Le opere d’arte possono trasmettere speranza nel futuro

Questa Pandemia che ho vissuto, e che sto vivendo, mi ha portato a riflettere e a vedere le cose in maniera diversa riguardo al mondo dell’arte, o meglio del mercato dell’arte di cui io ne ho fatto una ragione di vita. Appena la Pandemia provocò il lockdown, il mondo dell’arte si è, giustamente, paralizzato e la prima domanda che si fecero tutti è stata: e adesso cosa accadrà A questa domanda, gallerie, case d’asta, fiere internazionali, tutti si sono scatenati con questo sistema dell’online, proponendo pubblicamente opere che andavano da qualche migliaia di euro a milioni, quasi stalkerizzando i poveri collezionisti. Proprio in quel momento mi sono detto che nelle difficoltà, l’arte non deve essere un asset materiale, ma un bene spirituale. L’arte deve educare e far riflettere, soprattutto in questo momento storico, che credo sia il più basso culturalmente degli ultimi 50 anni. D’altronde, parlando dall’Italia, in un paese che freme più per la ripresa del campionato di calcio che per la riapertura delle scuole, cosa ci possiamo aspettare? Un paese dove, pur detenendo più del 50% del patrimonio storico artistico che vi è al mondo, un ministro aveva persino proposto di togliere la Storia dell’Arte nella scuola dell’obbligo.

La cosa che più di recente mi ha disgustato intellettualmente, è l’uso di Tik Tok da parte degli Uffizi. Io sono per la divulgazione del nostro patrimonio in termini mediatici, ma sempre con rispetto delle opere. Gli Uffizi sono sacri, e come tali andrebbero trattati. Questi Tik Tok sono di una volgarità assoluta! L’Arte è eleganza. Ma purtroppo l’Italia vive, tristemente, di presente, dimenticandosi la grande storia che ci ha visti protagonisti. Tuttavia noi mercanti d’arte siamo anche troppo lontani dal presente. Viviamo in una palla di cristallo, immersi nel nostro microcosmo, lontani dalla realtà, dove opere che vengono vendute a milioni di dollari, fino ad arrivare alla follia di un “Leonardo” a $ 450.000.000, sembrano la normalità. In un momento come questo ci rendiamo conto che con tutte le difficoltà del sistema, siamo dei miracolati e fortunati rispetto al resto mondo. Questi mesi che ci vedranno fermi sono solo un periodo, perché il mondo, e la storia ce lo insegna, ripartirà. L’uomo ha passato e vinto tante tragedie, e tante ancora ne vedrà. Il Covid, almeno, che ci aiuti a pensare. Spero che, quando tutto tornerà alla normalità, il mondo dell’arte diventi meno frenetico e riflessivo, e che i collezionisti possano, come a inizio Novecento, riassaporare la bellezza del rapporto con le gallerie che, purtroppo adesso, sono sempre più rimpiazzate e soffocate dalle fiere. Diventate piccole imprese hanno sostituito le pubbliche relazioni al dialogo e all’expertise. Sinceramente avrei preferito, in questo periodo, da parte di tutta la mia categoria, più discrezione nel muoversi. I mercanti che rovesciano milioni di euro sul web, avrebbero potuto tranquillamente permettersi di non vendere niente o il poco farlo senza troppo rumore. Ostentare questi milioni di euro mi è sembrato un gesto molto irrispettoso nei confronti della situazione e di molte persone che hanno perso il posto di lavoro, e di altre che non riescono ad arrivare a fine mese. Ma se vogliamo tornare a parlare in termini più economici e realisti, l’arte è sempre stata un asset in tutte le situazioni difficili, basti pensare allaSeconda guerra mondiale. Le grandi crisi sono servite e possono servire a far chiarezza tra operatori e artisti, facendo rimanere a galla la qualità di quelli che la Storia salverà. L’arte è uno dei migliori strumenti per riflettere e ridare energia necessaria a superare la depressione del momento. Le opere d’arte sono in grado di trasmetterci la speranza e la certezza che l’uomo ce l’ha sempre fatta, e tornerà a farcela quest’anno come negli anni che verrano.

L’arte è uno dei migliori antidepressivi inventati dal genere umano.

 

L’irresistibile Giachetti, il Voltaire de noantri che va in difesa di Salvini

Scrivetela su un foglietto e tenetela nel taschino della giacca, o in uno scomparto della borsa, nello zaino, in una tasca dei jeans. Poi tiratela fuori alla bisogna e leggetela ad alta voce: “Non sono d’accordo con quello che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”, firmato Voltaire. Fico, eh? Diciamolo, bella frase: fa colto, spaccia chi la pronuncia per persona di buone letture, anche se è convinto che Voltaire sia un difensore del Paris Saint Germain e non un filosofo letterato del Diciottesimo secolo. Siamo, insomma, davanti a una citazione liofilizzata, facile da ricordare, perfetta e pronta all’uso ogni volta che qualcuno fischia Salvini nelle piazze italiane (succede spesso). Meno male che Voltaire è morto (nel 1778, quasi due secoli e mezzo fa), altrimenti Salvini dovrebbe girargli qualche prebenda (magari non tutti i famosi 49 milioni, ma una percentuale sì).

