Il decreto Semplificazioni in stallo, Conte teme lo stop

Il decreto Semplificazioni di Giuseppe Conte ha scatenato la più insidiosa delle complicazioni: la competizione politica. Ieri alla Camera, dopo la vetrina degli Stati generali, il premier ha definito il decreto da approvare come la “madre di tutte le riforme”. E dunque Conte ritiene di riuscire lì dove tutti hanno fallito, con ciò si giustifica il braccio di ferro dei suoi alleati di governo. Il premier spera di portare domani il decreto in Consiglio dei ministri, ma ogni ora che passa la bozza studiata a Palazzo Chigi viene modificata, riceve contestazioni, rischia di finire col trasformarsi in un testo rabberciato e spolpato.

I partiti di maggioranza, soprattutto il Pd di Nicola Zingaratti o meglio del capo della delegazione nonché ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e Italia viva di Matteo Renzi, stanno smontando pezzo dopo pezzo il testo che dovrebbe servire a ridurre la burocrazia e a incentivare la crescita. Le norme sull’edilizia sono state il detonatore, il ministro Sergio Costa (Ambiente), l’intero centrosinistra e pure i renziani hanno denunciato il condono, ma per Palazzo Chigi quella parte, ormai stralciata, era soltanto un’appendice di un decreto che serve più che altro a sveltire le pratiche per le nuove opere. Come si è scritto si trattava di un articolo di legge, secondo la sua ultima versione, che sanava con una multa vecchi abusi edilizi, se adesso in linea col piano regolatore, senza eliminarne le conseguenze penali. Era un modo suggerito dalle Regioni – dicono da Chigi, in particolare dall’Emilia-Romagna di Stefano Bonaccini e da Giovanni Legnini, il commissario alla ricostruzione e poi accolto dai collaboratori di Conte – per distinguere quello che va abbattuto da quello che può restare. Non era la pietra angolare del decreto Semplificazioni. Si era trovato un accordo anche con Franceschini, poi il Pd, scoppiata la polemica, ha cambiato idea. Il capo delegazione dem si è dileguato e ieri le Regioni hanno smentito la richiesta. A differenza degli altri decreti sfornati con la pandemia, questo testo è stato lavorato interamente a Chigi e poi discusso, ieri fino a tarda notte e ancora stamani, con i vari deputati, senatori e ministri. La sensazione di Palazzo Chigi è che, superati i rilievi come quelli sull’edilizia, il negoziato sia ormai guidato soltanto dalla speculazione politica e che “la madre di tutte le riforme” possa diventare un pasticcio.

Adesso i partiti sono concentrati sulle procedure di appalto. La bozza presenta una formula assai dirompente: di fatto sospende per un anno le gare nel settore degli appalti pubblici, a favore di procedure negoziate con le imprese (sotto i 5 milioni si tratta solo di 5 aziende), crea una corsia in deroga a quasi tutte le norme per le opere “prioritarie” e per quelle “complesse” ci si affida ai commissari. Su questi insistono molto Italia Viva e i 5Stelle, ma anche il ministro De Micheli, e in generale la politica, preferirebbe ricorrere a queste figure piuttosto che una deregolamentazione generalizzata. Sulla sospensione delle gare, infatti, il Pd non è convinto (come non lo è Liberi e uguali), anche perché lo schema studiato a Palazzo Chigi di fatto estende il “modello Genova”, pensato per costruire il ponte post-tragedia del Morandi senza gara e in deroga a tutto – grazie a un commissario –, a gran parte dei nuovi appalti. Su questo lo scontro è in atto. Palazzo Chigi non vuole cedere, mentre dai 5Stelle Costa preme per non tagliare i tempi della Valutazione di impatto ambientale. Oggi il Pd e gli alleati si presenteranno alle 9.30 con nuove proposte. Conte voleva chiudere oggi. È probabile che se ne riparli la prossima settimana.

Dal Mes fino alla Gronda. Le mine verso il 15 luglio

Semplificare è complicato, per i giallorosa. Ma respirare lo è perfino di più per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Perché il dl semplificazioni, la miccia di liti e accuse incrociate, è lo specchio di un governo che sta implodendo. Su cui incombe Mes, il Moloch che rischia di inghiottire Conte già il 15 luglio, quando sarà in Parlamento per le comunicazioni sul Consiglio europeo di due giorni dopo. E si troverà di fronte la guerra di risoluzioni dei vari partiti, possibili botole per l’avvocato e il suo governo. Nell’attesa il premier è ancora ingabbiato nel labirinto dei veti incrociati dei partiti.

Dopo il vertice di martedì sera, quello in cui il premier ha provato a difendere il condono per gli abusi edilizi per poi dover arretrare, ieri i vari rappresentanti della maggioranza si sono rivisti e sentiti più volte. Ma per portare il decreto domani in Consiglio dei ministri, come vorrebbe ancora il premier, servirebbe un miracolo. Così di sicuro per ora ci sono solo sospetti e i colpi bassi. Quelli di martedì sera, perché mentre il vertice sul dl si dilatava, è stata guerra di spifferi e veline tra 5Stelle, Pd e Palazzo Chigi. “Il condono lo voleva Conte, a un certo punto hanno sostenuto che ritirarlo sarebbe stato una sconfitta politica” morde una fonte del Movimento.

