una soluzione in parte collimante con quella accolta dall’art. 29-bis introdotto nel Dl n. 23/2020 convertito nella legge 5 giugno 2020 n. 40: il datore di lavoro adempie all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nei protocolli, nelle linee guida, negli accordi di settore. Contrariamente alle aspettative di alcuni (e dello stesso Comitato tecnico), a ben vedere, una norma come questa – lungi dall’introdurre il cosiddetto scudo penale – conferma la responsabilità penale a titolo di colpa del datore di lavoro che violi protocolli o linee guida o accordi; e non esclude la responsabilità penale del datore di lavoro che, pur rispettando protocolli o linee guida o accordi, non adempia ai distinti obblighi previsti da leggi specifiche quale il Tusl.