Acquaroli, dalla cena fascista alla scalata della regione rossa

L’uomo sbagliato nel posto tremendamente sbagliato. 28 ottobre 2019, il deputato di Fratelli d’Italia, Francesco Acquaroli, siede a una lunga tavolata bianca in un ristorante di Acquasanta Terme, provincia di Ascoli Piceno. In fondo, sulle pareti, ci sono un tricolore e le bandiere del partito di Giorgia Meloni. Ai commensali viene distribuito un grazioso menu con sopra un fascio littorio, un pennuto che somiglia vagamente a un’aquila imperiale, la scritta “Dio, Patria e Famiglia”. E poi un’immagine del Duce e una frase del suo armamentario retorico: “Camminare e costruire e se necessario combattere e vincere”. E ancora: “28 ottobre 1922… giorno memorabile e indelebile”. È la data della marcia su Roma di Mussolini, l’inizio del regime. “La storia si rispetta e si commemora”.

Francesco Acquaroli partecipa a questa mensa: un ritrovo di fascisti che celebrano i bei giorni andati dell’instaurazione della dittatura. Se la circostanza non fosse di per sé abbastanza vergognosa, c’è da aggiungere che la tavola è imbandita in un luogo simbolo della Resistenza, a una manciata di chilometri da Pozza e Umito. Due nomi che risuonano nella storia d’Italia per l’eccidio nazi-fascista del 1944: 42 persone trucidate dalla violenza nera.

Con lui c’era il sindaco di Ascoli Marco Fioravanti, il suo vice Giovanni Silvestri, il coordinatore provinciale di FdI Luigi Capriotti, il vicesindaco di San Benedetto del Tronto Andrea Assenti. Tutti Fratelli d’Italia. Tutti, dopo aver riempito la pancia con olive ascolane e spallino di vitello al tartufo, hanno preso goffamente le distanze dalla commemorazione. Dichiarando, a vario titolo: “Eravamo di passaggio”, “non abbiamo celebrato un bel niente”, “FdI non c’entra nulla con l’iniziativa” (c’erano solo le bandiere sulle pareti e il logo del partito sul menu, accanto al fascio).

Otto mesi dopo, l’uomo sbagliato al posto sbagliato diventa l’uomo giusto al posto giusto. Nella partita a scacchi per le candidature delle Regionali, Giorgia Meloni accerchia Matteo Salvini e si mangia un paio di pedine. Ci sono le Marche: il camerata Acquaroli (solo a tavola, s’intende) è il candidato governatore delle destre. Con concrete speranze di successo.

È un bel salto, in una carriera che è tutta un paradosso. Acquaroli non è un politico appariscente. Non è uno dall’eloquio spiccato, dalla retorica aggressiva. Viene ricordato per una cena fascista, ma in verità nel contesto di Fratelli d’Italia è quasi un moderato. Uno che sta al posto suo. Non si ricordano sue invettive polemiche, sussulti, gesti memorabili, discese ardite e risalite. Nel partito marchigiano non è nemmeno il più carismatico: chi ha lavorato con lui in consiglio sostiene che il candidato naturale di FdI sarebbe stato Guido Castelli, per 10 anni sindaco di Ascoli. Tutt’altro spessore, dicono.

Eppure Acquaroli va. Si fa apprezzare, non è una primadonna, è affidabile. L’ ascesa dell’ex An è graduale. Nel 2010 entra in consiglio regionale, nel 2014 viene eletto sindaco di Potenza Picena, piccolo comune di 16mila abitanti in provincia di Macerata. Il vero exploit è la prima candidatura alla presidenza della Regione, nel 2015. Il centrodestra si divide: Forza Italia appoggia Gian Mario Spacca, Lega e Fratelli d’Italia puntano su Acquaroli. Anche allora, l’uomo giusto al momento giusto. Grazie al venticello sovranista che inizia a soffiare nelle Marche, si arrampica fino al 19%. Arriva terzo ma è una vittoria personale.

Tre anni dopo la Meloni – che conosce sin dai tempi della giovanile di Alleanza nazionale – se lo porta a Roma: alle Politiche del 2018 Acquaroli è il primo nome del listino bloccato di FdI nel collegio Marche 1. L’anno successivo gli spiana anche la strada per l’Europarlamento, ma le 9mila preferenze raccolte in Italia centrale non bastano a farlo eleggere.

Poco male, la partita delle Marche è un’opportunità paradossalmente molto più grande dell’Europa: Acquaroli può diventare il primo governatore meloniano in una (ex?) regione rossa. Malgrado il basso profilo, e la cena dei cretini.

“Solo attacchi, zero proposte: la gente ora è stufa del gioco delle opposizioni”

Da oggi i cosiddetti “invisibili” avranno un luogo in Rete dove poter parlare, confrontarsi e progettare il futuro. È una piattaforma web e si chiama Alternett.it: un esperimento pilota che mira a dare voce autonoma a quella sfera umana, sociale e lavorativa – dai precari ai rider , per intenderci – che oggi non ha voce. Uno strumento ideato dal filosofo Stefano Bonaga e che ha come sostenitori nomi come Nadia Urbinati, Carlo Petrini, Moni Ovadia, Alessandro Bergonzoni, Piergiorgio Ardeni, Luciana Castellina e Giancarlo Vitali Ambrogio.

Nadia Urbinati, lei insegna Scienze politiche alla Columbia University di New York ed è tra i firmatari di questo progetto. Ci spiega che cos’è Alternett.it?

