Mes o non Mes dieci ragioni per evitare la trappola

Il segretario del Pd ha esposto in una lettera al Corriere della Sera i motivi per cui l’Italia dovrebbe ricorrere al Mes, il Meccanismo europeo di stabilità. Dieci motivi molto specifici per utilizzare quei 36 miliardi circa che il Mes mette a disposizione dell’Italia entro il 2022, con una “linea di credito rafforzata”, Eccl, denominata Pandemic crises support. Si va dall’investimento nella ricerca alla digitalizzazione del settore sanitario, dalla medicina territoriale al miglioramento di ospedali e strutture sanitarie, oltreché aumentare gli stipendi del personale. Zingaretti, però, fa finta di non sapere che quei fondi non sono gratis e non tanto perché hanno un costo, ma perché sono inseriti in una cornice ben precisa, delineata dalle regole della Ue. Con l’obiettivo di darsi un profilo si allinea a un europeismo di maniera che al momento ha un unico obiettivo: costringere il M5S, e Giuseppe Conte a cui non è stato anticipato il testo della lettera, a subordinarsi al quadro politico europeo. Non che Conte non abbia già fatto molto in quella direzione, in fondo l’elezione di Ursula von der Leyen è anche merito suo, ma qui si vuole una resa totale. Eppure di motivi per non cedere a questa richiesta ce ne sarebbero molti.

1. Non è vero che mancano le condizionalità

Sull’assenza di condizionalità c’è un ritornello al limite della molestia. Se non bastasse l’articolo 136 del Trattato di funzionamento dell’Unione europea, deciso dal Consiglio europeo del 25 marzo 2011 e poi approvato l’anno successivo – “La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità” – basterebbe rileggersi il Trattato istitutivo del Mes: in base all’articolo 14, per un Paese non finanziariamente solido si prevede la linea di credito “rafforzata”, Eccl che nelle linee guida (Guideline on Precautionary Financial Assistance) prevedono all’articolo 5 “una sorveglianza rafforzata da parte della Commissione Ue”. Questi documenti non sono mai stati menzionati né si prevede di modificarli.

2. Il Mes non è un fondo salva-Salute

L’Eurogruppo ha adottato una decisione per la concessione della Eccl finalizzata alla crisi pandemica e sottoposta a precise e ben elencate spese sanitarie, “dirette o indirette”, e questo è vero. Ma il Mes è rimasto quello che è, un trattato intergovernativo che permette a un organismo sovranazionale di funzionare come una banca. Che presta soldi per riaverli indietro. Da questo punto di vista, si potrebbe tranquillamente dire che la condizione relativa alle spese sanitarie non è sostitutiva delle altre condizioni, ma è semplicemente aggiuntiva.

3. La Commissione non può garantire di più

Nella lettera con cui i due commissari europei, Paolo Gentiloni e Valdis Dombrovskis, hanno dovuto assicurare che la “sorveglianza rafforzata” deve essere “semplificata”, i due commissari si sono riferiti al Regolamento 472/2013 del Consiglio europeo che prevede, appunto, le condizioni di una sorveglianza a seguito dei prestiti del Mes. Ma non si sono mai riferiti né al 136 del Tfue né, tantomeno, al Trattato istitutivo del Mes. Che restano saldamente in vigore.

4. Perché non può esistere un Mes light?

Con queste premesse è comprensibile capire perché ricorrere al Mes presenti dei rischi: perché le caratteristiche del Trattato che lo regola sono tutte in piedi. Paragrafo 2 delle premesse: c’è il chiaro rinvio all’articolo 136 che prevede la “stretta condizionalità”; paragrafo 4: La “stretta osservanza” del quadro della Ue, della sorveglianza macro-economica, del Patto di stabilità “dovrebbero rimanere la prima linea di difesa contro la crisi di fiducia che incide sulla stabilità dell’area euro”. Articolo 12: “Ove indispensabile, per salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso e dei suoi Stati membri, il Mes può fornire a un proprio membro un sostegno alla stabilità, sulla base di condizioni rigorose commisurate allo strumento di assistenza finanziaria scelto. Tali condizioni possono spaziare da un programma di correzioni macroeconomiche al rispetto costante di condizioni di ammissibilità predefinite”.

5. La natura del Mes: garantire la stabilità

Come si vede da queste citazioni, la parola chiave del Mes è “stabilità” non “solidarietà”. E infatti l’introduzione del Mes nel Tfue non ha utilizzato, magari modificandolo, l’articolo 122 che parla di “spirito di solidarietà tra gli Stati membri”, ma ha introdotto un articolo nuovo che ritiene indispensabile “salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme”.

6. Il senso politico dell’articolo 136 del Tfue

Non è un caso che nel discutere di Recovery fund e degli “eurobond” che gli sono sottintesi, si faccia riferimento proprio al 122 Tfue. Se le intenzioni fossero davvero quelle che vengono espresse ripetutamente e in tutte le salse, perché non si modifica il trattato del Mes e lo si trasforma in un organismo che, in uno “spirito di solidarietà”, punti a emettere bond europei che servano ai Paesi che ne hanno bisogno?

7. Il ricorso al Mes non riduce il debito

In realtà neanche questo sarebbe risolutivo, perché anche in assenza di “strette condizionalità” – quando si tratta di prestare denaro qualche condizione deve essere sempre prevista – si gonfierebbe comunque il debito pubblico. Per ora il Patto di stabilità è sospeso, ma che succederà quando sarà riattivato? E come si comporterà il Mes di fronte alla difficoltà economica di un Paese come l’Italia? Il problema della condizionalità non è tanto un ostacolo per accedere al Mes, ma un problema per il dopo, quando la crisi sarà magari superata e all’Italia sarà richiesto di rientrare, sia pure nell’arco di dieci anni.

