Alfredo Biondi. Il ministro “salva-ladri” di B. Ma al maxiprocesso di mafia fu un signore

Ci sono dei momenti in cui occorre provare prima di tutto a se stessi di essere liberi. Per me ne è arrivato uno alcuni giorni fa con la morte dell’ex ministro Alfredo Biondi. Il quale, ne ho fatto prova con i miei ricercatori, era sconosciuto alle nuove generazioni essendo ormai lontano dalla vita pubblica da diversi anni. La sua memoria è però piuttosto viva nelle generazioni più mature. Fu, tra le tante altre cose, segretario del partito liberale, ministro dell’ambiente con Craxi e ministro della giustizia con Berlusconi, poi vicepresidente della Camera. Era un avvocato di cultura eclettica e ironica. Vedendo il modo in cui è stato ricordato negli ambienti che mi sono più affini per impegno civile, mi sono reso conto come per tanti egli sia stato essenzialmente l’autore della legge cosiddetta “salva-ladri” del primo governo Berlusconi.

Una legge firmata in pieno clima “Mani pulite” e che provocò una sollevazione popolare oltre che dei magistrati di punta della Procura di Milano. E che anch’io vissi con sconcerto e incredulità. Eppure sempre io, tornando a storie italiane da molti dimenticate benché non minime, ho un ricordo preciso di Alfredo Biondi, e sento il dovere di offrirlo. Un ricordo che non annulla il resto, ma nemmeno può esserne annullato.

Era all’orizzonte il maxiprocesso di Palermo del 1986-’87, in cui le mie sorelle e io ci eravamo costituiti parti civili. A Palermo non si trovavano abbastanza avvocati per i familiari delle vittime. Il foro palermitano era stato quasi tutto confiscato dagli imputati, oltre 460. In più, nel mio caso, c’era quella etichetta di “figlio comunista di dalla Chiesa” scagliatami addosso da Indro Montanelli che aveva suggestionato o dato rappresentanza al sentire di mezza stampa nazionale.

Ero dunque faticosamente impegnato a convincere l’opinione pubblica che la mia era una causa di giustizia di tutti, non certo di una parte politica. Era mio avvocato a Palermo Alfredo Galasso, ex membro del Csm indicato per quella carica proprio dal Pci. Pensai così che dovevo essere affiancato anche da un avvocato di idee politiche diverse. E d’accordo con Galasso lo chiesi a Biondi, allora segretario dei liberali. Biondi mi chiese perché non mi rivolgessi a un avvocato liberale di Palermo. Io gli spiegai di averne letto alcune dichiarazioni pubbliche; e di non sentirmene garantito per il tipo di difesa necessario in una battaglia giudiziaria decisiva, non solo per me. Lui mi ascoltò, a margine di un convegno a Milano, e mi rispose “accetto”. Galasso sostenne da Palermo il peso maggiore della causa. Ma lui giunse per gli appuntamenti importanti lasciando gli impegni politici.

Con la sua presenza scardinò pregiudizi e stereotipi, mettendo simbolicamente in difficoltà le logiche di schieramento su cui il fronte opposto aspirava a costruire la propria vittoria. Non fuggì né si trasse indietro nemmeno quando si trattò di tirare in causa la figura di Giulio Andreotti, e allora per chi faceva politica a quei livelli non era certo facile. Restò vicino anche sul piano umano. Alla fine, come anche Galasso, quando gli chiedemmo quanto gli dovessimo ci rispose con semplicità: “Nulla”. Ho capito che se queste cose non le ricordassi io non le ricorderebbe nessuno, perché forse nessuno le sa.

Ma quel maxiprocesso fu un evento, qui lo ripeto ancora una volta, più culturale che giudiziario. In cui le culture che il Paese esprimeva si ritrovarono nude una di fronte all’altra. E delle due vinse miracolosamente quella che appariva minoritaria.

Anche grazie a quell’avvocato genovese, che poi credette nel partito liberale di massa e si fece abbagliare dai trionfi elettorali, lui che aveva guidato un partito dell’1-2 per cento. E di cui ho pensato che fosse comunque mio dovere ricordare, ora che non c’è più, questa scelta di generosità civile.

 

Effetto virus. “Io, guarita ma in tilt: non dormo, sono uno ‘zombi’ e la morte mi ossessiona”

 

“Aiuto, il cervello non gira più: finita una malattia, inizia l’altra”

Cara Selvaggia, ogni giorno il numero dei guariti continua a salire, e grazie a Dio. Si è detto che, per necessità o convenienza, non ci sia stata alcuna distinzione tra guariti e dimessi, perché se esci da quella stanza della terapia intensiva, da quella camera d’ospedale, non è detto che tu poi sia davvero libero dal virus; ma non è questo il motivo per cui ti scrivo. Io sono una “guarita-guarita”, tecnicamente. Il doppio tampone di controllo ha dato esito negativo più di un mese fa, dopo più di 30 giorni di Covid-19. Curato a casa, vorrei dirti, ma la verità è che più che la medicina mi ha guarito la provvidenza o la fortuna. Nessun tampone, nessun intervento dell’Ats, nessuna diagnosi. Un medico di base disarmato che ha fatto quello che poteva, cioè poco. Mi avrà fatto guarire la tachipirina? O forse qualche antibiotico generico, di quelli che vanno bene anche per il mal di gola? Non lo so, non credo, ma sta di fatto che, ufficialmente, sono una guarita. Nel senso che non ho più il virus. Ma io non sto per niente bene, Selvaggia. A me tremano ancora le ossa, la sera mi fanno male. Alla sera arrivo stanca, distrutta come se avessi scalato una montagna quando magari sono solo stata in casa a lavorare al pc. Quando mi alzo mi manca il fiato, ho una faccia che sembro uscita da un incontro di pugilato. Ma non è niente a confronto di ciò che patisco di notte, dentro la mia testa. Ho cominciato a soffrire di insonnia per la prima volta nella vita. Dormo poco e male, certe notti per nulla. Non dormivo nemmeno nei giorni più brutti della malattia, quando respiravo a fatica e pensavo che se mi fossi addormentata avrei perso il controllo dei miei polmoni, che avrebbero potuto fermarsi e io, semplicemente, morire nel sonno. Ho pensato spesso alla morte in quel periodo, spesso più che alla vita. E ci penso ancora, in maniera ossessiva. Tre giorni fa mi sono sottoposta alla mia prima seduta dallo psicologo. Sento che, dopo il virus, anche il mio cervello non funziona più come prima e non sono così spirituale da pensare a un problema dell’anima. Finita una malattia, ne è cominciata un’altra. Non credo di essere l’unica e per questo mi domando perché non se ne parla mai, di questi postumi del Covid. Perché molti sono morti, l’economia è gravemente ferita ma nemmeno noi “guariti” siamo pazienti da abbandonare a se stessi.

