Dalle ciliegie al Ponte Salvini (oramai) ne fa più di Bertoldo

Non è vero che Salvini sia in stato confusionale. Tutt’altro. Se dalla crisi del Papeete in poi pareva aver iniziato una china comicamente discendente, confermata peraltro dai sondaggi a picco, nelle ultime settimane è tornato il Cazzaro Verde che dà orgogliosamente del tu a Churchill.

Già durante la fase più cupa del lockdown, Salvini aveva dato prova di commovente saggezza. Per esempio con la proposta delle chiese aperte per Pasqua, un ottimo modo per far arditamente conciliare la celebrazione della Resurrezione con l’aumento dei trapassi. Ma è negli ultimi giorni che l’uomo che sussurrava ai citofoni è salito garrulamente in cattedra.

Dapprima è andato da Floris e, candido come un bambino, ha dimostrato di non avere ancora capito nulla dell’utilizzo della mascherina, che per lui è un orpello fastidioso da togliere anzitutto quando ci si trova vicini a una signora: evidentemente Salvini, e con lui il suo popolo, preferiscono infettare con educazione piuttosto che salvare le vite mascherati. Teoria affascinante. Poi si è scofanato otto chili di ciliegie mentre Zaia parlava di bambini morti. Non solo: di fronte alla figuraccia planetaria, non solo non ha chiesto scusa ma – ospite di SkyTg24 – ha negato l’evidenza di fronte alla giornalista attonita: “Ma scusi, le sembra possibile che io cominci a mangiare le ciliegie mentre parlano di bambini morti?” (no, non parrebbe possibile, ma purtroppo è esattamente quel che è accaduto).

Dal 2 giugno in poi, con encomiabile senso civico, ha organizzato assembramenti a manetta, stretto mani senza lavarsele e abbracciato tutti in nome del Sacro Selfie: esattamente ciò che non andrebbe mai fatto in tempo di pandemia. È stato contestato in ogni piazza, reagendo a tali manifestazioni col garbo di sempre (ovvero zimbellando Azzolina, Bellanova e più genericamente “i comunisti, i radical chic e i centri sociali”).

Sabotato dalla Meloni, che gli sta saccheggiando l’elettorato senza neanche dare il meglio di sé (anzi), nel corso del suo tour in Puglia è riuscito a non citare mai il candidato meloniano (da lui mal sopportato) Fitto. Metà partito appoggia già Zaia, conscio del fatto che se il Cazzaro Verde continua così la Lega tornerà a percentuali da Tabacci greve, ma lui continua a fare chissà perché il ganassa. Emulo di Pappalardo (Antonio), nel treno verso Andria si è fatto fotografare senza mascherina (obbligatoria) e in uno dei posti dove è vietato sedersi (daje!). Continua a straparlare di “no al plexiglas(s) nelle scuole”, quando il plexiglas(s) è stato (ovviamente) eliminato dalle linee guida del governo. Pur di raccattare consensi e like, è arrivato persino a fare un post sui gemelli ammazzati dal papà nel Lecchese. Vive in televisione, spesso riverito neanche fosse uno statista, ma ciò nonostante ha il coraggio di gridare (come la Meloni) al “regime di Conte”. Durante un’assai sobria sfilata sul ponte di Genova, vestito come un playboy daltonico e ben poco atletico, ha scambiato i pannelli fotovoltaici per dei mitologici “pannelli di metano”. Si potrebbe andare avanti in eterno, perché ormai Salvini ne fa più di Bertoldo, ma non basterebbe il giornale intero. Lasciamolo quindi continuare così, implacabile come un fagiano lesso e rutilante come una Duna smarmittata in salita: chi siamo noi per negare a un cazzaro verde di emulare, in tutto e per tutto, il tragicomico nonché subitaneo tramonto del cazzaro rosé? Daje Matte’!

