Cuneo fiscale. Cambia il bonus Irpef: i 100 euro e chi li avrà

Da mercoledì 1° luglio viene archiviato il bonus di 80 euro e scatta il taglio del cuneo fiscale, vale a dire la differenza tra lo stipendio lordo versato dal datore di lavoro e la busta paga netta ricevuta. Sedici milioni di lavoratori dipendenti pubblici e privati con redditi fino a 40mila euro prenderanno fino a 100 euro in più al mese. È una novità prevista dall’ultima manovra che, in pratica, estende il bonus introdotto dal governo Renzi nel 2014 a 4,3 milioni di italiani in più attraverso un sistema di calcolo applicabile a seconda della fascia di reddito. Il nuovo credito, sommato a quello Renzi, costerà circa 13 miliardi nel 2020 e 15-16 nel 2021. Per il governo giallorosa, specie per il Pd, era un misura necessaria per un Paese dove la pressione fiscale è tra le più alte d’Europa (il 41, 8% contro una media Ue del 40,2%). Il beneficio andrà soprattutto alla classe media, quella che potrebbe arrivare a guadagna fino a tremila euro lordi al mese. Ancora una volta, invece, si escludono gli incapienti che non arrivano a dichiarare un reddito annuo di 8.145 euro, soglia al di sotto della quale non si applica l’Irpef.

In generale, per i redditi fino a 28mila ci sarà una busta paga più pesante, mentre tra i 28mila e i 40 mila euro scatterà un taglio delle tasse. In particolare, i redditi fino a 26.600 euro, che già ricevevano il bonus Renzi, avranno un aumento di 20 euro al mese che porterà il bonus a 100 euro mensili (80+20 euro); i redditi da 26.600 a 28mila, finora esclusi, otterranno 100 euro in più al mese; per i redditi da 28.000 a 39.999 euro è prevista una detrazione d’imposta di 600 euro progressiva: in pratica più si ha il reddito alto, più si riduce il taglio delle tasse fino. Si parte da un massimo di 480 euro annui a un minimo di 80 per azzerarsi oltre i 40mila euro di reddito. Per ottenere il bonus in busta paga non va presentata una domanda: ci pensa il datore di lavoro che svolge il ruolo di sostituto d’imposta. Meglio però fare attenzione. Se si percepiscono altri redditi oltre a quello da lavoratore dipendente (per esempio una seconda occupazione, un reddito da locazione), il bonus potrebbe dover essere restituito dopo il conguaglio in sede di dichiarazione dei redditi. In questo caso è meglio avvisare il proprio datore di lavoro in modo che il bonus non venga applicato. C’è tutto il tempo per percepirlo in una seconda fase quando si presenta il 730. Contribuente avvisato…

A2A si ferma al Tar: lo stop in Brianza porta molti guai

Succede ogni tanto che Davide sconfigga Golia o almeno che lo tenga fermo per qualche mese grazie a una sentenza del Tar. È successo venerdì pomeriggio al tribunale amministrativo di Milano in cui A2A – una multiutility da 7,3 miliardi di euro di fatturato nel 2019 – s’è vista bloccare l’ingresso nel capitale di AEB, che sta per Ambiente Energia Brianza, cioè l’azienda pubblica (al 71% del Comune di Seregno) a cui i sindaci di un bel pezzo della provincia hanno affidato in house i servizi alla cittadinanza (acqua, rifiuti, energia, eccetera) e che nel 2018 valeva ricavi per oltre 220 milioni. Scontato il ricorso di A2A al Consiglio di Stato.

Davide contro Golia, si diceva, perché l’ennesimo capitolo della guerra delle acquisizioni nel settore dei servizi pubblici al Nord viene fermato dal ricorso di due piccole imprese (la Centro servizi termici e la Depositi Carboni Bovisa) e da un consigliere comunale di Seregno (Tiziano Mariani) il cui inopinato successo al Tar avrà effetti esponenziali per A2A: in Veneto, infatti, sta provando a fare un’operazione simile con le municipalizzate di Vicenza e Verona; in Lombardia la partnership già operativa con LGH (che opera nelle province di Cremona, Pavia, Lodi e Brescia) è stata bocciata con gli stessi motivi da Tar e Autorità Antitrust. Quali motivi? Riassumendo all’osso, queste fusioni/integrazioni societarie di aziende pubbliche devono avvenire con una gara: non ci si può mettere d’accordo e basta, si deve dimostrare che quella è l’offerta migliore possibile.

Per capire serve un riassunto. A2A è una Spa quotata in Borsa, un colosso capace di produrre utili per oltre 300 milioni l’anno, nato dalla fusione delle municipalizzate di Milano e Brescia: sono i due Comuni (entrambi amministrati dal Pd con Beppe Sala ed Emilio Del Bono) gli azionisti di maggioranza col 50% più due azioni, il resto è sul mercato.

