La riluttanza anti-vaccino fa paura quanto il Covid

Quando ci sarà un vaccino contro il coronavirus, un terzo degli americani potrebbe non volerlo fare. E, se ciò avvenisse, l’efficacia d’una campagna di prevenzione di massa sarebbe fortemente compromessa. L’esito di un sondaggio della Cnn innesca la previsione allarmante di Anthony Fauci, ‘virologo in capo’ degli Stati Uniti. La riluttanza al vaccino degli americani è sorprendente, se si pensa che gli Stati Uniti hanno i record mondiali dei contagi accertati – quasi 2.560.000 alle 12 di ieri sulla East Coast, oltre un quarto degli oltre 10.200.000 globali – e dei decessi – 126.000 su 503.000. I dati sono della Johns Hopkins University. Ma uno zoccolo duro di americani s’è già mostrato refrattario al lockdown nonostante l’accelerazione delle riaperture abbia ormai innescato rimbalzi dell’epidemia in una trentina di Stati, specie California, Arizona, Texas, Florida. Misure restrittive sono state reintrodotte qua e là e pure governatori ‘trumpiani’, come il texano Grey Abbott, hanno di nuovo chiesto ai cittadini di restare in casa il più possibile. Non è chiaro se l’atteggiamento inizialmente negazionista e sempre di sfida di Trump verso il virus influenzi una fetta dell’opinione pubblica o se, invece, il presidente moduli le sue posizioni su quella parte dell’opinione pubblica ultra-libertaria che non teme il contagio ed è tendenzialmente no vax: quelli sono tutti suoi elettori.

Parlando alla Cnn, Fauci, spesso ai ferri corti con la Casa Bianca, pur facendo parte della task force anti-epidemia, spiega che il vaccino potrebbe non garantire l’immunità di gregge agli americani, se troppi non si vaccinassero. “Il risultato migliore mai raggiunto è stato – con il vaccino contro il morbillo – efficace al 97-98%”, dice Fauci, direttore dell’Istituto nazionale delle allergie e delle malattie infettive. Per il coronavirus, Fauci “s’accontenterebbe” di un vaccino efficace al 70-75%. Ma se un livello di protezione parziale dovesse sommarsi a una capillarità di somministrazione inadeguata, i livelli di immunità saranno difficilmente sufficienti a domare la pandemia. Test clinici su vaccini anti-coronavirus sono in corso negli Usa, nell’Ue, in Russia, in Cina e un po’ ovunque nel mondo. Gli Stati Uniti non sono il paradiso dei ‘no vax’: una ricerca 2016 condotta dal Vaccine Confidence Project indicava che lo scetticismo verso i vaccini ‘contagiava’ il 13% della popolazione, meno che in Francia, Russia, Italia, leggermente al di sopra della media mondiale del 12% e di poco superiore a quelle di Germania (10%) e Regno Unito (9%). Tuttavia l’elezione di Trump nel 2016 e tre anni e mezzo di sua presidenza possono essere stati prima un sintomo di crescita delle tendenze ‘no vax’ e poi un fattore di loro ulteriore rafforzamento. Fra i ‘no vax’ Usa, a parte Trump, che da quando è presidente non si sbilancia in merito, ci sono politici conservatori come Michelle Bachmann, aspirante alla nomination repubblicana nel 2012, o Chris Christie, Rand Paul – un medico – e Carly Fiorina, rivali di Trump nel 2016.

E c’è pure chi ha ascendenti progressisti, come Robert Fitzgerald Kennedy Jr, 65 anni, nipote di JFK, pecora nera della famiglia, vocazione complottista, cavaliere di cause tendenzialmente sbagliate e fortunatamente perdute. Accanto a essi, complottisti come lo scrittore David Icker, ma anche attori progressisti come Robert de Niro. I vaccini sono obbligatori, non in modo uniforme, solo in alcuni Stati dell’Unione. Le proteste anti-razziste in tutta l’Unione e il calo di popolarità di Trump hanno però coinciso con segnali d’insofferenza verso forme d’oscurantismo, di cui s’è resa interprete la Corte Suprema con sentenze che deludono suprematisti e fondamentalisti.

L’ultima ieri: la Corte ha bocciato la legge sull’aborto della Louisiana, troppo restrittiva rispetto al diritto garantito da una sentenza del 1973.

 

Quel dilemma di Philippe: resta premier o lascia Manu?

Tutti gli occhi su Edouard Philippe. Resterà capo del governo o lascerà Parigi per fare il sindaco a Le Havre? La sua partenza dall’esecutivo sembrava inevitabile fino a pochi giorni fa.