Un portale nel quale si vuole dare voce a chi oggi non ce l’ha, degli spazi per poter dire “noi ci siamo, abbiamo questi problemi e abbiamo questo desideri”. Cosa che i partiti non fanno più.

Crede davvero che tra i cittadini italiani stia tornando la voglia di impegnarsi attivamente in politica?

La cittadinanza non significa votare ogni tanto e basta. La cittadinanza, per essere attiva, ha anche dei doveri. E con Alternett.it vorremmo dare questa possibilità, raccogliere le tante proposte che oggi sono disperse nel Paese.

Secondo lei oggi gli italiani di cosa hanno più bisogno?

I cittadini sembrano avere, più di prima, grande bisogno di fiducia. Per questo c’è tanta ammirazione per Giuseppe Conte, perché è un uomo che ha saputo dar loro questa fiducia. E lo dico, a scanso di equivoci, che io non sono mai stata simpatizzante del Movimento 5 Stelle.

Molti, tra opposizione e no, dicono che Conte non abbia competenza sufficiente per gestire la ripresa.

Con questa storia delle competenze… La democrazia è questa cosa qui, io non sono una cittadina perché ho competenze, ma perché sono parte dello Stato italiano. Ho il diritto di dire ciò che penso e di candidarmi. Questo atteggiamento fasullamente aristocratico non lo condivido.

Dove sbaglia l’opposizione secondo lei?

In questo attacco permanente, dalla mattina alla sera, a Conte e al suo governo. Perché in una fase così critica non abbiamo un’opposizione capace di fare critiche costruttive? Questa opposizione vuole soltanto, ogni giorno, vedere scorrere il sangue. Ma la gente, di questo gioco, non ne può più.

Crede che il calo dei consensi di Renzi sia dovuto a questo continuo attacco al governo?

Certo. Renzi cala, ma anche Salvini cala. In un momento così drammatico prendersela con chi cerca di dare una mano al Paese è poco intelligente.

Questo è soltanto un governo di convivenza o lei vede anche qualche spiraglio per la creazione di quel fronte progressista, riformista da tanti evocato?

Qualche passo è stato fatto, aiutati anche dalla difficoltà della pandemia. Ora però inizia la vita vera, la sfida è molto grossa: non basta più solo la forza di resistere, serve la forza di programmare una ripresa nel tempo che coniughi giustizia sociale e servizi pubblici. Lo Stato deve tornare propositivo e non solo un bancomat, come vorrebbero molti industriali.

Il futuro del Movimento 5 Stelle può prescindere da Conte?

I 5Stelle sono finiti se non riescono a diventare un partito strutturato, punto. È compito loro dire “noi siamo un gruppo con una proposta”, indipendentemente dal presidente del Consiglio. Detto questo, se Giuseppe Conte dovesse davvero creare un suo partito sarebbe finito, come è successo a Monti.

Anche nel Partito democratico ci sarà una resa dei conti?

Spetterà al partito risolvere le sue questioni interne. Però non mi sembra questo il momento della resa dei conti. Anche perché vorrebbe dire far cadere il governo.

La destra torna in piazza: B. e Meloni contro Salvini

Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni hanno chiesto garanzie precise. Regole ferree. Per imbrigliare, per quanto è possibile, Matteo Salvini. Ed evitare in tutti i modi che si ripeta ciò che è andato in scena il 2 Giugno scorso, con il leader della Lega a far da mattatore, una Meloni assai innervosita e un Tajani che, appena è stato possibile, si è defilato, quasi senza salutare. Con un collage di assembramenti tipo movida del sabato sera e mascherine abbassate come le tengono i ragazzi: immagini che hanno fatto il giro del mondo e non hanno fatto bene, quel giorno, alla politica italiana.

Si era, infatti, da poco usciti dal lockdown e Salvini aveva una voglia irrefrenabile di riabbracciare la piazza, la sua piazza, dopo le settimane di astinenza imposte dall’emergenza coronavirus. Con i sondaggi sempre più in discesa che il Capitano imputa proprio al distanziamento sociale. “Vedrete quando si potrà tornare in piazza e incontrare le persone…”, il suo mantra in tutto questo periodo.

Così, per questa nuova occasione, la manifestazione di sabato prossimo 4 luglio, FI e FdI hanno preteso delle regole d’ingaggio strettissime, altrimenti tutto poteva andare anche a monte e forse Berlusconi non si sarebbe nemmeno troppo dispiaciuto. Quindi, per “Insieme per l’Italia del Lavoro”, questo il nome scelto per la kermesse, la location è sempre la stessa, piazza del Popolo, ma con direttive stringenti: 4.500 persone al massimo (4.200 è il numero chiesto dalla Prefettura), con un unico ingresso da via del Corso e uscita da piazzale Flaminio. Ingressi contingentati con conta-persone e misurazione della temperatura, tutti con la mascherina e, inoltre, nessun simbolo di partito. “Vogliamo attenerci alle regole, perché il tema è serio e non vogliamo che vi siano polemiche. Devono essere i contenuti a emergere”, spiega Roberto Calderoli, che ieri ha partecipato a un vertice per stabilire i termini dell’organizzazione con Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa.