Insomma, la quota di controllo è in mano pubblica, ma la gestione è privatistica: il punto centrale è fare profitti come e dove si può, tanto è vero che A2A non disdegna di investire all’estero. Una critica, va detto, che può essere estesa a tutti i big di un settore che vale quasi il 7% del Pil ed è una sorta di bancomat garantito dalle bollette: Hera, Iren, Acea eccetera, tutte a proprietà pubblica ma a gestione privatistica.

Da qualche tempo la contesa tra i big del settore ha preso la forma di una sorta di risiko per la conquista dei territori o, meglio, delle municipalizzate che sui territori detengono gli affidamenti diretti dei servizi alla cittadinanza: l’oro dei rifiuti, il bancomat dell’acqua, etc. In questo contesto, a ottobre A2A s’è presentata ai brianzoli offrendo un accordo: in un complesso gioco societario, alla fine la Spa quotata avrebbe avuto il 33,5% delle azioni di AEB e la direzione e il coordinamento di tutte le controllate, cioè le aziende che accendono le luci in strada, ritirano i rifiuti, portano il gas a casa e via dicendo. Il 20 aprile, poi, è arrivato il via libera del Comune di Seregno, bloccato ieri dal Tar. Va detto che, al di là degli effetti finanziari, cedere il controllo della gestione a un colosso come A2A non è senza effetti come sanno bene – per non fare che un esempio – a Cremona: il sindaco aveva in programma la chiusura dell’inceneritore, ma ha dovuto rinviarla al 2029 quando A2A ha preso il controllo di LGH, l’azienda locale.

Tra i pochissimi a opporsi alla fusione in Brianza è stato il consigliere regionale M5S Marco Fumagalli, che ha anche aiutato i ricorrenti: “Finalmente un’ordinanza che blocca quelle operazioni in cui, per effetto di accordi sotto banco, si cedono quote di società pubbliche ai poteri finanziari in barba alla trasparenza. Volevano svendere la società con la scusa di farci risparmiare un centesimo al metro cubo sul gas. Questa partita era così importante che ad aiutarci sono intervenuti in giudizio anche due ex amministratori di municipalizzate venete”.

E qui si vede la dimensione del problema apertosi venerdì per A2A. Queste due persone sono Gian Paolo Sardos Albertini e Michele Croce, ex presidenti di Agsm Verona, che dovrebbe aggregarsi con Aim Vicenza e A2A in un nuovo gruppo detto Muven: Multi-utility Veneto. Sarebbe la risposta di A2A allo smacco subito sul ricco mercato del Nordest (Aim e Agsm valgono 320 milioni di ricavi) con Ascopiave, che ha deciso di stringere un accordo con Hera: si dice “sarebbe” perché le modalità di integrazione in Veneto sono le stesse censurate dalla sentenza di ieri. In sostanza: l’alienazione di azioni e controllo gestionale di società che hanno ottenuto affidamenti diretti in quanto di proprietà pubblica deve avvenire in modo trasparente e tramite gara. Tradotto: per vendere proprietà, contratti e bacino clienti serve vedere se, per caso, non ci sono offerte migliori.

È esattamente lo stesso tipo di censura arrivata per l’ingresso di A2A in LGH, Linea Group Holding, attiva nelle province di Cremona, Pavia, Lodi e Brescia, 550 milioni di ricavi nel 2018. Quella partnership, operativa dal 2016, è stata bocciata per la mancanza di una gara sia dall’Antitrust che dall’Anac, delibera, quest’ultima, benedetta pure dal Tar del Lazio, che a ottobre 2019 ha bocciato un ricorso per il suo annullamento. “Ora chiederò che quelle delibere vengano applicate”, dice Fumagalli. In sostanza, di annullare l’affare: Golia farebbe bene a preoccuparsi.

Capacity market, l’aiutino pubblico fa felici i soliti noti

Non viene ancora contato tra i sussidi alle energie fossili, perchè entrerà in azione dal 2022, ma il “capacity market” all’italiana fa storcere il naso a molti osservatori. Quindici miliardi di euro da spendere in 15 anni, due aste già aggiudicate ai soliti noti: Enel, Edison, Eni, per 1,3 e 1,5 miliardi, solo per i primi due anni. Lo scopo giustificherebbe il mezzo: lo Stato paga un prezzo fisso a un fornitore per 15 anni, perchè possa garantire lo stesso volume di elettricità, in ogni momento, anche se non verrà mai richiesto dal mercato. Questa capacità disponibile può servire in una logica di transizione energetica a coprire i picchi negativi delle rinnovabili (quando c’è meno sole e vento, per esempio) ed evitare così spiacevoli black-out. Di fatto, però, è un aiuto di Stato ad alcune aziende, accettato da Bruxelles, che in questa fase di transizione viene usato per finanziare l’uscita dal carbone, non a vantaggio d’investimenti nelle rinnovabili, ma per costruire nuove centrali a gas, o per mantenere in vita vecchi impianti. Nella prima asta del 6 novembre scorso, su 40 Gigawatt assegnati, solo uno è andato alle rinnovabili. Nella seconda, del 28 novembre su 43,4 Gw, agli investimenti verdi ne sono andati 1,3. Di questi quasi 35 Gw riguardano capacità esistente e 1,7 nuova capacità principalmente con turbo gas. In regioni come la Calabria e la Sardegna, non viene neppure richiesta nuova capacità: si mantiene lo statu quo con l’energia fossile?

