Calciopoli: persi tutti i ricorsi, la Juve vuole il diritto all’oblio

Gli elementi per sospettare un fake, almeno a una prima lettura superficiale, ci sono tutti: corso di formazione, giornalisti, Juventus, Calciopoli e… diritto all’oblio: ma non è Lercio, è una notizia vera: “L’esecutivo dell’Ordine dei giornalisti – si legge sul sito Professionereporter – ha approvato un corso di formazione aziendale proposto dalla Juventus. Si parlerà, fra gli altri temi di diritto all’oblio. Il tema ha suscitato una discussione, data la scelta dell’argomento ‘diritto all’oblio’ e visto il coinvolgimento della Juventus nell’inchiesta Calciopoli. Potranno partecipare i giornalisti che si occupano di comunicazione per la Juventus”.

Precisiamo subito che non è l’Ordine dei giornalisti a promuovere il corso: “La richiesta ci è arrivata dalla Juventus – spiega Carlo Verna, presidente dell’Odg – si tratta di un corso aziendale e ci hanno chiesto di poter assegnare crediti formativi ai loro sette dipendenti che si occupano di comunicazione. La discussione è stata anche sul tema, ma quello non ci compete. L’esecutivo ha votato di concedere l’opportunità formativa a una società sportiva non editoriale. In punta di diritto, non sta scritto da nessuna parte che sia vietato”.

Detto questo, ci piace immaginare due diversi scenari del corso in oggetto:

1) I sette addetti alla comunicazione della Juventus vengono ulteriormente spronati sull’ingiustizia subita dal club di casa Agnelli: Calciopoli fu un complotto mediatico e – se anche avesse avuto qualche fondamento – è un dato di fatto che nei confronti dell’Inter ci sia stata un’evidente disparità di trattamento. Purtroppo però, ogni ricorso in tutti i tribunali sportivi, penali, civili o amministrativi della galassia è stato rigettato. Dunque, nell’impossibilità di proseguire l’impari lotta, cerchiamo almeno di non parlarne più.

2) Ragazzi, ci autodenunciamo. È andata proprio così. Però, almeno, non parliamone più.

Arrestato lo “Scarface” del Ponente ligure. Sulle torte metteva la faccia di Al Pacino

Difficoltà economiche e col denaro che manca ecco inevitabile l’arrivo della ’ndrangheta che presta soldi, non media e va dritta all’obiettivo: prendersi l’attività. In questo caso si tratta dell’Hotel del Golfo a Finale Ligure. Protagonista della scalata mafiosa è Alfonso Pio, nipote di uno dei padrini della locale di Desio in Brianza coinvolto nel maxi-blitz “Infinito” del 2010. Pio ieri è stato arrestato su ordine del giudice di Milano assieme ad altre tre persone. Con accuse che vanno dall’estorsione aggravata dal metodo mafioso alle minacce. Senza soldi dichiarati ma alla guida di Porsche e Audi. In tasca diversi rapporti: dai rapinatori serbi ai trafficanti di rifiuti. Violento e armato. Perfettamente calato nel ruolo del gangster in stile Scarface tanto da stampare sulla torta di compleanno del fratello l’immagine di Al Pacino, banconote e proiettili. In zona a Desio nessun mistero che quelli, i Pio, fossero legati alla ’ndrangheta. Tanto che il figlio di Alfonso Pio sul banco di scuola troverà scritto: “Merde, Dante ’ndrangheta ricicla denaro”. Il suo nome viene citato nelle carte giudiziarie di Infinito. Nessuna condanna per lui. Anche se le sue parole sono chiare: “Solo io sono un uomo d’onore!”. Questo il peso che Pio porta a partire dal 2016 in riviera per prendersi l’albergo di lusso a Finale Ligure. Vi riuscirà a suon di minacce. Annota la polizia: “C’è oggi il tentativo da parte di famiglie mafiose di mettere le mani su realtà imprenditoriali in crisi, mediante iniezione di capitali freschi e utilizzo di metodi intimidatori”. Questo pare proprio il caso. Uno dei titolari costretti a cedere le proprie quote nell’hotel ammette: “Io, piuttosto di farmi saltare, la faccio saltare io in modo che quando verranno a chiedermi della bancarotta, dirò che avevo i mafiosi alle spalle che mi premevano, punto! Questo dirò, che è la verità!…”. Pio in hotel si comporta da padrone facendo alloggiare la propria fidanzata in una lussuosa suite con vista mare. E a chi fa problemi spiega: “Può prendere quello che vuole, sono io il capo”. Quindi aggiunge: “Stronzo ti taglio la testa”. Spiega ancora l’uomo delle cosche: “O ci dà l’acconto e ci chiude l’operazione, oppure noi domani prendiamo in mano la situazione, spiaggia e tutte cose!”. Per arrivare a questo, Pio fa saltare le riunioni dei soci della srl che gestisce l’hotel. Uno dei soci dice: “Non posso venire, tengo famiglia”. Ancora meglio davanti al pm: “Temevo Pio perché ho capito che appartiene a delle famiglie di ’ndrangheta”. Così il giudice Guido Salvini descrive la figura di Alfonso Pio: “È parte attiva nei prestiti di danaro, sperimentando più volte la capacità di insidiarsi in attività economiche” ricorrendo a “intimidazioni, pur di trarne beneficio”. Ed è “senza remora quando deve minacciare di morte chi non rispetta le sue disposizioni”.