 

La scuola al tempo del Covid si può fare, con i doppi turni

Ci siamo: il Covid-19, che non è una ciarla, costringe a scelte decisive nei confronti di tutto il popolo della scuola. Delle nuove linee guida ministeriali il Fatto ha dato ampio riscontro nel numero di sabato. Ma entriamo nei particolari sui punti deboli di tali linee. A partire dal “distanziamento fisico, inteso come un metro fra le rime buccali (sic) degli alunni”.

Si dovrà ricorrere a un’enciclopedia medica: “Rima: ‘fessura che delinea la chiusura delle due labbra’”. Per il 90 per cento degli italiani equivale al latinorum del dottor Azzeccagarbugli, distraendoci dal vero problema, cioè dal fatto che da bocca a bocca un metro è veramente poco. E che sia un sistema per nascondere l’impossibilità di abbattere le classi pollaio? C’è un rimedio? C’è ma nessuno lo ha previsto. Si dovrà, per semplificare, ritornare al secondo dopoguerra e a tutti gli anni 50 e oltre. Quando era tutt’altro che infrequente, nelle scuole medie e superiori, l’utilizzo dei doppi turni: tre giorni al mattino e tre al pomeriggio. Molti edifici essendo inagibili perché bombardati o distrutti durante la guerra. Ci lamentavamo? Nossignori. Studiavamo di meno? Nossignori. Anzi, alternare mattine e pomeriggi era più divertente e vario. Così fu per me e per i miei compagni. È applicabile all’oggi? Certo che sì. Perché i doppi turni ora consentono, smembrando classi e formandone di nuove meno affollate, di distribuire ragionevolmente la popolazione di una scuola fra mattina e pomeriggio. Smembramento doloroso, ma meglio quello o beccarsi il Covid? Ci sarà bisogno di almeno un terzo in più di insegnanti? Bene: molti posti di lavoro in più in un Paese dove la disoccupazione è l’incubo di giovani e meno giovani precari.

E i quattrini?, dirà qualcuno. Quanti enti inutili ricevono denaro nel nostro Paese! E il colpaccio dei soliti noti: il Senato che si ridà i vitalizi! Se si pensa poi che l’entrata in servizio del Tav è prevista, se tutto va bene, per il 2030, c’è da chiedersi se sia meglio sacrificare i nostri ragazzi con provvedimenti tappabuchi o un’opera faraonica e costosissima. C’è da dire in più che i doppi turni alle medie e alle superiori consentiranno di trovare più facilmente spazi alternativi o ristrutturare scuole dismesse per i bimbi delle elementari. Surreale, tuttavia, l’ipotesi corrente di servirsi di spazi all’aperto come parchi e giardini (e la brutta stagione?), di cinema (in costante diminuzione o estinzione), di teatri.

E ancora. Si accenna alla posa di prefabbricati. Ma da qui al 14 settembre corrono poco più di due mesi e mezzo. E allora facciamo un passo indietro. Guadagnar tempo per avviare i cantieri. Lo sapete che dal secondo dopoguerra fino all’anno 1976/77 le scuole cominciavano fra l’1 e il 10 ottobre? Si studiava tanto e bene, molto più di oggi.

Non dissipo parole sulla decisione di scaglionare gli ingressi. Inattuabile per scuole di 30 classi. Quanto al fatto che nelle superiori si alternerà la didattica in classe a quella a distanza, voglio riportare qui la testimonianza di un’insegnante di un liceo milanese: “La didattica a distanza non ha funzionato perché è, in sé, un ossimoro. La didattica ha bisogno di sguardi, di gesti, di domande e di risposte, di corpi e di animi, che l’online ha eliminato, riducendo i ragazzi a immagini sfocate, semplici quadratini con le iniziali del nome. Inoltre, certi ragazzi dovevano lasciare il collegamento a metà lezione perché i parenti avevano necessità del computer. E in varie parti d’Italia non ci sarà stato nemmeno un computer per famiglia. Le verifiche scritte basate sulla traduzione? Eliminate. Idem gli scritti di matematica. Didatticamente è stato un anno perso, ansiogeno e stressante. Dico solo che mi sono sentita in una solitudine siderale”. Capito?