8. Al Mes non ci ricorre nessuno, chissà perché

Questo punto è stato spiegato proprio sul Fatto Quotidiano da un testimone d’eccezione, Emanuele Felice, responsabile economico del Pd: “Il Mes è senza condizioni e a tassi di interesse molto bassi – spiegava – ma il problema è che se lo chiediamo solo noi si può creare un ‘effetto stigma’ sui mercati che può far salire il tasso sul resto del nostro debito. Così è difficile dire se ci guadagniamo”. Infatti, la Spagna non ha intenzione di farvi ricorso e anche Portogallo e Grecia hanno fatto sapere di non averne l’intenzione. Saremmo solo noi: stigma assicurato.

9. Il Mes è un creditore senior, come il Fmi

Anche questo punto in genere è sottovalutato, ma come si evince sempre dal Trattato del Mes “i capi di Stato e di governo hanno concordato che i prestiti del Mes fruiranno dello status di creditore privilegiato in modo analogo a quelli del Fmi. Tale status produrrà i suoi effetti a decorrere dall’entrata in vigore del presente trattato”. Avere un creditore senior abbatte, automaticamente, la credibilità del debito residuo per cui è ipotizzabile che i tassi di interesse per un debito che non è privilegiato possano salire.

10. Caro Mes, ma quanto mi costi?

I prestiti Mes sono costati a Cipro lo 0,76 per cento. Le tabelle ufficiali, complicate, paralno di tasso base, commissioni e una tantum per circa lo 0,2%. Secondo il sito del Mef, “l’andamento del tasso medio ponderato di interesse dei titoli di Stato domestici calcolato sulla base dei rendimenti lordi all’emissione fra il 2018 e il 2019 è passato dall’1,07 per cento allo 0,93 per cento”.

Il risparmio sembra essere di 270 milioni l’anno. Davvero vale la pena?

Nuovo condono e niente gare sui miniappalti: lite sul decreto

Giuseppe Conte punta ad approvarlo in settimana, giovedì. Ma la partita non è semplice, visto che la bozza di lavoro, elaborata a Palazzo Chigi e fatta trapelare alla stampa, è bastata a scatenare i malumori nella maggioranza. S’intende il cosiddetto “decreto Semplificazioni”, il provvedimento a cui il governo e il premier hanno affidato il compito di “sbloccare” e “sburocratizzarre” gli appalti pubblici, nell’idea, per la verità tutt’altro che nuova, che da qui passi la ripresa dell’economia italiana.

Al momento circola solo la relazione illustrativa del provvedimento (che consta a oggi di 48 articoli). La parte più rilevante, e per molti versi dirompente, riguarda gli affidamenti. Senza entrare nei tecnicismi, la sintesi è che – almeno per un anno, fino al 21 luglio 2021 – il decreto di fatto elimina le gare nel settore degli appalti pubblici. Per quelli di importo inferiore a 150 mila euro ci sarà l’affidamento diretto, oltre quella cifra e fino a 5 milioni (la cosiddetta “soglia europea”, che però fa il 75% del mercato) si passa alla “procedura negoziata” consultando almeno cinque operatori: la stazione appaltante negozierà direttamente con le aziende. Sopra quella soglia resta sempre la procedura ristretta o negoziata, ma regolata dal codice degli appalti. Per un anno diverrà la procedura prioritaria, tanto più che le stazioni appaltanti dovranno giustificare il motivo per cui decidono di ricorrere alla gara invece che andare a negoziare direttamente con le aziende. Il decreto prevede anche che Palazzo Chigi emani uno o più decreti legislativi per stilare un elenco di “opere di rilevanza nazionale” considerate prioritarie: per queste i tempi saranno abbreviati e le stazioni appaltanti “opereranno in deroga a ogni disposizione di legge diversa da quella penale, salvo il rispetto del codice antimafia”. Qui, in sostanza, si è al “modello Genova”, quello scelto per ricostruire il ponte dopo il disastro del Morandi e oggi previsto dal decreto “sblocca cantieri” dell’aprile 2019 voluto dall’allora ministro Danilo Toninelli attraverso i commissari straordinari che operano in deroga a tutto. Il nuovo decreto modifica i criteri per stabilire quali sono le opere da commissariare.

Il testo contiene anche diverse semplificazioni, dal silenzio assenso alla Valutazione degli impatti ambientali (Via), alle conferenze dei servizi fino alla digitalizzazione degli atti. Ma è sugli appalti che l’effetto sarà dirompente. In un settore che vale 170 miliardi l’anno (30 di spesa effettiva), e dove i colossi sono falcidiati da inchieste o fallimenti, si sospendono le gare. Non è un caso che il decreto cerchi di limitare le responsabilità dei dirigenti pubblici: chiarisce che il dolo (una responsabilità pesante, perché volontaria) “va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non civilistica”; mentre per un anno la colpa grave non varrà, ai fini della responsabilità erariale, sulle azioni dei dirigenti ma solo sulle “omissioni” per ridurre i tempi degli atti. Viene rivisto anche il reato di abuso d’ufficio.

Per ora siamo alle bozze. Oggi si terrà un vertice di maggioranza. Il Pd è contrario all’eliminazione totale delle gare, anche perché non è chiaro quanto sarà temporanea. I 5Stelle sono divisi. Lo Stato maggiore vuole estendere ovunque il “modello Genova”, ma molti parlamentari temono la deregolamentazione. Per Liberi e Uguali è un testo “inaccettabile”, ha spiegato la senatrice Loredana De Petris: “Dietro l’alibi della semplificazione non possono nascondersi passi indietro sulla tutela dell’ambiente, deregolamentazioni sul consumo di suolo o sanatorie”. Angelo Bonelli dei Verdi denuncia infatti che all’articolo 10 si nasconde un “condono vergognoso” per gli immobili edificati abusivamente che risulteranno conformi ai piani regolatori alla data di presentazione della domanda di sanatoria. Basta una variante urbanistica del Sindaco per evitare la demolizione. Una norma analoga voluta dalla Sicilia nel 2016 è stata bocciata dalla Consulta nel 2017, su ricorso del governo Renzi, in quanto “surrettizio condono edilizio”.

Giravolta “Espresso”: con la Casta contro la riduzione dei seggi

A guardarsi allo specchio, alla volte, può capitare di non riconoscersi. Gli appassionati dell’Espresso, lo storico settimanale fondato da Eugenio Scalfari e Arrigo Benedetti, avranno nelle immagini di questa pagina materiale buono per tentare l’esperimento, liberi poi di dar colpa all’età o magari alla nuova acconciatura.

