“Urgentissimo”: così finì alla sezione feriale

Ieri sul Riformista, giornale di Alfredo Romeo (imprenditore campano ora a processo per corruzione), il direttore Piero Sansonetti si è avventurato in una lezione di diritto. Ha sostenuto che Il Fatto avesse scritto una “balla” in merito alla prescrizione del processo per il quale Silvio Berlusconi è stato condannato a 4 anni per frode in via definitiva. “Andate a vedere le carte – scrive – e imparate a contare: la prescrizione sarebbe scattata solo per una parte dell’accusa – frode per l’anno 2002 – il 25 settembre”. Per questo, per Sansonetti, non vi era la necessità di affidare il caso alla sezione Feriale. Allora noi, curiosi, siamo andati a vedere le carte. E basta leggere il frontespizio del fascicolo (in foto) per capire che la prescrizione in realtà scattava il primo agosto 2013. Per questo il fascicolo è stato bollato come “urgentissimo”, come peraltro capita per tutti i processi che rischiano di finire in prescrizione, e assegnato alla Feriale. Forse sono proprio Sansonetti&C. che devono studiare di più, o procurarsi fonti migliori.

Dieci domande senza risposte I troppi lati oscuri della vicenda

Ci sono molti aspetti poco chiari della vicenda dell’audio di Amedeo Franco, giudice relatore della sentenza di Cassazione che ha condannato Silvio Berlusconi a 4 anni per frode fiscale, il quale parla di “plotone d’esecuzione”, di “porcheria” e “condanna a priori”. Ecco quindi 10 domande, ancora senza risposta.

1. Il giudice Amedeo Franco, quando ha incontrato Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli il 6 febbraio 2014, sapeva che le sue parole sarebbero state registrate?

2. Franco è stato avvisato che, al di là della registrazione, la sua versione dei fatti sarebbe stata utilizzata nel ricorso incardinato da Silvio Berlusconi davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo?

3. Chi sono le due donne che entrano ed escono dalla stanza durante la registrazione?

4. Quante persone erano a conoscenza dell’esistenza di questi audio?

5. Perché aspettare la morte di Amedeo Franco per depositare questa registrazione?

6. Come mai Amedeo Franco, che aveva firmato la sentenza di Cassazione del processo Mediaset, a un certo punto ha cominciato a insistere per incontrare Berlusconi? L’ex premier e il suo entourage si è posto questa domanda?

7. Cosimo Ferri, presente all’incontro, sapeva che c’era una registrazione in corso?

8. Perché gli avvocati Niccolò Ghedini e Franco Coppi consigliano prudenza e ritardano l’incontro tra Franco e Berlusconi?

9. Perché Amedeo Franco, se era in disaccordo con la condanna a Berlusconi, non l’ha manifestato durante la camera di consiglio, ma ha firmato ogni pagina delle motivazioni, che ha in parte contribuito a scrivere?

10. Perché Amedeo Franco, se era convinto di una macchinazione contro Berlusconi, non l’ha subito denunciata nelle sedi penali o al Csm?

I 4 incontri propiziati da Ferri: così si decise di registrare il giudice

È lui “il magistrato” che porta il giudice Amedeo Franco da Silvio Berlusconi. È Cosimo Ferri, leader storico della corrente Magistratura indipendente, che però nel 2013 riveste un ruolo politico, perché è sottosegretario alla Giustizia (berlusconiano) del governo di Enrico Letta, nato dalle “larghe intese” tra Pd e Berlusconi. È Ferri che chiede un incontro al leader di Forza Italia, perché deve riferire quanto gli ha detto uno dei giudici che hanno firmato la sua condanna definitiva in Cassazione. Silvio tira in lungo, rimanda. “Da tempo aveva chiesto di parlarmi e io mi ero rifiutato”, racconta, “perché ero troppo amareggiato per quello che avevo subito”.

