Conte rompe l’assedio e sfida Zinga e il M5S: alleanza alle Regionali

Il premier che ha paura di affondare le tenta tutte. Si fa una passeggiata nel centro di Roma, nella quale giura a un bimbo di “mettercela tutta per far funzionare l’Italia” sotto gli occhi dei cronisti. Loda e riceve il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, e per fargli piacere invoca con toni accorati alleanze nelle Regioni tra dem e grillini (“non farle sarebbe una sconfitta per tutti, anche per me”), mostrandosi anche meno rigido sul Mes: “Quando avremo completato il negoziato europeo valuteremo la posizione di tutti”. Strizza perfino l’occhio a Forza Italia, “la più costruttiva delle forze di opposizioni”, nel giorno in cui su Repubblica Silvio Berlusconi propone un nuovo governo con dentro FI ma senza il M5S. Ha parole e sorrisi quasi per tutti, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ma c’è poco da sorridere, perché sul decreto Semplificazioni lo stallo nella maggioranza è tale che bisogna procedere con la formula liberi tutti, “salvo intese”. E tutt’attorno all’avvocato è un rumore di siluri e mal di pancia.

Per esempio ai 5Stelle non piace l’apertura a Forza Italia. E ai vertici del M5S va di traverso anche la dichiarazione sulle alleanze, “perché non è mica solo colpa nostra se ci sono problemi” sibila un big. Tanto che il capo politico reggente Vito Crimi risponde al premier con sillabe puntute: “Il M5S non si è mai sottratto al confronto là dove ci sono condizioni, come stiamo facendo in Liguria. Ma in Campania il nostro appello non ha avuto riscontro”. Ma è nel Pd che il malcontento continua a montare. Commentava un big ieri all’alba: “Non è possibile che da Palazzo Chigi vogliano far credere che gli stimoli del governo a far meglio siano solo frutto di problemi interni del Pd. Adesso mettiamo sul piatto tutte le decisioni sbagliate e rinviate”. Sono giorni che al Nazareno parlano di “palude” e di dossier fondamentali su cui non si prende una decisione (da Autostrade a Ilva, passando per il Mes). Ma il dialogo tra Conte e Zingaretti non si è mai interrotto. Il vero incidente però si sfiora ieri mattina. Il segretario dem non gradisce le ricostruzioni dei giornali che considera “veline” di Palazzo Chigi. E così matura l’incontro tra i due. Dura un’oretta. E ciò che Zingaretti vuole far capire al premier è semplice: “Così non si può fare. Dobbiamo ritrovare uno spirito unitario”. Discutono dl semplificazioni. “Non ci convince l’abolizione delle gare per le grandi opere fino a 5 milioni di euro, il tetto è troppo alto”, dice Zingaretti. L’unico punto affrontato nel merito. Sullo sfondo, le Regionali. Il vero motivo per cui Zingaretti aveva accettato di dar vita al governo giallorosa era l’idea di costruire con il M5S un’alleanza organica: a ora fallita, con il rischio di perdere in quattro Regioni su sei a settembre. E potrebbe essere il capolinea per la segreteria di Zingaretti, e magari anche per il governo. Di Mes i due non parlano. Conte continua a ripetere che si voterà dopo la fine del negoziato sul Recovery Fund: e Zingaretti, che pure aveva accelerato sul tema, si è convinto che il premier non abbia i voti in Senato e che non sia il momento di forzare la mano. In autunno si vedrà: la tentazione di far precipitare la situazione, prima che il Pd gli chieda conto di quel che accade in questa fase, è forte. Non a caso ieri il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio, ha ottenuto la calendarizzazione della legge elettorale per il 27 luglio. Pd e M5s lavorano a un testo proporzionale. E mettono le mani avanti per evitare il Rosatellum. Lo spiega il vicesegretario, Andrea Orlando: “Credo che si possano fare due cose alla volta, rilanciare il Paese e fare una legge elettorale lievemente migliore di quella attuale”. Ma a complicare il quadro c’è anche Matteo Renzi.

Dopo il passaggio di un senatore di Forza Italia a Italia Viva lo hanno sentito vantarsi: “Ce ne sono altri due in arrivo”. Il progetto, a questo punto, sembra più ambizioso: “Renzi e Berlusconi stanno lavorando a fondere Iv e Fi”, racconta una fonte di primo piano del centrodestra. Così, l’ex premier può condizionare la maggioranza più di oggi. Su temi centrali come legge elettorale e rinnovo delle Commissioni e delle Authority, per iniziare. Nell’attesa, il M5S e il Pd in Senato hanno presentato un nuovo testo della risoluzione sulle comunicazioni che il premier farà in Senato il 15 luglio, in vista del Consiglio europeo del 17 e 18 luglio. Il testo, che non cita né il Mes né il Recovery Fund, ha una nuova formulazione (“in riferimento alle comunicazioni”) che pare sia accettabile anche per la presidente del Senato Casellati, che aveva respinto la prima versione.

Però anche le opposizioni preparano le loro risoluzioni sul fondo salva Stati. E su quella pro Mes annunciata da +Europa potrebbe essere una tentazione per Italia Viva. Di quelle che scuotono i governi.