 

La scalata di Bonaccini, l’Iron Man della bassa

Stefano Bonaccini lo teniamo d’occhio da un po’, del resto è impossibile non farlo: ci sono in giro più foto sue che di Chiara Ferragni. Nelle foto, primissimi piani talvolta virati in un poetico ciano, Bonaccini è serio, pensoso, intenso, determinato, preoccupato, assertivo, fiero, dignitoso, sereno. “Dove sono quelli che celebravano Bolsonaro? A proposito di populisti”, e sotto la sua foto; “L’Emilia-Romagna guarda al post Covid: pronto il Piano regionale da 180milioni €”, e sotto foto; “Dopo tre mesi, per la prima volta, zero decessi”, foto. Se va al bar a bere un caffè, si fa la foto. Se va a messa, foto. Se muore qualcuno, Bonaccini pubblica una foto dello scomparso (da vivo) in compagnia di Bonaccini.

È uno di quei nuovi leader che usano la faccia e la quotidianità come programma politico e attestato di veridizione. Non importa se è esattamente quel che fa Salvini, se questo presenzialismo ostensivo è uno dei marchi del populismo. Il presidente della Regione Emilia-Romagna è anti-populista, lo prova il fatto che ha battuto la Borgonzoni, per chi si ricorda chi era.

Bonaccini sfrutta all’osso la medaglia di aver scacciato l’invasore leghista dalla terra rossa, come recita la mitografia ufficiale: ancora il 23 giugno, sei mesi dopo!, se ne vantava, con apposita foto. E fa niente se alla vittoria abbiano contribuito le Sardine, la lista Coraggiosa e il clima pseudo-resistenziale: egli ha vinto da solo, mascella volitiva e sguardo rapace. Ci ha scritto pure un libro, La destra si può battere, che nel risvolto reca stampigliato: “Bonaccini è uno dei grandi protagonisti della politica italiana. Barba da hipster e occhiali a goccia, ma soprattutto un indubbio carisma capace di mescolare abilmente senso pratico e buona politica”.

Ormai sarà profezia che si autoavvera, ma ci sa che Bonaccini, questo Iron Man della Bassa, senza le indelicatezze di Gori ma lavorando d’immagine, vuole buttar giù Zingaretti. E infatti a Repubblica confessa negando: “Io segretario? Faccio un altro lavoro”; vero è che “serve un Pd più robusto”, magari con barba e un indubbio carisma. Del resto, “non precludo nulla”, il che significa che sono già al lavoro eserciti di uffici stampa, social media manager, sondaggisti, creativi e geni del marketing, gli stessi che hanno lavorato alla costruzione della sua effigie partorendo questo incrocio somatico geniale tra Bruce Willis, Padre Pio e Montalbano, del genere sexy-solido-efficiente, e da qualche parte dell’infosfera, quel cloud dove si gioca la politica retrosceneggiata, lui e Zaia governano di fatto l’Italia mentale, poli uguali e contrari della stessa figura virile-decisionista per nulla ideologica e molto pragmatica. La vittoria primigenia basta e avanza: “In Emilia-Romagna abbiamo vinto, e bene, proprio così, quando tutti mi davano per sconfitto”, e chi lo critica è “radical chic” anzi “perché non si candida lui?” (come disse a Tomaso Montanari, che lucidamente vede in lui una figura di destra moderata). Questo è il livello. Perciò adesso detta condizioni a Conte: “O il Governo stanzia altri due miliardi per le Regioni a statuto ordinario o interrompiamo le relazioni istituzionali”, perché forse la Covid ha scalzato il tema, mettendone anzi in luce i limiti, ma l’Emilia-Romagna è una delle regioni più attive sul fronte della cosiddetta “autonomia differenziata”, il che vuol dire “il Sud si arrangi”, ma soprattutto “soldi, soldi”. “Io sono abituato a parlare coi fatti, non con le immagini”.