Così, per dire, non ci saranno nemmeno pullman della Lega in discesa dal Nord, ma Salvini si affiderà alle forze del movimento di Roma e Lazio. I tre partiti, in teoria, dovranno dividersi le presenze: circa 1.500 persone a testa. Sarà così? Chissà… Qualche maligno però sussurra che un segnale di riconoscimento potrebbero essere proprio le mascherine: tricolori quelle di FdI e così via. “Stiamo lavorando perché sia una manifestazione ordinata. Noi di FdI abbiamo proposto di garantire le distanze attraverso i posti a sedere”, spiega La Russa, capo delegazione al tavolo delle trattative con gli alleati del partito di Giorgia Meloni. Che, par di capire, vuole “sfidare” Salvini sui contenuti sul palco, dove è maestra, anziché sul terreno dei selfie, dove giganteggia lui. L’ex Cavaliere ha invece spedito alla riunione Gasparri, che è commissario del partito a Roma, oltre che responsabile azzurro degli enti locali. Con un mandato che più complicato non si potrebbe: perché Berlusconi non è affatto favorevole all’iniziativa che non “si addice a chi è responsabile, dentro il Palazzo e anche nelle piazze d’Italia, in un momento in cui ci sono ancora focolai di Covid-19 sparsi nel Paese”. Ma i suoi alla fine l’hanno convinto perché non si può restare nel mezzo: “O si fa o non si fa. E, se si è deciso di andare, bisogna che anche noi facciamo la nostra parte”, sono le voci da dentro.

Certo, l’altra volta, il 2 giugno, Antonio Tajani si era defilato subito, visto l’andazzo. Ora però Salvini giura che “si starà attenti” e “verranno rispettate le regole di distanziamento”. Sta di fatto che la manifestazione di sabato, anche se i temi sono tutti economici e l’obiettivo è quello di far sentire al governo il fiato sul collo dell’opposizione, in qualche modo sarà anche l’avvio ufficiale della campagna elettorale per le Regionali di settembre. Dove il derby nel centrodestra tra Salvini e Meloni sarà protagonista di questa sorta di elezioni di mid-term. Una sfida che, nonostante a Roma non si voti, inizierà sabato, dal palco di piazza del Popolo. Dove, oltre alla temperatura dei partecipanti, si misureranno anche i decibel degli applausi ai due leader.

Marche, norma per escludere
chi arriva terzo

è la legge”taglia-terzi” e arriva a pochi mesi dalle Regionali.
Nelle Marche è stata già approvata in Commissione e attende il via libera del Consiglio una proposta
di legge che escluderebbe dall’Assemblea il terzo miglior candidato presidente, a meno che non entri come candidato consigliere. Una norma che, stando ai sondaggi, rischia di danneggiare
il 5Stelle Gian Mario Mercorelli

Zingaretti e Franceschini: sfida sulla crisi in autunno

“I toni muscolari di Nicola Zingaretti sul Mes non li ho proprio capiti”. Ragiona così un parlamentare tra i più vicini a Dario Franceschini. Perché il giorno dopo la lettera del segretario del Pd al Corriere della Sera in cui chiedeva di smettere di tergiversare sull’attivazione di questo strumento, il Pd si è deciso a capitolare sui tempi.

Il 15 luglio la risoluzione di maggioranza sulla quale il premier Conte chiederà il voto prima del Consiglio europeo riguarderà al massimo il Next Generation Eu e il bilancio pluriennale, mentre inizialmente il Pd voleva inserire anche il Mes. Troppo risicati i voti in Senato. E dunque, se ne riparla a settembre. Se non addirittura dopo, quando arriverà in Parlamento lo scostamento di bilancio, come ipotizza un ministro dem. È la linea del premier, che vuole prima incassare il Recovery Fund. Per arrivare a un risultato soddisfacente (la proposta della Commissione Ue) punta sull’asse con la Germania, ribadito in una conversazione telefonica con la Cancelliera Angela Merkel di ieri. Non sarà comunque una passeggiata.

Intanto la politica italiana va per conto suo. E in autunno, il segretario del Pd potrebbe forzare proprio sul Mes persino fino alla caduta del governo, scommettendo su urne in primavera. Mentre Dario Franceschini è pronto a fare le barricate per evitare questo scenario: vuole arrivare fino al 2022 e giocarsi le sue carte per essere eletto al Quirinale. Un’ambizione che nel partito nutrono in molti (da Paolo Gentiloni a Romano Prodi, passando per Walter Veltroni e pure per David Sassoli), ma Franceschini è pronto a fare tutto quello che può. Dunque, la prima cosa è fermare la tentazione del segretario di far precipitare la situazione. Per questo, sui tavoli delle nomine porta avanti più gli uomini vicini a Zingaretti che a lui (un esempio su tutti, Mario Orfeo alla direzione del Tg3). E sarebbe pronto a offrirgli anche un posto al governo. Basterà? Non è detto, perché per Zingaretti è essenziale evitare l’assalto alla guida del Nazareno di Stefano Bonaccini e Andrea Orlando. E poi, c’è una certa preoccupazione tra i gruppi parlamentari. “Quest’autunno il governo potrebbe mostrare tutti i suoi limiti. Serve una scossa”, ragionava Maurizio Martina. Con “scossa” si intende anche la possibilità di un’alleanza organica con i Cinque Stelle, che per ora proprio non si vede.

Tra i movimenti in campo, ce ne sono altri rivelatori. Gli stessi Orlando e Franceschini guidano la trattativa per riportare a casa da Iv un drappello di parlamentari scontenti. Anche in questo caso, l’operazione dovrebbe andare in porto a settembre, dopo le Regionali. A quel punto, davanti a un risultato negativo e a un accrescersi del peso di capo-delegazione e vicesegretario, le urne per Zingaretti diventerebbero una via d’uscita. Tutto questo è subordinato però a fare quella legge elettorale proporzionale, per la quale il segretario dem sta trattando con Berlusconi. Altro ostacolo: il 20 settembre si vota anche per il taglio dei parlamentari. Quanto ci vorrà a ridisegnare i collegi?