Enel ha vinto entrambe le aste, con il 26% e il 30% del totale. Dovrà, tra l’altro, finanziare la conversione di quattro centrali a carbone – a Brindisi, Civitavecchia, La Spezia e Fusina – in centrali a gas. Investimento privato, ma largamente coperto con i soldi pubblici dell capacity market. “Lo scopo di Enel è la completa decarbonizzazione del mix produttivo entro il 2050 – ha detto l’azienda a Investigate-Europe – Sarà l’effettiva evoluzione del sistema elettrico dei prossimi anni a determinare per quanto tempo saranno necessari questi impianti per la sicurezza e la stabilità della rete. Lo sviluppo di capacità flessibile a gas per quanto strettamente necessario per la stabilità e sicurezza del sistema elettrico nazionale, è indicato dal Piano Nazionale per il Clima, come strumento di medio periodo indispensabile”. Ma è davvero indispensabile il capacity market?

Il Regulatory assistance project, (Rap), a Bruxelles, ha realizzato a fine 2019 uno studio sul mercato della capacità energetica in Italia dove si legge che “il surplus di energia in Italia è molto alto, del 30% in tutto il Paese e del 10% nel nord, mentre di solito il surplus si attesta intorno al 4%”. Christos Kolokathis, autore dello studio, ha dichiarato a Investigate-Europe: “L’analisi dell’operatore (Terna) che giustifica il bisogno di un capacity market, è molto conservativa. Le previsioni di domanda di elettricità sono troppo alte. Ci aspettiamo quindi che il capacity porterà a una sovraproduzione e soprattutto a un ingiustificato aumento della bolletta per i consumatori”.

Secondo l’economista Matteo Leonardi, al posto di un sistema di prezzo garantito con il capacity market, “il governo dovrebbe investire molto di più nelle nuove fonti di energia, pagando le aste per le rinnovabili più di quelle per il gas, così da creare un incentivo a investire verde, ci vorrebbero impianti di accumulo e politiche per diminuire il consumo di energia”. Ma soprattutto, “bisogna creare un ente terzo, rispetto a Terna, colosso pubblico della rete, che valuti i bisogni in capacità di energia rispetto alle priorità politiche di un governo, non solo in termini di soluzioni più facili e veloci”.

Nel Regno Unito il capacity market è stato già condannato nel 2018 dalla Corte di Giustizia europea per uno schema giudicato illegale. La start-up Tempus energy, all’origine della denuncia, ha cominciato ora un processo simile in Polonia.

Altro che Green deal, in Ue miliardi ai grandi inquinatori

La petroliera “Ice Hawk” arriva poco prima dell’alba nel villaggio di Soronos, a Rodi. Porta il carburante per la vicina centrale elettrica che servirà a rifornire gli oltre due milioni di turisti in arrivo. Un’altra attraccherà accanto alla Penisola di Prassonissi, splendida riserva naturale. Questa energia non è solo inquinante, è anche molto costosa. Lo Stato greco potrebbe costruire delle condutture sottomarine e in due anni e mezzo ripagherebbe i costi di costruzione, dice Greenpeace. Oppure usare le energie rinnovabili, già molto presenti nelle isole greche e così ridurre le emissioni di Co2 del 60%. E invece, per mantenere bassi i prezzi per gli isolani, ogni anno il governo greco paga mezzo miliardo alle famiglie di armatori e petrolieri, come i Latsis e i Vardinogiannis, per trasportare petrolio in molte isole. Un sussidio che neanche la troika è riuscito a cancellare.

La Grecia non è un caso isolato: versiamo soldi agli agricoltori per usare pesticidi, scontiamo la bolletta dell’elettricità alle grandi industrie che quindi non investono in fonti rinnovabili, i camionisti spendono molto meno per il diesel che per la benzina e pagano tasse ridotte su quel poco che hanno speso. Gli aerei non pagano tasse sul carburante. Sono i sussidi alle energie fossili, retaggio di un passato in cui bisognava sostenere alcuni settori dell’economia. Oggi totalmente ingiustificati. “Uno spreco di denaro pubblico, causa di emissioni di gas nocivi e dell’inquinamento dell’aria”, dice il Segretario Generale dell’Osce, Angel Gurria. Investigate-Europe ha contato almeno 137 miliardi all’anno elargiti dai paesi europei – più Norvegia, Liechtenstein e Islanda – alle industrie fossili. Quasi quanto i 155 miliardi del bilancio europeo annuale.