In verità, sono i suoi avvocati, Niccolò Ghedini e Franco Coppi, a suggerirgli prudenza: un giudice che va a parlare con il suo condannato è inconsueto perfino nel magico mondo berlusconiano. Dopo le insistenze di Franco e del suo ambasciatore Ferri, Ghedini e Coppi dicono sì, raccomandando però di registrare gli incontri. Sono quattro o cinque, avvengono a Roma a Palazzo Grazioli tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014. Ad almeno un paio è presente anche Ferri. Nelle trascrizioni compaiono anche due voci femminili, che potrebbero essere segretarie e assistenti di Berlusconi. Ghedini e Coppi ne restano fuori, anche per non diventare testimoni dei fatti e dover rinunciare alla difesa. Finché Franco è vivo, non esibiscono gli audio, che sono però evocati in una memoria alla Corte di Strasburgo del 2015. Nel 2017 ne accenna Berlusconi nel programma di Bruno Vespa, dicendo che “aveva la prova” che la sentenza di Cassazione era viziata. Il 20 maggio 2020 – dopo la morte di Amedeo Franco – Ghedini e Coppi depositano a Strasburgo anche i file audio. Uomo-chiave degli incontri è Ferri. È lui a contattare Berlusconi per farlo parlare con Franco. È lui ad accompagnarlo a Palazzo Grazioli.

Figlio d’arte, Cosimo ha ereditato le sue due anime dal padre, Enrico Ferri, magistrato ma anche ministro socialdemocratico dei Lavori pubblici ai bei tempi della Prima Repubblica. Fa il giudice al Tribunale di Massa, sezione penale di Carrara. Ma la sua vera passione sono le relazioni. A soli 35 anni viene eletto, grazie alla campagna elettorale paterna, al Consiglio superiore della magistratura. Poi diventa segretario generale di Magistratura indipendente, che trasforma nella sua rete di rapporti e di potere. Nel 2012, alle elezioni dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), stabilisce il record italiano delle preferenze, raccogliendo 1.199 voti. Si butta in politica. Sotto l’ombrello di Berlusconi: nel 2013 diventa sottosegretario alla Giustizia del governo Letta. È questo il momento in cui porta Amedeo Franco a Palazzo Grazioli. Resta sottosegretario anche dopo la fine delle “larghe intese”: autoproclamandosi “tecnico”. Mantiene la poltrona anche nei successivi governi Renzi e Gentiloni. Nel 2018 viene eletto deputato del Pd, che lascia nel settembre 2019 per aderire a Italia Viva.

Il suo nome compare come il prezzemolo in molti succulenti piatti-scandalo italiani. In Calciopoli entra, da gran collezionista di poltrone qual è, come membro dell’Ufficio vertenze economiche della Federcalcio. Nel 2005, in una telefonata intercettata, ringrazia il vicepresidente Figc, Innocenzo Mazzini, a nome dell’amico Claudio Lotito, patron della Lazio, per aver fatto designare un arbitro che ha favorito i biancazzurri: “Mi ha detto Claudio di ringraziarti. Sei un grande”. Nel 2009 si occupa di Michele Santoro: Giancarlo Innocenzi, commissario berlusconiano all’Agcom, dice a Berlusconi di “aver trovato una chiave interessante” per bloccare il programma Annozero, grazie ai preziosi consigli di Ferri. Nel 2010, compare nelle intercettazioni dello scandalo P3: si dava da fare per piazzare magistrati nei posti desiderati.

Per lui, la frontiera tra politica e magistratura è frastagliata e incerta come i crinali della sua Lunigiana. Così nel 2014 fa campagna elettorale per il Csm, mandando sms ai suoi ex colleghi magistrati, per invitarli a votare due suoi protetti. L’Anm denuncia l’interferenza della politica e del governo nelle attività elettorali del Csm. Tutte medaglie. Il 21 luglio si presenterà alla sezione disciplinare del Csm, per lo scandalo Palamara: dovrà spiegare i suoi incontri con il deputato renziano Luca Lotti, con cui discuteva la nomina del procuratore di Roma. Chissà se spiegherà anche il suo ruolo di mediatore tra il giudice e il condannato.