Infatti sul suo sito, che si apre sulla sua gigantografia, nella sezione “Chi sono” è scritto che quelle della provincia di Modena, dove vive, “sono radici forti e profonde: ti tengono con i piedi ben piantati per terra e ti ricordano ogni giorno chi sei e da dove vieni, per non smettere mai di guardare le persone all’altezza degli occhi”, una cosa che già a Fidenza, per dire, è impossibile fare, perché hai radici talmente deboli che se tira vento ti stacchi da terra e alla prima rotatoria del casello di Modena Sud la gente la guardi altezza ginocchia. Lui è uno di quelli che ci mettono la faccia, non ci fossimo capiti.

È fissatissimo col “territorio”: “Ho visitato praticamente tutti i 328 Comuni dell’Emilia-Romagna”: come praticamente? Alcuni li ha visti su Google Maps? “Conosco i nomi di tutti i sindaci… Non è un vezzo: è un’idea del territorio”. Manco l’avessimo disegnato, pensa che “i problemi non siano né di destra né di sinistra”, e però le soluzioni sono o di destra o di sinistra, che si fa? La semantica è renziana e saliana: “accelerazione”, “rilancio”, “futuro”. Cantieri. “L’Emilia-Romagna è locomotiva d’Italia” (ma non era la Lombardia? O quella lo è d’Europa?), e infatti lo slogan della vittoria era “Siamo l’Emilia-Romagna”, perfetta traslitterazione trumpiana allo gnocco fritto, pura tautologia, significante senza significato, virtuosismo senza virtù. Ha buone probabilità di farcela.

 

Le affinità tra squilibrati, le hostess senza slip, l’onanismo di Hugh Hefner

L’identità nebulosa non è un problema solo dei 5Stelle. Che cos’è il Pd? Boh (Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2020)

I Rolling Stones hanno Mick Jagger. Il Pd? Nessuno, è una banda comunale. Che suona Satisfaction. I grillini invece sono i Doors dopo che è morto Jim Morrison. La Lega sono i Jethro Tull. Fratelli d’Italia sono i Vianella. Forza Italia è Frank Sinatra. Renzi è uno dei tanti sosia di Elvis. Mattarella è Ed Sullivan. Adesso sapete l’essenziale.

Pensierini da Fase 3. Mi capita di pensare a quello che c’era, davamo per scontato, e non sarà più come prima. Per esempio, i viaggi in aereo. D’accordo, kissene. Ma le hostess? Sportive, sorridenti, calibrate, le hostess, le sirene dell’aria, erano il più geniale perfezionamento dell’aereo. A volte ne incontravo qualcuna così bella che mi veniva da chiederle: “Scusi, che aereo prende lei?”. E se mi fossi azzardato a farlo, sono certo che la hostess mi avrebbe dato una risposta garbata, da hostess, perché faceva parte della sua preparazione professionale. Una hostess sapeva di rappresentare, per ogni viaggiatore, la speranza dell’avventura, la vibrazione di un desiderio, l’ombra di un sogno; almeno, per me era così; ma non ho dubbi che anche loro sentissero il bisogno di evadere dal proprio tran tran: una, su un volo per New York, dopo sei ore che battevo i pezzi a una sua collega mi si sedette di fronte (ero di fianco al portellone d’emergenza, più spazio per le gambe) e, guardando altrove, allargò le cosce: sotto la stretta gonna d’ordinanza, che il movimento aveva fatto risalire, era senza slip. Chissà cosa s’era messa in testa. L’errore è sposarle: dopo sei mesi non l’ami più né come moglie sulla terraferma, né come hostess nella troposfera. Perché il matrimonio influisce sulla fisiologia femminile. Sposi una donna, e qualche tempo dopo te ne trovi a tavola un’altra. Modificazioni psichiche, alterazioni caratteriali che possono condurre in tribunale. Ma anche l’uomo cambia: assume una nuova personalità, non più solidale con la prima; sei mesi prima era un altro uomo, con una tavolozza tutta diversa di nevrosi. I nostri atti dipendono da una sgangheratura delle ghiandole: ci si lascia per stanchezza, ci si mette insieme perché incuriositi da altro. È anche vero che gli squilibrati si attraggono per affinità. Comunque il tempo non è mai perduto, si impara sempre qualcosa; ma se, dopo disavventure ripetute, pensi, come molti, che le donne siano solo delle gran stronze, è perché ti sfugge il vero segreto femminile, che è questo: le donne sono uomini di un altro sesso. Una volta che l’hai capito, il più è fatto.