Avviso doveroso: non si vuole qui parlare – che noia – del mangiatore compulsivo di ciliegie, dell’uomo-selfie (anche ai funerali), insomma, del più cinico e risibile arruffapopolo in circolazione, bensì di quella sindrome ultra-tafazzista dei presunti avversari che lo difendono sventolando una frase di Voltaire per sembrare ragionevoli e moderati. La quale frase, tenetevi forte, non è per niente di Voltaire, ma viene da un saggio del 1906 la cui autrice, Evelyn Beatrice Hall, si è più volte scusata per averla attribuita al filosofo, uno sgarbo sempiterno al vecchio parruccone Voltaire il quale è più o meno passato alla storia per una frase che non ha detto e nemmeno pensato, ma che viene usata regolarmente per difendere l’indifendibile e segnatamente per bacchettare chiunque contesti Salvini.

Le “Brigate Voltaire”, insomma, non dormono mai: se si fischia qualcuno (purché di destra), ecco alzarsi puntualissimo il pipicchiotto voltairiano sedicente di sinistra che la ricorda tra virgolette. Ultimo, dopo la cacciata di Salvini da Mondragone, l’irresistibile Roberto Giachetti, che ci ha fatto la grazia di non citare direttamente l’aforisma farlocco del grande letterato, ma ne esprime con parole sue il concetto: “Non esiste al mondo che in un paese democratico a un esponente politico (per di più il segretario del maggiore partito italiano) venga impedito di fare un’iniziativa politica”. Gioco, partita, incontro: ci aspettiamo a stretto giro un digiuno giachettiano, uno sciopero della fame dei suoi.

Che poi, quella di Salvini a Mondragone non era “un’iniziativa politica”, era una provocazione bella e buona. Andare a parlare in un posto segnato da un’emergenza sanitaria pericolosa, incendiato da una situazione esplosiva, con una comunità di stranieri (bulgari questa volta) sfruttati all’inverosimile ed eversivamente additati come untori non è un’iniziativa politica, è correre verso l’incendio portando taniche di benzina (ci stupisce l’autorizzazione del Viminale, semmai). Se invece si volesse fare a Mondragone un’iniziativa politica seria, si potrebbe andare a chiedere di vedere i contratti di lavoro dei famosi bulgari, i loro contratti d’affitto, le posizioni Inps e Inail, e magari pure incrociare i dati per capire se quelli che fanno lavorare i braccianti bulgari nei campi a un euro e mezzo l’ora non siano per caso gli stessi che gli affittano un posto letto a prezzi da Costiera amalfitana. Ecco, quella sì, sarebbe un’iniziativa politica. Purtroppo non la farà Voltaire, che è morto, e nemmeno Giachetti, che è vivo e lotta insieme a lui (a Salvini, non a Voltaire).

 

Torna presto inverno per celare la vecchiaia

“La giovinezza finisce quando non si può più mettere piede su un campo di calcio senza temere l’infarto. La vecchiaia inizia quando l’estate invece che una promessa di felicità diventa una preoccupazione” (Il Ribelle dalla A alla Z).

Sono quarant’anni che non metto più piede su un campo di calcio (da undici, quello a sei è un altro gioco). Ma non perché a 36 anni, quanti ne avevo quando giocai l’ultima partita, potessi temere l’infarto ma per altri motivi, pur sempre legati all’età e al progressivo progredire, all’inizio lento e quasi impercettibile, del cammino verso la vecchiaia. Mi arrivò un cross dalla destra, al bacio. Bastava tuffarsi coi tempi giusti, colpire il pallone e, poiché ero vicinissimo alla porta, sarebbe stato gol o un “quasi gol” come avrebbe detto Nicolò Carosio. Mancai il pallone. I tempi erano stati giusti, i riflessi anche. I riflessi, insieme alla voce, sono quelli che resistono più a lungo. Ed è per questo che abbiamo avuto e abbiamo portieri (in porta il riflesso, insieme al senso della posizione, è tutto) che giocano fino a quarant’anni, Zoff, Buffon. Quella che mi era venuta meno era la forza nelle gambe per spiccare il tuffo. Quante volte ho visto il mio penultimo idolo Ruud van Nistelrooij (l’ultimo è stato Iniesta che adesso fa “l’illusionista” in Cina) a fine carriera, all’Amburgo o al Malaga, colpire con la precisione e la mira di sempre, tiro raso palo o traversa, ma sul pallone, a differenza di un tempo, il portiere, com’è come non è, riusciva ad arrivarci. Gli era venuta meno la potenza. Negli atleti questi sintomi di invecchiamento si avvertono molto presto, quando in realtà sono poco più che dei ragazzi, negli uomini normali arrivano molto più tardi ma prima o poi arrivano.