Che il quadro sia sfibrato, però, lo ammettono tutti. E così gli occhi sono puntati alle prossime votazioni. Con un grosso “incidente”, lo scenario cambia. Il 10 luglio si chiude la finestra elettorale per il 20 settembre. Però c’è chi trama per un altro premier e un altro governo, magari con dentro i big, da Matteo Renzi allo stesso Zingaretti. Gli occhi sono puntati – al solito – sull’ex premier che però gioca su più tavoli. Uno è quello di condizionare Conte. A partire dal rinnovo delle presidenze di Commissione. Si vota il 14 luglio. Per la Bilancio si sta consumando una guerra tra Luigi Marattin (Iv) e i due dem, Fabio Melilli e Pier Carlo Padoan. Le strade dei ribaltoni sono imprevedibili. Ma anche infinite.

Risoluzione sprint del M5S al Senato. Il Mes non è citato

Per sopravvivere devono correre, senza perdere per strada altri pezzi. Altrimenti i giallorosa potrebbero cadere per lo sgambetto delle opposizioni, nel Senato dove i numeri non sono più una certezza per la maggioranza. Lo sa bene Gianluca Perilli, capogruppo dei 5Stelle a Palazzo Madama, che ieri si è precipitato a depositare una risoluzione sul voto in aula del prossimo 15 luglio, quando il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, chiederà di fatto al Parlamento il mandato per andare a trattare nel Consiglio europeo del 17 e 18 di questo mese.

Una mossa per anticipare il centrodestra e in particolare il leghista Roberto Calderoli, di solito sempre il primo a depositare risoluzioni, così da metterle in cima alla lista delle votazioni. Un rischio aggiunto da evitare per i giallorosa, che di questi tempi devono fare caso anche ai dettagli. Ma a fare la differenza sono sempre le parole, e per questo nella mozione di Perilli e del Movimento non si fa neppure cenno al Mes, il fondo salva Stati che divide in due metà opposte la maggioranza. Nessun riferimento neppure al Recovery Fund, il vero obiettivo del premier con le sue risorse che in buona parte dovrebbero essere a fondo perduto.

Il testo dei 5Stelle cita solo “le comunicazioni del presidente del Consiglio Conte”, quelle che il Movimento ascolterà e poi voterà per tenere in piedi il suo premier e il suo governo. Di più non poteva scrivere, perché da qui a metà luglio ci vorrebbe più di un miracolo perché Pd e M5S trovassero un punto di caduta sul fondo salva stati, eresia per il Movimento. Anche se ieri il dimaiano Carlo Sibilia ha buttato lì sillabe meno ostili: “Se le clausole venissero meno, allora non avrebbe più senso chiamarlo Mes. A quel punto prenderemmo il Mes”. Ma i condizionali non cancellano la distanza a oggi siderale tra grillini e dem. Fatta innanzitutto dei numeri, perché decine di 5Stelle sono pronti a dire no sempre e comunque al fondo, qualsiasi cosa accada. E non si può proprio rischiare. Soprattutto in Senato, dove dopo il recente passaggio di Alessandra Riccardi alla Lega, almeno altri 4-5 grillini sono in bilico. Si parte dalla catanese Tiziana Drago, in queste ore sondata più volte dai vertici. E si continua con la latinense Marinella Pacifico, che sabato ha pubblicato un post con selfie su Facebook: “E oggi relax nel mio attichetto di Sperlonga. Ma sempre sul pezzo, con appunti e decreti da studiare”. E diversi colleghi non l’hanno presa bene. Sempre su Facebook, domenica, un altro inquieto come il genovese Mattia Crucioli ha scritto contro la possibile cancellazione del vincolo dei due mandati, una delle norme fondative del M5S. Segnali che il Movimento monitora, perché non si può permettere altre frane.

Per questo dai piani alti spingono per rinviare nuove espulsioni per le mancate restituzioni. E sul taccuino degli eletti a rischio riappaiono senatori: perché la Pacifico è ferma con i pagamenti addirittura a maggio 2019, mentre è molto meno grave la posizione di Fabio Di Micco, rimasto “solamente” al gennaio scorso. In questo scenario, pesano altre cifre. Quelle della maggioranza, che ormai in Senato oscilla attorno a quota 160 voti. Anche se il conteggio esatto dei partiti di maggioranza (Pd, M5S, IV, Leu e i due del Maie) fa 154 voti certi, come notava ieri Openpolis. “Bisogna solo sperare di arrivare a settembre” ripetono allora come un mantra dal Movimento: costretto a correre, per non guardare il burrone che sta di sotto.

Conte: “Il condono non c’è” Pd e LeU rivogliono le gare

La sintesi la regala sconsolato uno dei negoziatori: “Sul decreto Semplificazioni le opinioni sono, diciamo, differenti…”. Il primo vertice di maggioranza sul decreto che dovrebbe rispondere alla neonata voglia di “sburocratizzare” gli appalti non basta a far trovare la quadra ai giallorosa. E così si riducono anche le speranze di Giuseppe Conte di portarlo in Consiglio dei ministri domani. Diverse le cose, per così dire, divisive. In primis c’è il condono contenuto nel testo denunciato ieri dai Verdi e contro cui si è scagliato il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, deciso a non mollare, anche grazie a un ampio fronte bipartisan, che in serata spinge il premier a stralciare la norma. Altro nodo riguarda la sospensione di fatto delle gare in tutto il settore degli appalti pubblici almeno per un anno e senza limiti di importo, insieme ai super poteri alle stazioni appaltanti: norme dirompenti che non piacciono al Pd, ma neanche a Liberi e Uguali e che, per la verità, vede perplessi diversi parlamentari 5Stelle (lo stato maggiore è invece convintamente per la deregolamentazione). E fin qui parliamo solo dei capitoli più spinosi. Così il vertice “allargato” a Palazzo Chigi, in corso mentre andiamo in stampa, pare destinato ad aggiornarsi.