Gloria

 

Cara Gloria, non sei l’unica ad avermi scritto di quanti strascichi si porti dietro il Covid e non tutti visibili attraverso un esame del sangue o una lastra. Chi è stato in ospedale è rimasto solo, senza parenti. Chi è stato a casa, è rimasto solo, senza chi avrebbe dovuto curarlo.

 

“Sono uno stronzo, mica un maschilista”

Ciao Selvaggia, sono un maschilista. Ho una collega d’ufficio che mi sta profondamente sui “maroni”, una sensazione a pelle che non posso sconfiggere per quanto io mi sforzi. Non riesco a esser gentile con lei, me ne ha fatte abbastanza, ma a prescindere non la sopporto. All’ultima riunione ha buttato lì una mezza frase, di quelle senza oggetto ma ho capito subito che era riferita a me: “In quest’ufficio, chissà perché, c’è sempre quest’aria un po’ maschilista…”. Ora, non ti scrivo per negare il fenomeno, sia chiaro, né per sminuire qualsiasi condotta discriminatoria. Mi sta sulle balle anche un collega maschio che però non mi chiama maschilista, bensì stronzo, presumo. Vorrei semplicemente rivendicare il diritto a esser stronzi, a starsi beatamente sui “cosiddetti” tra uomini e donne senza che per questo si venga etichettati come maschilisti. Quando ho letto la deprimente lettera della Cuccarini (che ci vuoi fare, negli anni ’80 ne avevo venti) mi sono infiammato di nuovo. È vero che ci si manda a quel paese un attimo prima di sbattere la porta, però possibile che non ci fosse già un pregresso? Che poi lui fosse maschilista, a sentire le colleghe di redazione, è tutt’altro che certo, ma è anche vero che la solidarietà femminile non è il pezzo forte delle donne, quindi non mi pronuncio. Posso dire? Queste donne (del genere della mia collega, intendo, non tutte le donne) che denunciano maschilismo, sessismo, “macismo” ad ogni conflitto con l’altro sesso; queste donne si rendono conto che banalizzano un fenomeno orribile utilizzandolo con opportunismo, a loro vantaggio, svilendo chi il maschilismo lo subisce davvero? E lo dico a ragion veduta perché all’università avevo un professore che era la bandiera del maschilismo: battute becere, ragazze vessate all’esame (voti più bassi, “interrogatori” più lunghi della media, battute fesse anche lì), lo sguardo di riprovazione quando ne vedeva una vestita in modo appariscente. Una volta disse a una mia amica di corso che lei poteva studiare quanto voleva, ma la vedeva meglio a casa a fare figli. Giuro, disse esattamente così. Ci fu una specie di caso diplomatico con tanto di volantini anonimi contro di lui, e la ragazza che cambiò facoltà un anno dopo. Insomma Selvaggia, tutto questo per dire che la mia collega è una stronza, e lo sarebbe pure se fosse un uomo, un trans, un anfibio, un elefante.

Luca

 

Potresti avere ragione anche perché io non sono una talebana del femminismo, ma devo fidarmi del tuo punto di vista. Anzi, della tua “campana”, usiamo un sostantivo femminile.

Selvaggia lucarelli

Giovanni XII. Il papa che fece cornuto l’oste e morì dopo essere stato gettato dalla finestra

Mille e non più mille. Decisamente più facile, nell’anno del Signore 960, immaginarsi la fine del mondo con la tremenda abbinata Apocalisse più Anticristo. Tanto più che sul trono petrino sedeva, col nome di Giovanni XII, un diciottenne lussurioso che aveva trasformato il palazzo del Laterano, dove alloggiavano i pontefici, in un lupanare.

Un vero bordello aperto a donne e uomini di giovane età, quasi sempre minorenni. Come l’indomita Anna, protagonista del bel romanzo di Santi Laganà: I giorni del ferro e del sangue. Bancario in pensione e calabrese di origini, Laganà abita nella campagna romana e a sessantacinque anni ha scritto il suo primo libro, pubblicato da Mondadori. Anna vive in una capanna insieme col padre e i tre fratelli. Si nutrono di radici, roditori e un po’ di formaggio. Il loro lavoro è badare all’ovile del vescovo locale. Siamo a Caere Vetus, oggi Cerveteri. Anna ha quindici anni. Ma “conoscere l’età non serve a niente, e non ti cambia la vita. Si nasce e si muore facendo sempre la stessa cosa”. Ossia tentare di sopravvivere tra miseria nera e violenze d’ogni tipo.

Anna è bella, poi. Così, in un giorno di pioggia e fango, arriva alla capanna un manipolo di soldati guidati dal valvassore della zona. Il vescovo gli ha dato l’incarico di trovare sei giovinette segnalate al papa satiro. Ma la ragazza scappa e per vendetta i soldati sgozzano il padre e due figli, mentre il terzo, Martello, il più grande, viene fatto prigioniero per essere venduto come schiavo sessuale a un cardinale. Non c’è limite alla decadenza morale di Roma: “Quella che era stata per secoli e secoli la capitale del mondo, una metropoli cosmopolita abitata da milioni di persone, adesso era ridotta a una città di venti, al massimo trentamila persone che sopravvivevano con ostinazione”.