Fininvent

Se un vecchio malvissuto come B. è ancora a piede libero, in politica e perfino nei sondaggi, è grazie all’orchestra mediatica di tv e giornali che da 26 anni suona quotidianamente il suo spartito. Ma anche grazie a tutti gli altri media che, l’uno dopo l’altro, si sono accomodati su posizioni “terziste”, come se l’imparzialità fosse l’equilibrio fra guardie e ladri: i soliti Mattia Feltri su La Stampa e Pigi Battista sul Corriere, ma anche la new entry di Repubblica modello Sambuca Molinari che, tradendo 44 anni di storia, l’altroieri ha taciuto in prima pagina l’ultimo scandalo della Banda B. (il giudice morto che parla) e ieri ha dato l’ultima parola sul caso indovinate a chi? A B., con un’intervista senza domande che imbarazzerebbe pure Sallusti. Intanto, mentre tutti disertano, il Premiato Bufalificio di Arcore seguita a sfornare balle a reti ed edicole unificate, come nell’ultimo quarto di secolo: non per prova l’onestà del padrone (non esageriamo), ma almeno per tentare di sputtanare i suoi giudici.

1994. B. è indagato per le mazzette Fininvest alla Guardia di Finanza. Il Giornale, appena finito in mano a Vittorio Feltri, parte all’assalto di Piercamillo Davigo, pm dei processi “Fiamme Sporche”: lo accusa di essere socio occulto del generale corrotto Giuseppe Cerciello; e di ricattare il giudice Romeo Simi de Burgis su vecchie accuse del pentito Epaminonda (poi archiviate). De Burgis sta giudicando alcuni stilisti per altre tangenti alla Gdf: se salta quel processo, B. si salva nel suo. Il secondo scoop viene ripreso da Paolo Liguori a Studio Aperto e rilanciato da Sgarbi quotidiani con una sigla-cartoon che mostra due maiali con la toga insanguinata e un coltello in mano danzanti sulle note di Ci vorrebbe un amico. Per la doppia bufala, Il Giornale&C. verranno condannati per diffamazione.

1995. Il Giornale insinua che il procuratore Francesco Saverio Borrelli cavalchi su un sauro di Giancarlo Gorrini, assicuratore condannato ed ex amico di Di Pietro. Balla sesquipedale: la sigla “G.G.” sulla sella è del proprietario Giuseppe Gennari. Ma B. teme pure l’entrata in politica di Antonio Di Pietro e chiama il comune amico costruttore Antonio D’Adamo: “Si prepari, siamo nelle sue mani!”. Promette aiuti finanziari in cambio di calunnie all’ex pm (5 miliardi dal banchiere-corruttore Pierfrancesco Pacini Battaglia tramite D’Adamo), che lui stesso registra e consegna ai pm di Brescia. Il Giornale dà una mano titolando a tutta prima: “Dal Messico gravi accuse a Di Pietro. Raggio dice che Pacini Battaglia ha dato una valigetta con 5 miliardi a Lucibello perché la consegnasse a Di Pietro”.

Il gup di Brescia accerta poi che sono tutte balle e proscioglie Di Pietro, che farà causa al Giornale e a Feltri. Il quale nel 1997, non avendo uno straccio di prova, si scusa in prima pagina col Di Pietro “immacolato” per quella che lui stesso definisce “bufala”, “ciofeca”, “smarronata”. Titolo: “Il tesoro di Di Pietro non c’è”. Svolgimento: “Tonino, ti stimavo e non ho mai cambiato idea”.
1996. Il Foglio di Giuliano Ferrara pubblica un’intercettazione raccolta dal Gico, in cui Pacini Battaglia dice che Di Pietro e l’avvocato Giuseppe Lucibello “mi hanno sbancato” e che “per uscire da Mani Pulite abbiamo pagato”. Segue una lunga campagna contro Di Pietro corrotto (“scespirianabaldracca”, “troia dagli occhiferrigni”, “trafficante”, “protettore di biscazzieri”, “golpista”, “fa vomitare”). Poi si scopre che “sbancato” era “sbiancato” e soprattutto che il Gico aveva tagliuzzato altre frasi di Pacini che scagionavano l’ex pm, tipo questa: “Io a Di Pietro (i soldi, ndr) non glieli ho dati”. Anche perché da Mani Pulite il banchiere non era mai uscito: era stato regolarmente arrestato e condannato. Seguono le solite condanne per diffamazione.
1997. Vittorio Sgarbi e gli house organ berlusconiani accusano Gherardo Colombo di aver falsificato il pass d’ingresso del deputato FI Massimo Maria Berruti a Palazzo Chigi, che prova il ruolo di B. nel depistaggio delle indagini sulle mazzette alla Gdf. Invece il pass è vero e Berruti sarà condannato, come pure i diffamatori di Colombo. Intanto B. denuncia il pool Mani Pulite a Brescia per “attentato a organo costituzionale” (cioè a lui) per l’invito a comparire per corruzione della Finanza recapitatogli il 21 novembre ’94 durante un convegno internazionale a Napoli. A sostenere il golpe corrono a testimoniare due marescialli dei carabinieri, Giovanni Strazzeri e Felice Corticchia: raccontano che il famoso invito a comparire fu una manovra orchestrata dal pool con Luciano Violante per rovesciare il governo B. con un avviso di garanzia “a mezzo stampa”. In allegato a Panorama, diretto da Ferrara, esce un pamphlet del giornalista Giancarlo Lehner: Articolo 289 Cp. Attentato a organo costituzionale. Strazzeri e Corticchia vengono poi arrestati e patteggiano per calunnia. Si scopre che Corticchia era amico intimo di Emilio Fede, non aveva mai una lira ed era inseguito dai pignoramenti: finché, dopo vari incontri col direttore del Tg4 e uno con B. ad Arcore per concordare la testimonianza fasulla, era diventato ricco sfondato (nuovo appartamento a Milano, villa a Santo Domingo e 250 milioni di lire versati in banca in contanti). Lehner verrà puntualmente condannato per diffamazione.
(1 – continua)

La maleducazione siberiana di Tomassini: bellezza, durezza, disperazione e vodka

Sedevi al parco scossa dalla nausea. La nuova realtà ti spaventava, a tratti, la mattina, appena sveglia. Eri tornata in casa di tua madre, un randagio sporco e lacero. Hai tagliato i capelli. Eri una ragazza come le altre, all’occorrenza lo sembravi.