Ma domenica sera il premier, già molto apprezzato per come ha gestito la crisi sanitaria, ha anche vinto la sfida delle municipali, con una vittoria senza appello (58,8%). Per Emmanuel Macron questo è l’unico risultato di cui può vantarsi in un’elezione disastrosa per lui e per il suo partito LaRem. Ma il successo di Philippe accentua ancora di più il dilemma politico del presidente: è il caso o no di congedare Philippe in vista di un prossimo rimpasto di governo? Il presidente esita. Ieri per lui ennesimo impegno, l’incontro con Angela Merkel: “Sono felice di ritrovare Angela Merkel per andare avanti sul piano di rilancio europeo che consentirà di superare la crisi economica e sociale”: lo ha twittato il presidente francese in visita al castello di Meseberg, in Germania, per incontrare la cancelliera tedesca. “Faremo tutto il possibile – ha scritto Macron – per convincere i nostri partner. L’Europa ne ha bisogno”.

Ma è il fronte interno che per ora più preoccupa il presidente francese. La crisi del Covid-19 ha fatto emergere tra i due uomini diversi disaccordi. Le tensioni sono state palpabili quando si è trattato di prendere misure drastiche per il paese. La rottura era nell’aria. Ma nel frattempo il premier si è guadagnato la stima dei francesi. È sempre più popolare e lo è molto più di Macron, sfiorando il 50% dei consensi, mentre il presidente resta al di sotto del 40%. Inoltre, stando ad un sondaggio Harris Interactive di due giorni fa, il 55% dei francesi vuole che resti a capo del governo anche in caso di rimpasto. Come sostituire un premier così popolare rischiando di mettersi contro, ancora di più, l’opinione pubblica?

Macron ha promesso una “svolta” nella sua politica. Ma si potrà davvero parlare di “svolta” riconfermando Philippe? Dopo la vittoria a Le Havre, il premier, che viene dalla destra Les Républicains e non ha la tessera LaRem, è oggi ancora più forte. E se diventasse un rivale in vista delle elezioni presidenziali del 2022, non così lontane? Qualunque decisione Macron prenderà potrebbe avere un impatto politico forte. Ma intanto, per evitare chiacchiere, il presidente domenica sera ha preso il telefono, ha chiamato il suo premier e si è congratulato con lui della bella vittoria.

L’Onda verde vuole cambiare volto agli ex feudi di destra

All’inizio di “verde” in Francia c’era Grenoble, 100 mila abitanti e un sindaco, Éric Piolle, eletto nel 2014 e rieletto domenica a pieni voti (53%), a fare la guerra ai cartelloni pubblicitari e a creare delle “autostrade” per le bici. Ora ci sono pure Poitiers, Strasburgo, Besançon, Tours e finanche Bordeaux e Lione. L’onda verde era attesa alle municipali che, in piena emergenza Covid, si sono trascinate tre mesi chiudendosi con il ballottaggio di domenica, ma neanche gli ecologisti si aspettavano tanto. Lo stesso Yannick Jadot, segretario generale di Europe Écologie-Les Verts, si è lanciato andare domenica sera a un’esclamazione di gioia e stupore in diretta tv su France2, gli occhi al cielo, la bocca spalancata, scoprendo di aver conquistato Bordeaux: “È il momento di un’ecologia attiva e concreta, il nostro paese è ad una svolta politica”.

Il successo dei Verdi, dopo il buon risultato alle europee del 2019 (erano diventati il terzo partito a livello nazionale) e nel contesto dell’emergenza Covid, che deve aver contribuito a questo risultato storico, potrebbe cambiare il volto di alcune città. A Bordeaux, l’elezione di Pierre Hurmic (46,4%) ha messo fine a ben 73 anni di governo di destra. Nicolas Florian (battuto con il 44,12% dei voti), sindaco solo dal marzo 2019, era l’“erede” di Alain Juppé, ex primo ministro di Chirac e primo cittadino di Bordeaux per più di venti anni, che aveva lasciato la città l’anno scorso per raggiungere il Consiglio Costituzionale. L’ex “bella addormentata” è diventata una città dinamica da quando il Tgv l’ha avvicinata a due ore da Parigi, ma con molto inconvenienti per i suoi abitanti: i prezzi delle case e della vita sono lievitati. L’ecologista Hurmic, 63 anni, alla testa di una coalizione di gauche “Bordeaux respira”, ha promesso di congelare i progetti immobiliari già avviati e di decongestionare il centro restituendolo ai pedoni e alle biciclette. La vittoria Verde a Lione è stata invece una sconfitta amara per Macron. Lione era il “feudo” di Gérard Collomb, ex socialista e marcheur della prima ora, al quale il presidente appena eletto aveva affidato il ministero dell’Interno. Collomb era sindaco di Lione dal 2001 ma, in difficoltà nei sondaggi, aveva stretto un’improbabile e contestata alleanza con il candidato della destra, Yann Cucherat, costringendo LaRem, il partito del presidente, a ripudiarlo. Il nuovo sindaco ecologista, Grégory Doucet, 46 anni, un passato nell’umanitario e semi sconosciuto, ha vinto col 52,6% dei voti, contro il 29,7% per lo sfidante dei Républicains.