Certo è che fa impressione come proprio l’Espresso, cugino ribelle del gruppo che una volta portava il suo nome, abbia cambiato atteggiamento nei confronti della politica, dei suoi costi e dei suoi sperperi: un tempo censore a suon di inchieste su vitalizi, pensioni d’oro e onorevoli strapagati, oggi oppositore al referendum sul taglio dei parlamentari e strenuo difensore di ognuno dei 945 scranni.

Nuovo corso. La linea l’ha data l’altro giorno il direttore Marco Damilano, ora che l’affievolirsi dell’emergenza Covid consente di tornare a parlare anche della riforma, già approvata in Parlamento, che riduce da 630 a 400 i deputati e da 315 a 200 i senatori. Damilano ha le idee chiare e smentisce la tesi secondo cui in tempo di crisi si possa recuperar denaro sforbiciando i costi della politica: “È un falso, questo è il tempo sbagliato. E per questo bisogna parlarne fin da ora”. Secondo il direttore, “la crisi post-Covid richiede più politica e quindi più Stato. In tutto l’Occidente la risposta va nella direzione di un rafforzamento delle istituzioni, solo in Italia lo Stato è uscito smantellato”.

E allora “il Parlamento già estenuato è alla vigilia di un referendum che mira a sgretolare un altro pezzo di quel poco di prestigio che ancora rimane alle Camere”.

Tempi andati. Fermi tutti, verrebbe da dire, ci eravamo sbagliati. O perlomeno si era sbagliato l’Espresso in tanti anni di storia, perché da sempre il settimanale aveva fatto della lotta alla “casta” una battaglia identitaria. Basta scorrere qualche copertina: “Casta per sempre” (2016), “Gattopardi di provincia” (2015, per denunciare gli sprechi locali), “Un privilegio da 200 milioni” (2011, sulle pensioni dei parlamentari), “Tre miliardi di euro ai partiti” (2010), “Onorevole si dia un taglio” (2007) e così via. Segno di un indirizzo editoriale chiaro, di denuncia rispetto ai privilegi della politica e ai costi dei Palazzi.

Imbarazzo condiviso. Beninteso: essere contrari alla riforma odierna sul taglio delle poltrone è legittimo, quel che stride è il confronto con il passato. Anche perché l’Espresso ha sempre rivendicato la propria autonomia editoriale e stilistica rispetto al gruppo (oggi Gedi, maggioranza Exor, famiglia Agnelli-Elkann) mentre in questo caso il settimanale e i principali quotidiani potrebbero ritrovarsi in piena sintonia. Anche nel caso di Repubblica, però, non sfuggirà un certo imbarazzo: nel 2007 il vicedirettore Sergio Rizzo (all’epoca al Corriere) scrisse insieme a Gian Antonio Stella il celebre La Casta, epitome giornalistica di tutti i peggiori sprechi di denaro pubblico della politica, dai portaborse in famiglia ai mille uffici inutilizzati a carico dei contribuenti. Acqua passata? Il rischio è che rimanga soltanto l’effetto Amarcord, proprio come per i caratteri urlati delle vecchie copertine del settimanale.

Addio Palazzo Grazioli, regno della satiriasi di B.

Addio Palazzo Grazioli. Silvio lascia, se ne va. La prossima residenza romana sarà la villa sull’Appia Antica che il Cavaliere aveva regalato a Franco Zeffirelli. Ora che il regista è scomparso e la sua splendida magione ristrutturata, Berlusconi ne riprende possesso. Un angolo verde di Roma, riparato, lontano dal centro, dai palazzi, dal potere: è il rifugio scelto per il crepuscolo.

Silvio si toglie un peso economico, per lui in fondo davvero modesto: i 40mila euro al mese dell’affitto in via del Plebiscito, suo domicilio romano dal lontano 1996, a tre minuti da Palazzo Chigi e metà strada tra i marmi dell’Altare della Patria e il profilo austero del Collegio romano dei gesuiti.

Una spesa in meno, certo, ma Berlusconi taglia soprattutto un pezzo di sé, della storia sua e di uno sciagurato ventennio italiano.

Il bell’articolo di Mario Ajello sul Messaggero racconta alcuni scenari fondamentali di Palazzo Grazioli: i corridoi damascati, i salottini, il divanetto dove si addormentava Paolo Bonaiuti quando Berlusconi tirava tardi, il “piano nobile in cui Putin lanciava la pallina a Dudù”, la stanza con la televisione e l’albero di Natale alto due metri di Swaroski, la sala da pranzo chiamata “lo scannatoio” per le tremende faide sui destini e le candidature di Forza Italia.

Tutto bellissimo, ma in questo ritrattone della reggia romana di B. manca il vero motivo della sua immensa, decadente leggenda. Ci si conceda una licenza vernacolare: le mignotte. Perché Palazzo Grazioli è questo, l’affresco e la cornice di una storia incredibile: di un uomo che per due decenni ha provato a tenere in mano da solo un intero Paese, per brevi tratti riuscendoci pure, e poi ha perso tutto (o quasi) per la cronica, imbarazzante, maniacale incapacità di controllare la passione per la fessa, il sesso femminile.

E quindi la fuga di Berlusconi dalla sua iconica residenza romana è l’addio a quella vita da thriller porno-fanta-politico: il lettone di Putin, il bagno dove le scosciate ospiti delle cene eleganti si fotografavano sorridenti allo specchio, le stanze dove ai capi di Stato si alternavano i Tarantini, i Lavitola, gli Apicella al pianobar; gli infiniti aneddoti sulla satiriasi del Cavaliere.

Palazzo Grazioli era la casa delle “torte”, come si sente in un’intercettazione. Più prosaicamente: le orge. Secondo l’inchiesta di Bari, le giovani professioniste che accedevano liberamente al palazzo del potere erano 19. Dovevano essere, secondo le raccomandazioni raccolte da Tarantini, “bellissime, giovani, molto professionali e consapevoli della necessaria riservatezza”. Lavitola invece ricorda una rubrica fissa di 23 fanciulle e racconta ancora con un certo sgomento che B. si premurava personalmente che le ragazze non fossero perquisite: “Immaginate cosa significava per la sua sicurezza personale”.