Il Covid fa aumentare i morti sul lavoro: 208 vittime, solo una su tre nella sanità

Il 2020 rischia di essere l’anno nero delle morti sul lavoro: nei primi 5 mesi sono aumentate del 30,5%, malgrado uffici e cantieri chiusi e il massiccio uso di smart working. Il Covid si è rivelato il più grande pericolo per i lavoratori, non solo nella sanità. Un anno strano: tra gennaio e maggio gli incidenti sul lavoro sono “scesi” a 207.472. Sempre tantissimi, ma il 23% in meno rispetto allo stesso periodo del 2019. Sono diminuite pure le morti avvenute nel tragitto tra casa e luogo di lavoro, passate da 112 a 68 (-39,3%). Il balzo in avanti lo hanno fatto i decessi in occasione di lavoro, ben 364 contro i 279 del 2019 (+30,5%). Scatto dovuto ai tanti che hanno perso la vita per aver contratto il coronavirus mentre erano in servizio. Una tragedia che non riguarda solo chi opera negli ospedali e nelle case di riposo. L’Inail dice che, al 31 maggio, le morti sul lavoro per Covid sono state 208. Meno di una su tre (il 29,5%) nella sanità; l’11,6% nel commercio, il 9,8% nella manifattura, l’8% nella logistica, il 6,3% nelle costruzioni e il 4,5% in alberghi, bar e ristoranti.

Lite sindacale a Palazzo Chigi: colpa del virus

Per tanti lavoratori italiani, lo smart working è stato l’unico modo per sfuggire al rischio Covid. Ma al personale della Presidenza del Consiglio, la modalità “agile” ha causato la perdita, temporanea, di un grosso privilegio. Vale a dire quella norma, a dir poco “generosa”, per la quale bastava una sola ora passata in ufficio oltre l’orario ordinario di lavoro per ottenere il pagamento degli straordinari in misura massima. A qualcuno tra i dipendenti di Palazzo Chigi non è andata giù, tanto che è stato presentato un ricorso per condotta anti-sindacale. Chiedono la possibilità di andare in sede oltre l’orario prestabilito – cosa finora negata – e di poter incassare lo straordinario.

Il benefit è previsto dal contratto collettivo del 2009. Ma pare che il ministero dell’Economia non lo veda di buon occhio e sarà molto difficile farlo rientrare nel prossimo rinnovo. Ma per il momento è in vigore e fa le fortune di chi lavora negli uffici più alti della Pubblica amministrazione. L’emergenza coronavirus, però, ha cambiato anche la loro vita. Il capo del dipartimento Affari giuridici e legislativi ha emesso un ordine di servizio: l’accesso agli uffici è stato previsto per un solo giorno settimanale. Negli altri giorni, alcuni hanno operato da casa, altri sono stati esentati dal servizio. Naturalmente, non è stata permessa la permanenza negli uffici oltre l’orario ordinario e – giocoforza – gli addetti hanno dovuto dire momentaneamente addio al mega-straordinario garantito.

Il ricorso, firmato dall’avvocato Dorangela Di Stefano, se la prende non tanto con la sostanza, ma con la forma: il dirigente, infatti, ha preso la decisione in merito alla nuova organizzazione in modo unilaterale, senza una consultazione sindacale. Evidentemente una mossa dettata dall’emergenza. Ma ai sindacati non è piaciuta e ora vogliono che il giudice del lavoro di Roma la annulli. Per Palazzo Chigi, si tratta di una causa “infondata e temeraria”.