Erano i giorni che andavano, ancora una volta, ricapitolavano il medesimo piano di sequenza.

Seduta più in là, ascoltavi il requiem dell’upupa e le ciance degli ubriaconi, suono quest’ultimo oramai caro e famigliare. Il siberiano blaterava contro nemici invisibili, agitava il braccio verso il gruppetto dei nuovi arrivati, russi di Omsk, e urlava: sono cekisti! maledetti!

Troppo giovani per esserlo. Intendendo può darsi l’equivalente: bastardi o traditori o meglio infami servitori del potere. Li stavano rispedendo al paese, tutti, piano piano. Soggetti pericolosi, elementi di disturbo, la collettività in una città di provincia era ottenebramento e pavidità o ignoranza o grettezza superba della peggiore specie. C’erano rivoluzioni che superata la frontiera diventavano farneticazioni, sgonfiavano tutta la portata di grevità, diventavano discorsi con indigeni ignari e sazi, diventavano racconti mirabolanti che non garantivano il pathos altrui, la reciprocità impegnativa dell’altro.

Il loro eroismo sprecato diventava oscenità in un parco, era il tronco di un uomo che ondeggiava su un cespuglio maneggiando con la propria virilità, era l’ubriaco che urinava dal proprio palco, il proscenio del poeta incontinente che inveisce le ragioni della forzatura miserabile dei carri armati nella piazza di Vilnius, era la contraddizione belligerante in Cecenia, la sponda della Crimea, era Gorbacev, gli antidemocratici, nomi che risuonavano tondi e vuoti nel tempo nuovo, la libertà non li riconosceva, libertà si intende decorata di parecchie condizioni, la libertà per intero non la chiamavano democrazia; dare un nome ai fatti significava per molti di loro rivendicare un astio che montava montava per finire con una sbronza. L’astio ribolliva dentro rivendicazioni confuse e molteplici, si odiava per necessità, per sguainare simbolicamente la spada del proprio orgoglio che si chiamava – quello sì – nazione, salvo trasformarsi nell’estrema ortodossia.

Cekisti! Urlava il siberiano. Bottiglie di vodka rotolavano sul margine delle aiuole vizze.

Il siberiano ti vide, la tua testolina bruna come quella di un ragazzino. E ti guardò con quello sguardo che non riesci a riferire nell’esatta generosità.

Era tenerezza, credo. Ti raggiunse, incerto, ubriaco. Si sedette accanto, stando eretto sulla schiena con grande difficoltà. Sentivi quell’odore preciso, alcol, strada, vita, la più amena e eccitante.

Allora hai preso coraggio e gli hai detto: dobbiamo comprare una lampada azzurra.

Lui voltò il suo viso bello ed eroico – quadrato, gli zigomi scolpiti, il biancore guastato dal sangue fiammeggiante che ne imporporava il volto a causa dell’ubriachezza – e fissò i suoi occhi obliqui dentro i tuoi. Annuì e non disse altro. Non blaterò, non agitò ancora il braccio verso il nemico invisibile che lo sovrastava, lo divorava.

 

La dieci fatiche di Tinny: più serie, meno soldi

I maligni retrodatano la nomina al 1° maggio, quando Boris ritorna su Netflix. Della fuoriserie di Ciarrapico, Torre e Vendruscolo, si sbizzarriscono a trovare la citazione più consona: “Ricorda, in Italia vale la regola delle tre ‘G’: la Giusta telefonata, al Giusto momento, alla Giusta persona!” oppure “Occhi del cuore 3… perché a noi la qualità c’ha rotto er cazzo! Perché un’altra televisione diversa è impossibile!”.

Eppure, Eleonora Andreatta, detta Tinny, ci ha provato: un colpo alla rassicurazione, da Don Matteo a Che Dio ci aiuti, e uno all’internazionalizzazione, da L’amica geniale a Il nome della rosa. In mezzo, le sfide autarchiche, da Rocco Schiavone a La linea verticale. Cinquantacinque anni, venticinque in Rai, dal 2012 al vertice di Rai Fiction, dove ha fatto il bello e il cattivo tempo, pardon, prime-time: Il Commissario Montalbano, I Bastardi di Pizzofalcone, Imma Tataranni, Il commissario Maltese. A Panorama non è bastato per concederle l’onore delle armi o, almeno, del nome: “La figlia di Andreatta lascia la Rai per Netflix”. Sui social l’aria che tira non è più fresca: il 22 giugno l’investitura a vicepresidente delle serie originali italiane per la piattaforma streaming resuscita lo scudo crociato, con il logo Netflix al posto di Libertas. Cherchez papà, Beniamino: economista, politico, più volte ministro, artefice dell’Ulivo, morto il 26 marzo del 2007. Il destino, invero, non è nel cognome: quando succede a Fabrizio Del Noce alla guida della serialità è ancora Eleonora, quando se ne va è diventata Tinny anche per il Servizio pubblico. Al nomignolo si ascrivono origini esotiche ma familiari: l’eroina, principessa esile e assertiva, di una pièce del premio Nobel Rabindranath Tagore, che i futuri papà Nino e mamma Giana vedono nel 1961 in India. Nessuna certezza, fuorché: piccole donne crescono. A Mazzini poteva disporre di duecento milioni di euro l’anno, con Netflix li avrà in un triennio, di cui un terzo già archiviato: entro il 2022 le serie italiane dovranno levitare a dieci in dodici mesi, e toccherà a lei. Archiviata la fase start-up senza lode e con qualche infamia, il servizio streaming deve decidere che fare da grande: basta succhiare la ruota a libri e film (Suburra, Summertime), basta esperimenti più o meno azzardati (Luna nera, Curon), a Tinny, che riporterà al capo degli scripted di Europa, Medio Oriente e Africa Kelly Luegenbiehl, si chiedono ordine e metodo. I detrattori derubricano l’incarico a convenienza politica, logiche consortili e avalli ministeriali (Dario Franceschini), gli estimatori, come lo sceneggiatore e presidente di 100autori Stefano Sardo, rivendicano a Netflix “una scelta non conservativa, radicale e molto stimolante”. Se il patto di non concorrenza gli avrebbe sbarrato la strada intrapresa da Tinny, l’ad Fabrizio Salini ha preso ad interim la direzione di Rai Fiction, ma verosimilmente dopo il giro alla società di Reed Hastings Tinny ricambierà il favore: avrà di tutto, di più, come mamma Rai pretende e come Renzi le ventilò nel 2015.