L’estate è una sorta di amplificatore di tutti i problemi, spesso dei drammi, della vecchiaia, così come la globalizzazione è un moltiplicatore esponenziale dei guasti del turbocapitalismo. Cominciamo dal caldo. Il caldo estivo è più pericoloso del Covid per gli anziani. Nel 2003 un’ondata di calore uccise solo in Francia 20mila persone, non certo dei ragazzi. Gli anziani non soffrono il caldo, almeno così si dice (io, mezzo russo, continuo a soffrirlo come sempre) ma muoiono di caldo e se non è proprio il caldo a ucciderli c’è il terrorismo meteorologico che si è inventato la “temperatura percepita”, così uno muore di spavento. Noi vecchi dobbiamo quindi difenderci (da ragazzi quando mai ci è fregato qualcosa del caldo?). I più saggi fra noi d’estate si spostano in collina o poco oltre i mille metri (più in alto no, ci sono problemi di pressione) è più riposante dicono. Ma è un riposo che somiglia un po’ troppo all’eterno riposo. Io poi, come quasi tutti gli anziani, detesto la compagnia dei miei coetanei, parlano solo di medicine, di medici, di malattie e attualmente nemmeno del campionato di calcio che di fatto, a porte chiuse, non c’è. Ciò che è certo è che un anziano non può rimanere in una grande città come Milano (a Roma, baciata in fronte come sempre dagli Dei, è già diverso) perché resta solo. E la solitudine, come è stato accertato, uccide più del fumo. Dice: ma c’è la famiglia. La famiglia allargata di un tempo non esiste più, i figli, se ne hai (in genere uno solo), lavorano all’estero o comunque d’estate se la squagliano altrove lasciandoti come tutta compagnia un Tamagotchi. Ma avrai pure una moglie o una compagna. Per la mia generazione, che è quella dei divorzi e delle separazioni, non è esattamente così. Triste è il destino dell’uomo che ha avuto una vita intensa, relazioni, alcune anche profonde e relativamente durature, con varie donne, ma che in età matura, per inquietudine, incapacità, sfortuna, presunzione, orgoglio, voglia di perfezione, non è riuscito a trovare un ubi consistam definitivo con una di esse. Finisce come il Jack Nicholson di Conoscenza carnale a trascinarsi il sabato sera da quella certa prostituta perché lo chiama “uccello d’oro”. A certe età estreme non vale nemmeno la fama: Mario Monicelli, 95 anni, e Carlo Lizzani, 91, sono morti di solitudine, gli amici, saggiamente, se l’erano filata prima.

L’estate costringe poi, inevitabilmente, all’esposizione dei corpi. Torna presto pietoso inverno a nasconderci nel tuo ovattato anonimato. Torna presto pietoso inverno a difenderci con i tuoi saggi vestiti dall’esibizione delle nostre membra inflaccidite, di noi che pur, un tempo, fummo levigati e duri. Torna presto amico inverno, tu che ci eviti impietosi confronti e gesti atletici in cui pur un tempo eccellemmo, e magari, in qualche caso, fummo i primi, ma che adesso rivelano solo la nostra ansiosa goffaggine. Torna presto pietoso inverno perché nel tuo ventre buio e alla tua incerta luce si possa nascondere ancora una volta, agli altri, ma soprattutto a noi stessi, che siamo venuti vecchi.

 

BergamoIl comitato delle vittime “Domenica solo una passerella”

Domenica sera ho preso parte alla Commemorazione delle vittime di Covid-19 presso il Cimitero di Bergamo, alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, del presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e dei sindaci della provincia di Bergamo. Non posso non sottolineare la profonda tristezza e amarezza provate: tristezza, per il ricordo di mio padre e di tutti i defunti degli ultimi orribili mesi; amarezza per aver avvertito, ancora una volta, la lontananza e la sordità delle istituzioni, le uniche a cui è stato consentito di partecipare. Il protocollo, infatti, non ha permesso che presenziassero alla cerimonia i parenti delle vittime, o anche solo una parte di loro; è stato demandato a me, in veste di presidente del Comitato, il compito di rappresentarli. Come Comitato avevamo richiesto la presenza di un numero superiore, seppur contenuto, di persone in rappresentanza degli oltre 60mila iscritti al gruppo Facebook, ma non ci è stato concesso. L’assenza dei parenti delle vittime non ha fatto altro che reiterare i funerali non avvenuti durante il periodo di lockdown, negando ulteriormente ai nostri cari quella dignità che non è stata loro concessa negli ultimi momenti di vita e neanche dopo la loro morte.