Ieri il papa mi ha telefonato per invitarmi a cena sabato prossimo. Insisteva. Gli dico: “Un attimo, devo consultare la mia agenda. Sabato, hai detto? Mmm, no, quella sera dovrò guardare la tv”.

E mentre Trump, in patria, sta combattendo una sua guerra personale contro la realtà, osannato da Maria Giovanna Maglie e da altre creature svalvolate (ieri, sull’onda del “Black Lives Matter!”, una bandiera Usa ha bruciato se stessa per protesta), in Medio Oriente l’esercito Usa si è ritirato dall’Afghanistan: i Talebani hanno vinto. Non è incredibile? La nazione con le armi più sofisticate del mondo sconfitta da gente che non ha ancora il Vhs!

Forse non tutti sanno che. Hugh Hefner era l’editore di Playboy, ma per masturbarsi usava Penthouse.

 

Premier forti e governi deboli ai tempi del Coronavirus

Com’è possibile tenere insieme la popolarità di Giuseppe Conte (il 60% costante in tutti i sondaggi) con le fragilità del rapporto tra Pd e 5Stelle? E come può sopravvivere un governo alla cui stabilità si affidano pur sempre sei italiani su dieci (Ilvo Diamanti, Demos &Pi) con il progressivo sfaldamento del gruppo M5S che al Senato rischia di mettere in crisi maggioranza ed esecutivo? Certo, di premier forti e di governi deboli la politica italiana (ma non solo) ne ha conosciuti parecchi. Uno per tutti, Romano Prodi disarcionato due volte, nel 1998 e nel 2008, da manovre di palazzo, con il conseguente doppio tracollo del centrosinistra, e doppio trionfo di Silvio Berlusconi. Rispetto al passato esiste però una sostanziale differenza: l’Italia messa in ginocchio dallo tsunami coronavirus. Una catastrofe senza precedenti che dovrebbe fare seriamente riflettere: tale è la gigantesca responsabilità che pesa sulle spalle della politica, ma soprattutto dei singoli comportamenti. Imperdonabili se mossi da semplici, e a maggior ragione sciagurate, convenienze personali. Per carità, alla larga dai cosiddetti uomini della Provvidenza (soprattutto se autoproclamati) ma per i profeti del Conte bollito e praticamente fritto (da quando, si può dire, il nostro fece udire i primi vagiti in quel di Volturara Appula) un governo vale l’altro, e dunque gli italiani se ne facciano una ragione. Infatti cosa può esserci di più opportuno, mentre la trattativa con l’Europa per i 172 miliardi del Recovery Fund

(di cui 81 a fondo perduto) entra nella fase decisiva, di una bella crisi al buio, magari ferragostana? Per rinsaldare nei nostri alleati l’idea di un’Italietta inaffidabile, incasinata, perennemente alla deriva? Siamo convinti che nella quotidiana consultazione dei divani (vuoti) di Montecitorio, gli aruspici della imminente caduta di Conte abbiano già nei loro taccuini le soluzioni belle che pronte. Finalmente avremo quel governissimo di unità nazionale guidato da Mario Draghi, del resto da mesi fremente sulla soglia del casale umbro in attesa della convocazione al Quirinale. O se no, ancora meglio l’immediato ritorno alle urne auspicato da Giorgia Meloni e Matteo Salvini, elezioni precedute neanche a dirlo da una serena campagna elettorale al profumo di Covid-19. Nel tripudio delle masse avide di duelli televisivi mentre il Pil sprofonda e forse anche la democrazia. Non conosciamo infine i nomi dei grillini che a sentire Salvini sarebbero in procinto di passare alla Lega, con le conseguenze che sappiamo. Speriamo di non conoscerli mai. Per non ripetere la famosa frase di Churchill: mai così tanti dovettero così tanto a così pochi. Solo che lui parlava di eroi. Non di traditori.

