La petroliera “Ice Hawk” arriva poco prima dell’alba nel villaggio di Soronos, a Rodi. Porta il carburante per la vicina centrale elettrica che servirà a rifornire gli oltre due milioni di turisti in arrivo. Un’altra attraccherà accanto alla Penisola di Prassonissi, splendida riserva naturale. Questa energia non è solo inquinante, è anche molto costosa. Lo Stato greco potrebbe costruire delle condutture sottomarine e in due anni e mezzo ripagherebbe i costi di costruzione, dice Greenpeace. Oppure usare le energie rinnovabili, già molto presenti nelle isole greche e così ridurre le emissioni di Co2 del 60%. E invece, per mantenere bassi i prezzi per gli isolani, ogni anno il governo greco paga mezzo miliardo alle famiglie di armatori e petrolieri, come i Latsis e i Vardinogiannis, per trasportare petrolio in molte isole. Un sussidio che neanche la troika è riuscito a cancellare.
La Grecia non è un caso isolato: versiamo soldi agli agricoltori per usare pesticidi, scontiamo la bolletta dell’elettricità alle grandi industrie che quindi non investono in fonti rinnovabili, i camionisti spendono molto meno per il diesel che per la benzina e pagano tasse ridotte su quel poco che hanno speso. Gli aerei non pagano tasse sul carburante. Sono i sussidi alle energie fossili, retaggio di un passato in cui bisognava sostenere alcuni settori dell’economia. Oggi totalmente ingiustificati. “Uno spreco di denaro pubblico, causa di emissioni di gas nocivi e dell’inquinamento dell’aria”, dice il Segretario Generale dell’Osce, Angel Gurria. Investigate-Europe ha contato almeno 137 miliardi all’anno elargiti dai paesi europei – più Norvegia, Liechtenstein e Islanda – alle industrie fossili. Quasi quanto i 155 miliardi del bilancio europeo annuale.
I sussidi alle energie fossili sono il grande assente nella lotta per il clima, anche nel dopo lockdown. Bruxelles tenta d’imporre delle condizionalità per gli investimenti “verdi”, ma non ricorda agli Stati membri quanti miliardi potrebbero risparmiare riducendo i sussidi ai fossili. Quando Ursula von Der Leyen, neo presidente della Commissione europea, si presentò ai parlametari europei, lo scorso 11 dicembre, c’era grande attesa. A dieci giorni dal suo insediamento, l’esecutivo europeo presentava il Green Deal per il clima. “Sarà il nostro uomo sulla luna”, disse orgogliosa. Peccato che nelle 24 pagine di promesse del Green Deal, la parola “sussidi” viene citata solo in un piccolo paragrafo che ricorda come le finanze pubbliche devono essere riviste alla luce dell’urgenza climatica. Nei Piani per il Clima che ogni Stato è obbligato a mandare a Bruxelles, l’uscita dai sussidi è ignorata. Solo l’Italia pubblica la lista dei sussidi dannosi, ma senza un calendario per eliminarli. Nel 2016, i Paesi del G7 a Ise-Chima, in Giappone, dichiararono: “Rimaniamo impegnati a eliminare inefficienti sussidi per i combustibili fossili e incoraggiamo i paesi a farlo entro il 2025”. Nel 2018 l’obbligo è diventato legge europea con il regolamento sull’Unione dell’Energia. “Forse non siamo stati abbastanza espliciti nel condannare i sussidi alle energie fossili”, ha ammesso a Investigate-Europe il vice presidente Franz Timmermans, responsabile per il clima. “Lo saremo di più. Gli obiettivi climatici dell’Ue non sono raggiungibili senza abolire la promozione del consumo di combustibili fossili”.
L’Italia regala alle imprese inquinanti 18 miliardi all’anno, più di quanto versa al bilancio europeo (15 miliardi nel 2017). È al terzo posto per volume di sussidi rispetto al Pil, dopo Germania e Regno Unito e prima della Francia, (302 euro per ogni italiano). Il ministero dell’Ambiente pubblica da tre anni un catalogo dei sussidi, quelli dannosi e quelli favorevoli per l’ambiente: 594 pagine, preparate da 7 economisti che vanno a caccia di sussidi, spesso nascosti nei meandri dei bilanci. Quelli nocivi valgono 19,3 miliardi, comprese le agevolazioni per l’agricoltura. Il resto, più del 90%, va alle fossili. I sussidi che fanno bene all’ambiente restano a 15 miliardi.