Da Fini a Silvio Una carriera da “colonnello”

Politica, sempre a destra, e giornalismo. Maurizio Gasparri, romano classe 1956, ha coltivato fin da giovane le sue due passioni. Prima l’impegno militante nel Fronte della Gioventù e nel Movimento Sociale Italiano. Siamo negli anni 70 e, come ammetterà lui stesso, al liceo Classico Tasso di Roma era considerato “il missino della scuola”. Sono gli anni della strategia della tensione e delle bombe sui treni e nelle piazze: Gasparri manifestava inneggiando ai colonnelli greci e alle dittature franchiste di Spagna e Portogallo. Durante la trafila nel Fronte della Gioventù, Gasparri fa anche il giornalista sempre a destra fino a diventare, nel 1991, condirettore del Secolo d’Italia, l’organo ufficiale missino. Un anno dopo viene eletto in Parlamento nelle file del Msi e non ne uscirà più: fedelissimo di Gianfranco Fini, è uno degli artefici del passaggio ad Alleanza Nazionale. Da quel momento cumula cariche su cariche: sottosegretario all’Interno del governo Berlusconi I, ministro delle Comunicazioni nel Berlusconi II, capogruppo del Pdl al Senato e poi vicepresidente a Palazzo Madama. Nel 2008 An confluisce nel Pdl a guida berlusconiana e nel 2010 Gasparri si separa da Fini: non lo segue nel “tradimento” di B. Sarà ricordato anche per la riforma del sistema radiotelevisivo, considerata una delle tante leggi “ad personam” pro Berlusconi.

Le 5 collaboratrici degli ex presidenti messe alla porta

Diritti acquisiti, ma non per tutti al Senato. Dove generose decisioni sembrano premiare i soliti noti. Gli ex senatori riavranno i loro vitalizi fino all’ultimo centesimo, altro che tagli: l’organo di giustizia interna di Palazzo Madama ha ascoltato il grido di dolore di lor signori che maturano la pensione a vita con appena una manciata di anni trascorsi dopo l’elezione. Un privilegio? Macché: un atto dovuto, un diritto inalienabile, secondo la Commissione Contenziosa che ha accolto appieno i loro ricorsi. Bene, bravi, bis.

Peccato però che nelle stesse ore del blitz notturno con cui sono stati ripristinati gli assegni che si era avuto l’ardire di sforbiciare, a Palazzo maturava ben altra decisione: questa volta a chiedere giustizia di fronte all’organo di appello del Senato erano alcune lavoratrici che però non sono state altrettanto fortunate rispetto ai colleghi di Caliendo &Co. Sebbene – loro sì – abbiano trascorso gran parte della vita al Senato, ma senza mai maturare alcun diritto, figurarsi il vitalizio. Inutile dire che il loro ricorso è stato respinto: ora sono letteralmente in mezzo a una strada, senza alcun aiutino politico da chicchessia.

Eppure tra di loro c’è chi, come Marina Sciamanna, ha prestato servizio per 33 anni fin da quando alla presidenza del Senato sedeva Amintore Fanfani. E come lei tutte le altre storiche segretarie dell’ufficio del presidente che per lustri e lustri hanno filtrato telefonate, fissato gli appuntamenti, tenuto a posto le carte di quanti si sono avvicendati sullo scranno della seconda carica dello Stato: dal cavallo di razza della Dc, passando al liberale Giovanni Malagodi fino a Pietro Grasso di LeU.

La commissione Caliendo e pure quella d’appello presieduta da Luigi Vitali però hanno deciso che le signore in questione non hanno mai avuto alcun rapporto con l’Amministrazione: ergo, se proprio lo vorranno, dovranno rivolgersi a un giudice del lavoro disponibile a riconoscere i diritti loro negati in questi anni. Se del caso battendo cassa agli ex presidenti che sono ancora vivi e vegeti, essendo Fanfani e Malagodi tra i più da ormai molti anni. Secondo gli organi di giustizia interna di Palazzo Madama infatti erano loro i veri datori di lavoro delle signore, mica il Senato che presiedevano. Perché Marina Sciamanna, Roberta Scormito, Mariangela Sarno, Anna Caterina Re, Stefania Bertoldo non sono mai esistite per l’Amministrazione che pure in tutti questi ha pagato ogni mese i loro stipendi e i contributi dovuti.

A chi per 15 anni, a chi per 24, a chi per oltre trent’anni. Sulla base di contratti di collaborazione andati avanti per circa dieci legislature, di rinnovo in rinnovo, di presidente in presidente. Per la verità alcune delle lavoratrici in questione che ora meditano gesti clamorosi dopo essersi rivolte senza fortuna alla giustizia interna del Senato, hanno potuto dimostrare che avevano svolto anche altre funzioni a Palazzo. Erano state riciclate per un certo periodo al centralino fianco a fianco ad altri che a differenza loro erano dipendenti a tutti gli effetti del Senato . Ma nemmeno questo, oltre al fatto di essere tenute a rispettare ordini e orari di lavoro, è bastato a dimostrare che forse era il caso di sanare la loro posizione: niente diritto all’assunzione, figurarsi al vitalizio.