Ha promesso che farà di Lione una città “100% ciclabile e 100% pedonale”. Abbasserà il limite di velocità per le auto a 30 km/h e realizzerà dei lavori urbani per affrontare meglio il grande caldo estivo, segno del riscaldamento climatico. Tutte misure che fanno parte anche del programma della socialista “green” Anne Hidalgo, rieletta domenica a Parigi con il 49% dei voti davanti alla candidata della destra Rachida Dati (32%). La vittoria della Hidalgo è anche una vittoria dei Verdi. A 61 anni, la socialista è stata rieletta alla testa di una coalizione di sinistra, che comprende anche i comunisti, ma soprattutto gli ecologisti di David Belliard, alleato da sei anni in consiglio comunale. È stata la Hidalgo, tra le tante polemiche, a rendere pedonale il lungo Senna. Ha introdotto molto presto il bike sharing e moltiplicato zone pedonali e piste ciclabili. I mesi di scioperi dei trasporti e poi la crisi del Covid le hanno dato ragione. L’“onda verde” potrebbe anche influenzare il corso della politica in Francia nei prossimi anni anche in vista delle Regionali del prossimo anno e delle Presidenziali del 2022. Appena ieri, senza dire una parola sullo scrutinio appena chiuso, una catastrofe per LaRem, Emmanuel Macron ha annunciato un impegno di 15 miliardi in favore della trasformazione ecologica, accettando gran parte delle oltre cento proposte avanzate da una Convenzione dei cittadini per il clima, lanciata nove mesi fa. Tra queste, l’introduzione del reato di ecocidio e la modifica del primo articolo della Costituzione. Mancano ancora due anni alle Presidenziali, ma il pensiero da domenica c’è. Il segretario generale del Ps, Oliver Faure, si è già detto pronto a seguire “chiunque incarni l’alleanza della gauche” per il 2022. Il periodo più duro per i Verdi comincia ora. “Vincere è bene, ma saper governare è meglio. Alla prova del potere – analizza il sociologo Vincent Tiberj – ogni decisione sarà valutata con attenzione”.

 

Fondazioni, cda e scuole: i politici hanno due vite

L’ultimo a indicare la via è stato Roberto Maroni, ex presidente della Regione Lombardia, leghista per una vita, che nel 2018 rinunciò a ricandidarsi a governatore – era l’epoca in cui a destra ci si sfregava le mani in vista delle elezioni politiche – e che adesso trova fortuna in consigli d’amministrazione, banche, studi legali. È notizia recente il suo arrivo nel cda del Gruppo San Donato, uno dei maggiori gruppi della sanità privata italiana, dopo essere già entrato nel board dello studio di avvocati Gatti Pavesi Bianchi ed esser diventato senior advisor in Mediobanca, oltreché presidente del consiglio d’amministrazione di SGB Humagnest Holding, specializzato in consulenza alle imprese. Niente male, ma la seconda vita – quella fuori dalle istituzioni – è spesso lastricata di sorrisi per parecchi ex parlamentari ed ex ministri, magari usciti dal giro e in attesa di tempi migliori per riproporsi in politica.

Per informazioni chiedere ad alcuni reduci del governo gialloverde o a qualche ex volto noto dell’ultima legislatura. Federica Mogherini, per esempio, ha concluso l’anno scorso il mandato da Alto Rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione europea (ci perdoni se banalizziamo: una sorta di ministero degli Esteri della Ue) ma non ha corso il rischio di annoiarsi: a maggio di quest’anno è stata scelta per diventare Rettore del College of Europe, incarico che diventerà effettivo da settembre. Non si tratta di un istituto qualunque, perché il College – che ha sede a Bruges e a Varsavia – è finanziato direttamente dall’Unione e, oltre a offrire master in Studi europei, è un granaio di futuri leader e funzionari. Peraltro, la scelta ha provocato parecchi malumori, dato che il consiglio amministrativo guidato dall’ex presidente del Consiglio europeo, Herman van Rompuy, ha accolto l’indicazione del suo nome dopo aver scartato illustri pretendenti che avevano partecipato al bando, tanto che alcuni professori del College si sono lamentati del presunto favoritismo (“Inizierà il suo mandato con una nuvola sopra la testa”, ha scritto Jon Wort).