Sul condono lo scontro inizia prima dell’assise. Già martedì sera, scoperta la norma nella bozza predisposta a Palazzo Chigi dallo staff di Conte, Costa è andato su tutte le furie e ha fatto presente al capo delegazione dei 5Stelle, Alfonso Bonafede, tutte le perplessità su un testo problematico che sarebbe stato meglio non arrivasse in Consiglio dei ministri così. Il premier lo difende, ma si trova di fronte al no dell’intera maggioranza e per questo decide di accantonare. Ma cosa diceva il testo? In sostanza prevedeva una sanatoria per gli immobili edificati abusivamente che risulteranno conformi ai piani regolatori alla data di presentazione della domanda. Insomma, se cambia il piano regolatore gli edifici abusivi non vanno più abbattuti e ci si può mettere in regola con una multa. Una norma analoga, inserita in una legge regionale siciliana del 2016, è stata bocciata nel 2017 dalla Consulta perché ritenuta “un surrettizio condono edilizio”. Il premier difende il testo, ricorda ai capidelegazione che “non fa salvi reati e illeciti amministrativi, ma evita solo che si abbattano edifici che potrebbero essere ricostruiti uguali nello stesso posto visto che ora sono considerati regolari. Così evitiamo uno spreco di tempo e comunque riguarderà solo i casi in essere alla data del decreto”. La maggioranza però è inamovibile. Pd e 5Stelle la bocciano. Loredana De Petris (LeU) la definisce “inaccettabile”. Costa si rifiuta di inviare proposte di modifica per non metterci la faccia. Il dossier, in teoria affidato alla ministra della Pa, Fabiana Dadone, alla fine viene archiviato. Curiosamente, dal testo saltano le assunzioni nella Pubblica amministrazione.

Lo scontro però, come detto, è anche sul cuore della bozza di Palazzo Chigi. Il testo elimina le gare sotto i 5 milioni di euro (la cosiddetta “soglia europea”), sostituendole con procedure negoziate con almeno cinque aziende. Procedure che restano in realtà anche sopra questa soglia ma regolate dal Codice degli appalti. Ora sono previste in casi eccezionali, mentre il testo le trasforma in ordinarie (chi vuole fare le gare deve motivarlo). Per le opere “prioritarie” (quali le deciderà Palazzo Chigi) le stazioni appaltanti avranno poi poteri in deroga alla legge (eccetto quella penale e le norme antimafia): è il “modello Genova” usato per ricostruire il Morandi e che i vertici dei 5Stelle e i renziani di Italia Viva, che vorrebbero estendere urbi et orbi attraverso i commissari straordinari. Il Pd invece, è contrario a sospendere le gare sopra i 5 milioni: l’ipotesi, al massimo, è di fissare un ulteriore tetto a 20 milioni, in questo modo le gare non si farebbero sul 95% degli appalti pubblici, ma resterebbero per i grandi progetti. Contrario anche LeU secondo cui le procedure accelerate sono già possibili con le norme attuali. Dubbi anche sull’idea di non far valere la colpa grave ai fini della responsabilità erariale per le azioni dei dirigenti (ma non per le omissioni). Norma contro cui si è scagliato il presidente della Corte dei conti, Angelo Buscema.

Nastro Lindo

Per misurare il peso (nullo) delle “nuove prove” che dovrebbero cancellare la condanna di Silvio B. a 4 anni per frode fiscale, basta la credibilità (nulla) delle fonti: il suo impiegato Nicola Porro sulla sua Rete4, il suo Giornale e il Riformista vicediretto dalla sua ex portavoce Debora Bergamini. Ma anche la statura dei politici che le han prese sul serio: FI, Salvini, FdI e l’Innominabile. Tutto in famiglia. Casomai ciò non bastasse, ci sono i fatti: una recente sentenza del Tribunale civile di Milano e l’audio di una conversazione del 2013, poco dopo la condanna irrevocabile, fra il giudice relatore Amedeo Franco e il neocondannato B. davanti a misteriosi testimoni. Ora, anche uno studente al primo giorno di Giurisprudenza sa che: a) una sentenza civile di primo grado non può smentirne una penale di Cassazione e in ogni caso (vedi pag. 8) questa riguarda profili diversi dalla frode fiscale Mediaset; b) i processi si celebrano nelle aule di giustizia, non a casa dell’imputato col registratore più o meno nascosto.

