La Romagna ha detto “addio” all’Italia e l’Emilia vuole andare con Macron

Col governo bisogna che arriviamo a un accordo: o stanzia altri 2 miliardi di euro per le Regioni a statuto ordinario o interrompiamo le relazioni istituzionali. – Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna (Ansa, 25 giugno 2020)

 

Notizie dal futuro. L’uscita dell’Emilia-Romagna dall’Italia ha già deluso molti degli elettori che otto anni fa votarono per l’indipendenza. La scissione sta comportando una serie di problemi economici che i promotori avevano sottovalutato. Tanto per cominciare, le esportazioni verso l’Italia, che nel 2019 erano il 48,5 per cento del totale, hanno subito un netto rallentamento. Poi diverse imprese nazionali hanno spostato la loro base italiana da Bologna a Milano, da Modena a Torino, da Parma a La Spezia ecc. Inoltre, i giovani italiani che ogni anno affluivano a migliaia in Emilia-Romagna, per motivi di studio o di lavoro, sono spariti, così come i flussi turistici verso la regione. Il motivo è semplice: ci vogliono il passaporto e il visto. Sul piano politico-istituzionale, infine, la situazione è esplosiva. L’Emilia-Romagna rischia di dividersi per colpa delle spinte secessioniste: la Romagna, dove alle ultime elezioni politiche il Partito Indipendentista ha fatto il pieno di voti, chiede già un secondo referendum per staccarsi dall’Emilia, che peraltro ne sarebbe felicissima, visto che Macron ha espresso il desiderio di annetterla alla Francia, come fece Napoleone col Ducato di Parma e Piacenza. La tensione crescente non è facilmente contenibile. La Romagna, oltre all’esportazione di piadina in tutto il mondo, possiede una risorsa importante e strategica: le discoteche. Difficilmente il governo regionale potrà rinunciarci, ma allo stesso tempo non sa come contenere l’ondata autonomista. Insomma, l’amministrazione pidina che ha promosso l’indipendenza dall’Italia (con l’aiuto dei grillini che, fiaccati dalle guerre intestine, hanno saputo dire solo: “Dov’è l’Elevato?”) (era su uno yacht in Liguria), si trova già ad affrontare un marasma. La Regione spera che Trump venga rieletto al terzo mandato e conceda condizioni privilegiate all’export emiliano-romagnolo per compensare la riduzione verso l’Italia, ma non sarà un’operazione semplice, perché andare oltre gli attuali flussi di import/export con gli Usa richiederebbe nuove specializzazioni produttive, che l’Emilia-Romagna non ha. Rimane il settore alimentare e ortofrutticolo, che produceva qualcosa come il 15 per cento del reddito nazionale; ma basterà un’altra crisi come nel 2008, o un’altra pandemia (appena il virologo Burioni l’ha definita “impossibile” tutti, da Piacenza a Gabicce, si sono toccati le palle), per determinarne un crollo. L’addio dell’Emilia-Romagna ha dato non pochi problemi anche all’Italia. Infatti dal 2021 sono venute a mancare dalle casse nazionali i 18 miliardi e passa del residuo fiscale regionale. Come coprire questo ammanco? Con le regioni rimanenti, in primis Lombardia e Veneto, le due realtà che contribuiscono maggiormente al bilancio dello Stato: ovviamente, stanno già scalpitando per andarsene anche loro, adesso che il varco è stato aperto. Lo so, l’Italia potrebbe ridurre in modo significativo la spesa pubblica con un taglio netto agli armamenti, ma non l’ha mai fatto: è più probabile che un meteorite colpisca Bonaccini, altro evento che Burioni definisce “impossibile”.

 

Il giornale degli Agnelli e l’umanità di Elkann

È un bel proprietario! Un filantropo! John Elkann ieri ha partecipato a una bella iniziativa di beneficenza in collaborazione con Save the Children . Come facciamo a saperlo? Ce lo dice il suo giornale. La notizia è comparsa quasi in apertura sul sito di Repubblica: “Save The Children: John Elkann con gli scolari di Barriera Milano per il progetto delle fondazioni Agnelli e Bolton Hope”.

Sembra uno dei mirabolanti articoli dei giornali di Urbano Cairo per elogiare Urbano Cairo. Ma da quando Repubblica è finita nelle mani della famiglia Agnelli, il giornale fondato da Scalfari ha iniziato a darci dentro almeno alla pari dei colleghi del Corriere.

“John Elkann – leggiamo – sceglie la scuola di corso Vercelli 141, nel cuore di Barriera di Milano, per la sua prima uscita ufficiale post lockdown. Un progetto sostenuto e seguito dalla Fondazione Agnelli per permettere ai piu piccoli, dagli 8 agli 11 anni, di tornare all’attività reale, al gioco, al confronto con i compagni”. Repubblica ci informa che John, con tanta umanità, “si è fermato a chiacchierare con i più piccoli e poi con le insegnanti e le educatrici”. Commozione.