Il Covid-19 fa più male alle donne

Maledettapandemia: colpisce più gli uomini che le donne. È vero, ma solo se facciamo conto della patologia diretta Covid, non per i danni collaterali che sta producendo in termini di gender gap (disuguaglianza fra generi). Non è la solita lamentela delle donne, sono fatti. Il prestigioso The Scientist ha pubblicato un articolo molto interessante: Gender gap in research output widens during pandemic (“Il divario di genere nella ricerca si allarga durante la pandemia”). In sintesi, riferisce episodi aneddotici della vita al femminile, evidenziando come l’emergenza Covid abbia fortemente penalizzato le donne, anche quelle con elevato stato culturale. È noto come le donne sono state a lungo sotto rappresentate nella ricerca (circa il 31% dei coautori su articoli scientifici tra il 2008 e il 2017). La retribuzione delle ricercatrici è del 30% inferiore di quella dei colleghi. Questa primavera sui social media è cresciuta la preoccupazione che il divario si allarghi anche grazie, si fa per dire, al Covid. Per esempio, le donne hanno presentato un numero “trascurabile” di articoli al British Journal for the Philosophy of Science sin dall’inizio della pandemia, come ha osservato la viceeditrice della rivista, Elizabeth Hannon: “Non ho mai visto niente del genere”. Eppure questa pandemia ha scatenato uno tsunami di pubblicazioni, fino a mettere in difficoltà le case editrici. Tuttavia, mentre il numero di coautori maschili di prestampe è cresciuto del 6,4 per cento dal 2019 al 2020, il numero di autori femminili è aumentato solo del 2,7. Il divario cresce fra i principal investigator (primi autori). Il fenomeno più grave è l’abbandono o la perdita del posto di lavoro che ci minaccia dai prossimi mesi. A febbraio l’Italia era al 76° posto su 153 per gender gap occupazionale (dati del World Economic Forum). Ma forse la soluzione sta in noi stesse. Le donne hanno scarsa autostima, soffrono di sensi di colpa nei confronti dei figli e, spesso, si vedono mamme realizzate solo se “sacrificate”. Le speranze di uscire da questo pericoloso guado sono poche se, proprio sabato sera, una nota conduttrice tv ha dedicato l’ultima puntata della sua trasmissione quotidiana alle donne in periodo della pandemia, affermando di aver “fatto fatica a trovare in Italia una donna esperta in Covid” e di avere intervistato solo un uomo per tre interminabili mesi. Povere donne!

 

Morti e malati tra i lavoratori ex Montedison. E l’amianto resta

“Chi ha lavorato in quella fabbrica è morto subito dopo la pensione”. Antonio Sciortino, figlio di Santo, uno degli operai che lavorarono all’interno dell’ex Montedison (prima Montecatini) di Casteltermini-Campofranco, a cavallo tra le province di Agrigento e Caltanissetta, ha deciso di raccogliere le parole del padre per denunciare quello che è sempre passato sottotraccia nel cuore della Sicilia. Proprio Santo, anche lui sopravvissuto a diversi tumori e con problemi ai polmoni, ha lavorato lì fino al 1992, anno della chiusura della fabbrica di lavorazione dei sali potassici. All’età di 81 anni, ha fatto l’elenco di coloro che fino agli ultimi giorni hanno lavorato con lui, arrivando a raffigurare un quadro sconcertante: 32 di quei 70 lavoratori sono morti per lo più di tumori ai polmoni e all’intestino, altri 15 fanno i conti con le stesse malattie.