E ancora: “Cani, gatti e topi vagavano per ogni dove, contendendo cibo e spazio a miserabili di ogni risma”. In questo quadro cupo di disperazione a prosperare sono la Chiesa e le famiglie più potenti della città. Giovanni XII è figlio del principe Alberico. Il papà ha voluto che l’erede riunisse insieme potere temporale e spirituale, sotto la protezione del teutonico Ottone. Contro questo disegno c’è Berengario re d’Italia. Anna vuole vendicarsi e ritrovare il fratello Martello. Inizia un viaggio intenso verso Roma, in cui tappa dopo tappa aggrega una compagnia di vario genere. In primis, il cavaliere Arnolfo, al soldo di Berengario. È un viaggio di formazione durissima, diciamo così, dove la ragazza subisce violenze e si ritrova ad ammazzare più di una volta.

Siamo nel 960, il quinto anno del pontificato di Giovanni XII, il papa ragazzino. San Roberto Bellarmino lo descrisse così: “Fu infatti questo Giovanni quasi il peggiore di tutti i papi”. Deposto tre anni dopo, nel 963, Ottaviano dei conti di Tuscolo, questo il suo nome laico, si riprese il trono di Pietro quasi subito, nel 964. Ma durò pochissimo. Era a letto con una tale Stefanetta, quando il marito della donna, un oste li sorprese insieme. L’oste lo gettò dalla finestra e Giovanni XII morì dopo otto giorni di coma. Aveva 27 anni.

 

Trappola Siria: il covid uccide la ripresa dopo 9 anni di guerra

A nove anni dalla rivolta del 2011, i siriani sono tornati a manifestare contro il dittatore Bashar al-Assad anche in alcune regioni che si trovano sotto il controllo del regime. Le proteste sono partite da Suwaida il 7 giugno: “Con il crollo della moneta nazionale, le nostre rivendicazioni riguardano le difficoltà del quotidiano”, spiega un attivista da Idlib, città nel sud della Siria a maggioranza drusa. Il paese, colpito dell’epidemia di Covid-19, risente anche della crisi economica del vicino Libano. I prezzi dei generi alimentari e del carburante sono lievitati. In alcuni cortei si scandiscono slogan contro Bashar al-Assad: “La Siria è nostra, non della famiglia Assad! Lunga vita alla Siria!”.

Anche l’Iran e la Russia, intervenuti a sostegno di Assad, vengono presi di mira. Da due mesi i profili Facebook di migliaia di attivisti e giornalisti siriani sono stati bloccati “per istigazione alla violenza”. A fine febbraio, prima che scoppiasse l’epidemia di Covid-19 e che le frontiere venissero chiuse, siamo riusciti a recarci in Siria. La rivolta era già nell’aria. A Damasco, tutte le persone con cui abbiamo parlato hanno descritto gli stessi problemi: “Carburante, gas, elettricità scarseggiano e, da quando i prezzi sono moltiplicati per dieci, cominciano a mancare anche i generi alimentari di prima necessità. Con il nuovo coronavirus in Cina, gli scambi sono stati interrotti e tutta l’economia procede a rallentatore. In più la guerra continua. E per via della svalutazione della lira siriana, se usiamo una moneta straniera come il dollaro, rischiamo sette anni di prigione e lavori forzati”. Un decreto adottato da Bashar al-Assad a metà gennaio sanziona infatti tutti i cittadini che utilizzano una valuta estera con lo scopo di “proteggere la valuta nazionale”. A fine febbraio il cambio era di 1.500 lire siriane per un dollaro. Dopo il crollo storico della lira a inizio giugno, un dollaro costa oltre 2.500 lire. Davanti al bar di un’associazione, in una nuvola di fumo di sigaretta, alcuni giovani discutono della situazione del paese e si chiedono cosa è meglio fare: restare in Siria o partire.

Il giorno prima, un quartiere sciita della capitale è stato colpito da tiri israeliani durante la notte. Gli scontri continuano nel nord. Si discute anche della questione delle sanzioni internazionali. “La situazione è peggiorata all’inizio dell’anno. Non abbiamo più cibo, né elettricità, non possiamo curarci. Siamo razionati, i bambini non possono andare a scuola. E poi c’è l’embargo. La situazione non era così grave dall’inizio della guerra. Chi soffre e muore è la povera gente, non certo il presidente”. Da dati Onu la crisi colpisce 11 milioni di persone in Siria. Eppure le sanzioni internazionali non riguardano né i prodotti di prima necessità né gli aiuti umanitari (quelle prese dall’’Ue nel 2019 sono decadute lo scorso primo giugno). “Il problema è l’uso indebito che certe Ong pro-Assad fanno degli aiuti umanitari internazionali, che capita di ritrovare in vendita nei negozi con il logo delle Nazioni Unite. Inoltre, l’Iran e la Russia recuperano buona parte delle risorse”, denuncia un attivista siriano. A Dwelkha, a tre chilometri dal vecchio fronte di Jobar, i rifugiati sfollati da Deir El Zor, Homs o Ghouta vivono ammucchiati in piccole stanze. Una famiglia si lamenta di non poter vivere con “un salario minimo pari a 40 dollari”. Prima della pandemia, l’Onu aveva denunciato le condizioni di vita “disumane” dei siriani. “L’80% vive al di sotto della soglia di povertà, è malato e affamato. Crescono i decessi per cancro e gli attacchi di cuore dovuti a stress post-traumatici. Milioni di sfollati vivono all’aperto, al freddo, e le bombe non si fermano“, ci viene detto sul posto.