Scene dal magma di governo: complicato dalle convulsioni interne del Pd, per certi versi incomprensibili per il premier e i suoi. Stupiti e preoccupati dagli attacchi a Zingaretti, “perché prima di lui il Pd era a pezzi”. Il premier sa che la caduta del segretario dem metterebbe a serissimo rischio il suo governo. Ma la sopravvivenza di questa maggioranza è fondamentale anche per Zingaretti. Per questo ieri il governatore del Lazio ha seminato ottimismo: “Nel dl semplificazioni ci sono ottime scelte”. Aggiungendo: “Non lasciamo l’Italia agli amici di Bolsonaro e Orban”. Un invito a non sfasciare tutto. Ma tanti prevedono una resa dei conti a settembre. Così non può stare sereno, il Conte che ieri ha scritto a Matteo Salvini, proponendogli un incontro sul decreto rilancio. Certe ombre le ha riviste nel question time alla Camera, dove si è sentito chiedere dalla renziana Raffaella Paita la Gronda di Genova, opera che per il M5S è un’eresia: non proprio un aiuto alla già grottesca trattativa tra i partiti di governo sulle Regionali in Liguria. Mentre il capogruppo dem alla Camera Graziano Delrio ha scandito: “In questi mesi abbiamo avuto troppi silenzi sul tema della scuola”. E comunque alla fine il nodo è sempre quello, il Mes. “Nel dibattito politico sembra la questione prevalente” osserva con una punta di sconforto Conte davanti ai cronisti. “Ma io non temo risoluzioni” giura, per poi ripetere il suo piano di rotta: “Io ho già deciso, ora siamo concentrati sul Recovery Fund. Sul Mes vedremo i conti della Ragioneria dello Stato e leggeremo i regolamenti poi ci confronteremo in Parlamento”.

Però il punto è come. Martedì, come raccontato ieri dal Fatto, il capogruppo del M5S in Senato Gianluca Perilli era corso a depositare una risoluzione per approvare “le comunicazioni” del premier del 15 luglio. Un testo che non cita il Mes e neppure il Recovery Fund, così da schivare guai nell’Aula dove la maggioranza è tornata ieri a quota 161 voti per il passaggio del forzista Carbone a Iv, ma rischia altre uscite dal M5S. Il documento l’avevano sottoscritto anche Pd e Italia Viva, ma ieri la presidente del Senato Casellati l’ha fermato. “Mi riservo di decidere sulla sua ammissibilità” ha spiegato. Ma pare scontato che lo bocci, convinta che le risoluzioni si possano presentare solo il 15 luglio. Per questo Casellati ha mostrato pollice verso anche al leghista Roberto Calderoli, che gli ha consegnato un’altra risoluzione. La certezza è che la battaglia in Aula sui rispettivi testi da votare sarà aspra. Ma c’è anche altro, sostiene un grillino di governo: “Da qui a metà mese bisogna votare anche i nuovi presidenti delle commissioni e i nuovi vertici delle Autorità. E Italia Viva alzerà il prezzo, sfruttando l’imbuto in Aula…”. Un’altra nuvola, sopra Conte.

Blitz 5S alla Camera: sanatoria sugli edili. Rivolta dei sindacati

Il blitz è scattato in mattinata in Commissione Bilancio alla Camera, dove si discute il decreto Rilancio. Sono bastate quattro parole (“sopprimere il comma 1”) infilate in un emendamento per far arrabbiare i sindacati degli edili che parlano di “colpo di spugna vergognoso”, e collezionare una figuraccia al governo che rischia di imbarazzare pure il premier concentrato sul decreto Semplificazioni. Due deputati 5Stelle sono infatti riusciti a far eliminare l’obbligo per le imprese di aggiornare il Durc scaduto il 15 giugno. Il Durc è il documento che attesta il corretto versamento dei contributi ai dipendenti, insomma serve a evitare di far lavorare imprese che sfruttano i lavoratori in nero.

La mossa dà l’idea della mancata presa parlamentare del governo: è avvenuta contro il volere di due ministre, quella del Lavoro, Nunzia Catalfo (M5S), che ha espresso parere contrario, e quella delle Infrastrutture, Paola De Micheli (Pd).

Premessa. In uno dei decreti di Conte a inizio della crisi Covid, si era deciso di prorogare tutti i certificati, compresi i Durc, fino a fine ottobre, in virtù del blocco delle attività dovute al lockdown. Dopo le proteste dei sindacati, in aprile si era arrivati a un protocollo siglato con Catalfo e De Micheli che, decidendo di far riaprire i cantieri edili dal 5 maggio, prorogava la validità dei Durc solo fino al 15 giugno. L’accordo garantito dalle ministre è stato recepito in un comma del decreto Rilancio. Comma che ieri è stato eliminato dall’emendamento dei deputati 5Stelle Leonardo Donno, capogruppo in commissione, e Marialuisa Faro. In questo modo la proroga ritorna a ottobre ma, poiché il Durc ha validità fino a 60 giorni, di fatto è fino a fine anno. “È un modo per aiutare le imprese. Diamo loro un po’ di ossigeno per rilanciarsi in un’ottica di sburocratizzazione e di non dover ricorrere, ad esempio, a un finanziamento per mettersi in regola con il Durc”. I sindacati degli edili – FenealUil, Filca-Cisl, Fillea-Cgil – non l’hanno presa bene. “Le conseguenze sono paradossali e pericolose. Un’impresa edile – attaccano in una nota – risulta regolare e può lavorare fino a fine anno senza pagare i contributi Inps, Inail e gli accantonamenti in Cassa edile (ferie, permessi, ratei di tredicesima). Può addirittura tenere i lavoratori in nero e partecipare ad appalti pubblici e beneficiare di incentivi. Un’azienda che nasce oggi, invece, potrebbe lavorare senza aver mai pagato un contributo e risultare regolare, al pari di chi invece fa impresa seriamente pagando i lavoratori e rispettando leggi e contratti. Altro che lotta al lavoro nero, altro che lotta all’illegalità, alle mafie e alla criminalità”. Il segretario della Fillea, Alessandro Genovesi, è ancora più duro e parla di “regalo ai caporali e alla criminalità: è un condono dei contributi a danno dei lavoratori. Il Durc è il principale presidio di legalità e sicurezza nel settore: dove si lavora in nero avvengono molti più incidenti”.