Dopo la commissione Caliendo anche il Consiglio di giurisdizione infatti è stato spietato. Entrambi gli organismi si sono dichiarati incompetenti a decidere del loro ricorso per vedersi riconosciuto lo status di coadiutore parlamentare più quanto dovuto per il pregresso, compresi gli straordinari mai goduti o la reperibilità. E poco importa se conoscano il Senato come pochi altri. Una volta iniziata l’era di Maria Elisabetta Casellati sono state messe alla porta come se nulla fosse. Invitate dalla sera alla mattina a fare gli scatoloni per sgomberare le scrivanie un tempo zeppe degli appunti e delle agende di Malagodi e Spadolini, ma pure di Carlo Scognamiglio, Nicola Mancino, Marcello Pera, Franco Marini e Pietro Grasso.

La pensione di Gasparri (al lavoro per 9 anni)

Maurizio Gasparri è in pensione. Non dal Parlamento, dove oggi sta completando la sua ottava legislatura da presidente della Giunta per le elezioni del Senato in quota Forza Italia, ma dal giornalismo. Già, perché Maurizio Gasparri ha appena concluso il suo rapporto di lavoro con il Secolo d’Italia, storico giornale di destra diventato organo di partito del Movimento Sociale Italiano e di Alleanza Nazionale, prima della nascita del Pdl e della sua seconda vita online, edito dalla Fondazione An.

Qui Gasparri era arrivato nel 1983 da praticante e qui si è consegnato alla pensione, adesso che di anni ne ha quasi 64. Piccolo dettaglio: ricoprendo ininterrottamente la carica di parlamentare dal 1992, il senatore forzista era in aspettativa da quella data, ovvero ventotto anni, avendo perciò continuato a versare i contributi all’Inpgi, la cassa previdenziale dei giornalisti, attraverso il proprio stipendio da onorevole. Nove anni di lavoro e 28 di aspettativa valgon bene la pensione, che adesso potrebbe essere ridotta perché Gasparri percepisce altro reddito ma che comunque è fieno in cascina per il futuro, tenendo conto che l’ex ministro nel frattempo continuerà a maturare la pensione da parlamentare. Tutte circostanze che il senatore minimizza: “A una certa età e con una certa anzianità si va in pensione, non è una notizia. Tutto è accaduto in base alle norme e alle regole, non c’è nulla di strano”. Per capire come, allora, serve un passo indietro.

Gasparri è giornalista professionista dal 1985 e come tale è iscritto all’Ordine dei giornalisti del Lazio, ma già dal 1983, all’epoca ventisettenne e già vice di Gianfranco Fini nel Fronte della Gioventù, entra al Secolo d’Italia come praticante.

Le cose vanno bene, tanto che nel 1991 Gasparri diventa condirettore del giornale, anche se dopo appena un anno decide di candidarsi al Senato con il Msi riuscendo a essere eletto. A quel punto si mette in aspettativa, ma fino al 1994 continua a dirigere il Secolo: “Non prendevo una lira e anzi – rivendica oggi – ho mantenuto la carica di caposervizio pur facendo il lavoro del direttore, come testimoniava la gerenza. Questo per non gravare sui conti del giornale.”

Il tempo passa, il Secolo cambia, i direttori pure ma Gasparri resta sempre in Parlamento e talvolta al governo (con Silvio Berlusconi è stato ministro e sottosegretario), col suo contratto in aspettativa sempre nel cassetto. Un destino per la verità che in quegli anni accomuna molti giornalisti/parlamentari passati dal Secolo alla militanza in Alleanza Nazionale e nelle sue derivazioni, e perciò in Parlamento: Silvano Moffa, Mario Landolfi, persino Giorgia Meloni.

Gasparri non partecipa più alla vita di redazione, ma ogni tanto continua a scrivere sul quotidiano, pur sempre un prezioso tramite per mandare messaggi agli alleati o agli oppositori senza doversi scomodare più di tanto. Qualche esempio? “Cento righe per la destra del futuro”, “Tre cose di destra che faremo a gennaio”, e pure un poco profetico “La diaspora sarebbe un fallimento, i nostri valori sono nel Pdl.” Non è andata bene.