Non siamo avvezzi a questo tipo di cerimonie istituzionali. E quando sono stato informato del fatto che il presidente Fontana avrebbe preso parte alla manifestazione, sarei voluto essere capace solo di nascondere la mia irritazione. Ho chiarito in modo inconfutabile agli organizzatori di questo evento che non avrei in nessun modo condiviso alcuno spazio fisico con il presidente della Regione. Mi auguravo che il presidente potesse cogliere l’occasione per sentire il dolore di Bergamo, e speravo che, davanti al cimitero monumentale divenuto il simbolo di un’ecatombe, prendesse coscienza del nostro dolore chiedendo pubblicamente scusa a noi cittadini. E invece, purtroppo, l’occasione si è tristemente risolta solo nell’ennesima photo opportunity.

Domenica ho partecipato all’ideale funerale di mio padre e a quello di tutti i padri, le madri, fratelli, sorelle e figli scomparsi. Cosa che ho fatto e rifarei; questo ha rimarcato, però, quel senso di abbandono che la gente della mia terra ha provato e prova tuttora. Continueremo a lottare perché la nostra voce venga ascoltata, e perché si arrivi alla verità, fino a questo momento lontana.

Luca Fusco, Comitato Noi Denunceremo verità e giustizia per le vittime Covid -19

Mail box

 

Ci vuole una riforma contro il trasformismo

Gentile Direttore, prendo spunto dalla deputata dei 5Stelle passata alla Lega. Seguendo la trasmissione Otto e mezzo, ho condiviso quanto detto da Lei cioè che deve finire questo trasformismo. Anche perché in questo c’è una logica: sei stato eletto con quel partito o quel movimento e relativo programma; bene, se non credi più a tutto questo, nel rispetto dei tuoi elettori, devi dimetterti e tornare a casa e non aderire a un altro partito. Lo si può fare ricandidandosi alle prossime elezioni. Questo si chiama opportunismo per mantenere la propria poltrona e tutti gli agi, e ancora più grave rischiare di compromettere la maggioranza. Tutto questo non si può più accettare, e se per far accadere questo serve una nuova riforma, che il buon Dio ci illumini al più presto.

Roberto Mascherini

 

Maggiori regole per il bene dei ragazzi

Da otto mesi, Il Fatto è il mio quotidiano, perché è indipendente. Come ex-docente in tutti gli ordini di scuola (eccetto le elementari) e fino all’Università, vorrei farle presente un argomento di cui nessuno si occupa (ma nella prossima estate, certamente, tutti i quotidiani e le tv lo faranno la domenica e il lunedì): le stragi dei ragazzi. Io credo che i ragazzi vadano protetti e mi limito a toccare il problema relativamente alle discoteche, che sono luoghi di ordinaria e tragica follia: si beve, si ascolta musica (ma è “musica”?) “ci si sballa”, ci si droga. E poi… si muore. Luoghi che ospitano così tanti ragazzi non sono tollerabili; vanno chiusi decidendo un limite massimo: non più di cento persone (oggi ne entrano anche mille).

Il controllo all’interno e all’esterno è un problema di ordine pubblico. Gli orari vanno ridotti. Non si deve andare in discoteca a mezzanotte o all’una. A quell’ora le discoteche devono chiudere. Ai ragazzi diamo una pessima scuola, un ambiente a dir poco semidistrutto, incultura diffusa, pochi esempi di rettitudine da parte degli adulti. È l’ora di tornare indietro. Se vi faceste paladini di questa causa (la causa dei giovani, visto che già lo fate toccando altri problemi) sareste ancor più meritevoli.

Giovanni Falaschi

 

Il silenzio dei “media” riguardo alla Casta

Ho sempre pensato che i giornali debbano porre in risalto ciò che accade nella società civile denunciando fatti degni di cronaca a 360 gradi. Con questa convinzione, evidentemente da rivedere, pensavo che i giornali, pur conservando un orientamento (vi sono i cosiddetti giornali di destra, di sinistra, dei padroni etc. ) facessero la loro parte evidenziando accadimenti interessanti come eventi politici/sociali. Ebbene c’è stata una campagna mediatica incentrata sui privilegi dei politici, fiumi di parole, trasmissioni televisive di denuncia… Stamattina la delusione: solo il vostro giornale pone in debito risalto il problema dei vitalizi. Non è successo niente.

Se la memoria mi assiste, ricordo che la Rivoluzione francese ebbe inizio perché il Re non tenne in debito conto la voce di un cortigiano che gli comunicava: “Maestà il popolo ha fame”. Dopo qualche tempo il Re perse la testa. Non in senso sclerotico, naturalmente, ma ci siamo capiti. In conclusione esimio direttore, rinnovo la mia stima al suo Fatto per la voce, anzi grido di giustizia che si eleva da questo suo fedele popolo. Come si dice: chi vivrà vedrà.