I sussidi alle energie fossili sono il grande assente nella lotta per il clima, anche nel dopo lockdown. Bruxelles tenta d’imporre delle condizionalità per gli investimenti “verdi”, ma non ricorda agli Stati membri quanti miliardi potrebbero risparmiare riducendo i sussidi ai fossili. Quando Ursula von Der Leyen, neo presidente della Commissione europea, si presentò ai parlametari europei, lo scorso 11 dicembre, c’era grande attesa. A dieci giorni dal suo insediamento, l’esecutivo europeo presentava il Green Deal per il clima. “Sarà il nostro uomo sulla luna”, disse orgogliosa. Peccato che nelle 24 pagine di promesse del Green Deal, la parola “sussidi” viene citata solo in un piccolo paragrafo che ricorda come le finanze pubbliche devono essere riviste alla luce dell’urgenza climatica. Nei Piani per il Clima che ogni Stato è obbligato a mandare a Bruxelles, l’uscita dai sussidi è ignorata. Solo l’Italia pubblica la lista dei sussidi dannosi, ma senza un calendario per eliminarli. Nel 2016, i Paesi del G7 a Ise-Chima, in Giappone, dichiararono: “Rimaniamo impegnati a eliminare inefficienti sussidi per i combustibili fossili e incoraggiamo i paesi a farlo entro il 2025”. Nel 2018 l’obbligo è diventato legge europea con il regolamento sull’Unione dell’Energia. “Forse non siamo stati abbastanza espliciti nel condannare i sussidi alle energie fossili”, ha ammesso a Investigate-Europe il vice presidente Franz Timmermans, responsabile per il clima. “Lo saremo di più. Gli obiettivi climatici dell’Ue non sono raggiungibili senza abolire la promozione del consumo di combustibili fossili”.

L’Italia regala alle imprese inquinanti 18 miliardi all’anno, più di quanto versa al bilancio europeo (15 miliardi nel 2017). È al terzo posto per volume di sussidi rispetto al Pil, dopo Germania e Regno Unito e prima della Francia, (302 euro per ogni italiano). Il ministero dell’Ambiente pubblica da tre anni un catalogo dei sussidi, quelli dannosi e quelli favorevoli per l’ambiente: 594 pagine, preparate da 7 economisti che vanno a caccia di sussidi, spesso nascosti nei meandri dei bilanci. Quelli nocivi valgono 19,3 miliardi, comprese le agevolazioni per l’agricoltura. Il resto, più del 90%, va alle fossili. I sussidi che fanno bene all’ambiente restano a 15 miliardi.

Le basse royalties per l’estrazione di petrolio e gas sono tra i più grossi sussidi dannosi in Italia: solo 7% per giacimenti on-shore e 10% per quelli off-shore. Molto al di sotto delle tariffe dei paesi europei, come il 22% in Austria, il 30% in Ungheria per non parlare del 74% in Norvegia. Inoltre, se si estrae al di sotto di precise soglie, non si paga nulla. “Perdiamo ogni anno 474 milioni”, dice Katiuscia Eroe di Legambiente, che propone di portarle al 20%. Anche i canoni per gli affitti del suolo pubblico sono assai bassi, seppur il governo Conte I li abbia alzati da un misero 2,58 euro €a km2 a 64,5 euro, niente rispetto ai 3,500 €della Danimarca o agli 8,000€ della Norvegia. Il ruolo di primo piano è svolto da Eni, controllata dallo Stato, che ha il maggior numero di pozzi di produzione, 437, il 57,5% di quelli in uso nel 2018. “Lo scorso anno, Eni – aggiunge Eroe – ha stabilito il suo record di produzione di idrocarburi e ha scoperto oltre 20 mila nuovi kmq da esplorare per estrarre idrocarburi”. Nel catalogo dei sussidi inquinanti ci sono poi 1,6 miliardi di certificati gratuiti che offriamo alle industrie più energivore (cemento, alluminio, chimica) per inquinare: uno stimolo creato quindici anni fa, quando Bruxelles lanciò la borsa dello scambio delle emissioni, ETS, per scongiurare la fuga delle imprese verso i mercati emergenti. Sussidi che oggi rallentano gli sforzi delle imprese a diventare più verdi. Tra i beneficiari, Arcelor Mittal, con i suoi 72 impianti in Europa batte tutti i record: ha ricevuto dai vari stati Ue 1,7 miliardi nel 2019 per produrre CO2. In Italia, tra le top20 europee, ci sono Italcementi (249 milioni), Buzzi Unicem (209) e ENI (206). Nel catalogo del Ministero dell’Ambiente vengono riportati anche i 2,1 miliardi di garanzie pubbliche agli investimenti fossili all’estero, via l’agenzia Sace. Lo Stato garantisce affari privati altamente inquinanti con un enorme impatto sulle comunità locali. Soldi che potrebbero essere diretti verso investimenti verdi.