Il commercio: dagli Usa alla Kedrion del dem Marcucci

La Commissione Europea considera il plasma un bene strategico, e in passato nazioni come la Romania si sono trovate a chiedere aiuto alla Nato per supplire alla carenza dei farmaci salvavita prodotti grazie al plasma. Raggiungere l’autosufficienza è un obiettivo importante, ma per alcuni Paesi come l’Italia è ancora un traguardo lontano. La superpotenza del plasma è l’America e la sua posizione dominante è guardata con preoccupazione da nazioni come la nostra, visto il potere contrattuale e di ricatto che la supremazia del plasma garantisce. Che succederebbe se domani un imprevedibile Donald Trump imponesse d’arbitrio prezzi esagerati per un bene che garantisce la produzione di farmaci salvavita?

In Italia la donazione di plasma è completamente gratuita, così come lo è nella maggioranza dei Paesi europei, Germania esclusa. Negli Stati Uniti, invece, è retribuita: un donatore riceve 40-50 dollari a donazione, ripetibile fino a due volte alla settimana. Non è difficile immaginare la massa di persone vulnerabili e a basso reddito che, per procurarsi poche centinaia di dollari al mese, vendono il loro plasma. Alla frontiera con il Messico, la processione è continua e nei centri di donazione all’interno del Paese i poveri sono la regola. Il risultato è una raccolta di plasma monstre, che rende gli Stati Uniti la superpotenza del plasma.

“Nel 2019 – spiega al Fatto Matthew Hotchko, presidente del Marketing Research Bureau, azienda americana che vende dati e previsioni sul mercato del sangue e del plasma – ho calcolato che gli Stati Uniti abbiano raccolto oltre 45 milioni di litri di plasma [sia da donazioni ordinarie di sangue, non retribuite, che da donazioni di solo plasma, pagate 40-50 dollari ciascuna, ndr]. Di questi, circa 300mila litri sono stati esportati direttamente per il frazionamento dalla Kedrion”. La Kedrion è una delle aziende leader del mercato (e di proprietà del senatore Pd Andrea Marcucci). Nei centri di raccolta della Kedrion, si usano le macchine della Haemonetics, diffussissime, come abbiamo raccontato, anche in Toscana.

“Il plasma – continua Matthew Hotchko – è un bene commerciale e anche molto redditizio, che le aziende possono vendere e comprare. Non è un bene gestito dai governi, è un affare di aziende private: vendono e comprano in decine di mercati nel mondo. Viene spedito in Italia congelato, nei container. Ciascuna unità di plasma viene congelata a meno trenta gradi centigradi e oltre e rimane a questa temperatura per tutto il trasporto, per aereo o per nave”.

Al contrario che in Italia, dove i donatori vengono monitorati solo fino a poco dopo la donazione e non all’uscita dall’ospedale, negli Stati Uniti la Food and Drug Administration (FDA) ha un sistema di raccolta dei dati di eventuali morti di donatori fino a due o a tre giorni dalla donazione del plasma. Secondo il nostro partner americano in questa inchiesta, il quotidiano Miami Herald, dal 2010 al 2017, il database della FDA ha registrato solo 5 casi di morte di donatori che si sono sottoposti ad aferesi con la macchina della Haemonetics PCS2. Il sistema della FDA non contiene alcuna informazione sulle cause dei decessi e non c’è alcuna informazione che li colleghi alla tecnologia Haemonetics. Dal 2017 ad oggi, però, risultano ben 35 morti di donatori che avevano donato con PCS2. Cosa può aver causato questa impennata dei casi? Secondo le dichiarazione della multinazione al Miami Herald, Haemonetics avrebbe semplicemente cambiato le sue policy di segnalazione dei decessi alla FDA.

Plasma-files l’oro liquido: il business e gli incidenti

Donare plasma permette di salvare vite. Gravi emorragie e incidenti, grandi ustioni, malattie rare, il plasma consente di combattere queste minacce e di produrre farmaci salvavita come l’albumina o le immunoglobuline. E anche l’epidemia in corso ci porta a sperare di trovare una terapia contro il Covid, grazie al plasma. Ma proprio perché è un atto di altruismo, donarlo deve essere completamente sicuro. Lo è? Il Fatto Quotidiano ha condotto un’inchiesta giornalistica durata otto mesi in partnership con altri sette media internazionali, coordinata dall’organizzazione non profit “The Signals Network” che fornisce supporto a una rete di whistleblower.

Abbiamo avuto accesso esclusivo a centinaia di documenti interni della Haemonetics, una multinazionale americana che produce e commercializza una delle più diffuse tecnologie per la donazione del plasma: le macchine e i kit monouso per l’aferesi produttiva. I giganti che si contendono questo mercato mondiale sono tre: la statunitense Haemonetics, la giapponese Terumo e la tedesca Fresenius. Le Haemonetics, da Bolzano a Palermo, sono tra le più diffuse in Italia e, specie nelle ultime settimane, vengono usate da alcune importanti aziende ospedaliere italiane – come Pisa, il San Camillo di Roma, il Cotugno di Napoli, il Policlinico di Bari – anche per raccogliere il plasma dei pazienti guariti da Covid, il famoso “plasma iperimmune”.