Preoccupazione condivisa dalla corte di berlusconiani che avevano annusato l’aria di Palazzo Grazioli. Tanto che nel 2009 Fabrizio Cicchitto e altri dirigenti del Pdl avviarono un’indagine interna al Copasir per sapere quale protezione fosse riservata al premier nelle sue residenze private, facendo arricciare le sopracciglia a Gianni Letta.

In questo senso la first lady di Palazzo Grazioli, più che l’ex compagna Francesca Pacale, deve essere considerata l’escort barese Patrizia D’Addario. Sono teneri i ricordi delle sue vacanze romane: “Per tutta la notte mi sono intrattenuta con lui (Lui, ndr), consumando sia rapporti intimi che parlando ininterrottamente, nonostante avessi sonno”. Era il 4 novembre 2008, data storica: Barack Obama diventava presidente degli Stati Uniti. “Berlusconi era stato invitato alla cena in ambasciata americana, ma il presidente declinò l’invito dicendo che aveva la febbre per stare con noi. Poco prima aveva lasciato in tutta fretta il presidente Napolitano, sempre per raggiungere noi: me, Barbara Montereale, Lucia Rossini e Gianpaolo Tarantini”. Sul leggendario lettone di Putin – testimoniò con dolcezza D’Addario – “avemmo rapporti, parlammo a lungo e lui mi dedicò anche delle poesie”.

La scuola dei leghisti nel club degli “amici” dei boss calabresi

Parlare di politica e futuro dell’Italia in casa di chi è ritenuto vicino alla ’ndrangheta. Un brutto inciampo per la Lega di Matteo Salvini, che due giorni fa ha tenuto l’ultimo atto della propria scuola di formazione politica nei locali dello Sporting Club di Milano 3, struttura costruita negli anni 80 da Silvio Berlusconi e gestita oggi dalla famiglia calabrese degli Stilo, i cui rapporti con personaggi legati alla cosca Mancuso sono illustrati dalle annotazioni del Ros. Gli atti fanno parte di un fascicolo della Procura di Milano chiuso nel settembre scorso con diversi arresti in relazione a fatti corruttivi in alcuni Comuni dell’hinterland. Tra le varie informative ve ne sono alcune che spiegano i contatti tra Francesco Giuseppe Stilo, detto Pino, con l’entourage di uno dei clan più potenti della Calabria. Per questo lo stesso Stilo sarà indagato per mafia dalla Dda di Milano e successivamente archiviato. Nonostante ciò, restano nero su bianco i suoi rapporti con personaggi del clan di Limbadi, in particolare con l’ala che fa riferimento al boss Pantaleone Mancuso detto Scarpuni.

All’ultimo atto della scuola di formazione nei locali dello Sporting affittati e regolarmente pagati dal partito, c’erano quasi tutti i big della Lega. A partire dal segretario Matteo Salvini, salito sul palco per salutare i corsisti arrivati da tutta Italia pagando un gettone di 500 euro l’uno. Ci risiamo, dunque. Perché dopo l’abbraccio al capo della curva del Milan Luca Lucci (era il 2018) che aveva appena patteggiato una condanna per droga, ora il Capitano presenzia a un evento del suo partito organizzato in un luogo da anni nel mirino dell’Antimafia di Milano. Oltre a lui, c’era l’ex sottosegretario leghista del ministero Infrastrutture e Trasporti, già indagato a Milano per autoriciclaggio, Armando Siri, ideatore della scuola di formazione promossa da Salvini. E del resto il senatore Siri conosce bene Milano 3. Il 9 ottobre 2018 fu visto uscire dallo Sporting. “Ero lì per un massaggio”, spiegò allora al Fatto. Presenti domenica anche il deputato locale del Carroccio Luca Toccalini, e Andrea Crippa, deputato e coordinatore dei Giovani della Lega, ben dentro al cerchio magico di Salvini e da circa un anno vicesegretario del partito. A moderare gli interventi, il vicedirettore di Libero. Il nome degli Stilo è legato prima di tutto alla società Ausengineering, oggi chiusa, che vinse un appalto per la sicurezza in Expo. Il Prefetto allora decise per l’interdittiva antimafia poi annullata dal Tar, ma confermata dal Consiglio di Stato. Ex amministratore era Pasquale La Rocca, fratellastro di Pino Stilo, anch’egli, secondo il Ros, in contatto col clan Mancuso. Da questo antefatto riparte la Procura. Nel mirino finisce Pino Stilo, che assieme ai suoi figli gestisce lo Sporting e altre società. Il vero titolare è il figlio Emanuel, incensurato, ma, stando alle carte giudiziarie, Pino Stilo risulta “il dominus di tutte le società facenti formalmente capo ai tre figli”. Dei fratellastri Stilo e La Rocca scrive il Ros: “Le acquisizioni hanno evidenziato collegamenti tra i due fratellastri e soggetti appartenenti o contigui alla cosca Mancuso”.

Stilo, intercettato, elenca i locali gestiti dalla cosca. “In questo modo – scrive il Ros – dimostra di essere aggiornato su questioni riservatissime e illegali riguardanti i Mancuso a cui, di norma, hanno accesso esclusivo solo i membri del sodalizio ’ndranghetistico”. Contatti con persone vicine ai boss, ma anche amicizie nel mondo dell’imprenditoria e della politica lombarda. Certificati i rapporti tra Stilo e Norberto Achille, ex presidente di Ferrovie nord già condannato per peculato in un’altra indagine. Il Ros definirà Achille (mai indagato) “socio occulto” dello Sporting. Qui, durante le feste di Natale, si è visto Paolo Berlusconi con Emanuel Stilo. Qui nell’ottobre 2018 è passato il fratello Silvio. Le intercettazioni hanno svelato poi i rapporti di Pino Stilo con Bruno Caparini, tra i fondatori della Lega e padre dell’assessore regionale al Bilancio Davide Caparini. Affinità elettive, dunque. Tra quella parte di Calabria vicina ai clan e la Padania leghista.