Nel frattempo, si potrà godere una vita da senza tetto, quello dei 240mila euro lordi all’anno per i dirigenti all’ombra del cavallo di Messina. Inserita da Hollywood Reporter nel 2018 tra le 25 donne più influenti dello showbiz globale, vanta esordi cinefili. Appena laureata, all’Academy di Vania e Manfredi Traxler, nei primi anni Novanta, impara il mestiere, ovvero – ricorda Vania – “a essere pronta a tutto: fare un inchino perfetto come lavare i piatti”. Da luglio al Villino Rattazzi di via Boncompagni l’ennesima sfida, e che non sia déjà-vu o già scritta, come insinua il ghostwriter @Il_Negro_ su Twitter: “Pe’ lo Sceneggiatorone sarà n’estate difficilissima. Je toccherà cambia’ i titoli a tutti i concept rimbalzati da Tinny in ’sti dieci anni pe prova’ a vendeli su #Netflix”.

80 anni da rock Starr. Il batterista dei Beatles

“È lui l’assaggiatore reale!”, dice Lennon indicando Ringo. Dylan sorride perfidamente. 28 agosto 1964, notte alta nella suite dei Beatles al Delmonico Hotel. I quattro inglesi hanno suonato poco prima al Forest Hills Stadium e ora ricevono la visita del menestrello del folk, con Manhattan ai loro piedi. Bob ha appena proposto ai colleghi di sballarsi. “Marijuana? Ma non abbiamo mai fumato!”, replicano imbarazzati quelli. Dylan sgrana gli occhi: “E quel verso di I want to hold your hand? ‘I get high, I get high’…”. “Hai capito male: cantavamo ‘I can’t hide!’”.

Chiarito l’equivoco, Dylan rolla con perizia una canna e la offre a John, che finge di tirare una boccata e la passa a Ringo. Lui aspira una, due volte, poi corre in bagno e se la finisce, come una qualsiasi sigaretta. Quando torna ride come un pazzo. La notte dei cinque sarà immersa in una nuvola. Non fosse stato per la temerarietà del giovane Starr, la storia della musica e del costume occidentale di quei decenni avrebbe preso un’altra piega. Da quel giorno milioni di ragazzi, ispirati dai dischi dapprima erbosi e poi lisergici dei Beatles sperimentarono di tutto.

Ringo è il topo sacrificabile, quello che la comunità dei sorci manda in avanscoperta fuori dalla tana. Come quell’altra volta: John e George scrivono una lettera a Paul per invitarlo a recedere dalla totale rottura con la band; Starr decide di consegnarla personalmente (“non poteva finire in mano a un postino”) a casa McCartney. Il bassista perse le staffe: “Via di qui! La pagherete cara! Vedrete, voi tre!”. In un mondo di John e di Paul, per citare i Pinguini Tattici Nucleari, non dev’essere facile essere un Ringo Starr. Sì, ma neanche troppo. Perché il Nostro, che celebrerà gli ottant’anni il 7 luglio con un party virtuale (ospiti, tra gli altri, Jackson Browne ed Elvis Costello nel segno di “peace and love”), non è il sopravvalutato gregario che i luoghi comuni del rock tramandano. È il batterista con il patrimonio più cospicuo (350 milioni di dollari) e per essere un mancino in teoria in difficoltà con le rullate ha sviluppato uno stile senza il quale i “colori” dei Beatles non sarebbero mai stati messi in luce: con un fracassone megalomane nel suo ruolo, avremmo perso i dettagli di quegli album irripetibili. Un po’ come Watts nei Rolling Stones: sobrietà e sottrazione per far girare a mille la macchina di Jagger & Richards. E dire che il produttore George Martin non credeva a fondo nelle sue qualità, tanto da assoldare un sessionman, Andy White, per il primo 45 giri dei Beatles, Love me do: Ringo, ingaggiato al posto di Pete Best (lui sì sfigato), fu relegato al tamburello. Ma presto tutti dovettero ricredersi, compresi gli ultrà di Best, che al debutto di Starr al Cavern inscenarono una sommossa. Harrison ci rimediò un occhio nero.