Per alcuni abitanti “resistere vuol dire testimoniare di fronte al silenzio della comunità internazionale”. Con la crisi sanitaria legata al virus, l’Onu ha chiesto la sospensione dei combattimenti, senza successo. Il sistema sanitario siriano è fragile, il 70% del personale medico ha lasciato il paese. Il bilancio reale delle vittime dell’epidemia non viene comunicato dalle autorità. “I medici non sono autorizzati a parlare” spiega la direttrice di una Ong. Un abitante di Adra racconta: “Ci sono stati migliaia di morti nel quartiere. Da quando i civili che erano fuggiti per la guerra sono rientrati, nessuna Ong si occupa di noi”. L’ex città industriale è ancora sotto il controllo militare. Restano solo alcuni palazzi dall’architettura sovietica semi distrutti su un terreno coperto di fango: “Questo posto è un carnaio, ci sono centinaia di corpi”, dice un’altra persona. In Siria le famiglie migrano in funzione di come evolve il conflitto. Ma in alcune regioni rientrare è impossibile. In alcuni villaggi, come a Qousseir, nella provincia di Homs, “gli sfollati che tentano di tornare sono vittime di epurazione etnica. È il regime che decide chi può tornare e chi no. Il governo, per esempio, non lascia tornare i sunniti”. Una donna indossa una maglia con la scritta Don’t War Make Love: “Per sei mesi abbiamo vissuto a Raqqa sotto il controllo di Al-Nosra e poi dello Stato Islamico – racconta –. All’inizio, la popolazione esprimeva la sua insoddisfazione. Non si viveva più, ma bisognava pagare le tasse. Poi ci siamo spostati a ovest di Hama ma, poco lontano dal fronte, mio figlio è rimasto ferito nell’esplosione di un autobus durante uno scontro tra forze del regime e ribelli. Oggi siamo rifugiati nella campagna di Homs”. Mentre la Siria entra nel decimo anno di guerra, le donne sono in prima linea: “Pensiamo che la ricostruzione spetti alle donne. Non vogliamo più parlare di guerra, guardiamo al futuro. Dobbiamo restare ed essere forti”, dicono diverse giovani siriane. Una di loro alza vigorosamente il pugno. “Abbiamo organizzato la Giornata internazionale della donna con una trentina di partecipanti. La situazione è complicata e stiamo cercando di dare speranza alle donne che vogliono lavorare e sentirsi indipendenti” spiega un’operatrice umanitaria. L’Onu ha avvertito sui rischi che con il Covid corrono in Siria le donne, spesso in prima linea per l’assistenza medica e umanitaria. Ma agli occhi di molti, la ricostruzione è ancora lontana: “Homs è molto povera, le persone non hanno di che mangiare, il futuro è un’incognita, gli sfollati sono senza lavoro, solo i funzionari del governo lavorano”. Altri portano avanti la lotta. “Negli ultimi anni, a Homs, una delle culle della protesta del 2011, la repressione del regime di Bashar è stata dura. Oggi alcuni vorrebbero una nuova rivoluzione per vendicare Homs e questi dieci anni di orrore”, dice un siriano. L’autostrada M5 che collega Aleppo a Damasco, dove la guerra continua, non è accessibile ai civili. Ad Aleppo-ovest gli scontri armati infuriano. I raid degli aerei russi rimbombano al tramonto. Il governo ha ripreso la parte nord ma, a ovest, zone come Al Atarib o Darat Izza sono ancora contese. “Ci sono stati circa 150 morti tra cui 27 bambini prima del cessate il fuoco del 6 marzo. Da allora, è rientrato il 7,5% degli abitanti – spiega un casco bianco di una Ong umanitaria –. Con il Covid la situazione si complica. Abbiamo preso delle iniziative per sanificare le scuole e sensibilizzare le persone per evitare un altro dramma umanitario”. Nel caos attuale, i quartieri si ritrovano privi di beni di prima necessità, di assistenza medica, di accompagnamento scolastico e di assistenza da stress post-traumatico. A Hamidiyé e Sakhur, duramente colpite durante l’assedio di Aleppo, non c’è acqua. Dei bambini si ritrovano a lavorare sui cantieri. Con l’aggravamento della crisi economica, i progetti umanitari sono fermi. I centri di accoglienza e assistenza ai rifugiati sono costretti a chiudere. “Prima che la crisi colpisse il Libano, riuscivamo più o meno a cavarcela, la situazione era migliore”, constata amaramente un giovane operatore umanitario siriano. A tutto ciò si è aggiunto il Covid-19 che ha immobilizzato l’attività del paese. “Chiudere tutto equivale a morire!”, dicevano gli operatori umanitari prima della pandemia.

Traduzione Luana De Micco

Bielorussia, Sasha arresta tutti

La guerra si fa con gli stivali ai piedi, ma le rivoluzioni cominciano con le ciabatte in mano. Quelle che hanno sventolato i bielorussi durante le proteste di piazza contro “l’ultimo dittatore d’Europa”, Aleksandr Lukashenko, caudillo slavo al potere dal ’94, candidato per la 6ª volta, a 65 anni, alle elezioni presidenziali che si terranno il 9 agosto prossimo. Quando le pantofole dei suoi cittadini si sono levate verso le nuvole sopra Minsk, manganelli, blindati e polizia sono giunti veloci per arrestare e trascinare in cella centinaia di civili e giornalisti, anche se erano in diretta. Non solo nella Capitale: è accaduto a Bobruisk, Vitebsk, Brest, Mogilev. Appelli di liberazione lanciati da Reporter senza frontiere, Associazione dei giornalisti bielorussi (Baj), dell’ong Viasna e Unione europea, si sono susseguiti invano.