La documentazione interna della multinazionale americana – condivisa con noi da alcuni whistleblower – consente per la prima volta di ricostruire alcuni “incidenti” relativi a queste macchine in tutto il mondo, Italia compresa: incidenti che potrebbero presentare dei potenziali rischi per i donatori.

 

L’oro liquido

Lo chiamano “oro liquido” per quanto è prezioso, e di importanza vitale nella medicina. Il plasma è ciò che permette al sangue di fluire, un liquido giallastro in cui sono sospese le cellule sanguigne come globuli rossi, bianchi e piastrine. Se dal plasma separiamo queste cellule, resterà al 92% acqua e per il resto proteine, sali minerali, enzimi, immunoglobuline. L’aferesi – dal greco, letteralmente eliminare o sottrarre – può essere terapeutica (mirata a curare una patologia relativa alle cellule del sangue o alla sua componente plasmatica), o produttiva (per selezionare emocomponenti a scopo terapeutico). È proprio l’aferesi produttiva che si avvale dell’utilizzo di un separatore cellulare. Così è possibile donare selettivamente plasma, plasma e piastrine, globuli rossi e piastrine. Ma mentre per un prelievo è sufficiente una siringa, per l’aferesi produttiva è necessario un sistema di separazione cellulare che processa un gran volume di sangue e preleva il componente necessario, reinfondendo mediante lo stesso accesso venoso del prelievo la restante parte.

La macchina utilizzata ha un motore, delle pompe con sensori, un software che guida il processo e infine un kit monouso che si compone di una campana con la centrifuga che separa le diverse componenti, dei tubi e le sacche di raccolta. A seconda delle componenti che si vogliono estrarre, si usano kit monouso diversi. E, come dicevamo, tra le aziende che producono e commercializzano separatori cellulari, l’americana Haemonetics – con le sue macchine MCS+ e PCS2 per la raccolta di plasma – è una delle più importanti al mondo.

 

Francia, i whistleblower

Il caso Haemonetics esplode in Francia nel 2017. Per anni, tre whistleblower, Alexandre Berthelot, Philippe Urrecho e Guylain Cabantous, denunciano alle autorità sanitarie il rischio nell’utilizzo di queste macchine e dei loro kit. Il problema, secondo quanto sostengono i tre, sarebbe legato a “particelle nere” che, in alcuni casi, possono formarsi durante l’aferesi, finendo quindi nel plasma raccolto. Particelle la cui natura – e i loro effetti a lungo termine – non risultano chiari, specie per chi dona con sistematicità. In cosa consistono queste particelle? Secondo l’azienda, si tratterebbe di sangue o di proteine essiccate, mentre i tre whistleblower denunciano la possibilità che vi siano sostanze potenzialmente dannose che si formano a causa della frizione e del surriscaldamento delle componenti della campana che centrifuga il sangue.

Nel 2017, l’Agenzia nazionale per la sicurezza dei dispositivi medici (ANSM) crea un comitato di esperti per indagare. Pur ammettendo che la produzione di particelle di taglia grande “è un fenomeno raro, 1,8 casi su 100mila procedure di aferesi nel 2016” e pur in assenza di studi sugli effetti a lungo termine, per il comitato “bisognerà considerare la messa al bando dei dispositivi medici che contengono giunti mobili (con grafite/ceramica) che possono liberare sostanze note per la loro potenziale tossicità anche a basse dosi (formaldeide, cromo esavalente, idrocarburi policiclici aromatici)”. E ancora il comitato scrive: “Le macchine commercializzate da Haemonetics sono quelle per cui il rischio sembra più elevato”.

La svolta arriva nel maggio 2018, quando i tre whistleblower presentano una denuncia penale al Tribunal de Grande Instance di Parigi, contro la Haemonetics e le autorità sanitarie francesi. Qualche mese dopo, l’uso delle macchine Haemonetics MCS+ e PCS2 col kit monouso 782HS-P-SL viene sospeso. A oggi il kit è ancora bandito e 300 macchine PCS2 sono state ritirate. L’azione penale di Berthelot, Urrecho e Guylain riesce soprattutto a spingere otto donatori di plasma a farsi avanti e a denunciare la multinazionale. L’avvocata francese Alma Basic, che li rappresenta, dichiara al Fatto: “Si sentono traditi, per anni hanno donato il loro plasma per altruismo, fidandosi delle istituzioni, poi, con queste rivelazioni, hanno smesso di donare”.

 

In Italia e nel mondo?

Interpellata, Haemonetics ha risposto: “Negli ultimi 15 anni, le nostre tecnologie sono state usate in modo sicuro in 360 milioni di procedure per la raccolta del plasma nel mondo”. La multinazionale sostiene che il problema delle “particelle nere” è estremamente raro: avrebbe riguardato solo lo 0,0006% delle aferesi produttive e senza essere “stato associato a danni a donatori, pazienti o altri”. I documenti interni di cui siamo entrati in possesso e le indagini giornalistiche condotte – dallo Zeit in primis – raccontano di oltre 600 di questi “incidenti”, tutti documentati negli ultimi 15 anni: 56 in Germania, 150, secondo il Miami Herald, negli Usa. E in Italia?