Procura di Roma, anche Lo Voi presenta ricorso

Tentato fino all’ultimo di non farlo, ma all’ultimo giorno utile anche il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi ha presentato ricorso contro la nomina di Michele Prestipino a procuratore di Roma, deliberata dal plenum del Csm il 4 marzo scorso. Lo Voi, diventato per la prima volta procuratore a Palermo, scavalcando per titoli i procuratori di Messina Guido Lo Forte e di Caltanissetta Sergio Lari, ha depositato il ricorso ieri al Tar del Lazio, nelle settimane scorse, come rivelato dal Fatto, lo hanno presentato il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo e il procuratore generale di Firenze Marcello Viola. La nomina di Prestipino, ex procuratore aggiunto di Roma, è arrivata dopo il cosiddetto caso Palamara, deflagrato a fine maggio 2019 quando si è saputo del dopo cena all’hotel Champagne di Roma. Con Luca Palamara, ex Csm accusato di corruzione a Perugia, c’erano 5 togati del Csm, poi costretti alle dimissioni, Morlini, Spina, Lepre, Cartoni e Criscuoli. Presenti anche Cosimo Ferri, toga in aspettativa, deputato renziano come Luca Lotti, indagato a Roma per Consip. Si disse che Creazzo non doveva andare a Roma né restare a Firenze per le vicende giudiziarie dei genitori di Renzi e di Lotti, il posto doveva essere di Viola distante da Pignatone. Viola, che nulla sapeva di quelle manovre, ne ha fatto le spese perché la Quinta commissione del Csm azzerò il voto a suo favore del 23 maggio 2019 e ripartì da zero. Risultato: il 4 marzo Prestipino, viene eletto a maggioranza, dopo un ballottaggio con Lo Voi. Il procuratore di Palermo ha pure ritirato la sua candidatura a Pg di Milano, pare per puntare alla successione di Cafiero de Raho tra un anno e mezzo alla guida della Procura nazionale antimafia. Lo Voi aveva anche ritirato la domanda per Pg di Roma, poco prima della nomina di Antonello Mura, che da sostituto pg della Cassazione fece una eccellente requisitoria al processo Mediaset-Berlusconi.

“Non sanno di cosa parlano. E il collega controfirmò tutto”

Il giudice Antonio Esposito è stato il presidente della sezione feriale della Cassazione che il 1° agosto 2013 ha confermato e resa definitiva la condanna di Silvio Berlusconi a quattro anni per frode fiscale.

Ha ascoltato le registrazioni in cui il suo collega Amedeo Franco dice che lui non era d’accordo e che è stato tutto un complotto contro Berlusconi?

Chiariamo subito un fatto: la decisione di confermare la sentenza d’appello è stata presa da un collegio di cinque giudici. Il collega Amedeo Franco era il giudice relatore e, come tutti noi, non solo ha discusso il caso, ha accettato la sentenza di cui è stato anche estensore insieme agli altri componenti, e ne ha anche approvato la motivazione, in tutte le sue parti, firmando ogni pagina.

Poi cosa è successo?

A distanza di sette anni si continua a provare a delegittimare una sentenza passata in giudicato, dopo che 11 magistrati hanno convenuto sulla responsabilità di Berlusconi, prendendomi di mira in quanto presidente del collegio. Io invece mi chiedo perché il relatore senta il bisogno di incontrare il suo imputato per giustificarsi dell’esito del processo. Ritengo che sia questo il vero fatto gravissimo e inquietante di tutta la vicenda. E mi devo chiedere: dove avvenne quell’incontro, o quegli incontri? Quando? In che circostanze? Da chi fu sollecitato?

La registrazione è stata fatta a insaputa del giudice, dunque è abusiva?

Non lo so. Potrebbe anche essere stata concordata; una cosa è certa: che si è aspettato la sua morte per divulgare il contenuto della registrazione, rendendo impossibile contestare al giudice Franco la falsità delle affermazioni.

Lei sapeva di questa registrazione?

Sì, ne aveva accennato Berlusconi nel 2017 nel programma di Bruno Vespa, dicendo che “aveva la prova” contenuta in una registrazione che la sentenza di Cassazione era a suo dire viziata. L’ho subito citato in sede civile; mi ero riservato di chiedere al giudice che ordinasse il deposito della registrazione.

Lei e gli altri quattro giudici del collegio subiste pressioni per condannare Berlusconi?

Nessuna pressione per condannare, ricordo solo, e la questione potrebbe non avere alcun rilievo, che fui invitato molto gentilmente da Cosimo Ferri, a Pontremoli, al premio Bancarella. Mancavano due settimane alla sentenza e per motivi d’opportunità declinai l’invito.

Amedeo Franco nella registrazione mostra di essere in netto disaccordo con la sentenza.

Franco dice che i precedenti della terza sezione erano di segno opposto alla nostra decisione. E questo non è vero: mente sapendo di mentire, perché nella sentenza abbiamo riportato per numerose pagine precedenti sentenze proprio della terza sezione, le cui decisioni sul sistema delle “frodi carosello” (lo stesso sistema contestato al Berlusconi) erano in linea con quanto abbiamo sostenuto nelle nostre motivazioni. Anzi dirò di più. Riportammo anche la sentenza, sempre della terza sezione, che aveva rigettato il ricorso di Agrama (per le precedenti annualità fiscali).

