El País (Spagna): “Il premier inciampa, ci riproverà tra 2 anni”

Per il País Draghi è “inciampato” sulla politica italiana. “Il presidente del Consiglio italiano – si legge in cima all’articolo del più prestigioso quotidiano iberico – ha incontrato la prima battuta d’arresto della sua carriera non ottenendo la Presidenza della Repubblica”, anche se “la rielezione di Mattarella, nonostante tutto, tiene viva la sua candidatura”.

L’articolo del corrispondente Daniel Verdù inizia con un retroscena sull’incontro tra Salvini e Draghi di venerdì scorso, al ministero dello Sviluppo economico: “Il presidente del Consiglio aspettava novità sulla propria candidatura, invece ha ascoltato, sorpreso, il leader della Lega mentre gli comunicava che avrebbe appoggiato Elisabetta Belloni”. Dopo l’incontro, “l’ex capo della Bce è tornato nel suo ufficio, ha chiamato Enrico Letta e gli ha comunicato il suo stupore”. Il resto è storia. A quel punto, secondo El País , la rielezione di Mattarella è diventata “il male minore” per Draghi, che così “mantiene viva la sua candidatura al Colle entro un paio d’anni, dopo che si saranno svolte le prossime elezioni politiche… Se ancora non si sarà stancato delle opacità della politica e continuerà a considerarsi un nonno al servizio delle istituzioni, potrà tentare di nuovo lacorsa alla presidenza della Repubblica”.

Il quotidiano spagnolo non nasconde le simpatie per l’ex presidente della Banca centrale europea, che definisce “l’uomo con il maggiore prestigio internazionale delle istituzioni italiane”, capace di fare in un anno “ciò che era parso impossibile negli ultimi dieci anni”, cioè tenere unito un governo con tutti i partiti (tranne Fratelli d’Italia). Ma aggiunge che probabilmente “la partita” per il Quirinale di Draghi “non è stata giocata bene dal punto di vista mediatico e politico”. Verdù raccoglie il parere del politologo Giovanni Orsina: “Draghi non si è mai candidato formalmente, ma il suo obiettivo era chiaro. E il fatto che non sia riuscito a conseguirlo ora costituisce un elemento di debolezza per la sua immagine. Se non fosse mai stato in corsa per questo obiettivo sarebbe stato diverso. Però era in corsa e il messaggio finale è stato che il Parlamento non l’ha voluto”.

Bloomberg (Usa): “Mario ‘castigato’. E ora teme la Lega”

“Chastened”. Per la newyorchese Bloomberg Mario Draghi è stato “castigato”. Ha perso la partita dell’elezione al Colle e il suo fallimento “ha offuscato l’aura che lo ha aveva aiutato a mantenere in riga una coalizione litigiosa”. Il giudizio sull’operazione Quirinale è lapidario, ma non è necessario che si traduca in una perdita di stabilità, perché la debolezza mostrata dai partiti, secondo l’agenzia statunitense, compensa la brutta figura del premier: “La sconfitta subìta dai principali partiti politici del Paese – si legge – significa che il primo ministro potrebbe ancora avere il potere per portare avanti la sua agenda nell’ultimo anno del suo mandato”. Il sito della media company statunitense racconta ai suoi lettori la complessa rielezione di Sergio Mattarella: “Lo stesso Draghi ha chiamato il presidente 80enne e lo ha convinto a rimandare i suoi tanto pubblicizzati piani per il pensionamento”.

Una soluzione di ripiego, che da una parte sembra garantire piena continuità nell’azione di governo, ma dall’altra mette in risalto il fallimento del piano originale dell’ex capo della Bce: “È stato un risultato sorprendente per molti poiché Draghi era considerato uno dei migliori contendenti. Sebbene l’epilogo finale abbia mostrato che può ancora trovare l’autorità per far allineare i partiti di maggioranza, la saga ha messo in luce l’inesperienza dell’ex banchiere centrale europeo di 74 anni nell’affrontare le correnti politiche trasversali a Roma. L’entità del danno che ha subito diventerà chiara nelle prossime settimane mentre cerca di portare a termine i suoi piani per il riavvio dell’economia”. Nonostante l’elezione di Mattarella sia stata battezzata dai mercati finanziari come una buona notizia e un segnale di stabilità, sottolinea Bloomberg, resta l’incognita dei rapporti interni alla coalizione, specie per quanto riguarda la Lega: “Salvini, ad esempio, ha lanciato senza successo quasi una dozzina di nomi durante l’elezione solo per vederli cadere uno dopo l’altro”. La frustrazione della Lega la rende “un partner imprevedibile”.