Mario Valentino

 

I braccianti stranieri dimostrano chi siamo

Ricordo ancora quando i giornali “democratici” parlavano del famoso “cucchiaio in bocca” ai cittadini dei Paesi facenti parte delle nazioni del blocco comunista.

Cucchiaio in bocca nel senso che tutto era preordinato dallo Stato per quanto riguardava la scuola, il lavoro e la sanità. Non erano benestanti e neppure ricchi, ma avevano la dignità che ogni essere umano ha il diritto di avere.

Naturalmente si diceva che non avevano la libertà. Libertà di critica e di voto per non cambiare nulla. I braccianti bulgari, rumeni e altre infinità di etnie sfruttati e trattati peggio di schiavi stanno a dimostrare quanto l’Italia sia un paese democratico.

Degna Milesi

 

Le scuole dovrebbero restare chiuse

Caro Direttore, visto che molto probabilmente, il problema del virus Covid sarà risolto definitivamente solamente con l’arrivo del vaccino, secondo me, a settembre, gli studenti dovrebbero continuare a studiare a casa.

Invece di fare tante modifiche agli edifici (molte modifiche saranno obsolete dopo l’arrivo del vaccino), si dovrebbe investire in laptop/pc (per chi ne ha bisogno) e in collegamenti Internet, e per dare un supporto alle famiglie con studenti con disabilità.

Con gli studenti a casa i vantaggi sono multipli: meno rischi di contagi (specialmente nei mezzi pubblici), meno traffico, meno inquinamento e meno costi di trasporto per le famiglie.

Inoltre si potrebbe migliorare la qualità dell’educazione con alcune lezioni pensate “a reti unificate” su Internet, magari tenute dai migliori professori disponibili.

Claudio Trevisan

Trovati i tweet segreti scritti dal papa: “Nessuno sa se c’è l’aldilà”

Nessun Papa, nella storia millenaria della Chiesa, è mai stato così spontaneo ed esuberante quanto Papa Francesco (a parte Benedetto IX, che trasformò il Vaticano in un bordello gay, organizzava orge che includevano animali, e uccise almeno due dei quattro Papi eletti al suo posto; Giovanni XII, che stuprava vergini, vedove, pellegrine e prostitute, faceva sesso abituale con la nipote, e castrò il suo segretario prima di ucciderlo; e Papa Wojtyla, con la sua passione incontenibile per Pinochet). L’entusiasmo pastorale di Bergoglio, però, lo porta spesso a esternazioni spaventose. (Come quando disse a una mamma che gli aveva dato del Santo: “Santo io? Magari ci vediamo all’inferno”.) Da quando poi ha scoperto Twitter, si sono aperte le cateratte, e l’Istituto per la Propaganda Fide sta facendo i salti mortali per evitare che i tweet del Papa non siano così eterodossi da provocare scismi, apostasie e guerre mondiali. Grazie a una mia amica hacker, siamo in grado di rivelare alcuni tweet papali provvidenzialmente eliminati prima dell’imprimatur.

In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia a tutti noi la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia che ci ha mandato non torni.

Non sappiamo nulla su Gesù adolescente perché, come tutti gli adolescenti maschi, non aveva voglia di fare nulla a parte masturbarsi sfregandosi il pisello sul divano di velluto. Immagino che anche lui s’illudesse, pensando che prima o poi avrebbe smesso. Non poteva immaginare in che modo sarebbe successo.

Nessuno sa se c’è l’aldilà. C’è chi crede alla favoletta di Dio e di suo figlio Gesù. Lo capisco. L’altro giorno un documentario spiegava che tutto l’universo, tutte le galassie, le stelle, i pianeti, originarono dal big bang, l’esplosione di materia concentrata che aveva le dimensioni di un sassolino. Quando senti questa spiegazione scientifica, capisco che molti si spaventino e dicano: “Ok, dammi la favoletta di Gesù.” Ma voi siete fortunati: sono qua per questo.

Non va sottovalutata l’ipotesi che Gesù fosse ateo, e scelse di morire per sfidare il Dio ebraico a intervenire per salvarlo. La scena sadomaso della morte in croce come dimostrazione suprema che Dio non esiste. Il Vangelo allora ci dice che Dio ha accettato la sfida e ha fatto risorgere Gesù? L’ho chiesto ieri a Ratzinger, che di teologia ci capisce, e lui ha biascicato che se Gesù è Dio, non può esserci stata tentazione di Dio da parte di Gesù. Peccato, mi sembrava una buona idea.