Negli ultimi mesi, poi, ecco la novità. Il Secolo ha bisogno di ossigeno, Gasparri ha requisiti sufficienti per il meritato riposo e quindi l’accordo si trova: da giugno il senatore è in pensione grazie ai contributi versati all’Inpgi.

Durante il periodo da parlamentare, infatti, gli iscritti all’Ordine dei giornalisti possono continuare a versare alla loro cassa previdenziale, girando lì i contributi garantiti da Camera o Senato. Faccende tecniche nelle quali Gasparri non si dilunga: “Sono tutte pratiche che ha curato l’amministrazione del giornale, io non ho ancora ricevuto denaro. So soltanto che ho continuato a versare i contributi per tutti questi anni e che c’erano tutte le condizioni per il pensionamento”.

Condizioni agevolate da un fugace ritorno alla scrittura da parte del senatore, proprio prima del commiato: “Ho lavorato per alcuni mesi, scrivendo articoli d’accordo con il direttore Francesco Storace. Ma questo lo continuerò a fare, per esempio pubblico delle interessanti tabelle sull’Inps. Produco informazione insomma”.

E così prima dell’addio Gasparri ha potuto rimpinguare il proprio curriculum giornalistico, che adesso si conclude (a meno di collaborazioni post-pensione) dopo 37 anni – e qualche mese – di cui 28 passati in Parlamento, in ben altre faccende affaccendato.

Tutto sommato, Gasparri ha dunque motivo per ritenersi soddisfatto. Con un po’ di spazio per una nota malinconica, ma pure piena di orgoglio da vecchio missino: “Certo, se avessi chiesto le qualifiche che mi spettavano… Sono stato un fesso, lo so, ma l’ho fatto per puro spirito di militanza”. Quello che adesso lo premia con la pensione.

Non c’è nessuna norma “salva-sindache”

Il titolo de La Stampa è generico. Senza nomi, quasi ammiccante: “Riforma per circoscrivere l’abuso d’ufficio. Ecco i sindaci che potrebbero beneficiarne”. Il resto lo fa la foto in pagina: c’è la sindaca di Torino Chiara Appendino che applaude. Sarebbe lei, secondo il quotidiano torinese, la principale beneficiaria della nuova legge del governo per alleggerire il reato di abuso d’ufficio. Nel calderone dei sindaci accusati in passato ci finiscono altri nomi noti: la sindaca di Roma Virginia Raggi, quello di Milano Beppe Sala e poi i governatori assolti Attilio Fontana, Michele Emiliano e Vincenzo De Luca. E così ieri sulla vicenda si sono buttati a capofitto i giornali di destra che hanno presentato la notizia come un “lodo Appendino-Raggi” del governo. Il “regalino”, scrive Libero, è servito: “I grillini preparano la norma salva-Appendino” titola il quotidiano di Vittorio Feltri. E la Raggi dov’è finita? Ci pensa La Verità: “Se serve a salvare i suoi sindaci il M5S disconosce l’abuso d’ufficio” sentenzia il quotidiano di Maurizio Belpietro. Foto della sindaca di Roma e sommario sulle contraddizioni dei “giustizialisti” M5S colpevoli di “doppio standard”:“Grillini garantisti solo dopo i guai di Raggi e Appendino”. Giudizio condiviso dal sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, sospeso dal M5S per non aver informato i vertici della sua inchiesta per abuso d’ufficio (poi prosciolto).

Peccato che, contrariamente a quanto scrivono Libero e La Verità, non ci sia nessuna norma ad sindacas in favore di Raggi e Appendino. In primo luogo perché la prima cittadina di Roma non ha alcun processo in corso per abuso d’ufficio, accusa da cui è stata archiviata dopo un esposto sullo stadio della Roma. Per Raggi è stata rinviata a ottobre l’udienza per falso sul caso della nomina di Renato Marra, fratello di Raffaele, in cui era già stata assolta in primo grado.