Ringo ha sempre avuto la pelle più dura dei suoi tamburi: sin da quando, da bambino, rischiò di andarsene all’altro mondo dapprima per una peritonite e poi per una tubercolosi. Un anno in sanatorio: ma fu su quel letto che i dottori gli consegnarono delle bacchette artigianali per esercitare muscoli e nervi. Il ragazzino insofferente alla protezione ossessiva di mamma Elsie diventò subito il miglior fabbricante di ritmo di Liverpool, tirandolo fuori anche dalla tavola per il bucato con cui si creava la musica skiffle. Attratto dai motori del suono più di quello della locomotiva dove lavorava come aiuto macchinista o di quello del traghetto verso il Galles, a bordo del quale serviva come cameriere. Uscì da un matrimonio burrascoso, quello con la povera Maureen, in cui ammise, a cose fatte, di essersi comportato da ubriacone violento. Con l’amore di una vita, l’attrice Barbara Bach, è sopravvissuto a spaventosi incidenti d’auto, all’incendio del villone di Hollywood, a due anni di rehab per l’alcolismo. Nel ’79 quasi morì sotto i ferri: gli asportarono gran parte dell’intestino, pochi giorni dopo suonò al matrimonio di Eric Clapton con Paul e George. L’inossidabile Ringo, un anziano sobrio e vegetariano, un’esistenza da favola senza il peso creativo dei Beatles sulle spalle. L’anno scorso il produttore Jack Douglas gli ricordò l’esistenza di una cassetta registrata da Lennon poco prima che lo uccidessero. “Non l’ho mai ascoltata, Jack”. Lo fece. Dentro c’era un pezzo che John aveva composto per il suo ultimo disco, Double Fantasy”. Si intitolava Grow old with me. Nel nastro lo spettro di John gli lasciava un messaggio: “Questo sarebbe magnifico per te, Ringo”. Il batterista chiamò McCartney per inciderlo nell’album solista What’s my name”. Un altro regalo della vita per l’assaggiatore reale.

“Macron è disorientato, i Verdi la svolta francese”

“La vittoria dei Verdi è politica, ma anche culturale. È politica perché dalle elezioni di domenica è emersa una tendenza chiara: non si tratta di un’ecologia centrista alla Cohn-Bendit, ma di un’ecologia di sinistra, centrata anche sull’idea di giustizia sociale. Ed è culturale perché i francesi hanno davvero fatto propria la sfida ecologica. Ma oggi si trovano in un’impasse. Macron non incarna più l’alternativa. Inoltre dà l’impressione di agire alla giornata. Dopo la crisi sociale, ha annunciato l’atto 2 del mandato, la svolta ecologica. I francesi non sanno più dove vada. La loro aspirazione al rinnovamento potrebbe essere incarnata dagli ecologisti”. Bruno Cautrès è ricercatore al Cevipof, Centro di ricerche politiche di Sciences Po. Per Il Fatto analizza i risultati delle municipali in Francia e la débâcle del partito di Emmanuel Macron, La République en marche (LaRem).

Una débâcle attesa?

Era prevista dalla sera del primo turno, ma nessuno si aspettava tali dimensioni. Un anno fa LaRem contava di conquistare agilmente le grandi città. Queste elezioni mostrano invece delle gravi difficoltà: come il presidente, anche LaRem è sempre più impopolare e non ha saputo incarnare la dimensione locale.

Il contesto sociale, dalla crisi dei Gilet gialli alle proteste per la riforma delle pensioni, può spiegare questo risultato?

La delusione dei francesi per Macron ha contribuito, ma non spiega tutto. Da queste elezioni ci sono diversi insegnamenti da trarre. Da una parte, è emerso che qualcosa si prepara a sinistra intorno all’alleanza tra Ps e verdi. Macron ha perso domenica una buona fetta dei voti di centrosinistra del 2017. A destra, inoltre, molti sindaci Les Républicains che si erano alleati con LaRem sono stati battuti. Ne emerge un reale problema di strategia politica.

Stiamo assistendo al fallimento del “macronismo”?

È troppo presto per dirlo. Sarebbe un errore dare a elezioni locali un’interpretazione nazionale. Macron dispone della maggioranza in Assemblea. Ma è evidente che per lui le difficoltà si sommano. Nell’esecutivo si creano tensioni, fratture. Il suo sentimento di invincibilità si è incrinato con i Gilet.

La svolta ecologista annunciata da Macron lunedì, subito dopo le Municipali, le sembra credibile?

Il problema non è tanto se Macron è sincero o no. Non mi pare che, agli occhi dei francesi, LaRem sia associata all’ecologia. In Francia l’ecologia è incarnata dal partito Europe-Ecologie Les Verts e da Nicolas Hulot, l’ex ministro che ha sbattuto la porta. Inoltre ha una forte connotazione a sinistra anche sul piano economico, con una dimensione anticapitalista. E nessuno, ne sono certo, pensa che Macron possa cambiare l’economia in senso anticapitalista! In questo contesto, sarà dura per lui dimostrare che la sua convinzione ecologista è sincera.

La vittoria dei Verdi potrà rimescolare le carte alle Presidenziali del 2022?

Nella situazione attuale, con le incertezze legate alla crisi socio-economica, dato il sentimento di impasse di cui ho parlato, e la sensazione di essere governati da politici poco empatici, nel 2022 tutto è possibile. Non conosciamo ancora l’offerta politica del 2022. Ma a questo stadio, nessuno, né Emmanuel Macron né Marine Le Pen possono essere sicuri di ritrovarsi al ballottaggio.