Nel nostro Paese le macchine Haemonetics MCS+ e PCS2 sono molto diffuse. Le usa il servizio trasfusionale di Bolzano (6 unità), la Città della Salute di Torino, i centri trasfusionali di Modena, Parma, Piacenza, Reggio Emilia e l’Azienda Usl dell’Emilia Romagna. In Toscana, ce ne sono ben144 (82 PCS2 e 62 MCS+). Nel Lazio,40, in Umbria 10, in Campania 41 e in Calabria 10. A vigilare sono il Centro Nazionale Sangue e la Direzione generale dei dispositivi medici del ministero della Sanità. Interpellato dal Fatto, il ministero non ha risposto. Il direttore del Centro Nazionale Sangue, Giancarlo Maria Liumbruno, ha invece dichiarato che, dalle verifiche eseguite subito dopo la messa al bando in Francia, è emerso che il kit in questione “non è mai stato commercializzato in Italia”. La multinazionale Usa ce lo ha confermato.

Grazie alla nostra inchiesta abbiamo potuto verificare in modo indipendente che, tra il 2018 e il 2019, si sono registrati almeno cinque incidenti che riguardano i filtri dei kit monouso999F-E per la donazione di plasma e piastrine. Tre all’ospedale Meyer di Firenze (nel febbraio-marzo 2019), e due presso l’azienda ospedaliera di Parma (gennaio-febbraio 2019). Entrambe le strutture hanno specificato come non via stato alcun danno ai donatori, ma sia Meyer sia Parma non hanno fornito particolari su quanto accaduto. Incidenti si sono verificati anche all’Ospedale Cervello di Palermo, nel 2018. La responsabile del servizio di aferesi produttiva, Noemi Agosto, ci ha risposto: “Abbiamo avuto problemi con un circuito monouso dell’Haemonetics(sic)946 per una produzione difettosa che ci ha fermato quasi un anno per la sua riutilizzazione”. Alle nostre domande per capire se ci fossero stati problemi coi donatori, l’ospedale non ha risposto. Così come Haemonetics non ha voluto rispondere né sui casi di Parma e del Meyer né sull’ospedale Cervello.

Nessuno di questi episodi è segnalato nel portale del ministero della Salute per gli avvisi di sicurezza dei dispositivi medici. Secondo i partner stranieri dell’inchiesta, sarebbero molti quelli non segnalati anche in Francia e negli Usa. Gli incidenti nel nostro Paese che abbiamo potuto verificare sono gli unici? Esistono rischi per i donatori? Le macchine sospese in Francia continuano a essere usate in Italia: quello che vale al di là delle Alpi, come è possibile che non lo sia al di qua?

D’Isa: “Anche Franco scrisse la sua parte della sentenza”

Claudio D’Isa è uno dei cinque magistrati della sezione feriale di Cassazione che il primo agosto 2013 rese definitiva la condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale.

Ci furono pressioni sul vostro collegio?

Si sentiva nell’aria una spasmodica attesa del verdetto. Ma non ci furono assolutamente pressioni esterne. I toni, anzi, erano sereni. Io ero descritto come un giudice trasparente e imparziale. La sentenza poi capovolse questi giudizi…

Berlusconi avrebbe potuto sottrarsi al presunto “plotone d’esecuzione” e farsi giudicare dalla sezione reati finanziari?

No. Avrebbe potuto solo chiedere un rinvio per un eventuale legittimo impedimento, che però non avrebbe comportato un trasferimento automatico ad altra sezione.

Ricorda le date di costituzione della sezione feriale?

Il decreto del primo presidente fu firmato il 21 maggio. Il fascicolo di Berlusconi arrivò a luglio (con indicazione di imminente prescrizione al 2 agosto). Le tabelle stabiliscono le assegnazioni, in automatico. Non c’è discrezionalità. Chi parla di una scelta di giudici fatta apposta per far condannare Berlusconi, dice un falso eclatante.

Lei ha un’idea sul perché il giudice Franco si sia lasciato andare a quelle parole?

Non ho nemmeno un sospetto, e poi farei un’offesa alla sua memoria. In camera di consiglio esiste una dialettica, ognuno porta la sua tesi. Ma sottolineo anche io che la decisione fu unanime.

Succede spesso che tutti i magistrati del collegio firmino le motivazioni?

Può capitare in cause complesse.

Quando accade che significa?

Nel nostro caso, siccome la sezione feriale si sarebbe sciolta di lì a poco, si decise che ognuno di noi si sarebbe fatto carico di una parte delle motivazioni per poi firmare insieme la sentenza. Furono discusse e confutate tutte le tesi difensive. Fu un bel lavoro di squadra.

Condanna, trattativa e grazia. Le amnesie dei “revisionisti”

La Sentenza arrivò con il digitale terrestre e sventrò Palazzo Grazioli. Erano le 19 e 38 del primo agosto del 2013. Silvio Berlusconi era in tuta blu, accoccolato sul divano insieme con Dudù, l’amato barboncino di colore bianco. Il televisore sintonizzato su una rete “domestica”, Canale 5. Il giudice Antonio Esposito lesse il dispositivo in sessanta secondi. Un minuto che valeva una parabola di vent’anni, a far data dal Novantatré in cui maturò la “discesa in campo” del tycoon italiano. E da Cavaliere, B. divenne Pregiudicato.