I trasporti giocano la parte del leone: 5,1 miliardi solo la differenza tra il diesel e la benzina alla pompa. Lo Stato aiuta anche taxi, navi e treni rimborsando il 40% della loro fattura energetica. Per non parlare degli aerei che beneficiano di una esenzione totale sul carburante. “È molto difficile eliminare certi sussidi”, spiega Pascal Canfin, presidente della Commissione Ambiente dell’Europarlamento, ricordando il movimento dei gilet gialli che ha paralizzato la Francia contro l’aumento della tassa sui carburanti.

La soluzione dovrebbe venire dall’Europa: una tassa uguale per tutti i paesi. È prevista da una direttiva del 2003 (tassa comune per l’energia, ETD) che la Commissione ha provato ad aggiornare nel 2015, ma ci vuole l’unanimità al Consiglio e molti paesi non la vogliono. “In attesa di una soluzione fiscale, l’Europa dovrebbe imporre standard e scadenze per le rinnovabili – dice Canfin – È quello che Bruxelles sa fare meglio, imporre standard nel mercato unico, per il restauro delle case, l’efficienza energetica e le auto elettriche. Questo risolverebbe in parte il problema dei sussidi”.

L’Italia è l’unico paese europeo che ci sta provando. Da febbraio, una “Commissione per la Transizione ecologica”, istituita dalla manovra 2020, studia come convertire i sussidi dannosi in verdi. Imprese e famiglie non perderebbero soldi, che però andrebbero a politiche di riconversione. Vi siedono tutti ministeri “azionisti” dei sussidi: Tesoro, Ambiente, Agricoltura e Sviluppo. “Stiamo cominciando dall’accise sul diesel – dice una fonte ministeriale – O le equipariamo ai prezzi della benzina e così finanziamo la rottamazione delle auto diesel; o diminuiamo il costo della benzina o, insieme a un aumento del diesel, incrementiamo i sussidi alle auto elettriche. Lo scopo è che le famiglie non paghino il prezzo della transizione verde”. La vice ministro dell’economia, Laura Castelli (5Stelle) ha promesso l’eliminazione di tutti i sussidi al fossile. A ottobre devono finire i lavori. Poi la parola passerà alla politica, e saranno guai.

Ci vuole orecchio. Ho visto un re senza trono, ma più simpatico. Il suo nome è Jannacci Enzo

Accompagnato da un ensemble di fiati trascinanti che agli americani non hanno da invidiare nulla in fatto di “big band”, Jannacci stasera è in stato di grazia, passa dal piano all’asta del microfono perfettamente a proprio agio, sempre incurante dell’intonazione, sembra che ogni volta canti una canzone diversa, invece il suo è un modo di creare, di improvvisare su testi già collaudati, che ogni volta sembrano nuovi. Potenza dell’interpretazione! In ogni concerto non sai cosa diventerà la canzone che conosci benissimo, che hai amato, che riascolteresti cento volte. I musicisti ridono, e lui ride con loro e si diverte come fosse la prima volta che la canta.

Nelle sue canzoni, quelle commoventi come anche nelle più irriverenti, c’è un amore tenerissimo per i suoi personaggi. Le donne e gli uomini di Jannacci possiedono la poesia delle “robe minime”. Il volatore di aquiloni che parte deciso per vedere il mare per la prima volta. Il gruista che vagheggia un amore più sognato che visto dalla garitta sospesa a cento metri su nel cielo. Quello che andava a Rogoredo a cercare i “sò dané”. Vincenzina che conosce solo la fabbrica e non le basta, il barbone con le “scarp del tennis” che forse chissà è lo stesso “sciupàa” che chiede l’ultima Marlboro a un riluttante con le Timberland e lui “ciap’ istess ciap’ istess!”. L’uccisore che confessa con un lapsus di aver buttato giù l’Armando “pardon è caduto giù l’Armando!”. Il palo della banda dell’Ortica (inventato da Valdi) che era sguercio “ghe vedeva quasi pü”. Il concerto, se lo ascolti a occhi chiusi, sembra il ritratto di gente senza passato e senza futuro, con un destino piccolo, ma quei personaggi sono colossali grazie a Jannacci che gli dà vita. Si proprio lui il dottor Jannacci Enzo, di famiglia pugliese, ma milanesissimo con un talento unico, perché si sa, per dire certe cose… “ci vuole orecchio”.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Ritorno in libreria. Com’è triste il potere a Milano: Stajano aveva anticipato tutto