Per la rabbia della popolazione, a lungo incubata e ora raggrumata in canali collettivi di lotta, Minsk è nervosa e Lukashenko di più: “Ci sono burattinai che inventano notizie sporche su di me in Polonia e Russia, usano tecnologie moderne per interferire alle presidenziali, organizzare rivolte nel giorno delle elezioni”. Dopo le accuse rivolte perfino alla tradizionale sorella Mosca, Dimitry Peskov, portavoce di Putin, ha ribadito che la Russia “non interferisce nei processi elettorali, specie in quegli degli alleati”. Tutti gli uomini che minacciano l’onnipotenza dell’autocrate sono veloci alfieri digitali. L’oppositore Viktor Babariko, per 20 anni a capo della Belgazprombank, di proprietà della Gazprombank russa, è stato arrestato con l’accusa di furto e frode dopo essersi candidato. Lukashenko in persona si è pronunciato per condannarlo, dicendo di aver sventato “un piano su larga scala per destabilizzare il Paese, che avrebbe condotto la Bielorussia verso una Maidan”, la rivoluzione ucraina che nel 2014 portò alla fuga dell’allora presidente Yanukovich.

“Non importa chi vincerà il 9 agosto, al prossimo Capodanno avremo una nuova Costituzione”. Prima di finire in prigione, il banchiere Babariko ha caricato un video su Youtube proponendo un referendum per tornare alla Costituzione del ’94, dove c’era un termine di 2 mandati per ogni Presidente, riforma che la Russia introdurrà con il suo prossimo referendum. Il 18 giugno su Telegram Ihar Losik, un blogger la cui casa è stata poi perquisita dalla polizia, ha dato notizia dell’arresto di Babariko e una catena umana di solidarietà s’è dispiegata per un paio di chilometri nella strada centrale di Minsk, per chiederne la liberazione.

Sempre più muscolare per conservare il suo potere, il “padre della patria” i suoi avversari li ha arrestati tutti prima delle roventi presidenziali dicendo: “Non si fa così, mi chiamano scarafaggio con i baffi”. A definirlo un insetto è stato il popolare blogger Syarhey Tsikhanouski, arrestato il 29 maggio scorso perché “organizzatore di evento di massa non autorizzato e per disordine pubblico”. In manette, l’agitatore digitale ha deciso di far candidare sua moglie Svetlana Tsikhanouskaya al posto suo. Stessa sorte di Tsikhanouski per l’amico Mikola Statkevitch, leader d’opposizione alle presidenziali 2010, anno delle ultime grandi proteste nella Capitale.

Il potere non sopporta le barzellette, Lukashenko le derisioni. Il diminutivo del nome del presidente, Aleksandr, e la percentuale reale che otterrebbe alle elezioni se non ci fossero repressioni, sono diventati lo slogan Sasha 3%, scandito dalle urla dei manifestanti, scritto su magliette e graffiti in città dai più giovani. Lukashenko, dopo aver detto che il Covid-19 era “solo una psicosi”, a quei muri e t-shirt ha sentito la necessità di rispondere, finendo per essere ribattezzato Psycho 3%. “Io sogno un Paese dove le persone posseggano la loro proprietà e possano esprimere la loro opinione liberamente”. È cominciata con un post sui social media la provocazione dell’ultimo sfidante, Valery Tsepkalo, exapparatchik, ovvero membro del sistema, diplomatico diventato imprenditore digitale dell’Hi Tech Park, un pezzo di Minsk che sogna di diventare la Silicon Valley bielorussa.

Tra qualche settimana apriranno le urne, sempre meno vuote sono le piazze e sempre più piene sono le celle di Minsk. A Lukashenko rimane un solo rivale ancora in libertà: un’affamata, arrabbiata nazione che governa da 26 anni a colpi di calci, contraddizioni e spensierata ferocia. Rimanendo su un filo sempre più sottile e teso tra Est e Ovest, Lukashenko questa volta rischia di perdere l’equilibrio. Se cadrà nel vuoto, sotto ci sarà quel Paese che dice di amare ad attenderlo.

Trump rilancia il suprematismo bianco

Il razzismo uccide ancora, negli Stati Uniti: un uomo è stato ammazzato e un altro ferito, l’altra sera, a Louisville, in Kentucky, quando una persona, che s’è poi data alla fuga, ha sparato contro una folla di manifestanti anti-razzisti del movimento Black Lives Matter radunati in un parco nel centro della città, il Jefferson Square Park.

Video online mostrano un uomo ai bordi del parco sparare più di dieci colpi, mentre la gente cerca rifugio gridando sotto le panchine e dove capita. La vittima è deceduta sul colpo. Del ferito, s’ignorano le condizioni. Lo sparatore, che potrebbe non avere agito da solo, non è stato né individuato né rintracciato. L’episodio s’inscrive nelle reazioni razziste e/o suprematiste all’ondata di proteste anti-razziste dell’ultimo mese. Da mesi, dimostranti si riuniscono nel Jefferson Square Park, protestando contro la morte di Breonna Taylor l’infermiera afro-americana di 26 anni di Louisville uccisa il 20 marzo da agenti in borghese che fecero irruzione nel suo appartamento mentre dormiva, cercando un uomo che era già stato arrestato.