I sindacati accusano il governo di essersi rimangiato l’accordo di aprile: “La scelta sconfessa anche il premier Conte, che agli Stati generali si era impegnato con noi per un rafforzamento del Durc e degli strumenti di contrasto al lavoro nero”. L’emendamento è passato in commissione a maggioranza. “I 5 Stelle si sono impuntati…”, si giustificano i deputati di Pd e LeU, nell’anonimato. Il ministero del Lavoro aveva dato parere negativo. Quello delle Infrastrutture, a quanto filtra, ha proposto di corregere l’errore con un nuovo emendamento, ma il niet dei 5Stelle ha bloccato tutto. De Micheli e il sottosegretario all’Economia Cecilia Guerra (LeU), che definisce la scelta “gravissima, un regalo ai caporali”, hanno posto il tema al vertice di maggioranza sul decreto Semplificazioni. Pd e LeU hanno cercato invano di convincere i colleghi pentastellati almeno a evitare la proroga per le imprese che lavoreranno con l’ecobonus.

“Non controlliamo i nostri deputati”, ammettono nei ministeri 5Stelle. Catalfo, che è espressa dai 5Stelle, spera di correggere l’errore al Senato o nel nuovo decreto. “Se non tornano indietro, ci faremo sentire in tutte le sedi e in tutte le piazze”, avvisano i sindacati.

Nastro Azzurro

Non ci sono parole, ma solo risate, per commentare la servitù volontaria dei berluscones che da trent’anni si vendono la faccia in cambio della pagnotta, fingendo di credere alla favola del bravo imprenditore che s’è fatto da sé, boicottato dai poteri forti, dai comunisti e dalle toghe rosse, ma alla fine viene sempre assolto (o prescritto, per loro è lo stesso) perché è innocente come un giglio di campo, non ha mai corrotto politici, giudici, finanzieri, testimoni, senatori e minorenni, era davvero convinto che Mangano fosse uno stalliere, Dell’Utri un bibliofilo, Previti un avvocato, Gelli un materassaio, Craxi uno statista, Ruby (marocchina) la nipote di Mubarak (egiziano) e, se una volta lo condannano per una frode fiscale da 368 milioni di dollari, è un complotto. Più preoccupante è il caso dei giornali “indipendenti” (dalla verità e dal ridicolo), che prendono sul serio o sottogamba l’ultima minchiata della Banda B., utilissima ai loro traffici per il governo di larghe intese&imprese. Da anni invocano una legge-bavaglio contro le intercettazioni legali a fini di giustizia (quelle disposte dal giudice su richiesta del pm) e ora non si scandalizzano per quelle illegali a fini di ingiustizia (realizzate da B., non si sa se d’accordo col giudice Franco o a sua insaputa, né dove, né quando, né montate da chi, certamente conservate per 7 anni con tutti i ricatti possibili e immaginabili, infine diffuse dopo la morte del parlante per salvarlo dalle conseguenze e fare un po’ di casino). Che non sono una novità. Ma una prassi.

Da quando non riesce più a comprarsi i giudici, B. vince la sua innata ritrosia per le intercettazioni e se le fa in casa per sputtanare chi gli dà noia. Il nastro, segreto perché penalmente irrilevante, di Fassino che dice a Consorte “abbiamo una banca?”, rubato da un dirigente dell’azienda che l’aveva realizzato per i pm, regalato a B. e finito nel 2006 in prima pagina sul Giornale per la campagna elettorale anti-Pd, lo ricordano tutti tranne il Pd. Ma il vero “nastro zero” è quello del 1995 contro Antonio Di Pietro che, appena svestita la toga, respinge le sirene di B. e vuole entrare in politica con tutta la sua popolarità. I berluscones, terrorizzati, lo coprono di denunce alla Procura di Brescia, ma le indagini languono e rischiano il flop. Così B., il 7 settembre, invita ad Arcore un suo vecchio dipendente e amico, legato anche a Di Pietro: il costruttore Antonio D’Adamo, che naviga in pessime acque. E si impegna ad aiutarlo finanziariamente in cambio della testa di Tonino. Quando D’Adamo esce da villa San Martino, chiama la figlia che gli domanda: “Papà, ma tu sei riuscito a fare qualcosa per lui?”. E D’Adamo: “Certo, Patrizia, c’è tutta una contropartita…”.