 

Il governo e il tracollo dell’unità nazionale

Conosco Primo Di Nicola dai tempi dell’Espresso, entrambi giornalisti ai tempi di Claudio Rinaldi e Giampaolo Pansa, e non mi ha sorpreso, anni dopo, averlo ritrovato senatore dei 5Stelle, animato dalla stessa passione civile di quegli articoli, di quelle inchieste. Perciò, sentirgli dire che, soprattutto al Senato, la maggioranza rischia davvero, che “i numeri sono troppo risicati per affrontare le emergenze che ci aspettano”, e “che ogni votazione a Palazzo Madama può trasformarsi in un terno al lotto”, mi è sembrato come l’annuncio di una disfatta. Non tanto di questo governo, che potrebbe galleggiare ancora a lungo privo come appare di alternative credibili. No, assistiamo a un tracollo più grave che sta travolgendo l’idea stessa che ci aveva dato energia e speranza nei giorni più cupi del morbo. Chiamiamola condivisione, unità morale, difesa del bene comune, dell’interesse nazionale, un po’ ci avevamo creduto in tanti. L’altro giorno, su queste pagine, Marco Travaglio ha scritto: “Ci avevano giurato che, dopo la pandemia, nulla sarebbe stato come prima e tutto sarebbe cambiato”. Poi, di seguito, una lista delle piccole e grandi mascalzonate post Covid, aperta dalla vergognosa resurrezione dei vitalizi al Senato, simbolo di una politica impegnata continuamente a peggiorare se stessa. E mentre i soliti trafficoni hanno ripreso alla grande a farsi gli affari loro, ogni occasione è buona per alimentare divisioni, litigi e risse. Come prima, più di prima. Dal controverso Mes alle norme su semplificazioni e appalti, alla modifica dei decreti Sicurezza (per limitarci alle prime pagine), il quadro politico è continuamente percorso, come in una tempesta elettronica, da quelle che i giornali definiscono “tensioni”. Destinate a scaricarsi in un futuro imprecisato, che va dal prossimo settembre all’eternità. Il 24 marzo, mentre il virus mieteva ogni giorno centinaia di vittime, Sergio Mattarella lanciava un drammatico appello all’“unità del popolo italiano”, con un richiamo “allo spirito che dopo gli anni della dittatura e della guerra aveva consentito la rinascita del Paese”. Messaggio ribadito, in forma ancora più solenne, il 2 Giugno per la Festa della Repubblica: “Siamo parte della stessa storia, di uno stesso popolo”. Davanti al desolante spettacolo odierno, chissà cosa penserà dei suoi accorati richiami il presidente della Repubblica. Prediche inutili? Parole al vento?

“È la stampa indipendente che tutela i whistleblower”

Rivelano crimini, abusi, corruzioni e lo fanno a loro rischio e pericolo, perché spesso vengono licenziati, finiscono in galera o, addirittura, ammazzati. Si chiamano whistleblower. Per proteggerli è stata creata una nuova organizzazione: Signals Network che ha creato partnership con vari media internazionali. Per l’Italia ha scelto il Fatto Quotidiano. Abbiamo chiesto alla direttrice esecutiva di Signals, Delphine Halgand-Mishra, di discutere il suo lavoro.

Che tipo di aiuto concreto Signals Network offre ai whistleblower?

Signals è un’organizzazione non profit franco-americana che fornisce supporto a whistleblower selezionati che hanno contribuito a rendere pubblici abusi significativi, come Rui Pinto, il whistleblower di Football Leaks. Possiamo fornire questa assistenza in 11 nazioni, Italia inclusa. Possiamo offrire aiuto legale, sicurezza delle comunicazioni, rapporti con i media, supporto pubblico, sostegno psicologico e anche un posto dove poter stare temporaneamente al sicuro.

I whistleblower spesso chiedono aiuto alla stampa che però, per la maggior parte, è nelle mani di grandi aziende. Nel creare partnership, Signals Network dà rilevanza a questo fattore?

Lei ha ragione, la concentrazione dei media e/o la mancanza di completa indipendenza sono una grave minaccia alla libertà di stampa. Abbiamo scelto media partner che appartengono a un largo spettro di opinioni politiche, con un numero significativo di lettori e con una tradizione nel giornalismo d’approfondimento e con alti standard professionali. I nostri media partner hanno creato un sistema che consente di ricevere tutti contemporaneamente le stesse informazioni dai whistleblower. Questo sistema protegge le informazioni da potenziali interessi di stato o privati che possano influenzare la posizione editoriale di un particolare media: poiché tutti ricevono tutto allo stesso tempo, le rivelazioni del whistleblower non possono essere messe a tacere da interessi esterni.

Perfino le democrazie europee garantiscono pochissime protezioni ai whistleblower. L’Italia è all’inizio. Cosa pianifica Signals per rafforzarle?

I prossimi mesi sono cruciali: i Paesi europei hanno fino al 2021 per recepire nelle loro leggi la direttiva europea sulla protezione dei whistleblower, votata dal Parlamento europeo. Questa direttiva non è perfetta, ma è un grande passo in avanti nella protezione delle fonti giornalistiche. Quindi io invito tutti i cittadini europei a tenere gli occhi ben aperti su come i loro parlamenti recepiranno questa direttiva a livello nazionale. Con una grande rete di organizzazioni della società civile, stiamo monitorando il comportamento dei governi europei in materia. Quando Rui Pinto è finito in prigione in Portogallo, per esempio, sono andata a incontrare il ministro della Giustizia portoghese. Oggi Rui Pinto è libero anche grazie all’organizzazione Signals.