E Donald Trump non esita ad alimentare le tensioni. Il magnate presidente ritwitta un video in cui suoi sostenitori strillano “white power”, potere bianco, lo slogan dei suprematisti, e chiosa: “Persone fantastiche”. I supporter di Trump erano protagonisti di un alterco con suoi contestatori. In un altro episodio di America violenta, che non pare però avere connotazioni razziali, un uomo, armato di fucile semiautomatico, ha sparato, ha ucciso una persona e ne ha ferite almeno quattro sabato sera in un centro di distribuzione della Walmart a Red Bluff, in California, prima di essere abbattuto dalla polizia. L’omicidio di Louisville è l’ultimo di una catena di violenze letali innescate dalle proteste razziali in corso negli Stati Uniti, dopo l’uccisione di George Floyd, il nero di Minneapolis ammazzato dalla polizia il 25 maggio. Per tutta risposta, Trump ha inasprito le pene per chi attacca statue o monumenti di personaggi simbolo del colonialismo e del razzismo, ha retwittato una serie di avvisi di ricerca della polizia e ha rilanciato il tweet suprematista. L’arresto di uno dei contestatori delle statue induce il presidente a esultare su Twitter: “Ho fermato i vandali delle statue”. Galvanizzato, esalta il suo operato e insulta il suo rivale Joe Biden: “Nessuno vuole alla guida del nostro Paese una persona dal quoziente intellettivo basso come Sleepy Joe”. Gli replica Nancy Pelosi, speaker della Camera, che giudica “scandaloso” il suo atteggiamento. Nella “guerra delle statue” è ormai entrata da protagonista l’Università di Princeton, nel New Jersey, una delle più prestigiose degli Usa, che ha deciso di cancellare il nome dell’ex presidente Woodrow Wilson dal campus e dalla sua celebre “School of Public and International Affairs”.

Wilson, il presidente della prima Guerra Mondiale e l’ideatore della Società delle Nazioni, ricevette il Nobel per la Pace nel 1919. Considerato uno dei padri del pensiero politico moderno, Wilson, nato in Virginia, al Sud, prima della Guerra Civile, era, per i suoi detrattori, un razzista convinto e avrebbe contribuito a fare del governo federale una roccaforte della supremazia bianca per decenni. Quand’era presidente di Princeton, cercò di impedire l’iscrizione di studenti di colore.

Da Parigi colpo a Macron. Philippe esulta a Le Havre

È finito il calvario per Emmanuel Macron. Per La République en marche, il suo partito, le elezioni municipali, che si sono chiuse con il ballottaggio di ieri, sono state un disastro. Il presidente che avrebbe voluto conquistare Parigi e Lione, non ha avuto né l’una né l’altra. La prima resta in mano alla socialista Anne Hidalgo, la seconda è conquistata dagli ecologisti che si radicano in tante città. Ma una vittoria Macron l’ha incassata: il primo ministro Edouard Philippe, sostenuto da LaRem, ma di cui non ha mai preso la tessera, è stato eletto sindaco a Le Havre.

Partiva favorito ma la vittoria, con il 58,8% davanti al candidato comunista Jean-Paul Lecoq, è stata schiacciante. Questo voto locale era molto atteso per il suo impatto sul piano nazionale. Macron, che aspettava solo di mettersi alle spalle la tornata elettorale poco gloriosa, ha promesso di dare una “svolta” alla sua politica sin dai prossimi giorni e il rimpasto di governo pare ormai imminente. Se Philippe avesse perso per Macron sarebbe stato un grosso smacco e il premier avrebbe dovuto dimettersi. Philippe, già sindaco della città portuale dal 2010 al 2014, diventato molto popolare durante la crisi sanitaria, più popolare dello stesso Macron, dovrà scegliere se fare il sindaco o se restare capo del governo, come vorrebbe il 43% dei francesi: “Grazie a tutti, ora mettiamoci al lavoro”, ha detto dopo la vittoria. Ma la decisione non spetta solo a lui. Sin da stamattina sarà all’Eliseo. Sono state elezioni insolite con il primo turno a due giorni dal lockdown per l’emergenza Covid-19 e il ballottaggio, previsto per il 22 marzo, rinviato di più di tre mesi. Delle elezioni senza meeting e con le mascherine obbligatorie nei seggi. Ma alla fine ben pochi elettori. L’astensione è stata senza precedenti. Già al primo turno del 15 marzo meno di un elettore su due era andato a votare (44,3%). Ma ieri, nell’attesa del dato definitivo, la partecipazione non dovrebbe superare il 40-41%. Un record assoluto. Ed è a Parigi che si è votato di meno: alle 17, solo il 23,8% dei parigini era andato alle urne. La forte astensione avrebbe potuto fare la differenza. Ma molte previsioni si sono confermate.

A Parigi, la sindaca Ps Anne Hidalgo, che governa Parigi da sei anni, ultra favorita dei sondaggi, ha stravinto con il 49,3% dei voti, distanziando di molto Rachida Dati, la candidata Les Républicains, con il 32,7% dei voti. La Hidalgo, forte per la sua ampia coalizione di tutte le gauche e l’alleanza con gli ecologisti, si preparava da giorni a festeggiare e ieri il suo discorso lo ha fatto direttamente dal piazzale dell’Hôtel de Ville.

L’ex ministra di Sarkozy dovrà accontentarsi del comune del settimo arrondissement, quartiere chic di Parigi, dove era stata rieletta già al primo turno. La sfida per Parigi si giocava tra gauche e droite. La candidata di Macron, Agnès Buzyn, che ha portato avanti una campagna senza slancio, si è fermata al 13,7% dei voti. Screditata per la cattiva gestione della crisi sanitaria, è diventata il volto della disfatta di LaRem. Il voto di ieri ha confermato un’“onda verde” in Francia, che era attesa: gli ecologisti hanno conquistato non solo Lione, ma almeno anche Strasburgo, Besançon e Bordeaux, con la coalizione di gauche. L’estrema destra ha raggiunto il suo solo obiettivo: scippare alla destra la città di Perpignan, nel sud, dove Louis Alliot, ex numero due del Rassemblement National ed ex compagno di Marine Le Pen, ma che si presentava come candidato senza etichetta, ha ottenuto il 53% dei voti. Per la leader è stata “una grande vittoria”.