Avete condannato senza prove?

Negli atti del processo vi è un’imponente prova testimoniale e documentale, tra cui di fondamentale importanza la “lettera-confessione” di Agrama, scritta a Fininvest nel 2003.

È vero che, per far condannare l’imputato, la sentenza fu dirottata a voi della feriale, mentre doveva andare alla sezione reati fiscali?

Nulla di più falso.

Il processo da Milano arriva in Cassazione proprio alla terza sezione penale, quella di Amedeo Franco. E fu proprio la terza sezione ad investire la sezione feriale del processo in questione, inviando il fascicolo il 9 luglio 2013, con la scritta “URGENTISSIMO, prescrizione 1 agosto”. Una volta ricevuto, io ho l’obbligo di fissare l’udienza il 30 luglio, per evitare la prescrizione.

Il vostro collegio feriale è stato formato come un “plotone d’esecuzione” per condannare Berlusconi?

Non sanno di che cosa parlano. O lo sanno e volutamente tacciono: la composizione dei collegi della sezione feriale del 2013 avvenne il 21 maggio con decreto del presidente della corte di cassazione. Gli atti del processo Berlusconi arrivano a Roma da Milano all’inizio di luglio: 40 giorni dopo che i collegi erano stati costituiti.

Il giudice Franco dice che lei era “pressato” dalla Procura di Milano perché suo figlio Ferdinando, pm a Milano, era coinvolto in storie di droga.

Falso. Mio figlio non è mai stato coinvolto in storie di droga. E io non sono stato “pressato” da nessuno. Se Franco è giunto al punto di inventarsi una circostanza mia avvenuta, di fronte al soggetto che lui stesso aveva condannato, è lecito chiedersi il perché…

B. e la bufala che vuole riscrivere la storia

Immaginatevi un giudice che andasse a casa di un suo imputato potente (non dico Totò Riina, anche un condannato, per dire, di frode fiscale) e, per ingraziarselo, gli dicesse: “Io non ero d’accordo, sa, con la sentenza, ma il presidente della Corte ha tanto insistito, è stato un verdetto guidato dall’alto…”. Sarebbe inaccettabile anche per i garantisti alle vongole: un giudice non deve andare a casa di un suo condannato, non deve parlare delle sue sentenze, se non era d’accordo doveva opporsi fieramente durante la camera di consiglio, se avesse constatato una manovra illegale avrebbe dovuto denunciarla immediatamente. Ma siamo in Italia. Così succede che un giudice, Amedeo Franco, vada da Silvio Berlusconi e gli dica – registrato di nascosto – che lui non era d’accordo sulla sua condanna definitiva a 4 anni per frode fiscale emessa dalla Cassazione nel 2013. Un talk-show a corto d’argomenti in un’estate post Covid (Quarta Repubblica di Nicola Porro) tira fuori questa vecchia vicenda per tentare l’impossibile: ribaltare la storia. Silvio Berlusconi fu processato e condannato per aver organizzato un sistema per frodare il fisco italiano e creare fondi neri per le sue “operazioni riservate” (tipo pagare tangenti e comprarsi giudici e sentenze).

Così un film, comprato negli Stati Uniti a 10, passava attraverso intermediari e prestanome, e arrivava in Italia nelle tv di Berlusconi a 100: tasse abbattute e 90 messi da parte all’estero. Con questo sistema – provano i giudici, carte alla mano – “le maggiorazioni di costo realizzate negli anni” sono state di ben “368 milioni di dollari”, nascosti al fisco e infrattati all’estero. Prove solide, testimonianze, ma soprattutto documenti bancari. Condanna in primo grado, condanna in appello, conferma in Cassazione. Dodici giudici si sono pronunciati in modo univoco. Le motivazioni delle sentenze sono di fuoco. Ma ai garantisti alle vongole – specie se sono stipendiati dal condannato o da altri pregiudicati – non basta. Si dicono contro i “processi mediatici”, ma poi celebrano in tv (e su giornali senza lettori, tipo il Riformista) per anni lo stesso processo, per difendere il padrone, ripetendo gli stessi argomenti già puntualmente smentiti da testimoni, prove, documenti, sentenze, buon senso, ragionevolezza.