Regeni, l’Egitto bluffa e adesso provoca pure

Nessun passo in avanti, nessuna azione concreta da parte degli investigatori egiziani. E oltre al danno, ancheuna beffa che ha tanto il sapore di una provocazione. Perché stavolta è la delegazione di magistrati egiziani ad avanzare richieste di informazioni su Giulio Regeni. Dopo il dodicesimo vertice tra Procure, l’indagine dei pm capitolini sul sequestro e l’omicidio del ricercatore resta in una fase di stallo. E questo perché neanche ieri è stata fornita alcuna collaborazione concreta. A oltre quattro anni dalla morte di Regeni, ci si è trovati ancora di fronte al “valutiamo”, ai “vediamo”. Proprio come avvenuto nel confronto che c’era stato nel gennaio scorso. L’incontro di ieri, durato poco più di un’ora, e in videoconferenza, serviva per ottenere risposte ai quesiti contenuti in una rogatoria inviata in Egitto più di un anno fa, il 28 aprile 2019.

Il pm romano Sergio Colaiocco, titolare del fascicolo, è riuscito a ricostruire alcuni dei pezzi del puzzle della morte di Regeni, iscrivendo nel registro degli indagati cinque 007 egiziani per sequestro di persona. Ma ci sono altri aspetti da chiarire, e solo gli investigatori del Cairo possono farlo.

Per esempio si cercano conferme sulla presenza a Nairobi, nell’agosto del 2017, del maggiore Sharif (uno degli indagati), che secondo un testimone avrebbe raccontato delle “modalità del sequestro di Giulio” nel corso di un pranzo. C’è poi da fare l’elezione di domicilio da parte degli indagati, passaggio fondamentale per poter notificare gli atti. Non solo. I pm romani chiedono anche di “mettere a fuoco il ruolo di altri soggetti della National Security che risultano in stretti rapporti con i cinque indagati”. Non sono arrivate risposte, ma domande sì: gli inquirenti egiziani hanno chiesto ai colleghi di Roma informazioni sulle attività del ricercatore in Egitto. Un’istanza “offensiva e provocatoria”, hanno commentato Paola e Claudio Regeni.

In una nota, la Procura di Roma ha poi sottolineato che il procuratore egiziano “ha ribadito la ferma volontà del suo Paese e del suo ufficio di arrivare a individuare i responsabili dei fatti”. Ancora tante parole. E a poco sono servite le rassicurazioni del presidente Abdel Fattah Al Sisi a Giuseppe Conte. In commissione d’inchiesta, nei giorni scorsi, il premier aveva spiegato di aver chiesto, in un colloquio telefonico del 7 giugno con Al Sisi, una “manifestazione tangibile di volontà” sul caso. Pochi giorni e sono arrivati in Italia oggetti che non appartenevano affatto a Regeni, anche perché alcune cose personali del ricercatore, come il passaporto e le tessere universitarie, sono state consegnate alla famiglia anni fa. Stavolta invece sono arrivati gli oggetti esibiti dal governo durante una delle tante devianti piste investigative, ossia quando durante un conflitto a fuoco con la Polizia del Cairo furono uccisi i membri di una banda. Così si sperava di chiudere il caso.

In commissione il premier Conte – in riferimento all’affare della vendita delle due fregate Fremm – ha anche difeso la scelta di “intensificare” le relazioni con l’Egitto, non interromperle, come strumento per ottenere risultati. Non sono arrivati in questi quattro anni e ieri non è andata diversamente ora. “Chi sosteneva che la migliore strategia nei confronti degli egiziani per ottenere verità fosse quella della condiscendenza, chi pensava che fare affari, vendere armi e navi di guerra (…) fosse funzionale ad ottenere collaborazione giudiziaria, oggi sa di aver fallito”, hanno commentato i genitori di Regeni. Per la famiglia del ricercatore adesso c’è una sola strada da percorrere: “Richiamare l’ambasciatore”.

La magistratura non può fare altro: ora i pm dovranno decidere se chiedere o meno il processo contro i cinque 007 egiziani, con ciò che hanno in mano. La palla quindi passa alla politica. “Forte delusione per l’esito dell’incontro tra le due Procure. Esigiamo un cambio di passo. La Farnesina, dopo l’incontro di oggi, trarrà le sue valutazioni”, si apprende da fonti del Ministero degli Affari Esteri. E chissà se la richiesta dei genitori di Regeni verrà esaudita.

Giovani e donne. La piazza spinge contro la Cina

Centinaia di arresti, cannoni ad acqua, lancio di gas lacrimogeni: scene di violenza ieri a Causeway Bay, Hong Kong, dove la polizia ha sgomberato con la forza alcune centinaia di manifestanti accusati di sfidare il divieto di assembramento imposto dal governo locale. La popolazione dell’isola è abituata a questo livello di scontro, dopo anni di tensioni e proteste dei movimenti pro-democrazia contro la repressione imposta dalla madrepatria cinese. Ma questa repressione ha un impatto diverso, perché è supportata da un radicale cambiamento dello scenario legale. Martedì era la vigilia dell’anniversario del passaggio di sovranità di Hong Kong dal Regno Unito alla Repubblica popolare cinese, il 1° luglio 1997. Un passaggio governato da una dichiarazione congiunta, firmata dai due Paesi, che garantisce lo special status di autonomia di cui l’isola, forte delle sue tradizioni di centro liberale e internazionale, gode, unica fra le città cinesi. Il National People’s Congress cinese ha scelto proprio quel giorno per approvare una nuova, durissima legge di sicurezza.