Attorno a lui, in quell’ora fatidica, lacrime e sguardi sgomenti, al punto che lo stesso Neo-Condannato tentò di rassicurare tutti: “State calmi, per il momento”. Indi un bacio rivelatore a Daniela Santanchè, la Pitonessa a capo dei falchi azzurri insieme con l’allora compagno Alessandro Sallusti, direttore del Giornale di Famiglia. Silvio le sussurrò all’orecchio: “Avevi ragione tu, Daniela”.

Quel giorno infatti si consumò l’amara vendetta degli ultrà berlusconiani che non avevano mai creduto, sino all’ultimo, alle promesse del cosiddetto partito del pareggio o del rinvio. A Palazzo Chigi c’era il governo consociativo di Enrico Letta che aveva due solidi punti di riferimento dentro il magico mondo di B.: lo Zio Gianni, Gran Visir di rito romano e andreottiano, e il potente Angelino Alfano, già delfino senza quid e capodelegazione di Forza Italia nell’esecutivo. Secondo la vulgata informata dei falchi, Zio e Nipote più Angelino, con la benedizione solenne del Colle di Giorgio Napolitano, a suo tempo avrebbero fatto balenare al Caro Leader l’ipotesi della pacificazione travestita da una decisione favorevole della Cassazione: annullamento con rinvio. Cioè rispedire il processo Mediaset in Appello e imboccare quindi la strada della solita prescrizione.

C’erano anche delle subordinate. Tutto fuorché la temuta sentenza di condanna. Così parlò, per esempio, Maurizio Gasparri il 27 luglio, durante la Grande Attesa: “Cosa faremo se martedì condannano Silvio Berlusconi? L’ipotesi che si tenga l’udienza è al secondo posto. Al primo posto c’è la notizia, ossia che ci sarà il rinvio”.

Ecco, dunque, quali erano il clima e il contesto in cui piombò la Sentenza letta dal giudice Antonio Esposito in appena sessanta secondi. Pacificazione, annullamento con rinvio, prescrizione. L’illusione di un salvacondotto ad personam per tutelare l’inciucio di Pd e FI al governo. Oggi i media berlusconiani, vecchi e nuovi, gridano al complotto guidato da Napolitano contro B.: in realtà la gran parte della classe politica della Seconda Repubblica sperò nella salvezza del Caro Leader azzurro.

Non solo.

All’indomani della condanna, iniziò il secondo tempo della trattativa. Stavolta per la grazia a Berlusconi. Ieri, sempre sul Giornale, è stato pubblicato un altro clamoroso dettaglio di quella fase. Clamoroso, se vero, ovviamente. A raccontarlo l’ex senatore Augusto Minzolini, retroscenista di fama: subito dopo la pronuncia della Suprema Corte, Napolitano sarebbe addirittura andato dal professore Franco Coppi, uno dei difensori di B., nel suo studio legale ai Parioli, a Roma. Una discussione, chiamiamola così, per verificare le condizioni della grazia al leader azzoppato. Ma il riservatissimo colloquio, secondo il Giornale, non andò bene. Coppi manifestò subito il no del Condannato a un provvedimento di clemenza collegato al ritiro dalla politica.

Ieri il Fatto ha interpellato fonti vicine al presidente emerito. Fanno sapere di non aver nulla da dire sulla “grancassa” di questi giorni, alimentata anche da quel Sallusti che venne graziato proprio da Napolitano per una condanna per diffamazione. Il professore Coppi, invece, non ha risposto a una richiesta di chiarimenti, ma un quarto d’ora dopo le nostre chiamate ha mandato un comunicato alle agenzie di stampa: “Tutto falso”.

In ogni caso, a ridosso del Ferragosto del 2013, il Quirinale fece una lunga nota, tecnicamente una “dichiarazione”, per puntellare il governo Letta e affrontare la questione Berlusconi. Per decidere su un’eventuale grazia, il centrodestra avrebbe dovuto innanzitutto accettare e riconoscere la sentenza. A quel punto nel percorso per arrivare a un gesto di clemenza – riferirono all’epoca gli esegeti del Colle – il Condannato avrebbe dovuto fare un passo indietro, da leader a padre nobile. La trattativa si trascinò fino all’autunno, quando in vista del voto sulla decadenza di Berlusconi al Senato, si parlò di grazia ad personam. Il Fatto anticipò la notizia il 22 ottobre. Il Colle la smentì come “panzana assurda”. Un anno dopo, Alfano consegnò a Bruno Vespa una versione opposta a quella del Quirinale: “Napolitano accettò la proposta di una grazia motu proprio per B. a patto che lui si dimettesse dal Senato”. Alfano tornò a Palazzo Grazioli “entusiasta”, ma Niccolò Ghedini lo gelò con un no.