Il partigiano Marcello che raccontò Cefalonia

Dell’eccidio tedesco dei soldati italiani della divisione Acqui, avvenuto nell’isola greca di Cefalonia alla fine del settembre del 1943, agli inizi degli anni Sessanta non ne parlava più nessuno. Era calato un velo pesante, sulla strage era caduto nell’oblio. Ad alzare quel velo, tanto da indurre Simon Wiesenthal, il cacciatore di criminali nazisti, a promuovere un’azione penale in Germania, fu un libro pubblicato da Feltrinelli nel 1963: era Bandiera bianca a Cefalonia di Marcello Venturi (Seravezza, 1925 – Molare, 2008), l’autore di Il treno degli Appennini, di Vacanza tedesca, di Sdraiati sulla linea, di Il padrone dell’agricolae di un romanzo splendido come L’ultimo veliero.

“Quando uscì il mio libro”, raccontò Venturi in un’intervista per l’Istituto storico della Resistenza di Alessandria, “provocò nei lettori lo stesso stupore che aveva provocato a me la lettura dell’articolo di Amos Pampaloni”, un reduce della divisione Acqui, che lo aveva scritto per Il Ponte di Piero Calamandrei. “I giornali”, proseguiva, “mandarono i loro inviati a Cefalonia e fu una scoperta. Il mio libro fu dunque l’accadimento che fece conoscere l’eccidio di Cefalonia in Italia e all’estero, perché fu tradotto in 14 Paesi, dall’Unione Sovietica agli Stati Uniti, all’Inghilterra”.

Uno dei responsabili dell’eccidio, Alfred Stork, è ancora in vita, in Germania, impunito come gli altri assassini. Ma per una trama del destino, e per miopia o ignoranza, il nome di Venturi, narratore notevole ma non valorizzato come avrebbe meritato, e giornalista de L’Unità, dirigente della Feltrinelli, partigiano, comunista fino al 1956, l’anno dell’invasione sovietica dell’Ungheria, è sostanzialmente dimenticato dai più. Per fortuna, però, esistono il Centro manoscritti dell’Università di Pavia e la rivista Autografo fondata da Maria Corti e stampata dalla casa editrice Interlinea; ed è in vita la scrittrice Camilla Salvago Raggi (96 anni), compagna di vita di Marcello Venturi tra le colline del Monferrato.

Grazie a loro l’ultimo numero di Autografo, diretta ora da Maria Antonietta Grignani, Gianfranca Lavezzi e Angelo Stella, è interamente dedicato al narratore toscano con il titolo “Marcello Venturi tra letteratura e storia”, e con saggi di David Bidussa, Giovanni Capecchi, Chiara Colombini, Francesco De Nicola, Giuseppe Filippetta e Clelia Martignoni, la curatrice. Spiega la Martignoni che si tratta di un’ampia rielaborazione del seminario di studi tenutosi a Pavia nel 2018, e con una novità importante: la pubblicazione di “un romanzo inedito giovanile”, La nostra vita, “dove la letteratura si incrocia con la passione civile. L’anno di stesura è il 1946, in concomitanza con l’uscita sul Politecnico di Elio Vittorini di due suoi bellissimi racconti, resistenziali e neorealistici, e dell’inchiesta sul paese di Porcari, Lucca”.Il numero monografico di Autografo, e il testo di La nostra vita, scritto a poco più di 20 anni, pieno di suggestioni da Elio Vittorini ma già con pagine di grande forza, come nella descrizione della prostituta di Pistoia e del padre ferroviere del protagonista, riportano finalmente l’attenzione su Marcello Venturi.

Fu uno scrittore realista, fortemente impegnato sul piano civile e politico anche dopo l’uscita dal Partito comunista per i fatti del ’56. Eppure fu capace di regalare ai lettori un libro come L’ultimo veliero (ristampato da Sellerio nel 2007), la storia di alcuni anziani ex marinai, in un ospizio di Viareggio, che sognano di riprendere il mare. Un romanzo di cui la poetessa Maria Luisa Spaziani, nel 1962, diceva: “C’è un’aria azzurra di avventura, un riscatto, una speranza ai quali troppi libri contemporanei ci avevano disabituato”.

La notorietà gli venne grazie a Bandiera bianca a Cefalonia, punto di arrivo di una militanza letteraria e politica (parole che oggi sembrano eresie da anno Mille…) cominciata nella Resistenza. Era quella militanza che Venturi, nell’intervista citata, inquadrava così: “Eravamo giovani scrittori, e aspiravamo a indagare la società, i problemi reali della vita piuttosto che, diciamo così, a far della letteratura ‘poetica’ com’era caratteristico dell’Italia dell’anteguerra. Di più: il nostro fu un movimento che nacque proprio in contrapposizione alla letteratura dominante nell’anteguerra, una letteratura più formalista che di contenuti”.

Sempre conversando con Robert Botta dell’Istituto storico della Resistenza di Alessandria, Venturi enunciava il suo credo di letterato che scrive per stimolare il lettore al “cambiamento”. Disse: “Anche quando ho poi lasciato da parte il tema della Resistenza, sono sempre rimasto fedele all’impegno civile dello scrivere, non ho mai voluto scrivere di cose astratte, completamente inventate da me, ho sempre scritto di cose che avevo sperimentato direttamente e sempre partendo dal presupposto che c’è una condizione umana che andrebbe cambiata in meglio”. E “sono convinto”, concludeva, che “sia proprio questa la caratteristica che distingue il neorealismo dal verismo: il verismo descrive la realtà così come è ma senza impegno di nessun genere, lo scrittore neorealista invece descrive la situazione così come è per modificarla. Insomma l’assunto è quello di Vittoriani: si scrive non per dare consolazione a chi legge ma per stimolarlo al cambiamento”.

Parole, queste di Venturi, che dovrebbero quantomeno fare riflettere le narratrici e i narratori del nostro tempo (sperando che qualcuno di loro legga i suoi libri e mediti naturalmente su Cefalonia).