Erede dell’epopea renziana è anche Ernesto Carbone, ex deputato che salutò con un “Ciaone” su Twitter il mancato raggiungimento del quorum al referendum sulle trivelle. Era il 2016 e il Giglio magico sembrava dover durare vent’anni. Oggi, dopo aver fallito la rielezione in Parlamento nel 2018, Carbone ha dovuto attendere l’ultimo giro di nomine pubbliche per avere soddisfazione, finendo nel consiglio d’amministrazione di Terna, una società di Cassa Depositi e Prestiti che gestisce la rete elettrica nazionale.

Più bucolica la destinazione di Enzo Moavero Milanesi, ministro degli Esteri dell’era Salvini-Di Maio, la cui esperienza politica è – al momento – tramontata con la surreale estate del Papeete. Se non altro, Moavero avrà di che occuparsi: a gennaio è diventato presidente di Filiera Italia, un insieme di aziende e associazioni del settore agroalimentare che promuove il Made in Italy e le coltivazioni sostenibili.

Era ministro gialloverde anche Alberto Bonisoli, ex titolare della Cultura (prima e dopo di lui, Dario Franceschini). Chiuse le porte del governo, è però sempre dalla politica che Bonisoli ha trovato una missione, perché alla fine del 2019 la ministra della Pubblica amministrazione Fabiana Dadone (anche lei M5S) lo ha indicato come presidente di Formez PA, una associazione che si definisce “centro servizi, assistenza, studi e formazione per l’ammodernamento delle pubbliche amministrazioni”. Auguri.

È invece tornato a Milano il suo ex collega Marco Bussetti, all’epoca voluto dalla Lega come ministro dell’Istruzione: dal settembre scorso è presidente dell’Ufficio Scolastico del territorio, quel che è più noto come Provveditorato. Ritorno al passato che ha in comune con Cécile Kyenge, ministra dell’Integrazione ai tempi del governo Letta ed eurodeputata fino al maggio del 2019. Lo scorso anno, fallita lo ricandidatura, si è rimessa il camice (è medico chirurgo specializzata in oculistica) tornando a Padova per far parte delle Unità speciali di assistenza create per il Covid-19.

Sardegna, la Regione abbatte il Piano Soru. Via libera al cemento sulle coste dell’Isola

Spalancare le porte al cemento sulle coste della Sardegna. Demolire il Piano Paesaggistico Regionale, quello del 2006 che porta la firma della giunta di Renato Soru e che ha salvato finora le coste sarde. La battaglia approderà domani in Consiglio regionale. Secondo gli ambientalisti, ma anche i partiti di opposizione (dalla sinistra al M5S), il grimaldello per cancellare i vincoli a tutela delle coste sarde sono le norme che propongono una nuova “interpretazione autentica” del testo. Insomma, sarebbe introdotta una disciplina che reinterpreta i vincoli. Spalancando, secondo i critici, le porte al cemento. “Il regime vigente prevede che si operi con la co-pianificazione, che cioè la Regione e il ministero lavorino insieme”, sostiene Stefano Deliperi che guida l’associazione ambientalista Gruppo di Intervento Giuridico. E con le nuove norme? “Tutto resterebbe in mano alla sola Regione”, oggi guidata dal centrodestra. Tre gli ambiti chiave cui sarebbe applicata la nuova disciplina: il divieto di edificazione nella fascia di trecento metri dalla costa, le aree agricole e i beni identitari (aree archeologiche e monumenti). Cioè quelle zone salvate finora dal piano Soru e che attirano interessi immobiliari enormi. Deliperi snocciola i mega-progetti cementificatori che potrebbero ripartire: “Gli esempi sono infiniti. Se ne trovano ovunque lungo le nostre coste, ma mi vengono in mente Calagiunco (Villasimius), Costa Turchese (Olbia, lanciato da società della famiglia Berlusconi), poi Capo Malfatano (un promontorio selvaggio dove voleva costruire un’impresa che vedeva tra i soci Mps e i Benetton). Per non dire del progetto di Tuvixeddu (Cagliari), una contestatissima operazione immobiliare affacciata sulla più grande necropoli fenicia del Mediterraneo. Era tutto fermo, ma le ruspe potrebbero ripartire ovunque.