Inflazione più alta del previsto, Bce non esclude di far salire i tassi

L’avvocata Christine Lagarde già all’inizio della pandemia ( “Non siamo qui per chiudere gli spread”), aveva dimostrato di essere un banchiere centrale quantomeno improvvisato. La confusa conferenza stampa di ieri, seguita al board della Bce, ha confermato l’impressione: il mercato ha reagito con un aumento, seppur contenuto, dei rendimenti dei titoli di Stato e dello spread (quello italiano rispetto al Bund tedesco a 10 anni ha toccato quota 150).

I fatti. La Bce ha, giustamente, deciso di non fare ancora nulla, ma i commenti della sua presidente hanno dato l’impressione che un cambio di politica monetaria – già attuato dalla Fed americana e ieri dalla Banca centrale britannica – sia alle viste già quest’anno (eventualità giudicata “altamente improbabile” poche settimane fa). Si parte, ovviamente, dall’inflazione (al 5,1%, record nell’area euro): “Ha sorpreso al rialzo”, dice Lagarde. come “sono orientati al rialzo” i rischi sullo scenario futuro. Ancorché i prezzi siano previsti scendere nel corso dell’anno, nel Consiglio direttivo della Bce “la preoccupazione è unanime” per il rischio di frenata di consumi, investimenti, crescita. Infine l’autogol: “Valuteremo molto attentamente”, è la risponde a chi chiede se la Bce aumenterà i tassi di interesse (cioè cambierà di segno alla sua politica monetaria accomodante) già nel 2022. Sono queste tre, in particolare, che hanno fatto salire gli spread: molti analisti a questo punto ritengono che l’inversione di rotta arriverà già a giugno.

Curiose parole seguite al tradizionale comunicato ufficiale, che era invece praticamente identico a quello di dicembre. “Rispondiamo a una situazione, ma la situazione è cambiata”, nelle parole di Lagarde. Adesso i governatori dei Paesi “falchi” spingeranno per modificare formalmente le politiche Bce fin dal board di marzo (l’obiettivo ora è il Quantitative easing), mentre la stessa banca ha provato a correre ai ripari facendo filtrare che “non va dato per scontato un rialzo immediato”, ricordando che la stessa Lagarde ha detto che, se aumentano gli spread, “dovremo rispondere e abbiamo tutti gli strumenti e la flessibilità per farlo”. Come che sia, brutte notizie per l’Italia.

Mps, Franco si nasconde dietro l’Ue

Un plotone di esecuzione sui giornali ha preso di mira l’amministratore delegato del Monte dei Paschi, Guido Bastianini. Il tema è la sfiducia del ministero delle Finanze guidato da Daniele Franco, primo azionista della banca senese con il 64,23%, che sarà formalizzata nel cda di lunedì prossimo, 7 febbraio, quando si discuterà il bilancio 2021. “Nel prossimo cda è all’ordine del giorno una verifica di corporate governance riguardante l’amministratore delegato”, riporta una nota di Rocca Salimbeni. La richiesta di dimissioni sarebbe stata avanzata a Bastianini mercoledì scorso dal direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera. Lo stesso Rivera che ha gestito la fallita trattativa sulla fusione con l’UniCredit presieduta dall’ex ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan, l’artefice del “salvataggio” di Mps nel 2017 a spese dello Stato, che vi ha perso gran parte dei 5,7 miliardi iniettati, e che il 2 novembre, alle commissioni Finanze di Camera e Senato, aveva smentito la ricerca di un nuovo ad per Mps. Al di là di qualsiasi valutazione sulla gestione di Bastianini, il tema è se sia ammissibile che il cambio ai vertici di una società quotata dello Stato arrivi non con una nota ufficiale del ministro ma con “avvisi di sfratto” sulla stampa che insinuano falsi in bilancio e ricatti Ue, con il rischio di danneggiare decine di migliaia di azionisti e obbligazionisti.