Corrado Stajano ha ripubblicato un libro-diario su Milano scritto dieci anni fa, La Città degli untori, edito dal Saggiatore. Sul momento, immergendovi nella lettura, non ci pensate. Fino a quando vi risveglia dall’ansia e dalla tensione di quella lettura, una nota che l’autore ha posto alla fine del volume, come un “bugiardino” in una confezione farmaceutica… Vi avverte che abbiamo attraversato una Milano fantasma, raccontata con angoscioso realismo secondo una storia che non è quella delle vere sequenze temporali, ma è un misterioso museo delle cere in cui si muore di peste e di fascismo, si fa resistenza nei tribunali e in montagna, si intravedono figure misteriose, chi porta esplosivo e chi porta armi o l’auto per la fuga, compaiono prelati che credono, ma non Dio, una processione di pensieri scomposti dalla febbre di vicende impossibili (banche che esplodono, anarchici che volano, ballerini portati in prigioni lontane, mentre gli assassini sono altrove e hanno da fare, anche in affari di Stato). C’è un peso legato a questi eventi, che distorce la scena e ne accresce l’angoscia: è il riferimento e le citazioni accurate alla manzoniana “colonna infame”, incluse le direttive per le modalità di punizione dei colpevoli, detti “gli untori”, lungo il percorso del patibolo. Quella colonna non smette di essere infame e di spingere chi la rivede a pensare una Milano pericolosa e infida, dove è sempre in agguato un peggio proporzionato alla grandezza, alla forza, alla ricchezza. Il racconto cauto e severo di Stajano sulla sua città è scritto da qualcuno che non vuole dimenticare e non vuole far dimenticare, e indica in modo risoluto e con un vero e proprio progetto morale, ciò è accaduto davvero fra noi e con noi, presenti, testimoni, e non sempre indignati, non sempre coscienti di ciò che stava accadendo. Eppure gli autori (anche se da troppo tempo sembrano omessi o dimenticati) sono elencati tutti, con quel che resta delle prove. È come se Stajano, rovesciando il linguaggio di Berlusconi, dicesse: uccidere il giudice Galli, fatto; aprire la stagione delle stragi con falso colpevole da buttare in scena, fatto; far volare dalla finestra Pinelli, presunto associato anarchico dei presunti anarchici colpevoli, fatto; inizio di lunga stagione di sangue con personaggi oscuri alle spalle (P2) ed esecutori protetti, fatto. Mentre il libro esce, i giornali ci danno la storia del suo assassino, Sergio Segio, libero e ospite gradito delle lezioni di terrorismo, e della lettera appassionata e dolente della figlia Alessandra, che si sente umiliata e offesa dal festival dei clamorosi delitti con e senza autori, che è ormai diventati argomento di talk show. Ancora una volta Berlusconi direbbe: fatto. E il libro di Stajano va tenuto bene in vista, pronto alla consultazione e alla citazione, proprio perchè è parte storia e parte profezia, parte rivisitazione di orrori che potevano sembrarci antichi, parte di annuncio della stagione mai finita delle stragi. Compresi i migranti che muoiono in mare, proprio adesso. È un libro confermato dal tempo, e anticipatore del tempo.

 

La città degli untori

Corrado Stajano

Pagine: 232

Prezzo: 19

Editore: Il Saggiatore

Libia. La disfatta di Haftar non mette fine alla “mischia”

Quanto prima la Turchia si libererà di Erdogan tanto meglio sarà per i turchi e per l’Europa. Ma ciò premesso, sostenere che Ankara sia entrata nella mischia libica per smanie ottomane o per bellicismo islamista equivale ad affermare che la Francia e l’Italia svolgano un ruolo in quel conflitto per resuscitare lo spirito delle crociate. In realtà l’interesse degli uni e degli altri per la Libia ruota intorno alla stessa concretissima questione, appalti e idrocarburi. In seguito alla guerra voluta da Sarkozy, Ankara vide sfumare accordi economici firmati da Gheddafi per un totale che sfiorava il miliardo di dollari. Adesso la nemesi: avendo contribuito a respingere con i suoi droni l’attacco lanciato da Khalifa Haftar, la Turchia può ottenere in ricompensa gli affari che Parigi contava di incassare dal generale libico.

Da qui l’avvertimento lanciato da Emmanuel Macron: “Non tollereremo il ruolo che la Turchia sta giocando in Libia”.

È in ambasce anche un altro sponsor di Haftar, l’egiziano al -Sisi. Come a lasciar intendere la disponibilità a lanciare un’invasione della Libia al-Sisi ha proclamato che le sue Forze armate devono tenersi pronte per interventi oltreconfine. Immancabile, avanza la proposta della “soluzione politica”, ovvero un compromesso tra il governo di Tripoli e Haftar, venduto come l’unica soluzione per porre fine al conflitto. Lo chiedono gli sponsor di Haftar, per sottrarre il loro protetto alla controffensiva in corso. Ma se vi avessero bombardato casa, ammazzato il fratello o torturato il padre probabilmente non avreste molta voglia di compromessi con un nemico che batte in ritirata. E infatti la guerra prosegue. Se le milizie ‘lealiste’ riuscissero a riprendersi i distretti di Sirte e di Jufra, inclusa la base aerea vitale per i rifornimenti di Haftar, al-Sisi oserà un intervento diretto in Libia?