Silvio gli ha appena promesso di levargli le banche dalle calcagna e di sbloccargli un affare edilizio in Libia. Due anni dopo Previti produce a Brescia un memoriale di D’Adamo che rievoca creativamente un prestito di 100 milioni di lire all’ex pm (poi restituito) e altri particolari opportunamente ritoccati per accreditare l’accusa dei pm: che Di Pietro abbia concusso il banchiere-corruttore Pacini Battaglia per salvarlo da Mani Pulite in cambio di una tangente parcheggiata sui conti di D’Adamo. B. corre a testimoniare: “D’Adamo mi ha riferito di aver ricevuto da Pacini un finanziamento di 9 miliardi, di cui avrebbe dovuto restituire a Pacini 4,5 miliardi, mentre la restante somma avrebbe dovuto essere destinata al dottor Di Pietro, pienamente consapevole e consenziente”. E aggiunge che, per puro caso, il suo collaboratore Roberto Gasparotti ha registrato D’Adamo mentre gli confida il peccato mortale di Tonino. Gasparotti presenta ai pm un “taglia e cuci” delle parole di D’Adamo, che però non sono così chiare come dice B.: è anzi quest’ultimo che tenta di far dire al costruttore che Di Pietro era un corrotto, mentre D’Adamo, finito in un gioco più grande di lui e rischiando la calunnia, si schermisce: “Dottore, lei sa quanto le voglio bene e quindi non ho paura… ma se dice una cosa di questo tipo si incasina… lei queste cose le lasci dire a me…”. Nel nastro “taglia e cuci” made in Arcore, D’Adamo mente su un credito aperto con Di Pietro (che invece ha restituito tutto nel ’94). Ma quando depone a Brescia, si contraddice e non conferma che Di Pietro sia un corrotto.

Così l’ex pm è prosciolto dal gup Anna Di Martino con parole definitive su B. (almeno per chi ha buona memoria): “La genesi delle accuse di D’Adamo rinviene dai sedimentati risentimenti nutriti da Silvio Berlusconi nei confronti dell’ex magistrato, risultando poi per tabulas

che proprio Berlusconi (e Previti) sospinse D’Adamo alla Procura di Brescia, utilizzando ogni mezzo e facendo leva sull’antico rapporto di lavoro subordinato e sullo stato di dipendenza finanziaria e psicologica di D’Adamo”. Il nastro dimostra un’“inquietante soggettiva interpretazione dei fatti da parte del Berlusconi, ma anche un abbandono strumentale del D’Adamo a rivelazioni forzatamente alterate dei suoi rapporti con Di Pietro” per

“soddisfare l’ansia accusatoria del suo interlocutore (Berlusconi) nei confronti dell’ex pm e ottenere soccorsi”. Ecco, signore e signori che ancora ci cascate: questo è l’uomo, l’ometto che con una mano accende il registratore per le balle di Franco contro Esposito e con l’altra sventola il vessillo della privacy contro le intercettazioni. Quelle legali, quindi non le sue.

Quel maledetto 1980, quando la ’ndrangheta si presentò al mondo tra sangue e affari

Formidabile quell’anno. Quel 1980 che per l’Italia è un anno di grandi trasformazioni. Enzo Ciconte, storico di solide radici calabresi, lo analizza partendo dalla sua realtà. Nel suo ultimo libro (Alle origini della ’ndrangheta. Il 1980, editore Rubbettino), Ciconte ripercorre i fatti di quell’anno partendo da due omicidi politici, quello di Peppe Valarioti e Giannino Losardo. Due vite straordinarie, due vittime, ancora quarant’anni dopo, senza colpevoli. Mettendo insieme i pezzi di una storia che ha al centro la ’ndrangheta, Ciconte offre una analisi che propone spunti per una lettura del fenomeno validissimi anche ai giorni nostri. Dalla sua l’autore ha gli “attrezzi” dello storico, e si giova dei tanti ricordi personali del suo passato di dirigente comunista calabrese, e comunisti erano Valarioti e Lo Sardo. In quel 1980 la’ ndrangheta si presentava sullo scenario nazionale e calabrese come la più moderna organizzazione criminale. Tutte le analisi che la rappresentano come una organizzazione agro-pastorale rintanata tra l’Aspromonte e lo Zomaro, vanno buttate. È una organizzazione in forte mutamento. Solo che, annota Ciconte, quella trasformazione “non la coglie nessuno”. Nella regione più povera d’Italia i sequestri di persona fungono da “accumulazione primaria del capitale mafioso”. La Calabria è investita dai soldi del “Pacchetto Colombo”, una sorta di “risarcimento” dopo la rivolta di Reggio di dieci anni prima, e i boss ci sono con le loro imprese. I Piromalli a Gioia Tauro puntano al Porto, i Pesce e i Bellocco a Rosarno, i De Stefano a Reggio. In quell’anno la ‘ndrangheta è già “Santa”, ha un livello di élite che le consente di intrecciare rapporti con politica, Stato e massoneria. I boss piazzano i loro uomini alla Regione, contribuiscono all’elezione di deputati. A Rosarno come a Cetraro eleggono loro rappresentanti al Comune. Sono le due città dove muoiono uccisi Valarioti e Losardo. Peppe è un giovane insegnante di Rosarno, figlio di contadini e segretario della sezione del Pci. Nella sua città comandavano i Pesce e i Bellocco. Peppe dava fastidio, aveva una visione moderna della lotta alla mafia, ai boss voleva strappare potere e consensi. Lo uccisero l’11 giugno 1980. Giannino Losardo era un funzionario della Procura di Paola, ma soprattutto un esponente di spicco del Pci di Cetraro, il paese del clan Muto, il re del pesce. I boss lo consideravano un nemico. Lo uccisero 11 giorni dopo Valarioti. Losardo e Valarioti, scrive Ciconte, “non sono eroi solitari… ma espressione di una battaglia corale… muoiono perché sono percepiti e sono diventati un ostacolo… per gli affari mafiosi”.