Per la sindaca di Torino Chiara Appendino, invece, quella della Stampa e dei giornali di destra è una mezza verità: se è vero che sulla sua testa pesa l’accusa di abuso d’ufficio nel caso Ream, i magistrati torinesi la accusano anche di falso. A febbraio il pm ha chiesto una condanna a un anno e due mesi ma il quotidiano di Torino, citando fonti della Procura, anticipa già che in caso di riforma dell’abuso d’ufficio “l’accusa diverrebbe quasi insostenibile”. Ma anche nel caso in cui il reato fosse alleggerito, resterebbe in piedi l’ipotesi di falso. Non si può certo dire che la norma del governo serva a scagionare Appendino.

Quel vecchio abuso edilizio che imbarazza la Ceccardi

C’è una vecchia questione imbarazzante che si riaffaccia sulla candidatura di Susanna Ceccardi, ora che la prediletta di Salvini è stata ingaggiata dal capo della Lega nella difficile impresa di conquistare la Regione Toscana al centrodestra. Una vicenda che racconta molto della spregiudicatezza dell’ex sindaca leghista di Cascina, della sua gestione del potere e dei rapporti con gli alleati.

Ecco la storia in breve: alla fine del febbraio 2018 arriva in Comune una denuncia anonima su presunti abusi edilizi nella villetta della Ceccardi a Zambra (frazione di Cascina, provincia di Pisa). La lettera non viene nemmeno protocollata, mentre gli architetti degli uffici comunali si occupano della pratica riferendo al capo di gabinetto della sindaca, il leghista Andrea Recaldin. L’unico a denunciare la scarsissima trasparenza con cui viene gestita l’intera situazione è l’assessore comunale all’Urbanistica Gino Logli (Forza Italia). Risultato? La Ceccardi lo rimuove dalla sua giunta.

Ma facciamo un passo indietro. La vicenda è ricostruita puntualmente nell’esposto – che il Fatto ha consultato – presentato da Logli alla Procura di Pisa (una denuncia che peraltro è rimasta senza risposta).

Il 22 febbraio 2018 la lettera del “corvo” – con la notizia di tre presunti abusi edilizi nell’abitazione del sindaco – finisce tra le mani di un architetto del servizio edilizia privata del Comune di Cascina, il quale a sua volta la consegna subito al suo diretto superiore, il responsabile della macrostruttura che accorpa i servizi tecnici comunali. Di tutto questo, curiosamente, viene lasciato all’oscuro l’assessore all’Urbanistica, malgrado sia il vertice degli uffici interessati.

Quando Logli viene finalmente informato dei fatti, il 14 marzo, l’agile macchina del piccolo Comune di Cascina si è già presa cura dell’incidente. I dipendenti comunali hanno provveduto a un sopralluogo in casa della Ceccardi, e il 12 marzo hanno presentato in fretta e furia una Cila (comunicazione inizio lavori) intestata proprio alla sindaca. Un documento incompleto, che non può essere protocollato: dietro al frontespizio non c’è nulla, manca il materiale tecnico richiesto dalla procedura.

In quei giorni, come dichiarerà più tardi la stessa Ceccardi alla stampa, la sindaca aveva provveduto ad abbattere “una tettoia abusiva nella casa ereditata dai nonni”. Un abuso “già presente” – dice la salviniana – quando lei era entrata in possesso dell’abitazione. Tutta la vicenda viene gestita in silenzio, con la massima discrezione, sotto la regia del capo di gabinetto Recaldin, oggi commissario della Lega in provincia di Pisa. Un mese dopo il recapito in Comune, però, la lettera anonima finisce sulla stampa locale.

Nel frattempo Logli si è messo a indagare per conto proprio sulla vicenda. E ha verificato, tra le altre cose, le irregolarità addebitate alla sindaca: i presunti abusi dichiarati nella lettera anonima sarebbero tre, avvenuti tra il 2014 e il 2017. Le foto aeree scattate sopra la casa della candidata governatrice ne confermano almeno due, come scrive Logli nel suo esposto. Entrambi realizzati dopo il 2009, anno in cui il sindaco entra in possesso della casa secondo le visure catastali. Se l’abuso c’è stato, insomma, la colpa non può essere dei nonni. Dalle carte emerge un’altra circostanza opaca: la situazione immobiliare della Ceccardi sarebbe diversa dalla dichiarazione patrimoniale della sindaca. Al catasto l’edificio con il fabbricato abusivo è articolato in due distinte abitazioni civili di 5 vani ciascuna, mentre la Ceccardi dichiara di essere proprietaria di un solo immobile.

