Il decreto Semplificazioni di Giuseppe Conte ha scatenato la più insidiosa delle complicazioni: la competizione politica. Ieri alla Camera, dopo la vetrina degli Stati generali, il premier ha definito il decreto da approvare come la “madre di tutte le riforme”. E dunque Conte ritiene di riuscire lì dove tutti hanno fallito, con ciò si giustifica il braccio di ferro dei suoi alleati di governo. Il premier spera di portare domani il decreto in Consiglio dei ministri, ma ogni ora che passa la bozza studiata a Palazzo Chigi viene modificata, riceve contestazioni, rischia di finire col trasformarsi in un testo rabberciato e spolpato.
I partiti di maggioranza, soprattutto il Pd di Nicola Zingaratti o meglio del capo della delegazione nonché ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e Italia viva di Matteo Renzi, stanno smontando pezzo dopo pezzo il testo che dovrebbe servire a ridurre la burocrazia e a incentivare la crescita. Le norme sull’edilizia sono state il detonatore, il ministro Sergio Costa (Ambiente), l’intero centrosinistra e pure i renziani hanno denunciato il condono, ma per Palazzo Chigi quella parte, ormai stralciata, era soltanto un’appendice di un decreto che serve più che altro a sveltire le pratiche per le nuove opere. Come si è scritto si trattava di un articolo di legge, secondo la sua ultima versione, che sanava con una multa vecchi abusi edilizi, se adesso in linea col piano regolatore, senza eliminarne le conseguenze penali. Era un modo suggerito dalle Regioni – dicono da Chigi, in particolare dall’Emilia-Romagna di Stefano Bonaccini e da Giovanni Legnini, il commissario alla ricostruzione e poi accolto dai collaboratori di Conte – per distinguere quello che va abbattuto da quello che può restare. Non era la pietra angolare del decreto Semplificazioni. Si era trovato un accordo anche con Franceschini, poi il Pd, scoppiata la polemica, ha cambiato idea. Il capo delegazione dem si è dileguato e ieri le Regioni hanno smentito la richiesta. A differenza degli altri decreti sfornati con la pandemia, questo testo è stato lavorato interamente a Chigi e poi discusso, ieri fino a tarda notte e ancora stamani, con i vari deputati, senatori e ministri. La sensazione di Palazzo Chigi è che, superati i rilievi come quelli sull’edilizia, il negoziato sia ormai guidato soltanto dalla speculazione politica e che “la madre di tutte le riforme” possa diventare un pasticcio.
Adesso i partiti sono concentrati sulle procedure di appalto. La bozza presenta una formula assai dirompente: di fatto sospende per un anno le gare nel settore degli appalti pubblici, a favore di procedure negoziate con le imprese (sotto i 5 milioni si tratta solo di 5 aziende), crea una corsia in deroga a quasi tutte le norme per le opere “prioritarie” e per quelle “complesse” ci si affida ai commissari. Su questi insistono molto Italia Viva e i 5Stelle, ma anche il ministro De Micheli, e in generale la politica, preferirebbe ricorrere a queste figure piuttosto che una deregolamentazione generalizzata. Sulla sospensione delle gare, infatti, il Pd non è convinto (come non lo è Liberi e uguali), anche perché lo schema studiato a Palazzo Chigi di fatto estende il “modello Genova”, pensato per costruire il ponte post-tragedia del Morandi senza gara e in deroga a tutto – grazie a un commissario –, a gran parte dei nuovi appalti. Su questo lo scontro è in atto. Palazzo Chigi non vuole cedere, mentre dai 5Stelle Costa preme per non tagliare i tempi della Valutazione di impatto ambientale. Oggi il Pd e gli alleati si presenteranno alle 9.30 con nuove proposte. Conte voleva chiudere oggi. È probabile che se ne riparli la prossima settimana.