E Macron cercherà di vendicare lo smacco, l’ennesimo di quella politica bipartisan nota con il pomposo nome di FrancAfrique? L’unica cosa certa è che il fiasco di Haftar non chiude la mischia libica.

 

La diseguaglianza, un robusto punto di vista per costruire sul serio un “futuro più giusto”

Se i partiti non producono più cultura e programmi non è detto che l’attività debba andare in soffitta. Il Forum Diseguaglianze Diversità questo compito se lo è caricato sulle spalle e ora lo deposita in un volume curato da Fabrizio Barca, che del Fdd è il coordinatore, e dall’economista Patrizia Luongo.

Si tratta di un lavoro documentato, da ufficio studi votato all’azione sociale, con un’ambizione riformista che di questi tempi sa di rivoluzionario.

Nell’introduzione si paragona quanto era stato scritto “prima” del Covid con quello che l’emergenza pandemica ha squadernato notando che le diagnosi e le proposte avanzate prima della crisi sono state rafforzate da quanto è avvenuto.

Il Fdd aveva già presentato le sue “quindici proposte per la giustizia sociale” che, ora, scrivono gli autori, “sono più valide e necessarie che mai”. Proposte che investono sul ruolo dei sistemi pubblici, ad esempio creando “tre imprese pubbliche europee” nel campo della salute e invecchiamento, nella trasformazione digitale e nella transizione energetica. Puntano alla centralità della scuola e alla lotta alla “povertà educativa”, rilanciano l’impegno per i workers buyout per affrontare la crisi delle piccole aziende fino a proposte più robuste come l’European Pillar of Social Rights, per un’assicurazione generale di previdenza sociale o “l’eredità universale ai diciottenni” cui conferire un capitale di avvio alla vita (da un’idea di Anthony Atkinson e recentemente rilanciata da Thomas Piketty).

Il merito del lavoro in esame è quello di assumere un punto di vista forte e chiaro: le diseguaglianze sociali ed economiche, la loro natura, genesi e storia. Da qui pensare l’economia come un intervento che contrastando quelle genera crescita e benessere. I dati, del resto, sono davvero evidenti. Se negli ultimi trent’anni “si sono ridotte le diseguaglianze complessive di reddito e consumo” a livello mondiale è anche vero che in Occidente “il reddito dell’1% delle persone più ricche al mondo (per metà concentrate negli Stati Uniti) cresceva assai più del resto, assorbendo quasi un quinto del totale dei redditi mondiali”. All’1% più ricco, quindi, è andato il 20% del reddito complessivo mondiale mentre alla metà più povera della popolazione affluisce appena il 10%.

Le ragioni storiche sono affrontate con altrettanta nettezza: il ruolo nefasto del neoliberismo, una “scelta” politica e non una fatalità e poi l’occasione mancata, in Italia, tra gli anni 60 e gli 80. Anche qui scelte politiche che riguardano anche la sinistra.

La crisi da Covid può aggravare tutto questo, oppure no. Dipende da quale dei tre scenari per il dopo-Coronavirus si affermerà: quello di “normalità e progresso” che propone di tornare alla “normalità” di prima; quello di “sicurezza e identità” che offre uno “Stato accentrato”. Oppure un orizzonte di “giustizia sociale e ambientale” quale quello descritto nel libro. Da leggere attentamente e che non avrebbero sfigurato nel dibattito sugli Stati generali.

 

Un futuro più giusto
F. Barca e P. Luongo
Pagine: 280
Prezzo: 16,00
Editore: Mulino

 

L’inchino al re del cemento. Di Maio e quella memoria corta

Non c’è nulla di più costante nella vita pubblica italiana dell’inchino agli interessi privati di Pietro Salini. Matteo Renzi ce lo ha insegnato. Come gli abitanti di Königsberg regolavano gli orologi in base alla camminata giornaliera di Kant, così i nostri politici regolano le stagioni delle “sburocratizzazioni” sui desiderata dei grandi costruttori.

Venerdì è toccato a Luigi Di Maio omaggiare il boss della Salini-Impregilo, oggi diventata “Webuild” grazie al salvataggio della Cassa depositi e prestiti. “È una persona eccezionale e le sue sono parole reali, che ritraggono il Paese reale”, ha scritto su Facebook il ministro degli Esteri. Di Maio ha ricevuto il costruttore direttamente alla Farnesina, noto ministero economico, dove si è fatto raccontare gli sforzi di costruzione del Ponte di Genova post tragedia del Morandi. Momenti altissimi: “I costruttori usano le mani. Sono persone semplici, con dei sogni. Vanno a casa con il pane che hanno guadagnato”, gli avrebbe detto Salini. E lì il ministro ha capito che “da questa crisi dobbiamo imparare che senza interventi forti non riusciremo a rialzarci. Con tutte le accortezze del caso, bisogna avere il coraggio di superare il codice degli appalti e correre spediti, più che mai”.