Le basse royalties per l’estrazione di petrolio e gas sono tra i più grossi sussidi dannosi in Italia: solo 7% per giacimenti on-shore e 10% per quelli off-shore. Molto al di sotto delle tariffe dei paesi europei, come il 22% in Austria, il 30% in Ungheria per non parlare del 74% in Norvegia. Inoltre, se si estrae al di sotto di precise soglie, non si paga nulla. “Perdiamo ogni anno 474 milioni”, dice Katiuscia Eroe di Legambiente, che propone di portarle al 20%. Anche i canoni per gli affitti del suolo pubblico sono assai bassi, seppur il governo Conte I li abbia alzati da un misero 2,58 euro €a km2 a 64,5 euro, niente rispetto ai 3,500 €della Danimarca o agli 8,000€ della Norvegia. Il ruolo di primo piano è svolto da Eni, controllata dallo Stato, che ha il maggior numero di pozzi di produzione, 437, il 57,5% di quelli in uso nel 2018. “Lo scorso anno, Eni – aggiunge Eroe – ha stabilito il suo record di produzione di idrocarburi e ha scoperto oltre 20 mila nuovi kmq da esplorare per estrarre idrocarburi”. Nel catalogo dei sussidi inquinanti ci sono poi 1,6 miliardi di certificati gratuiti che offriamo alle industrie più energivore (cemento, alluminio, chimica) per inquinare: uno stimolo creato quindici anni fa, quando Bruxelles lanciò la borsa dello scambio delle emissioni, ETS, per scongiurare la fuga delle imprese verso i mercati emergenti. Sussidi che oggi rallentano gli sforzi delle imprese a diventare più verdi. Tra i beneficiari, Arcelor Mittal, con i suoi 72 impianti in Europa batte tutti i record: ha ricevuto dai vari stati Ue 1,7 miliardi nel 2019 per produrre CO2. In Italia, tra le top20 europee, ci sono Italcementi (249 milioni), Buzzi Unicem (209) e ENI (206). Nel catalogo del Ministero dell’Ambiente vengono riportati anche i 2,1 miliardi di garanzie pubbliche agli investimenti fossili all’estero, via l’agenzia Sace. Lo Stato garantisce affari privati altamente inquinanti con un enorme impatto sulle comunità locali. Soldi che potrebbero essere diretti verso investimenti verdi.
I trasporti giocano la parte del leone: 5,1 miliardi solo la differenza tra il diesel e la benzina alla pompa. Lo Stato aiuta anche taxi, navi e treni rimborsando il 40% della loro fattura energetica. Per non parlare degli aerei che beneficiano di una esenzione totale sul carburante. “È molto difficile eliminare certi sussidi”, spiega Pascal Canfin, presidente della Commissione Ambiente dell’Europarlamento, ricordando il movimento dei gilet gialli che ha paralizzato la Francia contro l’aumento della tassa sui carburanti.
La soluzione dovrebbe venire dall’Europa: una tassa uguale per tutti i paesi. È prevista da una direttiva del 2003 (tassa comune per l’energia, ETD) che la Commissione ha provato ad aggiornare nel 2015, ma ci vuole l’unanimità al Consiglio e molti paesi non la vogliono. “In attesa di una soluzione fiscale, l’Europa dovrebbe imporre standard e scadenze per le rinnovabili – dice Canfin – È quello che Bruxelles sa fare meglio, imporre standard nel mercato unico, per il restauro delle case, l’efficienza energetica e le auto elettriche. Questo risolverebbe in parte il problema dei sussidi”.
L’Italia è l’unico paese europeo che ci sta provando. Da febbraio, una “Commissione per la Transizione ecologica”, istituita dalla manovra 2020, studia come convertire i sussidi dannosi in verdi. Imprese e famiglie non perderebbero soldi, che però andrebbero a politiche di riconversione. Vi siedono tutti ministeri “azionisti” dei sussidi: Tesoro, Ambiente, Agricoltura e Sviluppo. “Stiamo cominciando dall’accise sul diesel – dice una fonte ministeriale – O le equipariamo ai prezzi della benzina e così finanziamo la rottamazione delle auto diesel; o diminuiamo il costo della benzina o, insieme a un aumento del diesel, incrementiamo i sussidi alle auto elettriche. Lo scopo è che le famiglie non paghino il prezzo della transizione verde”. La vice ministro dell’economia, Laura Castelli (5Stelle) ha promesso l’eliminazione di tutti i sussidi al fossile. A ottobre devono finire i lavori. Poi la parola passerà alla politica, e saranno guai.