Già il 30 gennaio il Tempo riferiva della richiesta di Rivera a Bastianini. Ieri Repubblica scriveva che il 7 febbraio a Bastianini “potrebbero venire contestate alcune poste una tantum inserite nei conti 2021, che peraltro dovrebbero chiudere in utile per 300 milioni, miglior risultato da cinque anni” e che la revoca delle deleghe sarebbe sostenuta da almeno nove consiglieri su 15. Per il Messaggero invece la Direzione Concorrenza della Commissione Ue avrebbe chiesto le dimissioni dell’ad come condizione per concedere “la proroga della privatizzazione di altri 18-24 mesi rispetto ad aprile”.

“Si deve trattare di ‘scorrettezze’ gravissime, posto che l’attuale Cda non ha promosso l’azione di responsabilità contro l’ex ad Viola, condannato in primo grado a sei anni (insieme all’ex presidente Profumo) il 15 ottobre 2020 per falso in bilancio e manipolazione informativa”, scrive il finanziere Giuseppe Bivona di Bluebell. Bivona chiede alla Consob di sospendere Mps in Borsa finché la banca non confermi o smentisca le indiscrezioni sulle “scorrettezze contabili chiarendone natura, consistenza e impatti sui rendiconti precedenti” e “l’esistenza di una richiesta di sostituire l’ad da parte della Commissione Ue come condizione per concedere la proroga”. Solo nella serata di ieri la Consob ha chiesto una riunione del collegio sindacale di Mps, che si terrà oggi e dovrà fugare i dubbi prima del cda di lunedì.

Dal Mef no a nuovo deficit: sui conti si torna al passato

Passati i fuochi d’artificio del Quirinale, un bel pezzo della vasta maggioranza (M5S e Lega su tutti) si troverà a far la guerra col suo governo su una questione, per così dire, ideologica. Mario Draghi e il suo ministro dell’Economia Daniele Franco hanno già spiegato in opere e omissioni che il 2022 è l’anno del ritorno al business as usual sui conti pubblici. La prima vittima sarà, se i partiti non forzeranno la mano, lo scostamento di bilancio che dovrebbe servire a pagare nuovi ristori per i settori in crisi e ulteriori interventi contro il caro-bollette. Matteo Salvini (che martedì ha incontrato Franco, risultando peraltro ieri positivo al Covid) e Giuseppe Conte l’hanno chiesto esplicitamente anche questa settimana, ma l’orientamento del Tesoro resta “aspettare e vedere”: l’idea è lavorare sui risparmi dei “sostegni” precedenti e su poste da trovare all’uopo per singole situazioni, non certo deliberare i 20-30 miliardi di extra-deficit ipotizzati da qualcuno.

La pandemia,per Palazzo Chigi, s’avvia alla fine in primavera e con lei deve finire il nuovo mondo economico che l’ha accompagnata: occhio alla spesa è il comandamento, d’altronde già contenuto nella “nota di cautela” inviata dalla Commissione Ue a inizio anno. Non bastassero i gentili inviti esterni e la personale convinzione dei “tecnici” al governo, ci sono anche impegni specifici a spingere l’esecutivo: la manovra economica d’autunno, quella per il 2023, dovrà tener conto del pieno ritorno in vigore del Patto di Stabilità e, ancor prima, il Pnrr pone al ministero dell’Economia una clausola politica di non piccola entità. Entro giugno, ma in realtà col Documento di economia e finanza di aprile, il Piano di ripresa prevede che venga presentato un piano di spending review per gli anni 2023, 2024 e 2025 che contenga “obiettivi quantitativi di risparmio” che “devono corrispondere a un livello di ambizione adeguato”. Tradotto: tagli di spesa (che potranno, in parte, finanziare altri interventi). Se non siamo a un’esplicita politica deflattiva – cioè taglio il reddito disponibile per tenere bassa la dinamica dei prezzi, come l’Italia ha fatto dal 2011 – torniamo pericolosamente in quella zona.

Draghi e il suo ministro, di fatto, sembrano poco fiduciosi sull’esito della trattativa – appena iniziata e che s’annuncia difficile – sulla riforma del Patto di Stabilità: qualche eccezione si potrà strappare per alcuni investimenti (quelli verdi, ad esempio), ma l’impianto delle regole resterà “austero”.