L’amore puro di Maria nella penna dell’Alberti

Michela Murgia ha inaugurato la collana di Marsilio, “Passa parola”, originale iniziativa che si propone di accoppiare libri inediti di scrittrici e scrittori a classici del passato, attraverso scelte di stile e di gusto personali, a rappresentare, appunto, un ideale passaparola, da sempre lo strumento più artigianale ed efficace capace di fare la fortuna di un libro, moltiplicandone i lettori.

Dopo la scrittrice sarda che ha scelto di riferirsi a Bradley, sono seguiti Alessandro Giammei con Fitzgerald, Lisa Ginzburg con Shelley, Simona Vinci con Grimm, Annalisa De Simone con Jane Austen e, appena pubblicato, Mio Signore di Barbara Alberi che ha scelto quello che lei stessa nella postfazione, ha definito non padre ma consanguineo, il romanzo La Madre Santa di Leopold von Sacher-Masoch.

Alberti accomuna la campagna ucraina di fine 800 descritta da Von Sacher-Masoch a Fratta, il nome antico di Umbertide, un paese umbro in cui è ambientato gran parte del romanzo ambientato negli ormai arcaici anni 60. C’è sempre qualcuno a scovare la presenza del divino nel prossimo. Di un bel viso di vergine, un’incauta ragazzina, Von Maosch ne fa la Madonna. È venerata da una setta di fedeli devoti come Madre di Dio, ed elargisce punizioni. Mentre Barbara Alberti, nel solco del capovolgimento – forte di propria invincibile originalità – segue le vicende di una donna di nome Maria che scambia il proprio vicino di casa nientemeno che per il Dio incarnato. Ed ecco un povero sfigato caricato dal complicato ruolo pur essendo lui “L’ultimo degli ultimi”, e lei – Maria, il nome del personaggio – “testimone di un Dio perdente”. Ecco, quindi, la miscela perfetta di un racconto tutto da godere. Anche senza scomodare l’illustre barone austriaco di origini ucraine, Mio Signore sa ricreare quell’atmosfera di piccola comunità dove i fatti di uno sono i fatti di tutti, dove niente si può nascondere, dove l’occhio sociale è implacabile, cinico e quasi mai benevolo. I caratteri dei personaggi sono volutamente grotteschi, sorretti magnificamente dal dialetto umbertidese, di cui la scrittrice fornisce un gustoso piccolo vocabolario, ma che facilmente si comprende e veste i personaggi facendone risaltare le piccole vanità, le grandi invidie, i rancori violenti, la smania di vendetta, ma anche il bene che, sempre riesce a farsi strada anche quando tutto sembra perduto. Su tutti si staglia la protagonista della storia, all’inizio il personaggio più anonimo, meno visibile, pura comparsa nella comunità. Il suo delirio travalica nel climax del racconto e dà senso a una vita grigia di stenti e umiliazioni. Accanto a lei il suo alter ego maschile, l’uomo che tutti facilmente mettono alla berlina, il più vulnerabile, in un gioco di beffe continue di cui rappresenta un bersaglio anche troppo facile.

Pian piano il gioco cambia, i personaggi assumono altri ruoli, in un giro di valzer in cui i ruoli cambiano, i forti diventano deboli e viceversa. Alvaro è il nostro personaggio preferito, l’invincibile giocatore di poker che per la sua eleganza proprio fuori luogo e la sua bravura, è l’unico personaggio a destare ammirazione sincera nei suoi compaesani. Maria è l’amore puro, troppo difficile da comprendere per i frattesi, Andrea nonostante la metamorfosi, resta il solito maschio che tra gli istinti predatori nemmeno troppo rapaci e l’amore disinteressato, sceglie i primi rimpiangendo per sempre il secondo. Il finale non si può, qui più che mai svelare.

Sorrentino batte pure la noia

Grazie a Dio, Sorrentino c’è. Altrimenti, la collettanea di corti Homemade potremmo tranquillamente risparmiarcela. Il suo Voyage au bout de la nuit (Viaggio al termine della notte) merita. Ha titolo immodesto, certo, ma al romanzo del cuore non si comanda e il lockdown ne prescrive l’uso metaforico. È un delizioso divertissement e ribadisce, sulla scorta di Amici miei, che cosa sia il genio: “È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione”. Disponibile su Netflix, il progetto “Fatto in casa” è stato voluto da Lorenzo Mieli, ceo di The Apartment, e Juan de Dios Larraín e Pablo Larraín di Fabula, che hanno chiamato filmmaker da ogni parte del mondo a raccontare il proprio confinamento domestico per la Covid-19. La velocità d’esecuzione l’hanno sperimentata tutti i 17 registi, il colpo d’occhio qualcuno, intuizione sparuti, fantasia solo Paolo, alla resa dei corti primus inter pares, e più: Larraín stigmatizza senza ironia il maschilismo tossico; Kristen Stewart si abbandona a una stucchevole egolatria; Ladj Ly rifà in sedicesimi I miserabili; il talentuoso Antonio Campos (Afterschool) ammonisce sulla diversità in interno radical chic; Maggie Gyllenhaal dà all’incolpevole marito Peter Sarsgaard il compito di rincarare la dose pandemica e distopica; Ana Lily Amirpour pedala tra una banalità e l’altra a Los Angeles; Naomi Kawase elogia la resilienza e tanto basti per desistere. Che barba, che noia, un’idea manco a parlarne, e se la furbizia di Mieli e dei fratelli Larraín non si discute, qui devono moltissimo al capofila Sorrentino: nella bella casa – finalmente un cineasta con una bella casa, dopo i brutti tinelli che abbiamo subito via Zoom – di piazza Vittorio, con l’aiuto della famiglia, ci regala il suo terzo Papa. Dopo The Young e The New, ecco “The Short Pope”, non per le ambizioni, al massimo per il minutaggio (7’14”) e perché statuina (solare, dieci euro su Amazon): congedato Maradona (“Muchas gracia por la visita”), quel che supponiamo essere Papa Francesco (voce di Javier Cámara) accoglie la Regina Elisabetta (Olivia Colman), di blu vestita e con manina mobile e salutante.