 

 

Prima inchiesta domani

Parte la nuova media partnership a cui “Il Fatto” aderisce: The Signals, una rete di media indipendenti (oltre al nostro giornale, Mediapart, Die Zeit, Radio France, Basta, Miami Herlad, McClatchy, NRC ed El Mundo) che realizzerà esclusive sulla base del lavoro di whistleblower “selezionati”. Un abstract della prima inchiesta sarà disponibile online già oggi alle 17, in contemporanea con gli altri media. Domani invece la pubblicazione sul giornale

Strane polmoniti fin da novembre “Non era Covid”

Polmoniti atipiche. E ci risiamo. La parola chiave per non spiegare l’emergenza Coronavirus in Lombardia è sempre la stessa. Settimane fa e ancora oggi, dopo che la Procura di Bergamo ha acquisito la relazione dell’Ats locale su casi di polmonite registrati nell’ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano Lombardo a partire da novembre. Il documento firmato dal direttore generale Massimo Giupponi è ora nel fascicolo del pm Maria Cristina Rota che indaga tre filoni dell’emergenza Covid nella Bergamasca: la mancata apertura della zona rossa tra Nembro e Alzano, la mancata chiusura dell’ospedale di Alzano la sera del 23 febbraio quando si identificano i primi due positivi e i morti nelle Rsa. Si tratta di indirizzi investigativi specifici che vedono già due indagati. Si procede per epidemia colposa. Agli atti anche gli oltre cento esposti di parenti delle vittime riuniti nell’associazione “Noi Denunceremo”. Ieri l’Eco di Bergamo ha rilanciato la notizia di 110 casi di polmoniti atipiche al Pesenti-Fenaroli da fine novembre al 23 febbraio. In particolare 18 sono state registrate a novembre, 40 a dicembre, 52 a gennaio. Erano polmoniti bilaterali interstiziali provocate dal virus SarsCov2? Non si sa. Perché tutte, si legge nelle carte, passano sotto il codice 486, ovvero “polmonite, agente non specificato”. Si tratta della dicitura scritta nelle schede di dimissione. Si legge poi nella relazione: “La semplice analisi” di questa scheda “non consente di ascrivere tale diagnosi a casi da Sars Cov-2”. I numeri, calcolati solo sui ricoveri, parlano di un aumento del 30% rispetto al 2018. In cifre: 195 nel 2018, saliti a 256 nel 2019, 65 casi in più.

Quanti Covid? Ancora una volta non lo sappiamo. Perché non vi è test sierologico o analisi epidemiologica che lo confermi. “Forse stiamo parlando di un’altra epidemia, ma non di quella data dal Covid-19”, spiega il professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano. “Di certo – prosegue – abbiamo capito che quando questo virus arriva ribalta ogni cosa in pochissimo tempo”. Difficile quindi pensare che a novembre quelle polmoniti fossero dei Covid conclamati. Perché se il SarsCov2 che abbiamo visto galoppare a fine febbraio con un R con zero di 3, fosse stato presente ad Alzano a novembre avrebbe portato al collasso delle terapie intensive già a dicembre. “Cosa – aggiunge Galli – che non abbiamo visto”. Di questi casi, ragiona Galli, “poi non sappiamo nulla, ad esempio i collegamenti tra loro, perché solo così si traccia un’epidemia”. Del resto per comprendere il numero delle polmoniti atipiche in provincia di Bergamo bastava consultare il report dell’Ordine dei medici. Si legge: “Segnalati 228 casi di polmoniti atipiche, 104 in dicembre e 124 in gennaio; 130 di questi (57%) hanno interessato soggetti maschi e 98 femmine”. Numeri che fotografano un fenomeno ma non l’inizio dell’epidemia. Detto questo, la risposta all’ingresso del virus in Lombardia resta a oggi una sola: 26 gennaio. Data certificata dagli studi del professor Galli, oggi aggiornati ad oltre cento sequenze genetiche. “Tutte – spiega – anche quelle dei virus bergamaschi riconducono al cluster tedesco”. Ovvero il caso identificato in Baviera il 21 gennaio e arrivato nel Lodigiano il 26 gennaio. Ora in che modo questi dati possano spostare l’ago dell’indagine è ancora da capire. A oggi rientrano nel fascicolo come anche le circolari ministeriali del 22 e del 27 gennaio sui criteri per fare il tampone.