La norma, almeno formalmente, ha un altro fine: consentire l’ultimazione della statale Sassari-Alghero che va avanti da molti anni. Ma Deliperi respinge l’ipotesi: “La strada, essendo stata prevista in piani precedenti a quello vigente, potrebbe essere realizzata comunque. È un paravento”. Così il Grig ha raccolto quasi 30mila firme contro la nuova norma. E ha già annunciato ricorsi. Una battaglia dura: a favore del via libera ci sono nomi grossi dell’economia locale e nazionale. E le forze del centrodestra. A partire da figure di primo piano della politica locale “come Dario Giagoni geometra e vice commissario della Lega in Sardegna”. Che ha dichiarato: “Smettetela con il ritornello che noi del centrodestra siamo cementificatori. Vogliamo soltanto che l’edilizia non muoia”.

Pansa, la profezia dell’Italia rotta

La prima cosa che fa Giampaolo Pansa è ricordare. Di fronte a un fatto nuovo gli basta un colpo d’occhio e già sa, forte di memoria, come andrà a finire. Dopo aver raccontato il passato, al culmine della sua stessa vita, racconta il futuro.

Con un piede nel giornalismo e un piede nella letteratura, l’invincibile Giampa si presenta in questo preciso modo: “Sono un bambino della guerra”. Figlio di un’epoca appassionata di avvenire, nato nel 1935, non ha un nasone da moralista da arricciare e vede il domani attraverso ciò che ricorda. Prende la sua Italia e, invece di mascherarla di orpelli, la mette a nudo con la sua efficacia drammaturgica, con la brutalità sua, sempre concisa, di franchezza e scanzonata lucidità. Armato di fantasia Pansa combatte ogni falsità. Con solo l’estro della sua immaginazione – sciogliendone le briglie – travolge ogni doppiezza impiastricciata di retorica: “Come sarà l’Italia travolta dalla crisi globale?”. Pansa, che pure non c’è più dal 12 gennaio scorso – quando era più probabile che arrivasse un meteorite sulla Terra, non il Coronavirus – un’Italia ormai così rotta l’ha già vista e prevista: “Nella vita di tutti i giorni può accadere ciò che di solito avviene quando c’è una guerra”. E nella vita di questi nostri giorni è davvero accaduto ciò che di solito accade nel dopoguerra.

L’opera sua incompiuta, questo libro postumo cui dedica i suoi rovelli già dal 2012, completa il Bestiario del domani. Ci sono libri che – figliati dal mestiere – si scrivono e ce ne sono altri che si offrono come dono, scritti con l’anima in mano, generati dalla pienezza di vita. Questo è il caso de L’Italia si è rotta, che è certamente la Turandot di Giampaolo Pansa, un’incompiuta il cui completamento richiede la complicità di un finale aperto. Leggerlo è come il saluto fraterno alla sua Ombra e la sua voce è una messa in scena dell’immaginario: un vero e proprio teatro di giornalismo e letteratura dove la commedia della varia umanità d’Italia, un giorno – ma è già giunto, ormai è tempo –, si mette alla rovescia. Come andrà a finire in Italia è presto detto. A passo spedito si va verso il tracollo. La decrescita si accompagna al marasma civile e al caos sociale: Rosy Bindi rinuncia alla sua promessa verginale, sposa un gentiluomo e ne fa uno schiavo sessuale, Nichi Vendola lascia il marito e scappa con una bella femmina e Dario Franceschini, infine, sempre più barbuto e stanco della politica, si dedica al suo mestiere di romanziere. “Ma adesso – annota Pansa nella sua divinazione – ha scelto di dedicarsi al genere pornografico, il filone che va di moda nel mercato librario. E i suoi romanzi hanno un successo insperato”. Ecco la carestia morale che è seguita alla pandemia. Ed ecco la scarsezza dei mezzi. La povertà crescente che affliggeva la nazione diventa ciò che adesso tutti vedono. Un colpo d’occhio, e Pansa già coglie l’accadde domani: un’apparizione di altri tempi, come nei mercatini della povertà dove il Narratore – l’alter ego dell’Io narrante è quello di Giorgio De Luca, un anziano giornalista piemontese – scorge “tovaglie ricamate usate poche volte per pranzi di Natale e Capodanno”. Sui banchi di bancarelle improvvisate si trovano le ricchezze da lungo tempo riposte nei cassetti e negli armadi, adesso cedute da donne costrette con la morte nel cuore a dare via i tesori acquistati nei giorni felici. Una di queste signore è una sua vecchia fiamma. Lui, sorpreso, col gusto del suo mestiere, le chiede: “Come mai sei qui?” e nella risposta che il Narratore riceve c’è la cronaca di oggi. “Mio marito – racconta la donn – è stato licenziato come altri della sua azienda. Per un manager della sua età non c’è nessuna via di uscita. Dopo decenni di benessere, adesso abbiamo problemi pesanti”. Ieri, dunque, è già domani. Eravamo poveri, torneremo poveri. L’Italia si è rotta è il controcanto all’Italia s’è desta. Lo sfasciarsi di questa povera patria lo sperimentiamo fin nel più pittoresco dei dettagli. Come la Rivolta dei Forconi rinati. Quando Pansa scrive queste pagine gli italiani neppure se lo immaginano un sabato di attardata pandemia a Milano, in piazza Duomo, col concitato generale Antonio Pappalardo foderato d’arancione impegnato ad assembrare i suoi Forconi, eppure questa scena è vista e prevista dal Narratore. E il Narratore – sia chiaro – non è certo uno che vive di vecchi aneddoti. Giorgio De Luca, il personaggio che presta voce a Pansa in questo libro, arriva d’anticipo su tutto: il Partito delle Donne, la Lega delle badanti, e Vladimir Putin sconfitto in Versilia. C’è anche un generale alla guida del governo nell’Italia rotta, “un certo Silvestro Rambaudo”, l’unico in grado di colmare il vuoto lasciato dalla congrega dei partiti, tutti malati terminali. Un imprevisto da riassumere così: “L’Italia ha bisogno di un governo affidato a un uomo di polso, che non abbia interessi elettorali, un tecnico capace di tenere in pugno un Paese che si sfalda”. Non è un golpe, questo del generale, piuttosto uno scacco alla Casta che in quel 2021, senza la Balena democristiana e l’Elefante comunista è la caricatura di ciò che fu… Tira proprio una brutta aria – tipo anni Settanta, per intendersi – e torna in voga un verbo ormai desueto: “Gambizzare”. L’accadde domani è il contravveleno di ogni retorica. È il 2022 nella previsione offerta da Pansa, e “il Nord sta peggio del Mezzogiorno”. Detto, fatto. Sembra di averla già sentita questa notizia. Ed è già nei fatti. “I consumi continuano a ridursi” si legge in queste pagine. “I negozi vendono le merci sottocosto, ma gli acquirenti diminuiscono a vista d’occhio”. Quel che il foglio di Pansa descrive ha una sorprendente corrispondenza con la realtà ancora di là da venire. Il Nord, appunto: Codogno, Bergamo, la stessa Milano, l’intero sistema Lombardia. Arrivano i mesi del lockdown e, se non è profezia, è quantomeno presagio.