La lista nera, mai resa nota prima d’ora, accende i riflettori su uno stabile di cui adesso, con grave ritardo, si sta occupando anche la Regione Siciliana. A quanto pare quasi nessuno supera i 73 anni, come Armando Falletta, un operaio deceduto appunto a quell’età, o Salvatore Sgroppo, morto di tumore come il fratello a 72. Come molte altre aree ex Montedison in Italia, anche Campofranco fa i conti con la mancata bonifica di migliaia di metri quadrati di coperture di amianto. Queste, se prima hanno segnato la vita degli operai, oggi inquinano l’aria circostante, creando problemi nei paesi limitrofi, che da anni si svuotano. Qui diversamente da altre Regioni, nessun processo per l’inquinamento e i decessi. Ora però finalmente la Regione Siciliana sembra volersi occupare, con grave ritardo, della mancata bonifica, così almeno assicura l’assessore all’Energia, Alberto Pierobon, pronto anche a denunciare la vicenda in Procura.

“Pronto un altro killer per uccidere il pm Gratteri”

Sei mesi dopo, ancora minacce per il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. Più le indagini vanno avanti e più la ’ndrangheta manifesta tutta la sua insofferenza nei confronti del capo dei pm antimafia. Le cosche vibonesi, che tra qualche settimana compariranno alla sbarra nel processo “Rinascita-Scott”, preparerebbero un attentato per superare la protezione della scorta e ucciderlo. La notizia è stata appresa dagli investigatori fuori dalla Calabria e la Procura di Salerno, competente sulle indagini che riguardano i magistrati del distretto di Catanzaro, avrebbe già aperto un fascicolo contro ignoti.

Alla compagnia dei carabinieri di Lagonegro (Potenza) nei giorni scorsi è arrivata una lettera anonima in cui c’è scritto che la cosca Mancuso ha incaricato un suo uomo di fiducia di portare a termine l’attentato. Proverrebbe da ambienti vicini alla famiglia mafiosa di Limbadi. Non si conoscono i dettagli del progetto che, però, sarebbe già in fase avanzata. Tant’è vero che la missiva indicherebbe anche il nome del killer, residente a Belvedere Marittimo (Cosenza).

Gli inquirenti stanno verificando la segnalazione per capire quanto è alto il rischio per il procuratore Gratteri. Non è la prima volta che finisce nel mirino delle cosche. Sei mesi fa era emerso un altro progetto di attentato al magistrato calabrese: un confidente aveva riferito agli investigatori che alcuni boss avevano chiesto a una cosca del Cosentino di occuparsi dell’organizzazione di un attentato contro Gratteri e la sua scorta. Attentato che, fortunatamente, non è avvenuto ma per il quale era stato assoldato un killer esperto e in grado di usare un fucile ad alto potenziale. Su quella vicenda sono ancora in corso indagini che adesso potrebbero intrecciarsi con l’inchiesta sulla lettera spedita ai carabinieri di Lagonegro.

Contagi, allarme all’aeroporto di Fiumicino. “Dal Bangladesh partono con la febbre”

“È necessario aumentare i controlli sui voli internazionali”. A Roma scoppia il problema, in chiave Covid, dell’aeroporto di Fiumicino. L’allarme è dell’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato. Da giorni si cerca di “spegnere” un nuovo focolaio nella cittadina portuale, dove i dipendenti bengalesi di un bistrot si sono infettati coinvolgendo fin qui 12 persone. Secondo la Regione, il “paziente zero” sarebbe un uomo arrivato in aereo da Dacca che ha confessato di essersi imbarcato già febbricitante. “In alcuni Paesi i controlli in partenza sono nulli. Abbiamo scritto al ministero del Trasporti, ma non ci hanno risposto”, spiegano dalla Regione. Nella “fase 2”, gran parte dei contagi romani – escluso il focolaio dell’Irccs San Raffaele Pisana – è di importazione: Brasile e Stati Uniti, soprattutto. Si concentrano sul litorale, dove sale la tensione. Ieri pericoloso affollamento all’ospedale Grassi di Ostia: “Si effettuano tamponi solo per casi sospetti con febbre e problemi respiratori”, hanno dovuto ribadire le autorità sanitarie locali.