E agli incontri con Berlusconi c’era anche Cosimo Ferri

Agli incontri tra il giudice Amedeo Franco e Silvio Berlusconi era presente anche Cosimo Ferri, leader storico di Magistratura indipendente e allora sottosegretario alla Giustizia del governo Letta, sostenuto anche da Berlusconi. Franco era il relatore della sentenza di Cassazione che il 1° agosto 2013 conferma la condanna (4 anni per frode fiscale) all’ex presidente del Consiglio. Non segnala alcun dissenso, firma la motivazione in ognuna delle 208 pagine, ma qualche settimana dopo va a “sgravarsi la coscienza” – dice – per una sentenza “che è una porcheria”, che “fa schifo”, che arriva al termine di una vicenda “guidata dall’alto”.

Cosimo Ferri, ora renziano, è il prototipo dell’uomo-centauro all’italiana, mezzo magistrato e mezzo politico. Ha attraversato più d’una stagione rivestendo prima la toga, poi la cravatta dell’uomo di partito e di governo. Mantenendo sempre una grande influenza nella magistratura grazie al suo ruolo di leader di corrente. La sua presenza attorno alla vicenda della sentenza Berlusconi è segnalata dallo stesso presidente della sezione di Cassazione che conferma la condanna, Antonio Esposito, che così l’ha raccontata ieri in un’intervista al Fatto: “Non subii alcuna pressione per condannare, ricordo solo, e la questione potrebbe non avere alcun rilievo, che fui invitato molto gentilmente da Cosimo Ferri a Pontremoli, al premio Bancarella. Mancavano due settimane alla sentenza e per motivi d’opportunità declinai l’invito”. Gli incontri tra Franco e Berlusconi sono tre e avvengono tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 a Palazzo Grazioli, residenza romana dell’ex presidente del consiglio. Vengono registrati, a insaputa di Franco, che racconta che il verdetto era già deciso; che la decisione fu sottratta al collegio naturale, e cioè la terza sezione penale della Cassazione (a cui apparteneva Franco), che lo avrebbe assolto, per assegnarla invece alla sezione feriale, presieduta da Antonio Esposito, che agì come un “plotone d’esecuzione”; per ottenere lo spostamento di collegio, la scadenza della prescrizione fu anticipata al 2 agosto 2013, mentre era il 25 settembre 2014. I documenti dicono però altro. La prescrizione si era già mangiata le frodi commesse prima del 2002 e 2003 e aveva lasciato sopravvivere soltanto i reati fiscali commessi in quei due anni. Il processo arriva, a inizio luglio, alla sezione naturale, la terza, quella di Franco. È questa sezione che la invia il 9 luglio 2013 alla sezione feriale (un collegio che era già stato composto in tempi non sospetti, il 21 maggio), con la scritta tutta maiuscola “URGENTISSIMO, prescrizione 2 agosto”.

Ieri anche Berlusconi ha raccontato la sua versione: “Il giudice Franco voleva liberarsi la coscienza da un peso che non sopportava più. Da tempo aveva chiesto di parlarmi e io mi ero rifiutato, perché ero troppo amareggiato per quello che avevo subito. Avevo la tentazione di lasciare tutto e di andarmene all’estero, a costruire ospedali nel terzo mondo. Per questo di malavoglia accettai quell’incontro. Devo dire che il giudice Franco mi fece un’impressione notevole. Un uomo davvero tormentato”.

Napoli, la Procura indaga sui testimoni a favore di B.

C’è un’indagine in corso a Napoli che incrocia le storie delle testimonianze raccolte dalla difesa di Silvio Berlusconi sulla sentenza di Cassazione che ha portato alla condanna dell’ex premier a 4 anni per frode fiscale. Il fascicolo, per ora senza reati né indagati, è stato aperto dopo un esposto presentato da Antonio Esposito, presidente del collegio che ha condannato Berlusconi. Proprio in questi giorni Esposito è finito al centro delle polemiche dopo un audio rivelato dalla trasmissione Quarta Repubblica di Nicola Porro e rilanciato da una certa stampa che ha colto l’occasione, ancora una volta, per gridare al colpo di Stato: nell’audio si sente Amedeo Franco, giudice relatore di quella stessa sentenza, che parla di “plotone d’esecuzione”, di “porcheria” e “condanna a priori”. Fatto questo noto.

Non lo è la denuncia di Esposito depositata il 29 maggio 2019. Qui il giudice, ora in pensione, fa riferimento a tre dichiarazioni “allegate al ricorso” alla Corte europea dei diritti dell’uomo presentato dai legali di Berlusconi, “rese il 3 aprile 2014 da dipendenti di tale Domenico De Siano”. È un senatore, coordinatore campano di Forza Italia. Il riferimento nell’esposto è ai verbali – raccolti dall’avvocato Bruno Larosa, difensore di Berlusconi – di tre dipendenti dell’hotel villa Svizzera, i quali riferiscono di parole offensive pronunciate da Esposito nei confronti di Berlusconi. Tra questi c’è Giovanni Fiorentino, sentito in indagini difensive il 3 aprile 2014. Cameriere dell’albergo di Lacco Ameno, sul giudice dice: “Lo ricordo dal 2007 fino al 2010/2011, non so essere preciso. Ricordo che era un nostro cliente abituale”. Poi aggiunge: “Esposito spesso chiedeva di chi fosse la struttura alberghiera ed io rispondevo di De Siano, esponente politico di Forza Italia e all’epoca sindaco di Lacco Ameno. La sua risposta in napoletano era: ‘Ah sta con quella chiavica di Berlusconi’”. In un’altra occasione, “(…) nell’incontrarmi (…) affermava che prima o poi avrebbero arrestato sia il mio datore di lavoro che il Berlusconi”.