 

“Caciosciacallo”: solo fischi e insulti all’intruso Salvini

“Buffone, sciacallo, sei peggio del Covid, tornatene al Nord”. Insulti d’ordinanza già ascoltati in passato. Stavolta, però, c’è stato un epiteto originale, un omaggio alle tradizioni casearie del luogo: “Caciosciacallo”. E così finisce prima di cominciare l’annunciato comizio di Matteo Salvini a Mondragone (Caserta). Il leader della Lega, venuto nel Casertano a soffiare sul fuoco delle tensioni tra i residenti e i braccianti della comunità bulgara dove si acceso un focolaio di coronavirus, viene travolto dalle urla e dai fischi dei contestatori. Tra i quali forse si annidavano gli autori del taglio dei fili elettrici del sistema di amplificazione. “Non sapevo che per venire a Mondragone servisse l’ok dei centri sociali”, lamenta l’ex ministro dell’Interno ai piedi del gazebo improvvisato all’esterno dei palazzi ex Cirio, la mini zona rossa istituita dopo la scoperta del focolaio Covid.

Ieri l’unità di crisi della Regione Campania ha comunicato l’emersione di altri 23 positivi a Mondragone “comprensivi di tutti i collegamenti ricostruiti, scaturiti dai tamponi effettuati nelle aree circostanti”, si legge nella nota. La situazione, dunque, parrebbe sotto controllo. Il focolaio però non è ancora spento, come sostenevano ottimisti i fan del governatore Vincenzo De Luca, il cui lanciafiamme pare un po’ spento, già dalla notte della vittoria del Napoli in Coppa Italia. I 23 nuovi casi mondragonesi si vanno ad aggiungere ai 44 scoperti nei giorni scorsi, dopo due giorni a contagi zero in Campania e uno solo riportato nel bollettino di ieri.

Protetto da un cordone di poliziotti in tenuta antisommossa, che a colpi di manganello hanno provato a scoraggiare i manifestanti (uno dei quali è stato ferito ed ha perso sangue), Salvini ha parlato solo due minuti, arrendendosi quasi subito alla protesta. “Ma se pensano di spaventarmi con violenza e minacce, non mi conoscono: tornerò, tornerò e tornerò, finché non avremo ridato pace alle persone perbene”, ha promesso a margine del comizio saltato. L’ex ministro si ritiene vittima “della violenza dei centri sociali contro Lega, poliziotti, giornalisti e cittadini perbene”. Poi ha incontrato alcuni residenti italiani del quartiere ex Cirio. Infine si è allontanato verso luoghi più tranquilli: uno stabilimento balneare per un aperitivo elettorale e un incontro con politici e militanti leghisti, per finire con una cena al ristorante bio con tanto di torta in suo onore. I primi passi della campagna: in Campania si vota a settembre e il candidato governatore del centrodestra, l’azzurro Stefano Caldoro, si presenta oggi alla stampa in un albergo del centro direzionale di Napoli. Salvini gli ha dato via libera dopo averlo avversato fino all’ultimo, chiedendo in cambio un passo indietro dei nomi più chiacchierati di Forza Italia. È stato accontentato: proprio ieri Armando Cesaro, il capogruppo imputato di voto di scambio e figlio del plurindagato senatore Giggino Cesaro, ha annunciato che non si ricandiderà, nonostante Berlusconi in persona, dice, lo avesse invitato a ripresentarsi.

Ma a chi gli chiedeva se parteciperà alla conferenza di Caldoro, sapendo che Salvini è in Campania anche stamane e potrebbe in teoria fare capolino nella hall, ha risposto polemicamente: “A patto che non ci sia anche Salvini. Se lui non gradisce me, vale lo stesso al contrario”. Salvini gli replica in serata: “Armando Cesaro non si ricandida? Bene così”. Ma non andrà a benedire Caldoro: “Ci saranno i coordinatori regionali”.

Puglia e Marche: Meloni vuol fare Miss Regionali

L’unica speranza di intestarsi la vittoria e confermare la sua leadership nella coalizione di centrodestra è che a Matteo Salvini riesca l’impresa più grande. Altrimenti per lui le Regionali di settembre saranno un bagno di sangue. Ma far eleggere la sua Susanna Ceccardi in Toscana è più che altro una mission impossible e non solo perché i sondaggi sono nefasti.

La battaglia ricorda molto da vicino quella combattuta appena pochi mesi fa in Emilia-Romagna in cui il presidente Stefano Bonaccini è venuto giù a valanga travolgendo la candidata del Carroccio, Lucia Borgonzoni, senza nemmeno bisogno dell’aiutino 5stelle. Che non hanno aiutato il governatore del Pd, ma nemmeno lo hanno danneggiato più di tanto: Bonaccini ha fatto da sé strapazzando l’aspirante governatrice, che una volta sconfitta ha pure rinunciato a entrare in consiglio regionale preferendo mantenere il seggio al Senato. “In Toscana, la Lega non vince nemmeno se Salvini si attacca ai campanelli di tutta Firenze” gongola qualcuno in Forza Italia, che ricorda la performance del Capitano in campagna elettorale a Bologna quando prese a citofonare a un presunto spacciatore a favore di telecamere.

Certo, il partito di Silvio Berlusconi ha poco da ridere: Giovanni Toti in Liguria, è vero, sarà probabilmente rieletto. Ma la corsa di Stefano Caldoro contro Vincenzo De Luca in Campania è tutta in salita. Specie ora che Armando Cesaro, figlio del ras azzurro Luigi, ha fatto un passo di lato: non si candiderà (nonostante nel 2015 sia stato il più votato a palazzo Santa Lucia) dopo che Salvini ha messo un veto sul suo nome. Farà campagna elettorale comunque – promette –, ma l’entrata a gamba tesa nei suoi confronti da parte del leader del Carroccio a cui Silvio Berlusconi non ha saputo resistere, non l’ha digerita. “Salvini fa il suo gioco, non mi voleva perché pensa di racimolare qualche voto in più”, si sfoga l’erede di Giggino ’a purpetta, indignato con lui al punto che laddove Caldoro dovesse spuntarla salirà sul palco a festeggiarlo. Ma a patto che su quello stesso palco non ci sia anche Salvini. Che non ama Caldoro e men o che mai Francesco Acquaroli e Raffaele Fitto di Fratelli d’Italia, che tenteranno di conquistare rispettivamente Marche e Puglia.