Ma la scena del giudice che firma con gli altri quattro colleghi la condanna di B. e poi corre da lui per dire che non voleva, non era d’accordo, è tutta colpa del presidente e degli altri tre cattivoni la dice lunga sulla sua serietà, correttezza e attendibilità. Tantopiù che nei tre mesi successivi il relatore Franco partecipò alla stesura delle 208 pagine di motivazione, che alla fine – caso raro – tutti e 5 i giudici (lui compreso) firmarono in calce e addirittura siglarono pagina per pagina (207 volte a testa). Il che dimostra che anche lui era d’accordo sulla condanna o, se dissentiva, a non innescare polemiche politiche. Altrimenti avrebbe potuto legittimamente non firmare (di solito le sentenze le firma solo il presidente). E, se davvero fosse stato convinto che si stava consumando “una grave ingiustizia” da “plotone di esecuzione”, con una condanna “a priori” e “guidata dall’alto”, frutto di “pregiudizio” per “colpire gli avversari politici”, una “porcheria” del presidente Antonio Esposito “pressato” per i guai giudiziari del figlio, cioè una serie di reati gravissimi, come poi disse a B. nella conversazione registrata, si sarebbe cautelato con uno strumento previsto dalla legge per i giudici in minoranza nei collegi giudicanti: motivare il suo dissenso in una busta chiusa allegata alla sentenza a futura memoria (come fece il presidente della Corte d’appello di Milano Enrico Tranfa, messo in minoranza dai due giudici a latere nella sentenza che assolse B. su Ruby). Invece Franco non solo non formalizzò alcun dissenso, ma espresse pieno consenso con la sua firma e 207 sigle. Noi ovviamente non sappiamo come si era comportato prima, in camera di consiglio.

Infatti nessuno dovrebbe saperlo, tantomeno l’imputato. Chi viola il segreto della camera di consiglio commette reato e illecito disciplinare. Il che spiega perché B. abbia atteso 7 anni e la morte di Franco nel 2018 per divulgare il nastro: per risparmiargli un processo per rivelazione di segreto d’ufficio e omessa denuncia (il giudice non aveva mai segnalato ai pm i gravissimi reati spiattellati a B.), la cacciata dalla magistratura e una raffica di querele e cause per diffamazione dagli altri quattro colleghi (casomai non bastasse l’indagine per corruzione giudiziaria aperta su di lui nel 2017 per presunti scambi di favori col senatore forzista e re delle cliniche Antonio Angelucci). In ogni caso nulla di ciò che dice Franco può ribaltare la condanna di B. né interessare la Corte di Strasburgo (che, con buona pace del Giornale e di Sansonetti, ha archiviato il caso nel 2018 perché B. ritirò il ricorso in extremis). B. è stato condannato perché ritenuto colpevole, in base a una valanga di prove documentali e testimoniali, di una gigantesca frode fiscale da 368 milioni di dollari sui diritti tv di Mediaset: e non solo da Esposito e i suoi tre colleghi (o quattro, a prender sul serio le firme di Franco), ma anche dagli altri 9 magistrati che si sono occupati del caso: i pm De Pasquale e Robledo; il gup che lo rinviò a giudizio; i tre giudici di Tribunale e i tre di Appello che lo condannarono in primo e secondo grado. Giunto in Cassazione nell’estate 2013, il processo finì alla sezione Feriale (presieduta da Esposito e composta anche da Franco) perché la III sezione che l’aveva in carico scoprì che si sarebbe prescritto per metà il 1° agosto e in base alle sue regole la Corte doveva celebrarlo subito senz’attendere la ripresa ordinaria a settembre (la sentenza arrivò il 31 luglio). E sapete chi presiedeva la III sezione che lo girò alla Feriale come “urgente”? Amedeo Franco. Il quale poi andò a contar balle a B., tipo che “han fatto una porcheria perché che senso ha mandarlo alla sezione feriale?”. Ecco: non era una porcheria, era la regola; e la decisione fu della sua sezione.

Quindi il nastro è il classico due di coppe quando a briscola comanda bastoni. E un clamoroso autogol. Perché dimostra vieppiù il coraggio del presidente Esposito e degli altri tre (o quattro), che condannarono il colpevole B. resistendo a indicibili pressioni politiche (che spingevano per l’assoluzione, al grido di “Salviamo il governo Letta-Napolitano!”). Ricorda ai tanti smemorati chi è davvero B.: un delinquente seriale che i giudici o li paga o li induce a delinquere. E riporta il dibattito sulla riforma della giustizia nei giusti binari: in Italia le uniche carriere da separare sono quelle degli imputati eccellenti da quelle dei giudici collusi.

“Con 2020 SpeedBall il presente l’avevo ‘suonato’ 25 anni fa”

I Timoria sono stati tra i protagonisti di primo piano del rock italiano anni 90, con due capolavori, Viaggio senza vento (1993) e 2020 SpeedBall (1995). Quest’ultimo album compie ora 25 anni e per l’occasione viene ristampato in doppio cd, con l’aggiunta di un intero album dal vivo. Rispetto ai precedenti lavori è un disco dalle sonorità più dure, vicine all’hard rock e al metal.

Ne abbiamo parlato con Omar Pedrini, chitarrista eclettico e fondatore della band bresciana, principale autore delle musiche e dei testi.

Che effetto fa tornare a parlare dei Timoria?

Un ottimo effetto, perché mi aiuta a ricordare le mie radici, che non ho mai rinnegato. Mi fa piacere sapere che un paio dei miei dischi sono rimasti nella storia della musica e che da quei due album, primi “d’oro” dell’alternative rock italiano, è nato un movimento, com’è successo col grunge a Seattle: Senza vento, primo brano hard rock lanciato dai network italiani, ha in un certo senso aperto la strada a tutti gli altri.

Dopo i Litfiba i Timoria sono stati tra le band di maggiore successo in Italia. È soddisfatto di quello che è stato fatto o qualcosa non è andato come si aspettava?