Il pontefice e Sua Maestà compiono un tour del Vaticano, dove compare un risparmiabilissimo Lebowski, e intrappolati dal lockdown regalano allo spettatore dialoghi da “La grande Papezza”: “Dove mi porta adesso? – A letto. È la mia battuta preferita, un lusso che non posso concedermi”; “Io e te siamo solo dei simboli. Per questo non sappiamo fare niente”; “Loro hanno 50 metri, io e te 50 ettari – L’isolamento è una condizione dello spirito”; “Sei davvero una donna straordinaria – Non è che tutte possano diventare regine”; chiusa à la Jep Gambardella con panoramica sull’Esquilino, “Roma è bellissima così. Vuota, disperata… e sola – Come noi”.

Nella forzata, ma non noiosa reclusione, Francesco ed Elisabetta si ritagliano libertini un bagno nudi, ma Sorrentino non è da meno in quanto a trasgressione: fa di necessità virtù, di committenza Netflix autoironia, e li mette a bisticciare – lui autore di altri due Papi… – tra The Two Popes e The Crown. Insomma, un corto che spiana felicemente la strada alle prove, ben più impegnative, che l’attendono. L’americano Mob Girl, con Jennifer Lawrence, lo girerà, ma non subito, prima un film in Italia, a Napoli, a settembre. Il riserbo è massimo, le indiscrezioni – il Daily Mail ne diede notizia – vorrebbero indirizzo autobiografico (adolescenza), romanzo di formazione (il suo maestro Antonio Capuano?) e ambientazione partenopea (Vomero, Arenella). Ignota anche l’architettura produttiva: Indigo come i lungometraggi precedenti o Wildside (Lorenzo Mieli) come le serie e il prossimo Mob Girl, soprattutto, Netflix sarà della partita? Lungi dall’essere al termine della notte, il Viaggio sulla piattaforma potrebbe essere appena iniziato, e di certo Sorrentino avrà ancora al fianco la famiglia: la cognata Daria D’Antonio, direttore della fotografia di questo corto, lo sarà anche dei due lunghi.

Il virus-Bibbiano: “Prove solide, la luce non si spegnerà”

Il Coronavirus ha smesso di occupare ogni piega della cronaca e si torna a parlare di Bibbiano. E succede una cosa strana, ovvero che chi conosce la vicenda, il luogo e il tempo da cui parte, le ramificazioni e gli intrecci di quegli psicologi con i tribunali d’Italia, trova la parola “contagio” aderente anche a questa storia. Perché anche Bibbiano, in fondo, è una malattia che parte da lontano, che si è propagata, che ha scelto il suo paziente zero, il territorio in cui propagarsi silenziosamente, le sue vittime. La Procura di Reggio Emilia ha chiesto il rinvio a giudizio per ben 24 imputati a seguito dell’indagine e Angeli e demoni. Tra questi, ci sono Claudio Foti, il fondatore della onlus Hansel e Gretel, sua moglie Nadia Bolognini, l’ex responsabile dei servizi sociali dell’Unione comunale Federica Anghinolfi (con un numero di capi di imputazione che fa paura) e anche il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, quello a cui secondo Nicola Zingaretti avremmo dovuto chiedere preventivamente scusa, chissà perché. Convocati anche 155 testimoni e tra questi il nome di una persona che è ben più che testimone dei fatti: il giornalista Pablo Trincia. Perché senza il suo lavoro di indagine su “Veleno” e quel che accadde di così simile a Bibbiano nella Bassa Modenese, oggi forse Bibbiano sarebbe solo quell’anonimo comune a sud di Reggio Emilia, in cui nessuno si accorge di quello che accade.

Pablo, sarai nella lista testimoni. Cosa vuol dire?

In un convegno a Mirandola si parlava di Veleno, sul palco qualcuno di noi relatori accennò al fatto che nella Val d’Enza stavano succedendo cose analoghe. Non sapevo delle indagini in corso su Bibbiano. Il giorno dopo la Procura di Reggio mi chiamò per sapere cosa sapessi e perché.

Cosa sapevi?

Ero stato contattato da alcuni genitori coinvolti nei fatti dei Bibbiano. Mi aveva impressionato la somiglianza delle due storie, nonostante i 20 anni tra l’una e l’altra. Bibbiano è un’estensione di Veleno: il mondo dei bambini visto attraverso il filtro del complotto, del satanismo, degli abusi, dei poteri forti.

Lo schema è lo stesso.

Sì, tornano perfino le storie sulle sette sataniche usate per suggestionare, oltre che le pressioni psicologiche sui bambini. Solo che mentre in Veleno c’era pochissimo materiale video e audio per provare le accuse, qui abbiamo letto le intercettazioni, sentito i discorsi di psicologi e assistenti sociali grazie alle cimici, visto le chat in cui dicevano che avevano paura, in cui parlavano di “sistema”.