Fino all’ultimo istante ha tentato di mettere in discussione con gli alleati del centrodestra le candidature nelle due regioni che sono più contendibili al centrosinistra. Cercando di piazzare due nomi leghisti anche al prezzo di sacrificare Ceccardi in Toscana. Perché se davvero al centrodestra riuscisse di detronizzare Michele Emiliano in Puglia e battere Maurizio Mangialardi nelle Marche, la vittoria sarà più che altro di Giorgia Meloni. Salvini, insomma, resterebbe a bocca asciutta: gli resterebbe di rallegrarsi per il risultato scontato in Veneto di Luca Zaia, che vince da sé. Senza bisogno del Capitano e dei suoi tour elettorali a base di selfie e bagni di folla dati in pasto alla Bestia social del fedelissimo Luca Morisi. Conti alla mano le Regionali potrebbero ridimensionare Salvini.

Lo sanno anche i suoi alleati che infatti possono permettersi il lusso della generosità che si riserva a chi non sta messo bene: “Sarà una vittoria della coalizione e non di FdI”, ripetono dal cerchio magico di Giorgia Meloni che ha il vento in poppa e lo sa: di schermaglie col Capitano non vuole nemmeno sentirne parlare. A lei basterà tenerlo a cuccia con gli strumenti che maneggia meglio: azzeccare i candidati e tenere il punto sulle battaglie che la rendono riconoscibile. A suon di comizi più che bagni di folla salviniani. A ottobre dello scorso anno il suo “io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana” ha spaccato. Sul palco di San Giovanni c’era pure Matteo Salvini. Ma non se lo ricorda nessuno.

 

I Mes-tatori

Quest’anno, in mancanza del giallo dell’estate (tipo il delitto della contessa Alberica Filo della Torre), della hit dell’estate (tipo Vamos a la playa) e del gioco dell’estate (tipo il frisbee), partiti e giornaloni al seguito han deciso di trastullarsi col Mes, il Meccanismo europeo di stabilità che, per quanto pallosissimo, è insieme un giallo, una hit e un gioco di società. Ciascuno, per carità, si diverte come può. Ma qui ci vanno di mezzo il governo, la maggioranza, la reputazione dell’Italia in Europa e altre questioni un po’ più serie di un passatempo da spiaggia. Infatti del Mes si parla esclusivamente in Italia: nessun altro Stato membro dell’Ue (a parte forse Cipro) intende chiederlo. Il che la dice lunga sul provincialismo italiota e sulla vantaggiosità del Mes: le condizionalità sono sparite a parole, ma nei fatti i trattati non sono cambiati; dunque è sempre possibile che chi chiede i soldi si veda poi imporre ex post di ristrutturare il suo debito sovrano secondo il graziosi diktat della Trojka. Ieri persino il segretario del Pd Nicola Zingaretti, la cui competenza e le cui competenze in materia sfuggono ai più, ha spiegato le 10 ragioni per cui l’Italia deve assolutamente accedere al Mes, e alla svelta. Pare che non si sia neppure premurato di avvertire il premier, che aveva appena ribadito le perplessità non tanto sullo strumento in sé, quanto sulla convenienza di chiederlo noi soli. E aveva spiegato che è meglio attendere le mosse degli altri partner Ue, per non restare isolati a tendere il cappello come accattoni alla fame.

Già, perché il Mes è fatto apposta per Paesi in stato prefallimentare: chi lo chiede ammette di non farcela da solo e dà un pessimo segnale ai famosi “mercati”. I mercati che due anni fa allarmavano il presidente Mattarella al punto da indurlo a invocarli esplicitamente per giustificare la mossa più incauta e incomprensibile del suo mandato: il respingimento del primo governo Conte perché aveva come ministro dell’Economia quel pericoloso terrorista anti-euro di Paolo Savona, che poi invece gli andò benissimo agli Affari europei (sic!) con il suo prediletto Giovanni Tria all’Economia. Ora evidentemente i “mercati” non esistono più. E il primo che passa per la strada, persino la Lorenzin, Bonaccini e financo l’Innominabile (manca solo Scalfarotto), dà fiato alla bocca e invoca il Mes come gli ebrei in fuga dall’Egitto la manna dal cielo. Intanto chi dovrebbe decidere (il ministero dell’Economia, come ha ricordato Conte alla Merkel), tace. E parte il solito teatrino all’italiana, con i competenti per definizione (Pd, Iv e FI) pro Mes e i barbari incompetenti (M5S, Lega e FdI) contro. Ma le cose non stanno affatto così.

Il Mes ha i suoi pro e contro (vedi pagg. 6 – 7); sarebbe meglio riuscire a farne a meno; non sarebbe scandaloso se invece alla fine fossimo costretti a chiederlo, possibilmente insieme ad altri Paesi Ue; parlarne ora è assurdo e pericoloso, perché ancora non conosciamo dettagli e dimensioni del Recovery Fund e questa batracomiomachia alla vigilia del Consiglio europeo decisivo del 17-18 luglio indebolisce il potere contrattuale dell’Italia. Come arrendersi prima di giocare la partita. Non sappiamo se Zinga, mentre scriveva il suo compitino all’insaputa di Conte, abbia informato il suo ministro e il suo viceministro dell’Economia, Roberto Gualtieri e Antonio Misiani. Ma, sia come sia, i due dovrebbero parlare. Perché furono proprio loro a dire che l’Italia non ha bisogno del Mes e non lo chiederà: non secoli fa, ma poche settimane fa. Disse Gualtieri l’11 aprile al Tg3: “Abbiamo sempre detto che il Mes non ha la dimensione adeguata per mettere in campo risorse necessarie, tra 1 e 1,5 trilioni. Ci stiamo concentrando sugli eurobond e sul fondo per la rinascita dell’Europa, abbiamo detto che non abbiamo bisogno del Mes, ma ci siamo impegnati perché offra a tutti i Paesi che ne faranno richiesta – c’erano molti Paesi interessati – delle risorse senza nessuna condizionalità. Questa è la proposta che l’Eurogruppo mette sul tavolo del Consiglio europeo, che dovrà decidere se si potrà attivare per i Paesi che fanno richiesta di questa linea di credito senza nessuna condizionalità. Ma l’Italia punta a un obiettivo più ambizioso: il fondo per la rinascita dell’Europa”. Ora quel fondo (il Recovery Fund) è realtà e i Paesi che avevano chiesto all’Italia di appoggiare il Mes anche senza chiederlo, in primis la Spagna, non lo vogliono più: perché dovremmo volerlo noi? Gualtieri ha cambiato idea e, se sì, perché?