“Adesso ci sono le prove che la sentenza che condannò Silvio Berlusconi al carcere, nel 2013, era una sentenza assolutamente sbagliata e faziosa. Addirittura orchestrata dall’alto”, scrive il Giornale di famiglia. Che aggiunge una perla giuridica: c’è “una sentenza del Tribunale civile di Milano che ribalta la sentenza penale”. Non è vero, la sentenza civile non “ribalta” un bel niente, e anche un bambino capisce che un reato penale è altro da un addebito civile e che le pere sono altro dalle angurie. Da dove viene, dunque, questo scoop stagionato come una forma di gorgonzola lasciato al caldo? Dagli “audio choc” mandati in onda lunedì sera da Quarta Repubblica in cui parla Amedeo Franco, deceduto un anno fa, giudice del collegio della Cassazione presieduto da Antonio Esposito. Dice: “Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà, a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia… l’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto. In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del… ci continuo a pensare. Non mi libero. Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo”. In una seconda conversazione registrata da Berlusconi, Amedeo Franco aggiunge, riferendosi al presidente Esposito: “Sussiste una malafede del presidente del consiglio, sicuramente, lui sa che è una porcheria”. Poi butta lì che Esposito era “pressato” per il fatto che il figlio, anch’egli magistrato, era “stato beccato con droga a casa di…”. Ferdinando Esposito, allora pm presso la Procura di Milano, non ha avuto alcuna denuncia per droga, è stato indagato dalla Procura di Brescia per tutt’altro (e poi ha lasciato la magistratura), ma per una vicenda iniziata un anno dopo la sentenza del padre, che non aveva dunque alcun motivo di temere le (inesistenti) “pressioni” della Procura di Milano.

Se “pressioni” – o comunque soavi sollecitazioni – ci furono, furono nella direzione opposta: per far assolvere Berlusconi. Cosimo Ferri, leader storico di Magistratura indipendente e allora sottosegretario alla Giustizia nel governo Letta, sostenuto anche da Berlusconi con la benedizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, avvicinò il giudice Esposito e a luglio lo invitò a Pontremoli, al premio Bancarella. Esposito, per motivi d’opportunità, a due settimane dalla sentenza, ringraziò e declinò l’invito. Poi l’intercettazione di Amedeo Franco è tutto un inconcludente balbettare: “I pregiudizi per forza che ci stavano… si potesse fare… si potesse scegliere… si potesse… si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare… Questo mi ha deluso profondamente, questo… perché ho trascorso tutta la mia vita in questo ambiente e mi ha fatto… schifo, le dico la verità, perché non… non… non è questo, perché io… allora facevo il concorso universitario, vincevo il concorso e continuavo a fare il professore. Non mi mettevo a fare il magistrato se questo è il modo di fare, per… colpire le persone, gli avversari politici”. Se avessi saputo di questa “porcheria mi sarei dimesso, mi sarei dato malato. Non volevo essere coinvolto in questa cosa… È destino che Berlusconi debba essere condannato a priori. Purtroppo c’è una situazione che è veramente vergognosa… è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia… Tutti i miei colleghi e anche i suoi che pure non la supportano sono convinti che questa cosa sia stata guidata dal- l’alto”. Contestazioni precise, argomenti solidi, come ognuno può vedere.

Scandalo Mondiali Qatar: Macron in aiuto di Platini

Emmanuel Macron sarebbe intervenuto a favore di Michel Platini, coinvolto nel cosiddetto Qatargate, l’inchiesta per corruzione nell’assegnazione dei Mondiali di calcio del Qatar 2022. Per quello scandalo, Platini, ex presidente dell’Uefa, era stato accusato di aver intascato delle tangenti, squalificato per 8 anni, poi diventati 4, e sospeso dalla Fifa. Di quell’inchiesta, Mediapart ha avuto accesso alle intercettazioni telefoniche del 2019 e a sintesi dei verbali giudiziari. In questi scambi al telefono, di cui il giornale online riporta i contenuti, Macron avrebbe promesso all’ex capitano dei Bleus che lo avrebbe “aiutato” con i suoi guai giudiziari e che era in contatto con “il responsabile degli sport” all’Eliseo.

Stando a Mediapart, Platini e Macron avevano avuto almeno un’altra occasione di parlare dell’inchiesta che pesava sull’ex star della Juventus: un incontro “confidenziale”, organizzato da un giornalista sportivo francese, Jacques Vendroux, l’8 marzo 2018 all’Eliseo. Un appuntamento che “curiosamente – scrive Mediapart – non figurava nell’agenda ufficiale del presidente”. Vendroux, che all’epoca era capo servizio della redazione sport di Radio France, ha confermato l’incontro a Mediapart: “Un giorno ho detto a Michel: dovresti incontrare Macron, adora il calcio. Ho dunque organizzato l’incontro. Abbiamo parlato di calcio, della Juventus, dei Bleus… È stata una conversazione piacevole”, ha raccontato Vendroux. I guai giudiziari di Platini “non erano al centro della conversazione”, ma se ne è parlato: “A un certo punto il presidente ha chiesto: “Come va quella vicenda?”. Platini avrebbe dunque riassunto la situazione: “Il presidente – ha continuato Vendroux – non ha mai detto “mi occuperò di lei”, né “farò in modo di aiutarla”. Ha detto qualcosa come “vedremo”. Ma Platini non ha chiesto niente e il presidente non ha promesso niente”.