Da quando Maroccolo lasciò i Litfiba, per produrre il primo disco dei Timoria, Colori che esplodono, i Litfiba presero una strada più rock pop. Il nostro stile invece era quello “alternative rock”. Però ai Litfiba dobbiamo molto, perché aprivamo i loro concerti e quindi a loro esprimo gratitudine. Sono molto soddisfatto: noi arrivammo a suonare nelle arene, dedicate alle grandi rock band, come il Palalido di Milano. Invece il nostro rammarico più grande è che il nostro manager per problemi di salute andò in Inghilterra, ci trascurò e il nostro salto europeo fu vanificato, perché con dischi come 2020 SpeedBall, che aveva sonorità internazionali, avremmo meritato una finestra europea.

Parliamo ora di 2020 SpeedBall. Quali sono i temi affrontati nell’album e che differenza c’è rispetto a Viaggio senza vento?

Se Viaggio senza vento era un disco dalla matrice rock-prog, in 2020 SpeedBall le sonorità si sono indurite. La nostra base ritmica era formata da metallari sfegatati, che ascoltavano Metallica, Slayer, Pantera e Faith No More. Io stesso adoravo gli Helmet e altre band americane che giocavano con i ritmi e i tempi dispari. Quando scrissi 2020 SpeedBall, avevo tra i 26 e i 27 anni e frequentavo Scienze politiche a Milano, dove studiai un testo, State of the World, che faceva riflettere sullo stato del mondo e sulla nostra generazione (che io chiamai generazione senza vento), la prima a ereditare un pianeta peggiore di quello dei nostri padri. Mi sono chiesto come sarebbe stato il mondo quando mio figlio avrebbe avuto la mia età: lui avrebbe compiuto 27 anni nel 2020, quindi ho scelto quest’anno, dal nome eufonico e ho iniziato a scrivere l’album. Ne è scaturita una riflessione, in un certo senso profetica, sul futuro, su una Terra invivibile, l’aria irrespirabile, l’acqua inquinata (Europa 3), sulle macchine e i computer che dominano la nostra vita, sul sesso virtuale (2020). Il mio mondo è invece quello di vini, terra e anarchia di Luigi Veronelli, mio maestro anarchico. Non solo i testi, ma anche i suoni di quel disco sono attualissimi. Poi 2020 SpeedBall è un album autoprodotto, il disco della nostra indipendenza, autarchia e anarchia.

A cosa si deve la scelta di un titolo come 2020 SpeedBall?

Speedball è la droga del futuro, la più pericolosa, un mix di eroina e cocaina. All’epoca, dopo il successo di Viaggio senza vento, le droghe entrarono prepotentemente nella vita dei Timoria. Per noi lo speedball era anche una metafora, per dire che in futuro la droga l’avrebbero iniettata nella testa della gente attraverso i computer.

Quali artisti hanno ereditato lo spirito dei Timoria, l’attitudine a contaminare e sperimentare in libertà, senza barriere mentali e musicali?

L’ultimo gruppo che mi ha ricordato lo stile dei Timoria sono stati i Negramaro, però sono dei Timoria senza la follia, più “sani”. Mi piacciono molto gli artisti “indie”, come Zen Circus, Ministri, Coma Cose, Punkreas e in genere quelli che contaminano la musica con altre forme d’arte. A Brescia Music Art ho portato “cantanti letterati”, artisti con uno spirito letterario.

Progetti?

A luglio riprenderò la mia attività: c’è il secondo Omar, che ama il cinema e il teatro, il “professor rock”, come mi chiamano i miei allievi alla “Cattolica” di Milano. Mi rimetterò in moto, perché sono un “cane sciolto” (titolo anche della mia biografia), un anarchico: non ho manager o agenzie, ma ho la libertà di chiamare i miei tecnici e musicisti, per potermi muovere da solo.

 

Penne all’arrangiata. Troppi aspiranti scrittori

La scrittura non si insegna di Vanni Santoni, edito da minimum fax, è un pamphlet “di incomparabile bellezza”. Ecco no, incipit da rifare. C’è un intero capitolo dedicato ai cliché e “di incomparabile bellezza” è tanto brutto da dover essere cestinato. Come altre espressioni abusatissime quali “si sentì gelare il sangue” o “era teso come una corda di violino” (non sarà che pure il nostro “espressioni abusatissime” sia in effetti espressione abusatissima?).

Sempre attingendo dalla piccola antologia di formulette stracotte che dire di “acre odore”, “attesa snervante”, “come un fiume in piena”, “biancore spettrale”, “con la morte nel cuore”, “silenzio irreale”? Sintomi di cattiva scrittura da barrare con la penna rossa. Se poi mettiamo in circolo il “grigio regno del generico” (in un romanzo che si rispetti non esistono semplicemente un hotel o una nave, ma dettagli unici propri di quell’hotel o di quella nave), allora toccherebbe riporre la vocazione letteraria.

Santoni – già editor della collana di narrativa Tunué – di “legioni di aspiranti frustrati” ne ha incontrati tanti nei suoi corsi di scrittura creativa. Il suo non è un prontuario di trucchi del mestiere perché per il 42enne scrittore toscano può essere insegnata solo “la mentalità dello scrittore”. In altri termini: “Non si può insegnare a scrivere, ma forse si può insegnare a pensare come uno scrittore”.

Leggere fino a perdere la vista e scrivere tutti i giorni sono i due consigli fondamentali. Tutto pacifico? Neanche un po’. Una percentuale molto alta di chi vuole scrivere, spiega Santoni, non ha letto e non legge abbastanza.