Aeroporti, ancora troppe falle per chi viene da Paesi a rischio

L’obiettivo: “Evitare di vanificare i sacrifici fatti dagli italiani negli ultimi mesi” nella lotta al Covid-19. Per questo il ministero della Salute sceglie la prudenza: chiunque arrivi dai Paesi extra-Schengen una volta messo piede in Italia dovrà mettersi in isolamento fiduciario. La norma, prevista dal Dpcm firmato da Conte l’11 giugno, è stata prorogata da un’ordinanza firmata ieri sera da Roberto Speranza. La misura si applica anche ai cittadini dei 14 Paesi individuati dall’Ue nella “lista verde”, da e verso i quali da oggi gli italiani potranno viaggiare liberamente: Algeria, Australia, Canada, Georgia, Giappone, Montenegro, Marocco, Nuova Zelanda, Rwanda, Serbia, Corea del Sud, Thailandia, Tunisia e Uruguay. A questi si aggiunge la Cina, con un caveat: il Dragone entrerà nell’elenco a patto di garantire all’Europa un trattamento reciproco. Restano, invece, fuori Usa, Russia e Brasile, i tre Paesi più colpiti a livello mondiale. Le misure previste dal Dpcm dell’11 giugno, tuttavia, lasciano aperti diversi interrogativi. L’articolo 4, ad esempio, prevede che chiunque arrivi in Italia in aereo debba compilare alla partenza e consegnare alla compagnia aerea una dichiarazione in cui elenca i motivi del viaggio, “indirizzo completo dell’abitazione o della dimora in Italia dove sarà svolto il periodo di sorveglianza sanitaria” e numero di telefono “presso cui ricevere le comunicazioni durante l’isolamento fiduciario”. “Ma a noi questi dati non arrivano – spiega al Fatto Sonia Viale, vicepresidente e assessore alla Sanità della Regione Liguria – perché la norma non prevede che il vettore ce le comunichi”. È il caso di un passeggero proveniente dal Brasile che sbarca all’aeroporto internazionale di Milano Malpensa ed è diretto a Genova, dove ha la residenza. “Questa persona arriva da un Paese a rischio – spiega Viale – ma la comunicazione alle nostre autorità sanitarie avviene solo ed esclusivamente se costui ha il buon senso di autosegnalarsi alla Asl di riferimento”. A quel punto il soggetto “è sottoposto alla sorveglianza attiva per 14 giorni e se a fine periodo non presenta sintomi torna libero di circolare”, conclude la vicepresidente. Il meccanismo teorizzato dal Dpcm s’inceppa anche sugli asintomatici. All’aeroporto di Fiumicino, a Roma, viene bloccato soltanto chi transita per il termoscanner con una temperatura superiore ai 37.5 gradi. E se non c’è stato controllo in partenza, in teoria previsto, basta una tachipirina per far scendere la febbre. Come previsto dalla norma, poi, il cittadino straniero che non ha una residenza in Italia deve indicare un domicilio e la Asl dovrebbe contattarlo ogni giorno al telefono per accertarsi del rispetto della quarantena. “Ma non si riesce a seguire tutti – racconta al Fatto un dirigente della Asl Roma 2 – ci si concentra di più sui sintomatici, su coloro che sono stati trovati febbricitanti in aeroporto e, va detto, su quelli che hanno il medico di famiglia. Gli altri, specie gli stranieri, in genere si rendono irreperibili”. Ulteriore criticità: i voli che arrivano da altri continenti ma fanno scalo in uno Stato Ue fanno saltare lo schema. Con una sosta in un aeroporto comunitario e un cambio di compagnia, infatti, la prima parte del percorso risulta di fatto azzerato: ancora una volta, dovrebbe essere il passeggero ad avvertire spontaneamente le autorità sulla sua effettiva provenienza ma “questo che non accade quasi mai, perché le comunicazioni con i vettori sono farraginose”, confermano dall’unità di crisi della Regione Lazio, alle prese con l’emergenza degli arrivi al Da Vinci. Nelle ultime ore la Pisana è alle prese con il caso del Bangladesh. La scorsa settimana un uomo arrivato da Dacca ha infettato i suoi coinquilini, tutti dipendenti di un bistrot di Fiumicino, creando un mini focolaio. L’uomo, partito febbricitante, era arrivato a Roma con una temperatura sotto il limite e l’assenza di un telefono fisso in casa avrebbe reso “impossibile” il monitoraggio della Asl Roma 3. “Siamo a favore di controlli più rigidi sugli arrivi dal nostro Paese – ha dichiarato Mohamed Taifur Rahman Shah, presidente dell’Associazione Italbangla – e condanniamo il nostro governo che non riesce a gestire la situazione”. Quello del Lazio non è un caso isolato. “Il 22 giugno sono sbarcato a Fiumicino dall’Oman, via Londra – racconta E.L., 40 anni – e con un’auto in affitto sono arrivato in Puglia, a Fasano. Ho compilato il modulo che c’è sul sito della Regione per segnalare la mia presenza all’autorità sanitaria e mi sono messo in isolamento. Da allora non ho mai ricevuto neanche una telefonata dalla Asl”.