La storia finisce male, ma solo per Logli. La sindaca dichiara “venuto meno il rapporto fiduciario” con l’assessore, e gli revoca le deleghe all’Urbanistica. La Ceccardi “licenzia” il forzista dopo uno scontro su un’altra questione: le case abusive di via San Donato a Badia, un quartiere di Cascina. Ma sembra davvero un pretesto.

Abbiamo contattato Susanna Ceccardi, ma i collaboratori della candidata leghista ci hanno fatto sapere che l’ex sindaca di Cascina era troppo impegnata per replicare. Sarebbe stato interessante ascoltare la sua versione. Non tanto sul piccolo abuso edilizio, ma su quello che sembra un imbarazzante abuso di potere.

Riecco i commissari Ma l’Anac stronca lo Sblocca-cantieri

Giuseppe Conte, fanno sapere dal suo staff, ha avvisato la maggioranza fin dal vertice del mattino: “Il decreto Semplificazioni non va annacquato, o è inutile approvarlo”. Alle 9.30, capi delegazione, ministri e parlamentari si riuniscono a Palazzo Chigi. Poche ore per decidere solo di “congelare” la parte su cui le distanze restano, e cioè quella sugli appalti e le norme che scudano i dirigenti pubblici. Nonostante le intenzioni del premier, la bozza studiata a Palazzo Chigi sta cambiando di continuo. Alle 16 parte un pre-consiglio, dove i tecnici dei ministeri analizzano, punto per punto, il testo (48 articoli). A tarda notte si era arrivati a molto meno della metà. Il Consiglio dei ministri salta, difficile ci sarà oggi, si punta a sabato o lunedì.

Premessa. Il testo originario sospende per un anno le gare negli appalti pubblici a favore di procedure negoziate con le aziende. Per le opere “prioritarie”, da individuare con un decreto di Palazzo Chigi, i tempi vengono abbreviati e le stazioni appaltanti possono agire in deroga alla legge, eccetto il codice penale e antimafia. È il “modello Genova” (niente gara e pochi controlli) usato per ricostruire il ponte Morandi affidando il tutto a un commissario straordinario. È paradossale, ma è su questo che si è concentrato lo scontro che ha visto Conte cedere. Il “modello Genova” piace ai 5Stelle e a Italia Viva, e Conte ieri l’ha difeso (“a Genova ha funzionato”). Solo che il suo staff ha pensato di dare poteri in deroga direttamente alle stazioni appaltanti. Grillini e renziani, veri pasdaran dello “sblocca tutto in deroga”, vogliono i commissari, perché li sceglie la politica. E così oggi si stilerà una lista di opere da commissariare. Il Pd, in teoria, è contrario ai commissari urbi et orbi ma i Dem non sono compatti. E infatti la lista verrà stilata al ministero delle Infrastrutture guidato da Paola De Micheli (Pd). Ce n’è già una con una dozzina di grandi opere.

Le divisioni, però, non riguardano solo i commissari ma anche le procedure per gli appalti sotto i 5 milioni (la cosiddetta “soglia comunitaria”), dove le gare vengono sostituite da procedure negoziate, con la chiamata di 5 imprese. Parliamo del 95% degli appalti pubblici. LeU e Pd sono contrari o almeno vorrebbero aumentare il numero delle aziende chiamate a partecipare.

Un assist ai critici del decreto è arrivato ieri dall’Autorità anticorruzione. Nella relazione annuale, il presidente Francesco Merloni ha bocciato le bozze del decreto. Merloni bolla come “ipotesi rischiose il largo utilizzo dei super-commissari o la riproposizione del modello Genova per alcuni appalti sopra soglia. Ben vengano le semplificazioni, ma non è togliendo le regole che il sistema funziona meglio. Al contrario, le deroghe indiscriminate creano confusione e favoriscono la corruzione e la paralisi amministrativa”. Secondo l’Anac il codice degli appalti del 2016 non ha bloccato i cantieri anzi, nel 2019 si è arrivati al record di 17o miliardi di valore complessivo. A crescere meno sono stati quelli sotto il milione, per i quali sono state eliminate le gare dallo “sblocca cantieri” del 2019. “La soluzione non è eliminare le regole”, dice il capogruppo Pd alla Camera, Graziano Delrio.