L’Eliseo ha smentito che quel giorno i due uomini abbiano parlato dello scandalo Fifa. Ma Mediapart ricorda anche che, poche settimane dopo quell’incontro, nel maggio 2018, Platini era stato scagionato dalla magistratura svizzera che lo aveva accusato di aver incassato due milioni di franchi svizzeri, e senza contratto, dal presidente della Fifa Sepp Blatter, per degli incarichi svolti tra il 1998 e il 2002. Il 18 giugno 2019 Platini era stato fermato e interrogato dalla Procura di Nanterre nell’ambito del Qatargate. Mediapart ricorda che, pochi mesi dopo, nel novembre 2019, mentre cadeva la sospensione di Platini da tutte le attività legate al calcio, Emmanuel Macron era intervenuto su RTL per esprimere la sua “amicizia” all’ex campione: “Caro Michel – aveva detto il presidente – so che gli ultimi anni sono stati duri, che le ferite sono talvolta profonde e che il sentimento di ingiustizia persiste. Il mio è il messaggio di un ammiratore: torna, hai ancora tanto da dare al calcio francese”. “Nel bel mezzo di un’inchiesta penale – scrive Mediapart – c’è da interrogarsi su una dichiarazione di questo genere da parte di colui che, per l’articolo 64 della Costituzione, è garante dell’indipendenza della giustizia”. Per Mediapart queste rivelazioni “gettano un nuovo velo sull’idea di indipendenza della giustizia” dell’Eliseo e del presidente. Appena alcuni giorni fa, lo stesso sito francese aveva accusato Macron di aver interferito in prima persona sul lavoro dei giudici anche per aiutare un suo stretto collaboratore, il segretario generale dell’Eliseo, Alexis Kohler, coinvolto in un’inchiesta giudiziaria per conflitto di interessi: in quel caso scrivendo di sua mano una lettera fatta pervenire ai magistrati.

L’annessione può attendere. Le mire di Bibi su West Bank spaccano Israele

Benny contro Bibi. Potrebbe essere un videogioco per bambini, invece è uno dei giochi reali più sporchi che stanno facendo gli adulti sulla pelle dei bambini – cioè delle generazioni future – di Israele e della Palestina innanzitutto. Ma anche sulla carne viva di quelli che vivono nel resto del mondo, considerata la portata geopolitica di un’eventuale annessione della Cisgiordania e della Valle del Giordano. Entrambe queste entità definite dalle Nazioni Unite e dal diritto internazionale “Territori palestinesi occupati” sotto la guida dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), da oggi dovevano essere annesse unilateralmente da Israele attraverso il voto della Knesset (il parlamento) sulla base del piano messo a punto dal primo ministro Netanyahu, assieme al presidente americano Donald Trump, con la palese complicità dell’ambizioso reggente saudita Mohammed bin Salman.

Queste terre sarebbero potute dunque tornare a essere chiamate ufficialmente da Gerusalemme con i loro nomi biblici, Giudea e Samaria, se all’ultimo non avesse agito con la scusa del Covid il co-reggente dell’attuale governo di accordo nazionale, Binyamin Gantz, detto Benny. L’ex generale a capo dell’esercito israeliano, fondatore e leader del neo partito di centrodestra Blu e Bianco e attuale ministro della Difesa, ha chiesto la posticipazione del voto parlamentare in evidente accordo con la stessa Amministrazione americana che ha dato subito, seppur indirettamente, sostegno al rivale di Bibi Netanyahu, alla sua richiesta di slittamento del vaglio della Knesset. Secondo una nota degli Stati Uniti, non è opportuno il voto dell’aula se le due colonne, già diseguali, su cui si regge il governo, non sono allineate. Più che colonne, volti di una stessa deriva ultranazionalista di destra. Le facce del Giano bifronte che governa Israele da quando è stato costituito l’esecutivo di accordo nazionale, all’improvviso riprendono dunque a guardarsi in cagnesco e a confliggere dopo un breve periodo di apparente coabitazione negli stessi panni. La reazione, finora inesistente, sull’annessione unilaterale dell’1 luglio da parte di Benny ha rafforzato Bibi, anziché alienargli l’ala moderata degli elettori del Likud a favore di Blu e Bianco e indebolirlo ulteriormente agli occhi dell’opinione pubblica israeliana. Netanyahu sarebbe dovuto andare a processo già mesi fa se non avesse ripreso le redini dell’esecutivo dopo la terza elezione legislativa in poco piu di un anno. Bibi è atteso dal Tribunale per rispondere delle gravi accuse di corruzione. A ben guardare, anche a Bibi fa comodo posticipare il voto per far slittare ancora una volta il rendez vous con i giudici e per mantenere una Spada di Damocle a oscillare sulla testa del presidente palestinese Mahmoud Abbas, detto Abu Mazen, che sembra aver accettato di perdere parte del già disomogeneo territorio palestinese, soprattutto quello già irreparabilmente infestato dagli insediamenti – illegali secondo l’Onu – ebraici. Abu Mazen ha chiesto aiuto anche al Quartetto, che comprende l’Europa, formatosi per riattivare i negoziati israelo-palestinesi e in stallo da anni proprio a causa di oltre mezzo milione di coloni ebrei in un proto-stato di 4 milioni di abitanti arabi di religione prevalentemente islamica e quindi cristiana.