 

“Scacchi razzisti perché il bianco muove per primo”

Gli scacchi sono razzisti solo perché muove il bianco prima del nero? La provocazione arriva da Radio Abc di Sydney che l’ha chiesto all’economista John Adams. Nel 2015 guidava la rappresentativa australiana. Lui l’ha subito twittato il 23 giugno e la notizia è divenuta virale. E ha scatenato risentite reazioni. Per Anatolij Karpov e Garry Kasparov, i più grandi scacchisti degli ultimi decenni, è una solenne corbelleria, anzi, “una follia”. Difesa peraltro scontata: non si sputa sul piatto che ti ha arricchito. Epperò, a voler inzigare, spesso stereotipi razzisti e pregiudizi si annidano subdolamente nella nostra cultura. Figuriamoci negli scacchi che esistono da 26 secoli, gioco assurto a simbologia di potere e intelligenza, raffinate strategie e feroci scontri virtuali, al punto da divenire metafora del nostro vivere (e morire). Semmai, hanno denunciato alcune femministe, gli scacchi sono sessisti: “La regina si fa il mazzo mentre il re non fa un cazzo”, era il loro slogan. E tuttavia, se gli scacchi evocano il razzismo, perché non cambiare i colori dei pezzi? Verde al posto del bianco (molto ambientalista) e rosso, al posto del nero, cioè il colore del sangue, dell’ira, della ribellione. In ogni caso, chi muove per primo ha statisticamente più probabilità di vittoria. Comunque, è un déjà-vu. L’anno scorso, per la giornata Onu dedicata all’eliminazione delle discriminazioni, il norvegese Magnus Carlsen allenato da Kasparov, e l’indiano Anish Giri hanno giocato invertendo la regola: ha mosso il nero per primo. Ha vinto, come sempre, il migliore.