Sono passati 23 anni dalla prima accusa di un bambino a un genitore nella Bassa Modenese. Qualche bambino di quelli che oggi negano quegli abusi è più entrato in contatto con gli psicologi di Hansel e Gretel?

Uno di loro ha scritto un post su Facebook raccontando che Claudio Foti tempo fa, prima della conclusione delle indagini, lo aveva contattato cercando ancora di convincerlo di aver subito abusi, dicendo che io sono un negazionista.

Perché ci sono voluti 23 anni per smascherare questo sistema?

Tra le altre cose perché è un po’ la giustizia che giudica se stessa. Sono decenni che le procure si avvalgono della consulenza di questi psicologi.

Avresti ritenuto possibile di aprire il giornale una mattina e di scoprire che Foti era finito agli arresti?

Mai. Non ho mai pensato che una procura si sarebbe potuta interessare di abusi non dal lato degli “abusati”, ma da quello di chi raccoglieva le loro testimonianze, degli psicologi, degli operatori, delle suggestioni. Questo processo non ha precedenti nel mondo, è storico.

È il processo a cosa, in sintesi?

A un modo di intendere la psicologia, a un sistema di affidi, alla sottrazione illecita di minori, ai pregiudizi e a un mondo che ha sempre avuto l’appoggio, la fiducia di buona parte della magistratura.

Di tutto quello che hai letto negli atti cosa ti ha colpito di più nell’indagine “Angeli e demoni”?

Un’intercettazione in cui un bambino parla normalmente di un genitore e la psicologa sposta sempre il discorso sul sesso. È un caso da manuale: il bambino non viene ascoltato, ma viene trasformato in arma da utilizzare contro i propri familiari.

Sui social hai accusato il Pd di non essersi occupato abbastanza di Bibbiano.

Il Pd non ha fatto altro che difendersi da attacchi che erano sì strumentali, ma non ha aggiunto altro. Mi sarebbe piaciuto sentire il Pd dire: ce ne occuperemo perché questo progetto di Bibbiano è stato sostenuto da noi e saremo i primi a cercare la verità.

Quando sei stato convocato nella commissione su Bibbiano in Emilia Romagna cosa è successo?

Ho visto una sinistra ostile nei miei confronti, che prendeva le difese di quel mondo. Ebbi uno scambio acceso con Silvia Prodi, la nipote di Prodi, che criticò il mio lavoro su Veleno e parlando con lei lì scoprii che non sapeva quasi nulla degli atti e della vicenda. Era una difesa d’ufficio, con tanto di famiglie affidatarie che furono convocate dal Pd. Le stesse che offendono sui social le famiglie naturali.

Qualcuno dice che il processo finirà in una bolla di sapone.

Attenzione. Un’assistente sociale ha già patteggiato a 1 anno e 8 mesi per aver redatto in modo distorto dei verbali su minori. E non era una delle figure di spicco. Non pensò finirà con condanne lievi, ho letto tutto e il quadro probatorio è corposo, con prove solide. Gli stessi video che Foti ha prodotto per discolparsi, lo hanno messo nei guai. Al di là delle sentenze, comunque, questo processo ha acceso la luce su un tema sempre ignorato. Quando lavoravo su “Veleno” nessuno mi ascoltava, dicevo a tutte le persone coinvolte: ‘Non aspettatevi nulla perché qui non succede mai nulla’. E invece.

Per i 40mila euro di Caprotti, Centemero andrà in aula il 16 luglio

In casa Lega l’Esselunga non è un’azienda sconosciuta. Proprio per un versamento che la onlus di area leghista “Più Voci” ha ricevuto dalla catena di supermercati nel 2015, Giulio Centemero, il tesoriere del Carroccio, è finito a processo a Milano. La prima udienza è fissata per il 16 luglio. Centemero è imputato per un presunto finanziamento illecito di 40 mila euro finiti alla “Più Voci” di cui è stato legale rappresentante. I pm titolari del fascicolo, Stefano Civardi e Gianluca Prisco, nei mesi scorsi hanno firmato una citazione diretta a giudizio. Al centro dell’indagine milanese, c’è un versamento di 40mila euro risalente al periodo tra 2015 e 2016. Un’erogazione regolarmente iscritta a bilancio dalla società della famiglia Caprotti. L’unico indagato è Centemero, anche perché il finanziatore Caprotti è deceduto nel 2016. Secondo gli atti però quel denaro non sarebbe rimasto alla onlus, ma sarebbe stato triangolato per dare ossigeno alle casse di Radio Padania. All’Espresso – che per primo parlò di questa erogazione – la catena di supermercati aveva spiegato che quella somma era “stata destinata a Radio Padania nell’ambito della pianificazione legata agli investimenti pubblicitari su oltre 70 radio”. Il processo per Centemero inizierà il 16 luglio.

Intanto il tesoriere della Lega ha anche una grana romana, ancora irrisolta. Anche nella capitale è indagato per finanziamento illecito ma per vicende diverse. Al centro dell’inchiesta capitolina c’è un finanziamento da 250 mila euro erogati in due tranche tra dicembre 2015 e febbraio 2016 dalla Immobiliare Pentapigna srl, società in passato riconducibile all’imprenditore romano Luca Parnasi, e finiti nelle casse della “Più Voci”. Si tratta di contributi “erogati – secondo il capo di imputazione – in assenza di delibera da parte dell’organo sociale competente e senza l’annotazione dell’erogazione nel bilancio di esercizio”. In passato Centemero ha sempre spiegato che quei versamenti erano regolari e che neanche un centesimo era andato al partito di Matteo Salvini. Ma la Procura è convinta che la “Più Voci” sia un’associazione “riconducibile alla Lega Nord quale sua diretta emanazione e comunque costituente una sua articolazione”. Nel novembre 2019 la Procura di Roma ha chiuso l’indagine, atto che di norma prelude a una richiesta di rinvio a giudizio. Che però finora non c’è stata.