Secondo Fiorentino, il giudice “all’ingresso del ristorante invece di dire buona sera, era solito affermare: ‘Ancora li devono arrestare?’, riferendosi a Berlusconi e al mio datore di lavoro”. Lo stesso giorno del 2014 in indagini difensive viene sentito anche Michele D’Ambrosio, responsabile di un settore del ristorante della stessa struttura alberghiera. “A Berlusconi se mi capita l’occasione gli devo fare un mazzo così”, è una delle frasi che l’uomo dice esser state riferite dal giudice.

Nella sua denuncia, quindi, Esposito chiede ai pm di fare chiarezza su due questioni. In primis, chiede di accertare se nei confronti dei tre testimoni “sia ravvisabile l’ipotesi di false informazioni al pubblico ministero, disponendo tutti gli accertamenti al fine di acclarare l’eventuale concorso di altre persone (verificando in particolare chi ha segnalato all’avvocato Larosa i tre nominativi e l’eventuale ruolo nella vicenda dal De Siano)”. Esposito poi sostiene che l’avvocato Larosa non poteva svolgere indagini difensive “mancando l’esistenza di un procedimento penale, giacché tale attività investigativa è stata svolta con riferimento al ricorso della Corte Europea dei diritti dell’uomo”. Il tema è stato sollevato pure in un esposto di Esposito al consiglio dell’ordine degli avvocati, davanti al quale Larosa ha rivendicato la correttezza del suo operato ed è stato archiviato.

Nel fascicolo del pm Maria Di Mauro a oggi non ci sono indagati né reati. L’inchiesta è infatti alle battute iniziali. Anche a causa Covid, la richiesta di Esposito a essere sentito è stata esaudita solo lunedì scorso. Il giudice ha negato ancora una volta di aver riferito le frasi riportate nei verbali. La sua deposizione avveniva nel pomeriggio. La sera è arrivata la trasmissione di Porro e l’audio del giudice (ora deceduto) Amedeo Franco. Poi il passo per gridare al complotto è stato breve, coi forzisti che hanno chiesto una commissione parlamentare. Intanto Esposito ha annunciato: “Lunedì presenterò a Roma querele per diffamazione e chiederò che si faccia luce su una storia con molti lati oscuri. Chiederò l’acquisizione dell’audio di Amedeo Franco”. Sull’asse Napoli-Roma la vicenda può riservare altre sorprese.

Aziende di Stato, una regia unitaria per ricostruire. E Gualtieri dice sì

Non sarà stata la “semplicità che è difficile a farsi”, ma non era nemmeno così complicato. Eppure c’è voluta l’iniziativa del Forum Disuguaglianze Diversità, coordinato da Fabrizio Barca, ex ministro, ex funzionario di primo piano della Banca d’Italia, per dare un’indicazione preziosa: prendere l’eccellenza rappresentata dalle aziende pubbliche italiane, provare a coordinarle, costruire una discussione comune sulle strategie e per questa via affrontare seriamente un processo di innovazione e ricostruzione.

L’iniziativa presa dal Fdd, con queste caratteristiche, ha ricevuto la “benedizione” del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, il “vero” azionista delle diverse imprese interessate, anche con toni divertiti: “Agli Stati generali organizzati da Conte – ha detto il ministro – ci siamo riuniti per la prima volta con vari manager pubblici e, devo dire, è stata una riunione ricca e densa”. Anzi, aggiunge, “devo dire che una riunione di quel tipo io non l’ho mai tenuta, è stata la prima volta tutti insieme”.

Gualtieri ha pronunciato le parole con la circospezione di chi sa che dietro l’angolo è subito pronta l’accusa di “statalista”. Però anche lui, così come i vari manager invitati – Alessandro Profumo di Leonardo, Matteo Del Fante di Poste, Valentina Bosetti di Terna, Francesco Caio di Saipem e anche un imprenditore privato come Sergio Dompé – hanno dovuto convenire che gestire un dibattito strategico in comune avendo a disposizione un patrimonio pubblico, è meglio.

La proposta del Fdd, del resto, è stata chiara: “Promuovere il confronto strategico fra le imprese pubbliche e condividere e rendere trasparenti missioni strategiche nell’energia, nel digitale, nella mobilità, in tutte le attività della frontiera tecnologica”. L’organismo civico, che si sta distinguendo come un centro di collegamento tra mondo istituzionale e realtà civiche, è andato anche oltre proponendo la “costituzione di un Consiglio degli Esperti in seno al ministero dell’Economia e delle Finanze”, composto da personalità competenti incaricate di seguire le imprese pubbliche. Qui Gualtieri si è tenuto più accorto, sempre attento a quell’accusa di statalismo che è pronta a essere impugnata anche dentro al governo.