A illustrare una lista o più liste di romanzi imprescindibili ecco che i corsisti annaspano, quasi increduli che anche per loro, al pari degli gli atleti, esista una “dieta”. E pure di quelle toste, a base di corpi contundenti come L’arcobaleno della gravità di Pynchon, Underworld di DeLillo, 2666 di Bolano, Infinite Jest di Foster Wallace che valgono, a mo’ dei neonati battuti per allargare i polmoni, come i primi schiaffi sul culo dell’aspirante scrittore.

Del resto, si domanda retoricamente Santoni, “se uno non ha letto almeno questa roba cosa gli salta mai in mente di voler scrivere un romanzo?”. Provare per credere, scommette l’autore di I fratelli Michelangelo. A leggere per davvero e integralmente i titoli da lui citati (ricordarsi che la letteratura richiede tempo e fatica) la prospettiva di licenziare un romanzo buono si fa concreta. Se è vero che “l’ispirazione è per i dilettanti”, altra regola aurea è la disciplina. Per disciplina si intende scrivere tutti i giorni, con regolarità. Magari seguire l’esempio di Hemingway “che ogni giorno andava a letto, oltre che sbronzo, senza aver scritto tutto ciò che gli sarebbe venuto da scrivere, ma fermandosi un po’ prima per avere già un po’ di roba in testa per cominciare di slancio il giorno dopo”.

In fase di revisione seguire l’esempio di Flaubert: rileggersi ad alta voce.

“Se c’è un refuso alla prima pagina, scarto il manoscritto” gli disse un suo amico editor e sulle prime Santoni lo considerò uno stronzo, salvo poi dargli ragione perché effettivamente rintracciare dei refusi significa che l’autore non ha letto e riletto con la dovuta attenzione il suo testo. Un orecchio va tirato allo stesso Santoni che attribuisce Horcynus Orca a un certo Antonio D’Arrigo. Ops, a pag. 38 refuso in fabula. Naturalmente è Stefano D’Arrigo.

Un tabù da abbattere è l’ansia della pubblicazione, che per tanti sembra il punto di arrivo e che al contrario “segna l’inizio della vita di un libro”. A qualsiasi aspirante sarà capitato, reduce da una ricognizione in libreria, di domandarsi: “Perché tizio e caio sì e io no?”.

Ma Santoni è implacabile quando invita l’aspirante autore a non confrontarsi con i peggiori del catalogo, ma a rispondere alla temibile domanda: “Ti ritieni davvero migliore di Pynchon o Roth? Oates o Vollmann? Oz o Knausgard? No? Allora temo che tu non stia subendo nessuna ingiustizia”.

Agalarov, povero ricco grazie al virus

Aras Agalarov è nato in Azerbaijan nel 1955, è stato educato in Unione Sovietica ed è diventato tycoon nella Russia di Putin. Lui che ha in banca quasi due miliardi di dollari, come dice l’elenco dei magnati stilato da Forbes, negli ultimi mesi è andato in onda sul canale russo Rbc per lamentarsi e dire che lui di soldi non ne aveva più: a causa del Covid-19 e della crisi economica che colpisce la Russia, la sua azienda, la Crocus Group, viveva difficoltà finanziarie e non poteva più pagare gli stipendi ai suoi 15mila impiegati. Subitanei, senza appalti, gare o concorrenti, due contratti statali da oltre un miliardo di rubli sono arrivati nelle sue mani per l’allestimento temporaneo, in complessi ospedalieri periferici, di 1.500 posti letto, nella Federazione che oggi conta oltre 650 mila contagiati. Due contratti ricevuti dall’imprenditore con un solo accordo: quello stipulato con il governatore di Mosca, Andrey Vorobyev, che ha agito in regime di emergenza per il virus, e ha destinato ad Agalarov un terzo dei fondi complessivi di quasi 4 miliardi di rubli, (oltre 50 milioni di euro), stanziati per far fronte al Corona virus nella regione. Diventato ricco stringendo mani, sorridendo a tutti e costruendo autostrade e stadi a Mosca, Agalarov è un volto notissimo fra le autorità di Mosca, ma lo è anche a Washington, da quando è finito nel dossier del Russiagate del procuratore Muller, per aver organizzato, in un edificio di lusso di sua proprietà, il concorso di Miss Universo in Russia insieme a Donald Trump nel 2013. Suo figlio, la popstar Emin, sarebbe stato poi l’anello di congiunzione tra il Cremlino e la squadra del presidente americano ed è stato accusato di interferenza alle elezioni Usa 2016. Una mano a Potus, una allo zar: familiare a Trump quanto a Putin, in tempi di buona e cattiva sorte, in salute e specialmente in malattia, Agalarov rimane comunque fedele e lo Stato russo ricambia. I conti dei reparti ospedalieri dell’imprenditore però non tornano al sito Scanner Project. Sopra le cifre di costi, spese e guadagni ci ha puntato i fari anche il quotidiano Kommersant, che pochi giorni fa ha chiesto spiegazioni ufficiali al miliardario: il Krokus Expo, unico complesso ospedaliero terminato, è costato, secondo l’indagine del giornale, molto meno di un miliardo di rubli, e ora è occupato solo al 35% delle sue capacità. All’ospedale mancano medicine e mascherine, perfino contratti a chi lavora dentro.“Agalarov nega le informazioni ai media riguardo la sua azienda, che ha gonfiato i costi dei progetti” scrive il giornale, che cita anche l’analisi di Echo Moskvy. Secondo questo media indipendente, i due conratti sarebbero stati gonfiati con una cifra almeno dieci volte superiore a quella realmente necessaria.