Un antipasto di questo mutato atteggiamento s’era già avuto su un altro dei fronti aperti con la maggioranza: quello del Superbonus al 110% sulle ristrutturazioni edilizie. La “colpa” del maxi-sconto fiscale non sono certo le frodi, né la sua natura regressiva (colpa quest’ultima che non ha pesato sul recente taglio Irpef per i redditi più alti), ma il fatto di costare troppo: ancora a dicembre ha “tirato” altri 2 miliardi, portando il totale a 18,3 miliardi. Le recenti norme anti-frode e il divieto di cessione dei crediti servono semplicemente a ridurre al minimo la platea di chi potrà usufruirne. Per capire la portata della cosa, va considerato che l’edilizia è stata un bel pezzo del rimbalzo del Pil registrato nel 2021, ripagando in parte – via maggiori entrate – l’investimento nel bonus fiscale: pur di tenere a freno le uscite, insomma, Draghi e Franco si espongono a un rallentamento della crescita con relativa diminuzione degli incassi per l’erario.

La scommessa (rischiosa) è che le spese connesse al Pnrr e il ritorno alla normalità compensino il brusco stop delle costruzioni. Ammesso che siamo alla fine del tunnel, rischiamo di sbucare esattamente da dove siamo entrati. Non è una bella notizia.

Draghi fa la sfinge, tra i guai di governo e il posto “perduto”

Al termine della cerimonia di insediamento, Mario Draghi sale al Quirinale e presenta le dimissioni del governo. Poi, su invito del rieletto Sergio Mattarella, le ritira. È la prassi costituzionale che lo richiede, non c’è in realtà alcun colpo di scena. Ma la rapidità con cui si svolge il passaggio evidenzia un dato: il premier non ha intenzione di toccare alcun equilibrio, di prendere in considerazione nessuna sostituzione. Era chiaro già dal giorno dell’elezione del capo dello Stato, ma la scelta si rafforza.

Era una sfinge ieri Draghi, durante tutta la giornata dell’insediamento del presidente. Mentre il Parlamento applaudiva il discorso del capo dello Stato, in maniera praticamente indifferenziata rispetto alle parole effettivamente pronunciate, Draghi ascoltava seduto tra Luciana Lamorgese e Luigi Di Maio. Ovazioni che parevano sottolineare anche il fatto che le Camere, Draghi, non lo volevano assolutamente eleggere.

Il premier, durante il discorso, ha scambiato più di una battuta con Di Maio. Che il rapporto tra i due è strettissimo, non è più un mistero: è l’unico non leader di una forza politica che Draghi ha chiamato sabato mattina, dopo aver incassato la disponibilità di Mattarella per il bis. D’altronde il ministro degli Esteri, che non esclude la scissione dei Cinque Stelle, ha condotto una trattativa parallela per cercare di portare il premier al Colle, in primis con Enrico Letta. Per il resto, Draghi è rimasto volutamente imperscrutabile per tutto il giorno.

Tra le immagini che ancora resteranno di 6 giorni parossistici, quella di Giuliano Amato, diventato sempre sabato presidente della Consulta con lo stesso Mattarella e il premier. I tre presidenti, uno rieletto, uno eterna riserva della Repubblica, l’altro imbullonato a Palazzo Chigi. Le parole rubate dalle telecamere raccontano quanto i tre abbiano parlato tra di loro. “Hai visto che è finita come dicevamo noi. Non come dicevi tu. E vabbè succede, insomma” si sente dire Amato. Mentre Mattarella risponde: “È una cosa piuttosto… che altera programmi e prospettive”.

Ieri, dunque, è stato il giorno del plauso generale, dei messaggi di complimenti di tutti i leader dei partiti di maggioranza, da Enrico Letta a Matteo Salvini, da Giuseppe Conte a Matteo Renzi. Ma intanto mercoledì in Cdm la Lega non ha votato le norme sulla Dad. Avvisaglie. “Era già successo, non è una novità”, commentano a Palazzo Chigi. È la reazione del premier che è stata diversa: non ha fatto una piega. E la settimana prossima si prepara a ripensare una misura centrale del suo governo, caro al Movimento: il super bonus. Che i Cinque Stelle non siano d’accordo, Draghi lo mette in conto. E la sua intenzione è di fare come ha fatto mercoledì con la Lega: lasciarli fare. La riforma della giustizia, chiesta da Mattarella nel suo intervento, si preannuncia più che mai divisiva. Il dubbio che Salvini o Conte a un certo punto arrivino a uno strappo, però resta. E per quel che riguarda il Carroccio, Draghi mantiene il rapporto privilegiato con Giancarlo Giorgetti. Di fronte a un Salvini indebolito, il premier ricomincia a chiedere garanzie al ministro dello Sviluppo Economico che ha minacciato le dimissioni, soprattutto per provare a ricontrattare le proprie regole d’ingaggio anche con il leader leghista. Resta in agenda un incontro a tre Draghi-Salvini-Giorgetti.

