Da arbitro a papa laico. Sergio Mattarella conclude il suo discorso alle sedici e nove e si rimette la mascherina. Cinquantacinque applausi in trentasette minuti. Ai quali vanno aggiunti altri cinque di ovazione finale.
Tutti in piedi nell’aula di Montecitorio. Il proverbiale pudore del presidente rischia di vacillare gioiosamente. Gli applausi non finiscono, anzi aumentano pure d’intensità e lui a quel punto si volge a destra e sinistra per salutare con le mani, quasi una benedizione timida. In piedi ci sono anche tre dei principali sconfitti della competizione quirinalizia. Queen Elizabeth Casellati proprio accanto a Mattarella (e che poi farà il saluto al presidente poco dopo al Quirinale). Appena sotto, ai banchi di governo, Mario Draghi. E nell’emiciclo Pier Ferdinando Casini.
Ma tutto è scordato, tutto è dimenticato in questo frangente. Il presidente accenna appena ai “travagliati giorni” della settimana scorsa e costruisce un discorso sopra cinque pilastri.
Uno: la lotta al Covid.
Due: l’esecutivo del Migliore che deve andare avanti per distribuire le risorse del Pnrr e favorire la ripresa, non perdendo “l’ampio sostegno parlamentare” con cui è nato.
Tre: il primato del Parlamento e dei partiti, di qui l’unico rimbrotto al governo sulla “forzata compressione dei tempi parlamentari” per esaminare i provvedimenti.
Quattro: la giustizia da riformare.
Cinque: infine, il valore della dignità umana.
È come se Sergio Mattarella parlasse al Paese, dettando l’agenda per i prossimi anni: un’agenda impegnativa, al confine dell’utopia. Un inconsapevole presidenzialismo dolce che evoca l’elezione diretta del capo dello Stato. E declinato con un tono ecumenico tra il messaggio di fine anno e quello di un’enciclica papale, soprattutto nella parte finale dedicata al valore della dignità. Del resto, è un discorso immerso nella tradizione del cattolicesimo democratico da cui Mattarella proviene. L’ossimoro della stabilità fatta di dinamismo ricorda i paradossi politicisti di Aldo Moro. Mentre la dignità ripetuta almeno sedici volte è quella di un “santo” politico come Giuseppe Dossetti, che nel 1946 presentò all’Assemblea costituente un ordine del giorno in merito votato da tutti.
Mattarella comincia con la “pari dignità sociale” per uno “sviluppo giusto ed effettivo”, ché “le diseguaglianze sono il freno per ogni prospettiva reale di crescita”. Poi c’è la dignità che “riguarda il valore delle persone e chiama in causa l’intera società”. Quindi: dignità è “azzerare le morti sul lavoro”, “mai più tragedie come quella del giovane Lorenzo Parelli, entrato in fabbrica per un progetto scuola-lavoro”.
Dignità è “opporsi al razzismo e all’antisemitismo”; “impedire la violenza sulle donne”; “combattere la tratta e la schiavitù degli esseri umani”.
Dignità è il “diritto allo studio”; il rispetto per gli anziani; il contrasto alla povertà e alla precarietà; dignità è “non dover essere costrette a scegliere tra maternità e lavoro”; è avere carceri non “sovraffollate”; è rimuovere gli ostacoli per le persone con disabilità; è liberarsi dalle mafie; è assicurare un’informazione libera e indipendente. Il punto d’arrivo è la dignità “pietra angolare del nostro impegno, della nostra passione civile”.
E qui Mattarella colloca la citazione commemorativa di David Sassoli, “uomo mite e coraggioso”. Il cattolicesimo democratico, appunto. Che della mitezza ha sempre fatto la sua cifra pubblica.
Il capo dello Stato saluta poi papa Francesco (altra ovazione) e rende omaggio a Monica Vitti. Un passaggio chiave, in senso più politico, è quello in cui esplicita che non tocca a lui “indicare percorsi riformatori da seguire”. E lo fa usando un verbo decisivo nella prassi costituzionale seguita nel primo settennato: “Non compete a me”.
L’esatto contrario dell’interventismo dirigista del suo predecessore. Ma sullo sfondo c’è anche un dato realistico: questo è un Parlamento che ha davanti a sé un anno e passa di vita, ammesso che tutto vada bene fino alla scadenza della legislatura nel 2023. Rispetto al discorso del giuramento di sette anni fa – la data era la stessa, il 3 febbraio del 2015 – questo è certamente più assertivo e deciso, col piglio di chi non finirà anzitempo il mandato. E se quello venne registrato dalla cronaca come il discorso dell’arbitro, quello di ieri forse sarà ricordato come il testo della dignità.
Quanto all’unica analogia con il Napolitano bis, c’è da rilevare l’entusiasmo senza limiti dei partiti, compreso Salvini. Epperò finita la festa con cerimonie, frecce tricolori, banda musicale, onori e saluti militari, oggi la politica ritorna ai tormenti della quotidianità, dopo il fallimento e lo stallo che hanno portato al bis di Mattarella.
E la politica sta lì, in mezzo tra il discorso alto del presidente e il Paese logorato dalla pandemia.