Conte sorpreso da Zinga: i numeri però non ci sono

Palazzo Chigi non sapeva nulla dei dieci punti sul Mes di Nicola Zingaretti. E il M5S li ha presi male. Tanto che il capo politico reggente, Vito Crimi, rialza subito il muro: “Il Movimento resta contrario, è uno strumento inidoneo e pericoloso”. Tradotto, la maggioranza sul fondo salva-Stati è spaccata come una mela, e il fossato tra Pd e M5S continua ad allargarsi.

Così la linea del presidente del Consiglio Giuseppe Conte è sempre più quella di evitare una votazione in aula sul Mes da qui a metà mese, per arrivare almeno fino a settembre, il mese delle urne multiple con Regionali, Amministrative e referendum sul taglio dei parlamentari. Perché il premier nutriva e nutre molti dubbi sullo strumento, certo. Ma soprattutto per un dato di cui a palazzo Chigi sono perfettamente consapevoli: in Parlamento non ci sono i numeri per approvare il fondo salva-Stati.

Impensabile farcela, con un Movimento dove gli irriducibili anti-Mes potrebbero essere decine, e nel quale si attende a breve un nuovo smottamento in Senato, dove i giallorosa hanno già perso la maggioranza assoluta. Due o tre senatrici del M5S sono ormai considerate “corpi estranei”, per dirla come gli stessi grillini, e infatti Matteo Salvini è lì ogni giorno a tendere le braccia ai possibili nuovi arrivi, pronto ad accogliere gli stessi eletti che, raccontano, settimane fa aveva snobbato. “Non potremmo mai reggere un sì al Mes”, ripetono allora vari grillini di governo. E anche un moderato come il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli lo dice ad Affaritaliani.it: “La posizione del Movimento non cambia”. Eresia per il Pd, che tramite il vicecapogruppo alla Camera Michele Bordo accusa: “Rimanere fermi significa solo essere miopi e irresponsabilmente ideologici”. E siamo quasi agli stracci. Ma dietro al rumore ci sono le analisi. Perché Zingaretti è andato così dritto pur conoscendo lo stato delle cose e dei numeri nella maggioranza? “I fondi del Mes andrebbero alla Sanità, cioè alle Regioni”, ricordano i 5Stelle. Cioè potrebbero essere già rivendicati dai governatori uscenti dem, alle prese con le elezioni di settembre. Quelle Regionali da cui potrebbe dipendere anche il destino di Zingaretti come segretario del Pd: assediato dagli amministratori del Nord (Giorgio Gori, Stefano Bonaccini), quindi decisosi a porre le sue condizioni anche per ricompattare i suoi, presentandosi come un leader che batte i pugni sul tavolo. Non è un caso che il vicesegretario Andrea Orlando, da settimane in rotta con il governatore del Lazio, vada (moderatamente) a sostegno: “La posizione del Pd sul Mes è quella di Zingaretti”. Mentre il presidente di Italia Viva, Ettore Rosato, è comunque caustico: “Fa piacere che anche il Pd si sia accorto di quanto queste risorse siano necessarie al nostro Paese…”.

Di certo punti di caduta all’orizzonte non se ne vedono. Lo conferma un ministro del M5S: “Potremmo accettare il Mes solo se sospendessero l’articolo 5 delle linee guida del trattato”. Ossia quello che prevede le condizionalità. Utopistico. Mentre è reale l’intenzione di Palazzo Chigi di scavallare il baratro facendo votare al Parlamento un documento incentrato sul Recovery Fund in vista del Consiglio europeo del 17 e 18 luglio, dove il fondo salva stati non dovrà essere menzionato. Ma a questo punto è legittimo chiedersi se i dem accetteranno il compromesso. Mentre è scontato che le opposizioni presenteranno mozioni di disturbo sul Mes, per provocare falle nella maggioranza. Nell’attesa oggi è previsto l’ennesimo vertice dei giallorosa, incentrato sul dl semplificazioni. La bozza affiorata ieri, con l’abolizione delle gare per gli appalti fino ai 5 milioni di euro, ha suscitato mal di pancia nel M5S. Un nodo di cui ministri e sottosegretari grillini hanno discusso ieri sera in una riunione. Per cercare vie d’uscita.