Israele sta vivendo un periodo molto difficile a causa dei danni economici, con una impennata della disoccupazione, causati dalla pandemia di Covid-19 e la maggior parte degli israeliani non capisce il perchè di questa eventuale mossa epocale che sta attirando a Tel Aviv anche le critiche di molti stati amici di Israele e delle loro opinioni pubbliche. “Un milione di disoccupati non sanno di cosa stiamo parlando. La maggior parte si preoccupa di cosa farà domani mattina”, ha detto il leader di Blu e Bianco, chiedendo che l’esecutivo si concentri prima di tutto sul contrasto all’epidemia di coronavirus, che sta dando segni di ripresa, e le sue conseguenze economiche. Gantz aveva già detto ieri che il primo luglio “non è una data sacra” per le annessioni. Secondo il titolare della Difesa, che fra un anno e mezzo prenderà la guida del governo, il piano Trump su cui Netanyahu vuole basare le annessioni, è “un’opportunità storica” per Israele. Ma Gantz rimane contrario a passi unilaterali. “Dobbiamo farlo per bene coinvolgendo il maggior numero di partner nella discussione e se possibile con il sostegno internazionale”, ha detto ieri. Anche il suo compagno di partito Gabi Ashkenazi, ministro degli Esteri e come lui ex capo di Stato maggiore, è contrario a un passo unilaterale che rischia di isolare Israele sul piano internazionale.

Lavoro precario l’ultimo assalto

Ritorna l’idea, deprimente e inaccettabile, propagandata dal centrodestra, dalla Confindustria e da qualche intellettuale “bocconiano”, che le imprese italiane abbiano necessità, particolarmente oggi, di molta (cattiva) flessibilità. In particolare, di lavoro precario e principalmente di contratti di lavoro a termine “acausali”, non giustificati, cioè, da un’esigenza produttiva effettivamente temporanea.

Per chiarire le ragioni dell’irricevibilità di questa pretesa di “liberalizzazione” è un utile avere un quadro storico-sistematico dell’evoluzione della disciplina. Il punto di partenza è che nella realtà socio-economica le occasioni di lavoro effettivamente temporanee sono circa il 15% di quelle totali. Eppure le imprese assumono, per oltre l’80%, con contratto a termine, e dunque anche quando si tratta di esigenze lavorative permanenti, che renderebbero naturali assunzioni a tempo indeterminato. E visto che a queste ultime potrebbe essere sempre legittimamente apposto un patto di prova, non si può neanche dire che sia il desiderio di “provare” il dipendente la spiegazione della “illogica” preferenza per il tempo determinato.

La ragione, purtroppo, può essere solo un’altra e sta nel fatto che il contratto a termine è, per così dire, “un contratto con ricatto incorporato”: se il lavoratore non si dimostrerà più che docile e disposto a sopportare torti piccoli e meno piccoli, alla scadenza del termine non sarà confermato, con ricaduta nella disoccupazione e nell’indigenza.

Nessun consulente aziendale o esperto accademico è mai riuscito a dare una diversa risposta “eticamente decente” al ricordato paradosso. Ma quel che preme qui sottolineare è che il legislatore italiano, invece, fin dall’esordio del centrosinistra nei primi anni 60, aveva ben compreso il forte pericolo di abusi. Ha quindi introdotto una triplice tipologia di limiti all’utilizzo del contratto a termine che occorre avere ben presente per orientarsi nella materia.

A) Il limite della necessaria esistenza di “causali”, ossia di esigenze lavorative temporanee (es.: malattia di altro lavoratore; carattere stagionale dell’attività ecc.), la mancanza delle quali, in concreto, comporta la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato.

B) Il limite di durata massima (es. 36 o 24 mesi) del lavoro a termine presso lo stesso datore, con la previsione che, una volta giunti al limite della necessaria assunzione a tempo indeterminato, il datore, se vuole continuare a utilizzare il lavoratore, debba assumerlo a tempo indeterminato.