La legge fondativa di Hong Kong bandisce l’applicazione di norme non approvate sull’isola, ma in questo caso Pechino ne ha forzato una clausola, quella che consente l’eccezione per questioni di sicurezza nazionale. Le nuove disposizioni, già in vigore, stravolgono ogni garanzia democratica. Non c’è solo il divieto di commettere “secessione, sovversione, terrorismo e collusione con forze straniere”, punibile con la detenzione dai tre anni all’ergastolo e che, nella sua genericità di applicazione, consente ogni forma di abuso di quei diritti civili alla base dell’identità dell’isola. La nuova legge, in 66 articoli, consente alla Cina di creare a Hong Kong una nuova agenzia per la sicurezza che risponde a Pechino, non soggetta quindi al governo locale; vieta a chiunque sia stato condannato per averla violata di presentarsi alle elezioni: le subordina la libertà di parola, stampa, riunione e manifestazione; minaccia multe o la sospensione a società private accusate di violarla; equipara i danni ai mezzi di trasporto, per esempio durante una protesta, ad atti di terrorismo: si applica a tutta la cittadinanza, compresi i residenti “non permanenti”, cioè anche quello di nazionalità diversa da quella cinese; autorizza misura di sorveglianza e intercettazione: consente il rafforzamento dei controlli sulle attività delle Ong; scavalca l’autonomia dei tribunali locali e autorizza processi nella madrepatria, dove la magistratura è controllata dal Partito comunista. Un complesso di norme che fanno strame dell’autonomia della città, ne imbavagliano dissenso e critica, ne stravolgono la cultura e l’economia. E la consegnano al controllo cinese ben prima della data del 2047, scadenza ufficiale del suo status speciale. Di fronte a questa accelerazione si è dissolta Demosisto, l’associazione studentesca pro-democrazia che aveva fra i suoi rappresentati più in vista i giovani Joshua Wong, Nathan Law, Jeffrey Ngo e Agnes Chow.

Continuano, stavolta da indipendenti, a lasciare appelli perché aumenti la pressione internazionale su Pechino. È una scelta non rinunciataria, ma all’insegna dell’attivismo pragmatico che guida questi ragazzi. La protesta di Hong Kong è quasi tutta gestita da giovanissimi, studenti delle superiori o delle università, per metà donne, quest’ultime un terzo degli arrestati. Wong ne è un veterano: si è fatto le ossa a 17 anni, nel 2014, con la “rivolta degli ombrelli” che chiedeva il suffragio universale. A 23 ha alle spalle 8 arresti e 3 periodi di detenzione. Come lui, la protesta ha cambiato pelle: dopo lo scontro frontale, perdente, del 2014, dal 2019 è diventata liquida. I ragazzi parlano via canali criptati, come Telegram, con cui si comunicano le coordinate di piccole azioni in vari punti della città. Sono nati dopo il 1997, considerano la Cina non madrepatria ma una cappa sul loro futuro, il 2047 il coperchio sui loro sogni. Devono vincere ora, se vogliono essere quarantenni liberi. Possono contare sull’appoggio della maggioranza degli adulti, una classe media furibonda con un governo che, cedendo terreno democratico, ha minato anche la prosperità economica della città. Sono loro a finanziare associazioni come Spark Alliance o 612 Fund che pagano la difesa legale dei giovani arrestati. E sostengono l’“economia gialla” di negozi e attività dei simpatizzanti pro-democrazia. Resistono e hanno il sostegno internazionale. Greta ha twittato di essere con loro. Intanto, Boris Johnson ha reiterato l’impegno ad aprire le porte ai 2,9 milioni di residenti di Hong Kong con passaporto britannico.

Guerra di spiagge: “In Calabria non c’è il Covid di Jesolo”

La musica è apocalittica, il montaggio serrato. Scorrono foto delle spiagge di Jesolo, Rimini, Rapallo. Sottotesto: “Un tempo queste erano mete meravigliose del turismo mondiale. Ma oggi, con il dilagare dell’epidemia nel Nord Italia, non sarà più possibile praticare una cultura di massa del turismo, con un sistematico sfruttamento del suolo e un impatto ambientale devastante”. Niente paura, però: “In Italia esiste un luogo dove c’è la cultura del rispetto del suolo. E del distanziamento sociale. Ed è la Calabria”. Seguono panorami mozzafiato: le spiagge della Locride, Africo, l’Aspromonte.

Ecco l’inizio dello “spot di promozione turistica della Riviera dei Gelsomini” firmato dal massmediologo Klaus Davi insieme all’emittente locale RTV, che ieri si è guadagnato un bel po’ di accuse di razzismo al contrario. Comprensibili, perché la réclame prosegue così: “A differenza di altre zone d’Italia dove i tassi di inquinamento sono alle stelle, e una politica dell’ambiente suicida ha fatto sì che per decenni le polveri sottili uccidessero migliaia di persone – si legge accanto a immagini di ciminiere, smog e traffico – in Calabria rispetto e salvaguardia della natura hanno tutelato il territorio e la salute”.

DI frontea una pubblicità comparativa così sfacciata, in Veneto non ci hanno visto più. “Se le spiagge calabresi sono belle ma vuote ci sarà un motivo…”, attacca il doge Luca Zaia, tirando fuori il suo leghismo d’antan. Con un riferimento, non troppo velato, alla ’ndrangheta: “Evidentemente si sono dimenticati delle tante brutte cose che la Calabria sa esprimere a livello nazionale e internazionale. Io non mi sarei permesso”. Gli fa eco il sindaco leghista di Treviso e presidente di Anci Veneto, Mario Conte: “Quello calabrese è un popolo meraviglioso che non si merita di essere così mal rappresentato – dice al Fatto – Su Facebook ho ricevuto centinaia di commenti di scuse da cittadini calabresi”. Poi l’affondo: “È un’operazione di sciacallaggio politico su una tragedia che dovrebbe unire tutto il Paese e non dividerlo”. Infierisce Gian Marco Centinaio, responsabile Turismo della Lega: “Giorni fa non abbiamo esitato a difendere la Calabria e i suoi abitanti, offesi dalla pubblicità EasyJet che li accomunava alla mafia. Confidiamo che lo spot venga ritirato presto”.