Due giorni dopo il suo vice Misiani dichiarò a Canale5: “Non utilizzeremo i fondi del Mes” (13 aprile). Misiani ha cambiato idea e, se sì, perché? Un altro grande sponsor last minute del Mes è Carlo Cottarelli. Lo stesso che il 28 aprile scriveva su Repubblica, a quattro mani con Enzo Moavero, che – in costanza dei trattati – il rischio di condizionalità ex post è tutt’altro che scongiurato; che il Mes ci farebbe risparmiare “un punto e mezzo” sul “nostro tasso di interesse di mercato”, cioè appena “2-2,5 miliardi su sette anni”; e soprattutto che “ricercare l’ausilio del Mes potrebbe segnalare ai mercati che siamo più in difficoltà di altri; il rischio sarebbe ridotto se procedessimo insieme ad altri Stati, fra cui qualcuno di dimensione comparabile alla nostra”. Posto che nessun altro Stato intende chiederlo (tranne forse Cipro), Cottarelli ha cambiato idea e, se sì, perché?

Vita di un uomo gentile. Stan Laurel, detto “Staglio”

In Italia l’Attore/Regista Famoso (ma anche la mezza calzetta che ha fatto due film che hanno visto in sedici) ha un tempo di attenzione della durata iscrivibile tra i dieci e i quindici secondi. Poi le sue pupille si spostano a destra o a sinistra (dipende da chi inquadra dietro le tue spalle di più interessante/utile/gratificante/bona) escludendoti così dal suo panorama visivo, un nanosecondo dopo anche da quello cerebrale e chi se ne frega di quello che gli stavi dicendo. Né c’è più modo di recuperare, sei fuori, time out, puoi richiudere la bocca. O sventoli alla svelta un succoso contratto cinematografico o sei marchiato come un Trasparente. Un Trasparente appartiene a quella triste, grigia casta di paria che si chiama “gente comune” cui sorridere, firmare l’autografo dal red carpet, poi ciascuno nella casta sua, io alle feste di Sorrentino, te in tre camere e cucina.

Leggendo questa bella biografia di Stan Laurel, anzi, Staglio (fatemelo chiamare Staglio, lo chiamo così da quando avevo sei anni) quello che mi ha più fatto fare le fusa, ma non avevo dubbi, è stato scoprire che Stanlio fece reinserire il suo numero (no, dico, quello di un mito) nell’elenco del telefono perché, disse “Chiunque mi cerca per chiedermi qualcosa ha diritto a una risposta, anche di un solo minuto”. E rispondeva a ognuno, affabilmente e nonostante un ictus superato di slancio, finché il fisico glielo consentì. Non solo. Lasciò che il suo indirizzo di pensionato di una carriera stellare, un appartamento vista-mare in un hotel di Santa Monica, fosse conosciuto da tutti, comprese le guide turistiche che lo spiattellavano ai trasportati, col risultato che ogni giorno signori nessuno di tutto il mondo bussavano alla porta per conoscere l’uomo che ha fatto ridere milioni di persone; e pensa un po’, Stanlio in persona li accoglieva, e li faceva accomodare con grande gentilezza, senza seccarsi se le domande erano sempre le stesse “Come hai conosciuto Ollio?”, “Quale film dei tuoi ti piace di più?” e via adorando. Perché Stan Laurel, Staglio, possedeva la Madre di Tutte le Doti, la Salvamondo : la Gentilezza. Per dirla difficile, l’empatia verso l’altro, chiunque sia, specie se ti ama, cioè l’opposto dell’egotismo solipsista autocelebrativo, vedi righe iniziali di questa chiacchierata. Per dirla facile Staglio voleva bene al mondo e il mondo lo sentiva, l’ha sentito. Non si è amati da milioni di persone di ogni età in tutto il Pianeta solo perché hai talento comico e fantasia da riempirci vagoni, insomma sai far ridere davvero (la scrittura di Staglio, il libro ne riporta ampi e documentati stralci, non lascia adito a dubbi). Né si continua, dopo un cambio di secolo, due se ci metti l’anno di nascita, a far ridere persone di ogni età in tutto il Pianeta perché hai la bombetta storta, combini guai e hai l’accento buffo, peculiarità ben condivise dal socio/amico/fratello Oglio, onore ad Alberto Sordi). Quello che davvero continua ad emanare da questi film realizzati eoni fa e penetrati nel cuore della gente per non uscirne più è un rilassante, tenero e nostalgico (specie oggi) effluvio di gentilezza, innocenza, affetto per chi guarda (“Noi volevamo semplicemente far ridere, la gente ha tanto bisogno di ridere quanto di mangiare” dichiarò Staglio e vagli a dare torto). Né c’è il minimo sospetto di insincerità: quelle due facce sono sempre garbate perfino nelle situazioni più sgangherate, se si potesse, uno alla fine della scena entrerebbe ad abbracciarli, quei due, e a ballare con loro un ballo buffo. Raffreddando il calor bianco del mio amore incondizionato per Staglio e Oglio, che mi accorgo sta conducendo questa trattazione verso il pericoloso cratere dell’eruzione sentimentale irrefrenabile (da voi lettori condivisa, immagino, ma che proprio per questo non aggiungerebbe niente di nuovo a quello che già sapete) passerei a note più tecniche. Staglio nel libro dichiara: “Non credo esista una vita migliore che non sia quella di realizzare film comici e di stare seduti a immaginare gag e battute”. Evitando fastidiose avversative politically correct (se uno adora stare in piedi con un braccio imbottito ad addestrare cani lupo, per lui la vita migliore è quella) posso dire per esperienza personale (sostituisci “film” con “strip”) che la mente del Duo che ha divertito tutto il mondo aveva pienamente ragione. E siccome questo mi fa immodestamente sentire Staglio ancora più vicino, passo a esemplificare. Si creano mondi. Continuamente. Nella testa prima, su pellicola (o carta) dopo. È una droga, gratuita e sana. Un bel vivere, soprattutto se poi la gente apprezza, ride e fa suo. Magari uscendone, oltre che divertita, consolata delle mille rogne che ogni giorno ci rompono i coglioni. Alla fine della fiera, del libro e di queste chiacchiere, Staglio era soprattutto grande per questo, perché lui la gente ce l’aveva nel cuore, pienamente e tuttora ricambiato.