Ieri da Mattarella è arrivata chiarissima l’indicazione al Parlamento a sostenere l’esecutivo. Come è stato notato l’invito al governo a dare più tempo per esaminare i provvedimenti. I più critici enfatizzano il passaggio. Non mancheranno le fibrillazioni nei prossimi mesi, ma nessuno scommette che possa esserci uno showdown. Almeno non prima della legge di Bilancio.

Intanto, la vera linea che si è rafforzata è quella dei democristiani. Magari gli stessi che hanno un buon rapporto sia con il capo dello Stato che con il premier. Come Letta e il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. A sintetizzare dove pende l’ago della bilancia, con una battuta, è Graziano Delrio, deputato Pd: “Via le mascherine rosse! Da ora in poi sono ammesse solo mascherine bianche, con lo scudocrociato della Dc”.

Papa Sergio II grazia i partiti e fa un’enciclica sulla dignità

Da arbitro a papa laico. Sergio Mattarella conclude il suo discorso alle sedici e nove e si rimette la mascherina. Cinquantacinque applausi in trentasette minuti. Ai quali vanno aggiunti altri cinque di ovazione finale.

Tutti in piedi nell’aula di Montecitorio. Il proverbiale pudore del presidente rischia di vacillare gioiosamente. Gli applausi non finiscono, anzi aumentano pure d’intensità e lui a quel punto si volge a destra e sinistra per salutare con le mani, quasi una benedizione timida. In piedi ci sono anche tre dei principali sconfitti della competizione quirinalizia. Queen Elizabeth Casellati proprio accanto a Mattarella (e che poi farà il saluto al presidente poco dopo al Quirinale). Appena sotto, ai banchi di governo, Mario Draghi. E nell’emiciclo Pier Ferdinando Casini.

Ma tutto è scordato, tutto è dimenticato in questo frangente. Il presidente accenna appena ai “travagliati giorni” della settimana scorsa e costruisce un discorso sopra cinque pilastri.

Uno: la lotta al Covid.

Due: l’esecutivo del Migliore che deve andare avanti per distribuire le risorse del Pnrr e favorire la ripresa, non perdendo “l’ampio sostegno parlamentare” con cui è nato.

Tre: il primato del Parlamento e dei partiti, di qui l’unico rimbrotto al governo sulla “forzata compressione dei tempi parlamentari” per esaminare i provvedimenti.

Quattro: la giustizia da riformare.

Cinque: infine, il valore della dignità umana.

È come se Sergio Mattarella parlasse al Paese, dettando l’agenda per i prossimi anni: un’agenda impegnativa, al confine dell’utopia. Un inconsapevole presidenzialismo dolce che evoca l’elezione diretta del capo dello Stato. E declinato con un tono ecumenico tra il messaggio di fine anno e quello di un’enciclica papale, soprattutto nella parte finale dedicata al valore della dignità. Del resto, è un discorso immerso nella tradizione del cattolicesimo democratico da cui Mattarella proviene. L’ossimoro della stabilità fatta di dinamismo ricorda i paradossi politicisti di Aldo Moro. Mentre la dignità ripetuta almeno sedici volte è quella di un “santo” politico come Giuseppe Dossetti, che nel 1946 presentò all’Assemblea costituente un ordine del giorno in merito votato da tutti.

Mattarella comincia con la “pari dignità sociale” per uno “sviluppo giusto ed effettivo”, ché “le diseguaglianze sono il freno per ogni prospettiva reale di crescita”. Poi c’è la dignità che “riguarda il valore delle persone e chiama in causa l’intera società”. Quindi: dignità è “azzerare le morti sul lavoro”, “mai più tragedie come quella del giovane Lorenzo Parelli, entrato in fabbrica per un progetto scuola-lavoro”.