C) Il limite di una percentuale massima di lavoratori a termine nell’organico complessivo di un’impresa (es.: non più del 20%) oltre la quale si può assumere solo a tempo indeterminato.

Vediamo ora l’evoluzione normativa su questi limiti fino a oggi. Il limite più importante, e il più razionale, è quello delle “causali”, e all’inizio, con la legge 230 del 1962 furono stabilite delle causali “tipiche”, ossia ipotesi ben definite (es.: sostituzione del lavoratore assente per malattia), al di fuori delle quali il rapporto di lavoro sarebbe stato considerato a tempo indeterminato. Fu poi concesso, con modifiche normative degli anni 80, che la contrattazione collettiva potesse aggiungere altre causali tipiche, che così, in pratica, si moltiplicarono, finché, con il D. Lgs. n. 368/2001, si è arrivati alle causali “atipiche”.

In altre parole, con la nuova disciplina, qualsiasi esigenza lavorativa poteva giustificare un contratto a termine, purché fosse effettivamente temporanea e venisse dichiarata in calce al contratto individuale di lavoro. Il controllo era così facile e la nuova disciplina ha funzionato bene per circa 15 anni, con puntuali trasformazioni a tempo indeterminato in caso di abusi. La rottura vera è avvenuta nel 2014-2015 con il Jobs Act (anticipato dal decreto Poletti): si è avuta l’abolizione delle causali, il dilagare del precariato, del lavoro “usa e getta” e dell’assenza di tutele. Cessato il governo Renzi, si è tornati, con governo Lega-M5S e con il decreto Dignità al sistema delle causali “tipiche” (allargabili dalla contrattazione collettiva) ma solo parzialmente, perché la Lega ha imposto che per i primi 12 mesi il lavoro a termine possa ancora essere “acausale”. Neanche questa soluzione di compromesso (e non molto tutelante per i lavoratori) basta oggi alla destra che, come sempre, vorrebbe solo avere “mano libera”, e invoca una nuova “liberalizzazione”.

Quanto agli altri due limiti, si è avuto, ancora in pieno “Jobs Act”, il tentativo della sinistra del Pd di “scambiare” l’abolizione delle causali con la precisa determinazione del secondo limite, quello della durata massima, a 36 mesi (o a cinque rinnovi del contratto a termine). Ma si è trattato e si tratta di una tutela illusoria perché, anche una volta giunti alla soglia dei 36 mesi (o 24 mesi dopo il decreto Dignità) il datore conserva il potere decisionale. Se vuole utilizzare ancora quel lavoratore deve ora assumerlo a tempo indeterminato, ma può anche lasciarlo a casa” e assumere ex novo e a termine un altro lavoratore.

Sul terzo limite, poi, si è andati indietro col Jobs Act, rispetto a quanto già affermato dalla giurisprudenza, secondo cui i lavoratori assunti a termine ma oltre la percentuale massima, dovevano intendersi a tempo indeterminato: oggi, invece, c’è solo una multa per il datore di lavoro.

Che fare, allora, per tutelare i lavoratori dal precariato senza penalizzare ingiustamente le imprese? La prima cosa è tornare a un fondamento razionale e stabilire che, per stipulare un contratto a termine, occorre sempre che esista un’esigenza lavorativa temporanea che lo giustifichi, una causale, anche “atipica”, purché dichiarata e controllabile. La sanzione per l’abuso non può che essere la trasformazione a tempo indeterminato, da applicare, come si era sempre fatto, fino al Jobs Act, anche in caso di superamento del terzo limite, quello della percentuale massima di lavoratori a termine sull’organico aziendale.

Ma la partita decisiva si gioca adesso sul secondo limite, quello della durata massima (e/o del numero massimo di rinnovi) del lavoro a termine. Serve una nuova previsione legislativa che preveda il diritto del lavoratore a termine di essere assunto prima di altri aspiranti al posto di lavoro, in caso di nuove assunzioni da parte dell’impresa, sia che si tratti di assunzioni a termine che di assunzioni a tempo indeterminato. Perché così si creerebbe una sorta di tapis roulant che, in un periodo non troppo lungo, porterebbe il precario (un contratto a termine dopo l’altro) sulla soglia – limite temporale (oggi 24 mesi) – dell’assunzione definitiva. A quel punto l’impresa, a meno di non assumere più nessuno in assoluto in quella qualifica, dovrà rivolgersi esclusivamente a quel precario, assumendolo a tempo indeterminato. In questo modo si avrebbe un progressivo “prosciugamento” della palude del precariato che tanti osservatori invece vorrebbero addirittura espandere con tutto il suo carico di malessere e di ingiustizia.