Cacciari, Weber e i rapporti scienza-politica: una lotta ìmpari

Cento anni fa moriva Max Weber, per una polmonite violenta attribuita a uno strascico dell’epidemia di Spagnola. Nell’occasione Massimo Cacciari gli dedica un saggio (Il lavoro dello spirito, Adelphi) in cui torna a riflettere sulle due conferenze tenute nel 1917 e nel 1919, riunite da Mondadori con il titolo Il lavoro intellettuale come professione (con introduzione e curatela dello stesso Cacciari). È trascorso un secolo ma le due forme del lavoro intellettuale – quello dello scienziato e del politico – continuano a esistere in un dialogo conflittuale, uno teso al sapere l’altro al determinare. È, ormai, una lotta impari. Mai come oggi la Scienza regna sulla Politica, grazie all’equivoco della presunta neutralità dell’una (come ha mirabilmente spiegato Emanuele Severino) e del disorientamento dell’altra. Prendiamo la cosiddetta scienza triste, l’Economia, a cui la Politica si è consegnata fingendo di ignorare che il capitalismo è visione del mondo, anzi è una visione del mondo totalizzante (e totalitaria, nella sua versione turboliberista).

Il risultato è che ci siamo messi tutti in fila, obbedienti e sorridenti in nome della razionalità efficiente, nonostante la precarizzazione e l’impoverimento. Il capitalismo, maturo già negli Anni 70, avrebbe dovuto marcire da tempo, eppure è ancora piuttosto in forma là dove hanno ceduto le strutture più deboli (quelle statuali).

Allo Stato di diritto (quasi privato) Cacciari dedica riflessioni, come spesso gli accade, molto interessanti, arrivando a conclusioni non sempre condivisibili. Aggiungiamo uno spunto: dei tre elementi costitutivi dello Stato – territorio, popolo, sovranità – due esistono ormai solo come declinazioni dispregiative. Se non è questa una dissoluzione…

Mail box

 

Dem e M5S: l’alleanza è più che necessaria

Buongiorno, in merito all’interessante scambio tra Marco e Gad sull’alleanza alle Regionali tra M5S e centrosinistra (Pd&C.), mi trovo completamente d’accordo sulle conclusioni: si deve fare. L’alleanza deve diventare strategica al Centro come sui territori. Bisogna essere in due, è vero, buon senso e visione politica non suicida devono prevalere. Alternativa: sconfitta alle Regionali, crisi di governo, nuove elezioni (o strani rimpasti), un presidente della Repubblica di destra, Conte capro espiatorio di tutti i mali e le forze sovraniste ed eversive riprenderanno fiato… Beffa finale: i soldoni che arriveranno dall’“odiata” Europa li spenderanno loro senza avere mosso un dito. La lezione arriva dal voto regionale in Emilia-Romagna, dove il successo di Bonaccini ha bloccato la crisi di governo e zittito Salvini&C. Quel successo ha aperto spiragli nuovi e più vantaggiosi per l’Italia in Europa. Quella vittoria non era scontata, l’impegno è stato massiccio e diffuso… Alle prossime Regionali il voto disgiunto è possibile in tutte le Regioni a eccezione delle Marche (a rischio senza un’alleanza organica e larga). Per favore, basta fare favori a Salvini! Basta litigi nel governo!

Cecco

 

Vitalizi: una vergognosa mossa politica

La notizia di questi giorni sul ripristino dei vitalizi con il pagamento degli arretrati ha destato clamore. Nel nostro Paese ci sono migliaia di persone costrette a vivere senza uno stipendio adeguato. In un momento così delicato per l’Italia a livello economico e sociale si poteva fare a meno di questa scelta. Un’altra sconfitta di questa nostra politica.

Massimo Aurioso

 

L’ingiusto sostegno agli istituti paritari

Apprendo dalla stampa che sarebbe stato raggiunto l’accordo nel governo giallorosa per un raddoppio dei finanziamenti alla scuola privata, eufemisticamente definita “paritaria”: i “diplomifici”, insomma. Ma come? La Costituzione dice chiaramente che la scuola privata può sì esserci, ma “senza oneri per lo Stato”. Paradossalmente oggi sono i furbi “liberisti” che puntano al foraggiamento dei “diplomifici”, in cui magari lavorano gratis giovani insegnanti solo per poter accumulare punteggio e poi per scappare, appena possibile, nella scuola pubblica, dove almeno il diritto alla retribuzione viene ancora riconosciuto… Evidentemente, chi voleva abolire il valore legale del titolo di studio è riuscito nel suo intento in via surrettizia: oggi, in una società castale come quella italiana, il diploma e financo la laurea non devono comportare migliori prospettive di vita e lavoro per le classi subalterne. No, ognuno deve stare al proprio posto. Anzi, cultura e intelligenza sono cose pericolose, da non permettere al volgo.

Sergio Torcinovich

 

L’epoca digitale e la mania delle copie

La cosa che mi inquieta di più dell’elettronica è la tendenza a fare copie di tutto e a buttare gli originali. Eppure a volte c’è proprio il bisogno di vedere l’originale per capire. Oltre al fatto che questa clonazione di immagini rende indistinguibili il falso dal vero (Warhol?).