Dignità è “opporsi al razzismo e all’antisemitismo”; “impedire la violenza sulle donne”; “combattere la tratta e la schiavitù degli esseri umani”.

Dignità è il “diritto allo studio”; il rispetto per gli anziani; il contrasto alla povertà e alla precarietà; dignità è “non dover essere costrette a scegliere tra maternità e lavoro”; è avere carceri non “sovraffollate”; è rimuovere gli ostacoli per le persone con disabilità; è liberarsi dalle mafie; è assicurare un’informazione libera e indipendente. Il punto d’arrivo è la dignità “pietra angolare del nostro impegno, della nostra passione civile”.

E qui Mattarella colloca la citazione commemorativa di David Sassoli, “uomo mite e coraggioso”. Il cattolicesimo democratico, appunto. Che della mitezza ha sempre fatto la sua cifra pubblica.

Il capo dello Stato saluta poi papa Francesco (altra ovazione) e rende omaggio a Monica Vitti. Un passaggio chiave, in senso più politico, è quello in cui esplicita che non tocca a lui “indicare percorsi riformatori da seguire”. E lo fa usando un verbo decisivo nella prassi costituzionale seguita nel primo settennato: “Non compete a me”.

L’esatto contrario dell’interventismo dirigista del suo predecessore. Ma sullo sfondo c’è anche un dato realistico: questo è un Parlamento che ha davanti a sé un anno e passa di vita, ammesso che tutto vada bene fino alla scadenza della legislatura nel 2023. Rispetto al discorso del giuramento di sette anni fa – la data era la stessa, il 3 febbraio del 2015 – questo è certamente più assertivo e deciso, col piglio di chi non finirà anzitempo il mandato. E se quello venne registrato dalla cronaca come il discorso dell’arbitro, quello di ieri forse sarà ricordato come il testo della dignità.

Quanto all’unica analogia con il Napolitano bis, c’è da rilevare l’entusiasmo senza limiti dei partiti, compreso Salvini. Epperò finita la festa con cerimonie, frecce tricolori, banda musicale, onori e saluti militari, oggi la politica ritorna ai tormenti della quotidianità, dopo il fallimento e lo stallo che hanno portato al bis di Mattarella.

E la politica sta lì, in mezzo tra il discorso alto del presidente e il Paese logorato dalla pandemia.

Per i non udenti

Traduzione simultanea, con sottotitoli, dei passi principali del discorso di reinsediamento di re Sergio Bis.

“È per me una nuova chiamata – inattesa – alla responsabilità, alla quale tuttavia non posso e non ho inteso sottrarmi”. In realtà potevo benissimo rimandarvi in Parlamento a fare il vostro dovere. Ma, siccome non ne volevate sapere di eleggere Draghi, la Restaurazione avviata un anno fa rischiava di fallire, con una presidente appena sessantenne e pure donna. E ho dovuto tornare io.

“Vi ringrazio per la fiducia”. Che poi, per la precisione, si chiama “stipendio e vitalizio”.

“Alla Costituzione… ho cercato di attenermi in ogni momento per sette anni”. Salvo quando rimandai indietro il premier indicato dalla maggioranza perchè mi sta antipatico Savona e incaricai tal Cottarelli, noto frequentatore di se stesso; e quando mandai a casa il governo appena fiduciato dal Parlamento senza rinviarlo alle Camere e incaricai un ex banchiere mai indicato da nessuno.

“Uno stato di profonda incertezza politica e di tensioni, le cui conseguenze avrebbero potuto mettere a rischio…”. Non so cosa sia saltato in mente a Draghi di tentare la fuga al Quirinale e di confondere la maggioranza del suo governo con quella del nuovo capo dello Stato, ma che volete che vi dica: so’ creature.

“La lotta contro il virus non è conclusa”. Vero, Mario?

“La ripresa di ogni attività è legata alla diffusione dei vaccini che aiutano a proteggere noi stessi e gli altri”. Che proteggano gli altri è una balla sesquipedale, ma mi hanno detto di dire così.

“I regimi autoritari o autocratici rischiano ingannevolmente di apparire, a occhi superficiali, più efficienti di quelli democratici, le cui decisioni… sono ben più solide”. Noi comunque, per non saper né leggere né scrivere, abbiamo optato per l’autocrazia.