La trattativa andrà avanti. L’accordo manca su molti punti, dal subappalto (che le bozze liberalizzano completamente) all’eliminazione della colpa grave dalla responsabilità erariale per i dirigenti che firmano gli atti. Italia Viva ieri ha chiesto di ritirarla, insieme alla riforma dell’abuso d’ufficio. LeU, invece, parla di diversi condoni ancora presenti nel testo.

Il seggio FI spetta a Lotito e Carbone fugge da Renzi

Sostiene di non poterne più di vedere la sua Forza Italia ormai ridotta a scendiletto di Matteo Salvini. Per questo il senatore azzurro Vincenzo Carbone ha rotto gli indugi e ha infine deciso di fare il grande salto approdando tra le braccia di Matteo Renzi. Con un triplo salto carpiato destinato a fare rumore. Perché la sua scelta fa gongolare Italia Viva che adesso si vanta di rafforzare i numeri risicati della maggioranza a Palazzo Madama. Anche se resta il sospetto che il sovranismo della Lega tanto inviso a Carbone o la tenuta del governo Conte II, poco c’entrino con la decisione dell’azzurro di cambiare casacca: il senatore infatti la prossima settimana rischiava di essere sfrattato senza molti complimenti dallo scranno che occupa dal 2018. Abusivamente almeno a sentire il patron della Lazio, Claudio Lotito, che ha fatto di tutto per vedersi riconoscere il posto che – sostiene – spetti invece a lui in base a un complicatissimo ragionamento di resti e quozienti. Ma pure a sentire l’attuale sottosegretario all’Istruzione Peppe De Cristofaro di LeU, anche lui tra i candidati non eletti alle Politiche che hanno fatto ricorso di fronte alla Giunta delle elezioni di Palazzo Madama. Da cui si attende una decisione dopo oltre due anni di discussioni infruttuose.

Ora però si sono concluse anche le operazioni di riconteggio delle schede, almeno quelle che nel frattempo non sono andate distrutte. Il risultato è univoco e condanna Carbone: a voler tener fede ai calcoli e alla correzione dei verbali di quasi 500 sezioni passati ai raggi x, non sarebbe mai dovuto entrare in Senato. Dove invece avrebbe buon diritto di approdare De Cristofaro. Ma c’è un ma: perché al netto dei calcoli, delle prove di resistenza e pure dei pareri dei costituzionalisti acquisiti agli atti, la partita resta tutta politica. E la mossa di Carbone proprio a ridosso della decisione ha sparigliato le carte: Italia Viva a cui ha aderito l’altro giorno, in Giunta conta molto oltre il suo peso specifico in Senato, con i suoi tre rappresentanti detiene una sorta di golden share che potrebbe risultare decisiva per un esito a suo vantaggio. Forse così si spiega la folgorazione dell’ormai ex azzurro sulla strada di Rignano.

A conti fatti sia con la conferma del seggio di Carbone sia con il subentro di De Cristofaro, la maggioranza acquisterà un senatore in più. Ma uno non vale uno. Il passaggio di Carbone a Italia Viva, oltre che nell’imminenza della decisione sul suo seggio, è avvenuto anche all’indomani della decisione del suo amico Armando Cesaro, (erede di Giggino ’a Purpetta) di non correre alle Regionali, nonostante la valanga di voti presi nel 2015: lo ha fatto in aperta polemica con Matteo Salvini che avendo dovuto digerire la candidatura per la presidenza della regione di Stefano Caldoro di Forza Italia ha preteso almeno di mettere il veto sui Cesaros. Che non l’hanno presa affatto bene e con loro anche i fedelissimi tra cui è da sempre iscritto Carbone. Nel partito azzurro in Campania già alle prese con una campagna elettorale tutta in salita, ora si teme il peggio. Ossia che la mossa del cavallo del senatore ormai renziano prefiguri un emorragia di voti (quelli tradizionalmente mobilitati dai Cesaro) per Forza Italia, a tutto vantaggio di Enzo De Luca che è appoggiato anche da Italia Viva. E così sulla decisione che compete alla Giunta si gioca una partita che va certo oltre la questione del seggio al Senato. Lo sa pure Lotito che finora ha sperato. “La maggioranza – dice il suo portavoce Arturo Diaconale – ha tutto l’interesse a difendere il seggio del senatore Carbone. A dimostrazione che ormai, come è diventata abitudine, le ragioni di opportunità politica prevalgono su quelle giuridiche”.