Crisi Covid, il debito non basta. Serve più Stato e tassare i ricchi

Il Presidente messicano López Obrador (Amlo), etichettato come “populista di sinistra”, si è rifiutato di cedere alle pressanti richieste del mondo imprenditoriale che invoca sgravi fiscali e contributi a fondo perduto. Amlo ha deciso di contenere il deficit all’1 per cento del Pil, memore del disastro della crisi del debito (esterno) degli anni ’80, ritenendo che gli aiuti a pioggia rischino di giovare solo ai soliti privilegiati.

La tendenza prevalente nel resto del mondo è invece quella di reagire alla recessione provocata dal Covid con massicci aumenti del debito pubblico. Negli Stati Uniti, Trump ha già varato un piano da 2,3 trilioni di dollari, parte consistente dei quali (500 miliardi) andrà a fondo perduto alle imprese; a questo dovrebbe aggiungersi un altro piano da 1 trilione di dollari per le infrastrutture. Dall’altra parte dell’oceano, la Germania guida il fronte del “rilancio” europeo con una potenza di fuoco da 353 miliardi di euro in aiuti di emergenza, 820 miliardi in prestiti garantiti alle imprese, e 130 miliardi tra tagli alle tasse e aumenti della spesa pubblica. Il fronte dell’aumento del debito ha avuto un inatteso testimonial. L’ex presidente della Bce Mario Draghi, intervenuto a marzo sul Financial Times, ha ammonito che “livelli molto più alti di debito pubblico saranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato”. Grazie al sostegno dell’ampio fronte che va da Trump a Draghi il debito pubblico mondiale ha oramai superato, relativamente al Pil, il picco storico raggiunto all’indomani della Seconda guerra mondiale.

A sostenere le economie ferite non è solo la spesa in deficit. Vi sono anche le iniezioni di liquidità delle banche centrali che dal 2008 hanno esponenzialmente aumentato i loro bilanci, comprando a man bassa titoli di debito pubblico e privato. Dal 2008 il bilancio della Bce è aumentato di quattro volte.

La spesa in deficit, e il relativo aumento del debito pubblico, è da molti identificata con Keynes. La realtà è più complessa. Il welfare europeo del Dopoguerra, in particolare quello scandinavo, è stato costruito sull’aumento della capacità fiscale degli Stati, piuttosto che sul debito. Il servizio del debito pubblico, d’altra parte, può diventare un fattore di redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto. Thomas Piketty ricorda che gli interessi pagati dal Tesoro britannico su un debito pubblico che aveva raggiunto il 250% del Pil dopo Waterloo nel 1815 hanno trasferito nel corso dell’800 il 2% annuo del reddito dalle tasche del 90% più povero della popolazione in quelle dell’1 per cento più ricco. In tempi più recenti, l’1 per cento dei più ricchi statunitensi è passato dal detenere il 16% del debito pubblico nel 1970, a detenerne il 40% nel 2010. In un mondo dove l’11 per cento della popolazione mondiale possiede l’80% della ricchezza, accumulando asset finanziari con relative cedole, interessi e capital gain, anche l’aumento dei bilanci delle banche centrali non fa che rafforzare gli stessi privilegiati, con effetti troppo deboli sul piano dell’aumento della liquidità all’economia reale.

Nell’Unione europea la spesa in deficit è oggi essenziale per evitare un massiccio impoverimento della popolazione nonché la distruzione di capacità produttiva. Ma l’aumento del debito pubblico non dovrà tradursi in ulteriore aumento della diseguaglianza. Questo implicherà una dose di inflazione sufficiente a ridurre il peso dell’indebitamento, e con ciò della capacità di condizionamento dei creditori. Ma sarà necessaria anche una tassazione delle grandi ricchezze. L’economista Garbriel Zucman ricorda che i salari medi del 50% degli americani più poveri sono inchiodati dal 1980 a 16mila dollari l’anno, mentre quelli del più ricco 0,1% sono aumentati di tre volte. Solo una tassazione adeguata potrà bloccare questa deriva verso la formazione di plutocrazie democratiche. Piani ancora più radicali prevedono, sulla scia delle ricerche di Tony Atkinson, una redistribuzione di capitale direttamente ai cittadini o allo Stato, in modo che ampie fette della popolazione possano beneficiare dell’aumento dei valori azionari drogati dalla liquidità delle banche centrali.

In un mondo nel quale si accumulano montagne di debito pubblico e di asset finanziari, i cui detentori (Wolfgang Streeck li ha definiti “il popolo del mercato”) sono in grado di condizionare i Governi, la sfida degli Stati è di ritrovare capacità di orientare lo sviluppo, garantire occupazione di qualità e di redistribuire la ricchezza e dunque potere politico. Il fardello del debito non deve gravare sulla giustizia sociale, o avrà avuto ragione Amlo a diffidare delle politiche espansive.