Stefano

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile direttore, quest’anno non sono mai stato a Porto Venere, né a terra né in barca. Ma dato che parliamo di un posto meraviglioso e che io adoro la Liguria, l’idea mi piace molto e recupererò appena possibile. Quindi scrivete come volete. Poco conta se è falso. Passo e chiudo.

Pier Silvio Berlusconi

Caro Direttore, la puntuale ricostruzione del mio curriculum vitae fatta da Carlo Tecce sul Fatto quotidiano di domenica merita alcune precisazioni. Non sono stato consigliere economico del primo ministro Raffarin, ma durante il suo governo ho fatto parte del Comité d’évaluation des stratégies ministérielles de réforme, di cui era rapporteur il giovanissimo Emmanuel Macron. Nella commissione per Roma Capitale non rappresentavo il sindaco Alemanno, ma il presidente della Provincia di Roma Zingaretti. L’incarico di consigliere del Ministro Gualtieri è a titolo gratuito (compensi zero), così come i precedenti incarichi di consigliere dei presidenti Renzi e Gentiloni. Pure del tutto gratuiti sono gli incarichi di presidente della Fondazione Astrid e del Long Term Investors’ Club, di Ad di Astrid Servizi, di consigliere di Assonime, dell’Accademia Santa Cecilia, della Fondazione per le Scienze religiose, e gratuiti i precedenti incarichi nel Cda della prestigiosa Ena, nella Commissione Attali, nella Commissione Milhaud, nella task force del Segretario generale dell’Onu per le Ict. Per il resto ringrazio Tecce per avere, ricostruendo il mio curriculum, spiegato bene le probabili ragioni del mio più recente incarico di Consigliere del ministro Gualtieri. Mentre infatti ministri, sindaci, dirigenti è bene siano giovani e dinamici, chi dà solo consigli deve aver maturato molte esperienze e competenze. E dunque è spesso anziano. Sbaglio?

Franco Bassanini

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri a pagina 24 la rubrica sui Programmi Tv non era correttamente aggiornata. Ce ne scusiamo con i lettori.

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Bonus baby sitter. Ora spetta anche a nonni e zii non conviventi

Sono la fortunata nonna di 6 nipotini e mi posso vantare di averne già cresciuti 4 (hanno già oltre 10 anni), mentre ora sto accudendo gli ultimi due piccoletti (1 e 3 anni). I miei tre figli lavorano, ma sono precari e non si possono permettere di pagare una baby sitter o il nido privato. Per fortuna io non ho mai avuto problemi di salute o altri che mi impedissero di aiutarli facendo sia la super nonna con i nipoti che dandogli una mano economicamente in quei mesi in cui non gli rinnovano i contratti. Insomma, un racconto comune a migliaia di famiglie italiane. Non sto raccontando niente di nuovo. Per questo non riesco proprio a capire la polemica emersa sulla novità che il bonus Baby sitter sia stato esteso anche ai familiari. Perché stanno accusando noi nonni di far così buttare via i soldi allo Stato? Il nostro lavoro non vale niente? Finalmente è stato riconosciuto il nostro ruolo sociale.

Ludovica Piperno

 

Gentile nonna Ludovica, lei e tutti gli altri suoi “colleghi” siete l’ammortizzatore sociale primario che ha consentito al Paese di reggere durante gli ultimi anni, da quando la crisi economica ha accentuato un limite drammatico: siamo il fanalino di coda della natalità in Europa. Ai genitori che non hanno la fortuna di poter contare sui nonni, viene ancora richiesto il sacrificio tra lavoro e famiglia. E così un nonno su tre è costretto ad aiutare il bilancio familiare. Ma qui il punto che ha scatenato le solite polemiche è un altro: riguarda l’estensione del bonus Baby sitter – a cui si ha diritto per le prestazioni svolte dal 5 marzo 2020 al 31 luglio 2020 – anche ai familiari non conviventi. E dunque spetta anche a nonni, zii e parenti vari che durante l’emergenza sanitaria hanno dato una mano con i nipotini. Un incentivo che non ha limiti di reddito e che può essere richiesto dalle famiglie con figli di età minore di 12 anni. I detrattori si sono chiesti se ha senso remunerare qualcuno per fare qualcosa che già svolge per motivi affettivi e se così si consente di generare del nero. In altre parole: il bonus complessivo da 1.200 euro incassato dal nonno, potrebbe essere girato ai figli? Accuse pretestuose per una misura che in un contesto emergenziale ha funzionato bene e che continuerà ad aiutare le famiglie.

Patrizia De Rubertis