“È cruciale il ruolo del Parlamento… La forzata compressione dei tempi parlamentari è un rischio”. Per chi non lo sapesse, il Parlamento è quell’aula sorda e grigia che i decreti non fa più neppure in tempo a timbrarli.

“Un profondo processo riformatore deve interessare la giustizia”. Questa l’ho copiata dal mio precedente discorso di insediamento e da quelli dei miei predecessori, da De Nicola in poi.

“I cittadini non devono avvertire timore per decisioni arbitrarie o imprevedibili in contrasto con la certezza del diritto”. Càpita ancora che qualche potente venga disturbato da indagini e condanne senza prescrizione e che qualche poveraccio venga assolto, ma la Cartabia ci sta lavorando.

“Poteri economici sovranazionali tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico”. E qui mi fermo, sennò poi Draghi s’incazza.

Sciascia giudica “I polizieschi”: la Bibbia è noir, Gadda “assoluto”

Non è un caso che Leonardo Sciascia (1921-1989) abbia posto in epigrafe a Una storia semplice, uno dei suoi ultimi libri, una frase di Friedrich Dürrenmatt. Il narratore e drammaturgo svizzero, infatti, con La promessa del 1959 aveva scritto un “requiem per il romanzo giallo”, dimostrando che “il delitto paga”. E Sciascia, nel 1966, in A ciascuno il suo aveva affermato a sua volta, come notò Italo Calvino, “l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano”.

Ai gialli, di cui era un lettore vorace e appassionato, il grande scrittore di Racalmuto ha dedicato più di una pagina, a cominciare dalla Breve storia del romanzo poliziesco. Frutto di due articoli pubblicati sul settimanale Epoca, il 20 e il 27 settembre 1975, e inserito nella raccolta di saggi Cruciverba (Einaudi e Adelphi), il testo sciasciano esce ora per la prima volta in uno specifico volume, a cura di Eleonora Carta (Graphe.it editore, pagine 48, euro 6,50).

Ripercorrendo la storia del poliziesco in letteratura, Sciascia parte dall’Antico Testamento, da quel “profeta Daniele come primo detective della storia”. E prosegue con Edgar Allan Poe, lo Sherlock Holmes di Conan Doyle, per Sciascia un “don Chisciotte del positivismo”, e quindi con Agatha Christie, l’hard boiled, da Hammett a Chandler, fino al “deprecato Spillane” e al commissario Maigret di Simenon, “un personaggio e non un tipo”. C’è spazio poi naturalmente per Gilbert Keith Chesterton, Rex Stout, Mario Soldati, Graham Greene, Bernanos, e per Carlo Emilio Gadda, che, dice Sciascia, “ha scritto il più assoluto ‘giallo’ che sia mai stato scritto, un ‘giallo’ senza soluzione”, cioè Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.

Non è citato invece Dürrenmatt, che comparirà però nell’ultimo Sciascia con quell’epigrafe, in Una storia semplice, tratta da Giustizia: “Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia”. Una residua speranza, certo, ma vanificata dai fatti. Non c’era più possibilità di giustizia, né di romanzo giallo. Nella “sua forma più originale e autonoma”, annota Sciascia nel saggio, “il romanzo poliziesco presuppone una metafisica: l’esistenza di un mondo ‘al di là del fisico’, di Dio, della Grazia – e di quella Grazia che i teologi chiamano illuminante. Della Grazia illuminante l’investigatore si può anzi considerare il portatore”. Ai tempi di Una storia semplice, però, anche la Grazia era morta.

Lacrime, trans e razzismo. E Checco provoca Sanremo

Nella Repubblica indipendente di Sanremo, dove l’Ariston è l’unica discoteca attiva della Penisola (almeno fino al 10 febbraio), i supremi reggitori si godono il trionfo di ascolti e si schierano a legione romana contro ogni sorta di attacchi, non importa se pretestuosi o minimamente fondati. Intanto le cifre della prima serata sono una sventagliata di record storici, con uno share attorno al 55 per cento e una platea televisiva di quasi 11 milioni di spettatori. Sarà interessante capire quanti punti ha garantito l’incursione una tantum di Fiorello, che a meno di sorprese inimmaginabili ha già pagato dazio all’amicizia con Ama ed è ripartito per non farsi incastrare. Si è beccato l’accusa di “pagliaccio” dai no-vax ma ha acceso le polveri di un festival cruciale: vedremo ora quale sarà il peso specifico del mattatore di ieri, Checco Zalone, uno di quelli che il direttore di rete Coletta definirebbe, nel suo grammelot para-inglese, “politically scorrect”.