Forse Di Maio non sa, o dimentica che Webuild sarebbe la principale beneficiaria del far west chiamato “modello Genova”, cioè appalti senza gare in deroga a tutto, applicato solo a Genova per evidenti motivi ma che parte dei 5Stelle vorrebbe estendere urbi et orbi. Non sa o dimentica che Salini è in causa con lo Stato a cui chiede 800 milioni di danni (“il pane che ha guadagnato”) per non avergli fatto costruire il Ponte sullo stretto di Messina. Per evitare di pagare alla giovane età il prezzo della scarsa memoria storica bastava osservare Renzi, che da anni omaggia l’amico costruttore mentre lo Stato difende in tribunale l’interesse pubblico. La stagione della lotta alle grandi opere inutili, dove Impregilo gioca quasi sempre un ruolo, pare finita per sempre.

Mentre il nuovo ponte di Genova rischia di essere affidato ai benetton a fine mese se non si risolve il nodo della concessione, meglio guardare avanti e “correre spediti più che mai”. Ricorda qualcuno?

Giungla contratti scaduti. Gioco anch’io? No tu no. La folle estate del calcio Covid

“Gioco anch’io? No, tu no. Ma perché? Perché no”. Parafrasando Jannacci, il ritornello della lunga estate calcistica, in Italia come in Europa, con i campionati che si protrarranno fino al 2 agosto e le “Final Eight” di Champions e Europa league che si svolgeranno la prima a Lisbona dal 12 al 23 agosto, la seconda in Germania dal 5 al 21 agosto (tutte con sfide in gara unica), potrebbe essere questo. E sì. Perchè quando domani le lancette dell’orologio scandiranno la mezzanotte, la fine della stagione calcistica, normalmente fissata al 30 giugno, non scatterà; inizierà invece un limbo di due mesi che renderà possibile a molti giocatori e impossibile ad altri concludere regolarmente la stagione nei club di cui oggi fanno parte.

Prendete Sanchez dell’Inter e Smalling della Roma. Sono due giocatori del Manchester United e stanno giocando in Italia in prestito. Il Manchester non ha nulla in contrario al fatto che concludano il campionato con Inter e Roma; ma in agosto scatterà la “Final Eight” di Europa league dove il Manchester (che ha già battuto 4-0 il Lask) sarà sicuramente presente; e dove potrebbe trovare sulla sua strada, per l’appunto, sia l’Inter che la Roma a patto che superino gli scogli di Getafe e Siviglia. Per il club inglese, che in Premier da qualche stagione sta segnando il passo, un successo in Europa league, a 3 anni dal trionfo di Mourinho del 2017 (2-0 all’Ajax), sarebbe importantissimo. E molto seccante sarebbe vederlo sfumare magari per un gol in dribbling di Sanchez o per un’incornata su calcio d’angolo di Smalling, lasciati a Inter e Roma nonostante il prestito scaduto il 30 di giugno. Vai poi a spiegare ai tifosi che è stato giusto, se ci riesci.

La verità è che dalla mezzanotte di domani sarà una giungla. Tra giocatori in prestito e giocatori in scadenza raccapezzarsi sarà un’impresa. Prendete il Lipsia, che per la prima volta nella storia è giunto ai quarti di finale di Champions league. Il suo centravanti, il fortissimo Timo Werner, 28 gol quest’anno, è appena stato ceduto al Chelsea che ha sborsato senza fiatare i 60 milioni della clausola rescissoria. Il Lipsia vorrebbe tenerlo fino a fine Champions, quindi fino a fine agosto, ma il Chelsea non vuole correre rischi (e se si rompe una gamba?) e lo stesso Werner, che ha già salutato i tifosi, ha detto che partirà subito per Londra per ambientarsi e perfezionare la lingua. A Parigi Cavani e Meunier hanno già detto al Psg che domani saluteranno la compagnia, mentre Kurzawa, Choupo-Moting e Rico resteranno. Il Lione, che attende di giocare l’ottavo di ritorno con la Juventus, non potrà schierare Tousart, l’attaccante che firmò l’1-0 dell’andata, passato all’Herta Berlino che non vuole sentire ragioni. Insomma, un caos totale. Che riguarderà anche i campionati, serie A compresa.

Ci si chiede: dopo il 30 giugno Kulusevski giocherà ancora nel Parma o la Juve, che ha speso 35 milioni per acquistarlo (dall’Atalanta) lo fermerà? Tra i giocatori in scadenza, Callejon del Napoli conferma la sua classe anche di uomo: giocherà gratis fino al 2 agosto, mentre tra i fine prestito che ne sarà di Nainggolan (Cagliari-Inter), Perin e Romero (Genoa-Juventus), Pessina (Verona-Atalanta, col Milan proprietario al 50%) solo per citarne alcuni? Idea: si potrebbe andare tutti quanti allo stadio comunale e vedere di nascosto l’effetto che fa. Gioco anch’io? No, tu no.