Il video, diffuso sui social e destinato alle tv locali, è stato attribuito all’Associazione dei Comuni della Locride. In realtà – spiega Giuseppe Campisi, sindaco di Ardore e presidente del Comitato direttivo – l’iniziativa è di Klaus Davi, che è consigliere comunale di San Luca e proprio oggi ha annunciato la candidatura a sindaco di Reggio Calabria. “Davi ha ideato lo spot e ci ha chiesto di proiettarlo nella nostra sede a Siderno il 26 giugno”, dice Campisi. “Abbiamo accettato volentieri. C’erano molti sindaci, consiglieri regionali e metropolitani, l’assessore regionale ai Lavori pubblici. Erano tutti contenti, non ricordo che nessuno si sia alzato a dire qualcosa”. Anche perché, per il sindaco, lo spot non ha nulla di offensivo: “Ma l’avete visto? Dove sta l’offesa? Sono tutti dati di fatto. Può piacere o no, ma non accetto quest’aggressività da chi ci mette alla gogna e butta addosso fango da sempre. Mi sembra tutto esagerato”. La stessa frecciata arriva dalla governatrice Jole Santelli: “Personalmente non avrei mai realizzato quello spot ma, sinceramente, dico che un Nord piagnone che si lamenta di razzismo da parte del Sud fa sorridere”, dice. “Per anni e anni siamo stati vittime di pregiudizi e di narrazioni negative quanto false”.

impenitente, invece, Klaus Davi, che difende con forza la sua creatura: “Tanto rumore per nulla. Lo spot è stato applaudito dai sindaci in sede istituzionale quattro giorni fa. Non figurano da nessuna parte le parole “malattia” e “Covid” (“epidemia” sì, però, ndr). In alcune regioni siamo in campagna elettorale e devono lucrare consenso sulla pelle dei calabresi. Cose normali, fa parte del gioco”.

Sono in molti, però – data la concomitanza con l’annuncio della candidatura a Reggio – a sospettare che a voler sfruttare la vicenda a fini elettorali sia proprio il massmediologo. Che l’anno scorso si candidò a sindaco di San Luca, Comune sciolto per ’ndrangheta, non raggiungendo neppure il 10 per cento. “La malafede di Klaus Davi è evidente nella spasmodica ricerca di una visibilità rincorsa per fini strettamente personali. Non siamo disponibili a far diventare strumento di nessuno il nostro impegno e i nostri investimenti”, scrivono gli albergatori della Riviera dei Gelsomini.

La guerra per attirare turisti continua durante la giornata e dal Veneto arriva la risposta. Il Presidente del Consorzio Terme Colli, Umberto Carraro, rilancia un video in cui si vedono le bellezze dei Colli Euganei tra calici di vino e bagni termali: “La nostra natura, il nostro distanziamento, il nostro concetto di salute”, si replica nello spot. Poi la conclusione inclusiva: “Il nostro Paese. Godiamocelo!”. Ma la contesa per il turismo non è solo tra nord e sud: a inizio giugno l’Azienda turistica della Valsugana aveva trasmesso uno spot in cui invitava i milanesi a tenersi “la moda, gli aperitivi e il metrò” rispetto alle bellezze trentine. Dopo le polemiche e le scuse pubbliche è stato ritirato.

Torna Sekret, la nostra serie sulla Trattativa Stato-mafia

Nuove carte e nuove interviste nella nona puntata di Sekret-Graviano’s (condotto da Marco Lillo e scritto con Matteo Billi, disponibile su www.iloft.it e su appLoft) aprono scenari inediti. Sekret si era occupato nelle prime 8 puntate di Giuseppe Graviano e delle sue affermazioni su Berlusconi definito “traditore” dal boss, che ha recentemente precisato in pubblico la sua versione (tutta da verificare) al processo ’Ndrangheta Stragista. La nona puntata (già disponibile sulla piattaforma Loft) e la decima (dalla prossima settimana) chiuderanno la prima parte della serie, centrata sui misteri della latitanza e dell’arresto dei boss Giuseppe e Filippo Graviano nel 1994 a Milano. Qui Sekretindaga sul mistero delle intercettazioni del commercialista palermitano Pietro Di Miceli. Nel dicembre ’94 intercettando il telefonino di un favoreggiatore dei Graviano, Cesare Lupo, i carabinieri stranamente ascoltano le conversazioni di Di Miceli. Sekretapprofondisce la figura enigmatica del commercialista, deceduto pochi anni fa. Di Miceli era stimato dai simboli dell’antimafia come Rocco Chinnici, la vedova di Libero Grassi, e la famiglia di Giovanni Falcone. I pentiti di mafia però lo accusano di rapporti con boss come Giacomo Vitale, Raffaele Ganci e Giovanni Brusca. Indagato due volte, Di Miceli fu prosciolto a Palermo e assolto a Caltanissetta, su richiesta dei pm. Citato anche nell’anonimo ‘Corvo bis’ nel ’92, è sempre uscito indenne dalle illazioni. Sekretsi interroga sulla stranezza delle telefonate fatte a Di Miceli da giornalisti di fama e persino dalla segretaria di un ministro del governo Berlusconi nel 1994. Quelle persone chiamano Di Miceli non sul suo telefonino ma, a leggere gli atti, su quello di Lupo. Può essere l’effetto della clonazione del cellulare all’insaputa di Di Miceli? O il telefonino gli era stato prestato? E perché? Sekret pone le domande ma, a distanza di 25 anni, dovrebbero essere le Procure di Palermo e Caltanissetta a indagare per trovare le risposte.