SuperChecco

Ovviamente colpisce dove fa male, e i viro-star sono obiettivi perfetti: “Pandemia non andare via”, che poi finiamo tutti nel dimenticatoio. Si fa trovare in galleria, il luogo del popolo e rende in giro tutti con una cativeria che non fa sconti a nessuno, Amadeus “maschio degli anni 50” compreso. La favola della cenerentola trans è piena di coraggio e rischi: il nostro Dave Chappelle è pugliese. Oggi succederà di tutto.

LE CROCIATE Sanremo, si sa, è un formidabile acceleratore di particelle etiche e ieri Lorena Cesarini ha rispedito al mittente gli insulti razzisti, forse con troppa enfasi, citando Tahar Ben Jelloun. Qui basta un niente, una mano che va a ravanare il cavallo dei pantaloni, ed è subito scandalo. Soprattutto se lo stesso artista, poco dopo, inscena un battesimo. Come ha fatto Achille Lauro la prima sera. Coletta dixit: “Un gesto che non aveva fatto nelle prove, ma siamo certi della buona fede di Achille, che voleva dedicare il rito di purificazione a sua madre”. Però le truppe papaline hanno sparato a palle incatenate, tra i tweet di Monsignor Ravasi e le addolorate esternazioni del vescovo di Sanremo Suetta. E se il democristo doc Pippo Baudo ha stigmatizzato come “un po’ violento” il trucco mimico del sacramento di Lauro, il solito, ineffabile Pillon (che attende stasera al varco pure Drusilla Foer) sfida Achille a “sfottere il ramadan”. Curiosa sorte, quella della rete ammiraglia in questo Festival. Perché ieri Rettore e Ditonellapiaga, in “Chimica”, hanno proposto quel verso che attirerà altri proiettili di catapulte: “Non mi importa del pudore/delle suore me ne sbatto totalmente”. Chi canta e chi porta la croce.

GIOCHI SENZA FRONTIERE Finalmente l’annuncio direttamente dal palco dell’Ariston. A metà maggio saranno proprio Laura Pausini, Mika e Ale Cattelan a condurre l’Eurovision Song Contest da Torino. La Rai ha atteso Sanremo per sbrinare l’ex governatore di X-Factor: sottratto a cifre irrinunciabili da Sky, acquistato in comproprietà con Netflix, Cattelan aveva floppato la sua prima apparizione sul canalone generalista di Viale Mazzini. Ora è il momento di ributtarlo in campo, e ci prova dall’orchestra dell’Ariston improvvisando con i compagni di conduzione. Vedremo anche come le varianti pandemiche garantiranno o meno l’affare produttivo dell’evento per casa Rai. Un Eurovision costa attorno ai 20 milioni di euro, con un terzo di contributo garantito dal network delle tv continentali, che però pretende garanzie su infrastrutture, qualità del prodotto, trasparenza. Se tutto andrà bene la tv pubblica non spenderà più della metà della cifra finale (anche il Comune di Torino contribuirà alle spese), per uno show con un potenziale bacino da 200 milioni di telespettatori.

IL TRIANGOLO DELLE BERMUDE A ogni tornata sanremese si ripropone il mistero del palco dell’Ariston, dove spariscono le voci senza che nessuno sappia spiegarsi l’origine del fenomeno. Enorme dispiego di tecnici specializzati, tecnologie futuribili, un’orchestra sontuosa. Poi arrivano cantanti navigati lì sopra, di quelli che non hanno mai sbagliato una nota in decenni di carriera, e sembrano capponi strozzati dentro arrangiamenti soverchianti. Vecchi o meno vecchi, se azzardano pezzi power-pop o ad alto utilizzo di “canna” (non quella della Muti) affogano miseramente. Se si infilano nelle ballate portano a casa la pelle. A Sanremo si deve lavorare per sottrazione, a meno di non essere i Måneskin. Che hanno già rivinto, pure quest’anno.