Il dibattito si è potuto fare anche perché, dopo quarant’anni di ubriacatura liberista nel nome delle privatizzazioni, si scopre che le aziende pubbliche vanno bene e sono utili. In Italia, impiegano oltre 350.000 addetti, costituiscono più del 17% degli investimenti fissi delle imprese italiane e circa il 17% della loro spesa in ricerca e sviluppo”. Rappresentano circa il 29% della capitalizzazione complessiva della Borsa di Milano e operano in settori “di notevole interesse strategico, tra cui energia, trasporti, manifattura di sistemi ingegneristici complessi ad alto contenuto tecnologico, distribuzione”. Staccano un cospicuo numero di dividendi, 3 miliardi circa all’anno.

Il rapporto Fdd si è basato su interviste con i vertici delle imprese pubbliche ed è durata undici mesi avendo come bussola “liberare il potenziale complessivo delle imprese pubbliche che risulta ancora ampiamente inespresso”. Una proposta che ribadisce “autonomia” gestionale delle imprese proponendo, anche con il Consiglio degli Esperti, un coordinamento di tipo strategico.

I manager intervenuti si sono detti abbastanza favorevoli, ma in un convegno, peraltro a distanza e quindi in collegamento online, non è un impegno difficile da prendere. Interessante il punto di vista di Sergio Dompé, presidente e ad di Dompé Farmaceutici, secondo il quale “le imprese pubbliche possono concorrere a promuovere il meglio nelle imprese che operano con loro raggiungendo una capacità competitiva che da sole non raggiungono”. Il pubblico come volano di una filiera integrata, sia pure raccomandando prudenza, ma mostrando anche che l’impresa italiana non è tutta come la immagina il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi.

“Una delibera per ri-tagliare i vitalizi”. Niet della Casellati

Una nuova delibera per tentare di sterilizzare la decisione con cui sono stati ripristinati i vitalizi. O almeno impedire che gli ex senatori battano cassa per riavere gli arretrati fino alla sentenza d’appello.

La decisione della Commissione Contenziosa del Senato che l’altro giorno in un blitz notturno ha cancellato il taglio degli assegni in vigore dal 1° gennaio 2019 ha mandato Palazzo Madama in fibrillazione. Perché ora tutti propongono rimedi contro il privilegio restaurato da Caliendo&C. proprio mentre gli (altri) italiani sono alla canna del gas per via del coronavirus. Ma la strada è strettissima, anche se l’imbarazzo è grande a Palazzo. Perché la presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati ha già risposto picche a chi cerca di tirarla per la giacchetta: “Contro la sentenza Caliendo è possibile fare ricorso”, ha detto lasciando però intendere che lei non vuole saperne niente. Perché se è vero che è la presidente del Senato, il capo dell’Amministrazione (a cui spetta eventualmente costituirsi in giudizio di fronte all’organismo di giustizia interna di secondo grado) è la Segretaria generale Elisabetta Serafin. Su cui, pare di capire, non può esser fatto alcun pressing. Almeno a sentire Francesco Giro, forzista come Casellati e Caliendo, che l’ha messa così: “Chiunque dovesse esercitare in modo giuridicamente illegittimo le proprie funzioni istituzionali all’interno del Consiglio di presidenza del Senato, arrivando persino a esercitare indebite pressioni sul Segretario generale, è certamente suscettibile di una denuncia per abuso di ufficio”.

Qualcuno ha capito l’antifona e infatti procede con passo felpato: durante la riunione della capigruppo di ieri, Andrea Marcucci ha ribadito che “il Pd è favorevole al ricorso sui vitalizi, nel rispetto del segretariato generale”.

Ma c’è pure chi insiste a responsabilizzare la Casellati. Nel corso della riunione di ieri è stato infatti deciso di formalizzare la richiesta di una convocazione del Consiglio di presidenza sul dossier vitalizi. Lo ha spiegato per i 5 Stelle Paola Taverna: “La presidente per ora ci ha risposto no, ma è necessario un confronto in quella sede per capire come sia stato possibile, cosa sia è successo (nella commissione Caliendo, ndr) e come andare avanti per abolire questo privilegio. Lo dobbiamo agli italiani”.

Oggi il Consiglio di presidenza è convocato, ma ha all’ordine del giorno solo un punto, la desecretazione degli atti della Commissione Stragi sfumata all’ultimo minuto la scorsa settimana. Il M5S insiste perché si discuta anche del nodo vitalizi verificando se il massimo vertice del Senato possa almeno sospendere la sentenza che ha cancellato il taglio. La battaglia insomma è appena cominciata, anche se il solito Matteo Salvini tenta di buttarla in caciara: annusata l’aria, ha promosso una raccolta di firme contro i vitalizi. Pur sapendo che per incidere bisognerebbe che facesse la voce grossa insieme agli alleati di destra con i vertici del Senato.