Lega in soccorso di Esselunga: l’aiutino per aprire il megastore

Una variante “ad aziendam”. Una modifica urbanistica voluta dalla Lega per indebolire Conad e favorire Esselunga. L’ultima battaglia dei supermercati va in scena a Forlì, storica roccaforte della sinistra conquistata nel 2019 da una coalizione guidata dal salviniano Gian Luca Zattini. Il Fatto ha ottenuto l’audio di una riunione della Lega tenutasi il 22 maggio scorso nella sede cittadina del partito. Un vertice condotto dal vicesindaco Daniele Mezzacapo alla presenza dei consiglieri comunali leghisti. Tema? Un supermercato da 2.500 quadri da costruire nell’area compresa fra via Bertini e via Balzella: il primo punto vendita di Esselunga in Romagna.

Svolgimento. “Noi ingenuamente abbiamo pensato, “1.500 o 2.500 cosa cambia?”. Non ci sembrava una rivoluzione. Invece, 2.500 metri quadri non è tanto collegato alla dimensione, ma al soggetto che arriva a Forlì”. A pronunciare queste parole è proprio Mezzacapo, che ha anche la delega all’Urbanistica. Il vicesindaco non ha mai detto pubblicamente che quella modifica è necessaria per accontentare il colosso dei supermercati guidato oggi da Marina Caprotti. E nemmeno che la Lega sta facendo di tutto per mettere i bastoni fra le ruote a Conad. Tesi che invece il politico salviniano ha esposto senza remore nella riunione a porte chiuse. “Il soggetto che arriverebbe a Forlì fa 36 milioni di euro di opere, vuol dire 36 milioni di euro di lavori in città, arrivano 500 nuovi posti di lavoro. Ve lo dico perché di voi mi fido: si parla di Esselunga”, dice il vicesindaco ai consiglieri comunali leghisti che dovranno votare la variante urbanistica. Queste parole, come detto, sono state pronunciate il 22 maggio scorso, un mese prima che la catena di supermercati annunciasse pubblicamente il suo interessamento ad aprire un megastore a Forlì per mettere la prima bandierina in Romagna.

I giornali locali hanno iniziato a scrivere del caso pochi giorni prima della riunione leghista. Il 19 maggio, infatti, in commissione consiliare a Forlì viene presentato il progetto del nuovo centro commerciale. In concreto, l’obiettivo è modificare il piano varato nel 2017 dalla giunta di centrosinistra, introducendo la possibilità di realizzare un’area destinata al commercio alimentare da 2.500 metri quadri. Proprio quello che serve ad Esselunga per aprire uno dei suoi supermercati. L’idea di un nuovo megastore in periferia crea però subito polemiche. Si schierano contro fin da subito le associazioni Confcommercio e Confesercenti, convinte che il nuovo progetto danneggerà i commercianti del centro storico. Seguono a ruota Legacoop, sindacati, comitati locali spaventati dall’aumento del traffico, la stessa Conad. Pure alcuni consiglieri della maggioranza di centro destra dicono no.

Al di là dell’esito della vicenda – le variante urbanistica dev’essere ancora votata in consiglio comunale –, l’audio ottenuto dal Fatto permette di raccontare aspetti inediti della guerra dei supermercati, in particolare il tentativo di Esselunga di penetrare, sfruttando l’appoggio politico della Lega, in territori storicamente governati dalla sinistra e dominati commercialmente da Conad o dalle coop un tempo “rosse”.

Questo è quello che sostiene Mezzacapo davanti ai suoi consiglieri. Conad, dice nella riunione a porte chiuse il vicesindaco di Forlì, “è la cassaforte del Partito democratico. Alla prima volta che ci siamo messi contro Conad – perché noi qui ci siamo messi contro Conad – ci ha rovesciato addosso, per nostra ingenuità amministrativa, un mare di merda che non ce l’aspettavamo. Perché prima hanno coinvolto tutti i sindacati dalla loro parte, qualunque cosa potesse essere coinvolta l’hanno coinvolta contro di noi, anche le associazioni”. Conclusa l’analisi del nemico, Mezzacapo spiega ai suoi perché l’interesse di Esselunga su Forlì è arrivato proprio ora. “Come è cambiata l’aria a Forlì, Esselunga si è riattivata, perché era già stato bocciato il progetto una volta”. Subito dopo il vicesindaco si fa interprete del pensiero della società dei Caprotti: “Be’, cazzo, ora c’è un giunta di centrodestra, vuoi che non mi facciano entrare? Questo è un mio pensiero”, tiene a precisare subito dopo, “io in realtà non li ho mai incontrati”.

Di certo, a livello nazionale il feeling tra la Lega e la catena di ipermercati milanese non è una novità. Come rivelato da L’Espresso, nel 2016 Esselunga ha donato 40 mila euro alla Più Voci, l’associazione fondata dal tesoriere leghista Giulio Centemero. Un bonifico che, secondo la Procura di Milano, equivale a un finanziamento illecito al partito.