Sassuolo, là dove c’era l’erba ora ci saranno 49 villette

Capiremo in autunno se il disastro sanitario e politico della Lombardia a trazione leghista ha messo la parola fine agli scellerati progetti di autonomia differenziata. Ma il fatto è che la secessione delle ricche regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna intende sanzionare sul piano istituzionale una realtà culturale ed economica: l’omogeneità del progetto che guida lo sviluppo di queste tre aree del Paese. Tra i tanti indici che lo dimostrano, c’è il consumo di suolo: la cui classifica è da tempo guidata proprio da queste tre regioni (anche se va riconosciuto, con orrore, che i dati del 2019 hanno visto la Puglia scalzare l’Emilia Romagna dal terzo posto). Nemmeno il Covid ferma il trend: si continua a far girare la betoniera come se non ci fosse un domani. Cementificando anche là dove non solo la natura e l’ambiente, ma anche la storia e l’arte dovrebbero vietarlo radicalmente.

È quanto succede a Sassuolo, in provincia di Modena. Qua l’amministrazione di centro destra (Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega e qualche civica) è decisa a far costruire in tutta fretta ben 49 nuove villette. Alla faccia del recupero edilizio, direte voi. Ma non solo: il progetto prevede che esse sorgano nel Parco Ducale, cioè in quanto resta del celebre giardino della delizia degli Estensi, residenza di campagna dei duchi di Modena che fu realizzata ricorrendo al consiglio di artisti del calibro di Gian Lorenzo Bernini. Lo scenografo e ingegnere idraulico Gaspare Vigarani, con suo figlio Carlo, condusse nel parco le acque del vicino Canale di Modena, provenienti da quelle del Secchia: che così raggiunsero la peschiera e le fontane, realizzate in parte su disegno dello stesso Bernini. Un luogo da sogno, ormai assai mutilato e ristretto, che però ancora potrebbe risorgere, se solo Stato e Comune si accordassero per restaurare, recuperare, tutelare e aprire ai cittadini. Invece, ecco il cemento.

La sezione modenese di Italia Nostra, che si batte per evitare la deavastazione, denuncia che l’intervento è previsto “nell’area verde che si apre a ovest del duplice filare di pioppi cipressini, poco a sud della traversa di Via Indipendenza, entro i confini storici del Parco Ducale segnati dalle tracce ancora rinvenibili delle muraglie. … L’abbattimento dei pioppi in atto lungo la linea del previsto insediamento è stato inteso, nel commento risentito di molti cittadini di Sassuolo, come l’avvio dell’annunciato cantiere”.

Ma come è stato possibile arrivare a un simile scempio? Ciò che resta del Parco di Francesco I d’Este è soggetto a tutela paesaggistica fin dal 1976, quando la Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali lo comprese in un più vasto ambito territoriale caratterizzato da due capisaldi visivi, il Palazzo Ducale e il Castello di Montegibbio, sui primi rilievi collinari. Eravamo però alla vigilia, in quello stesso 1976, dell’inconsulta delega alle regioni della tutela paesaggistica, in pratica così vanificata anche a Sassuolo: era l’avverarsi di quella “raffica regionalistica” che Concetto Marchesi (uno dei più tenaci padri dell’articolo 9 della Costituzione, quello che tutela paesaggio e patrimonio storico e artistico) aveva previsto fin dai tempi dell’Assemblea Costituente.

Regioni & cemento: ecco il nesso fatale. Solo con la legge Galasso del 1985 il ministero che vegliava sui Beni culturali recuperò in parte la competenza, e in uno dei primi decreti attuativi della stessa legge confermò a Sassuolo la tutela dettata dalla commissione provinciale, e anzi la estese nella collina. Tuttavia, il danno era fatto, e il Comune di Sassuolo ha covato nei decenni questa variante urbanistica che ora sta per diventare grigia realtà: un nucleo di edilizia “di pregio” (non certo case popolari costruite per necessità sociale) che viene a completare l’assedio dell’edificato a quello che potrebbe ancora essere un polmone di verde e di storia per tutti i cittadini di Sassuolo.

Ora la parola è alla Soprintendenza, che nonostante le varie oscillazioni nella storia recente della tutela, ha tutti gli strumenti per imporre al Comune uno stop, in nome di valori non negoziabili. Mai come durante la crisi del Covid è stato chiaro come la salute sia il diritto fondamentale cui sono subordinati tutti gli altri, compresi quelli sacrosanti delle libertà civili e personali. Ebbene, una lunga serie di sentenze della Corte Costituzionale ha chiarito che la protezione del paesaggio coincide con quella dell’ambiente, della biosfera ha detto la Corte, e dunque con quella della salute dei cittadini. E una sentenza del Consiglio di Stato (29 aprile 2014) ha sancito una volta per tutte il fatto che “il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato, e, quindi, deve essere anteposto alle esigenze urbanistico-edilizie”. Ovunque: anche a Sassuolo.

Pesci morti e rifiuti: mare sporco per la burocrazia

Riempiono le reti dei pescatori, uccidono i pesci e inquinano i fondali cristallini dell’isola d’Elba. E i primi ad accorgersene sono i pescatori che ogni giorno tirano su scarti su scarti di microplastiche. Nei fondali del mar Tirreno, tra Piombino e l’Isola d’Elba, ci sono 56 ecoballe che si stanno sfaldando, divorando la flora e la fauna. Presto potrebbero invadere anche la costa, dopo aver già inquinato le acque dell’isola d’Elba orientale. “Una bomba ecologica” la definiscono da Greenpeace che ha presentato esposto alla Corte dei Conti per danno erariale contro la Regione Toscana perché “aveva in mano una fidejussione di quasi tre milioni di euro, poi restituiti, a garanzia dei possibili danni ambientali intercorsi durante le operazioni di trasporto”. Quelle 63 tonnellate di rifiuti sono lì da quattro anni: nessuno le ha recuperate ed è molto probabile che questo non avverrà in tempi brevi. Perché? Dal 2019 la burocrazia romana ha bloccato tutto.

Tutto inizia il 23 luglio 2015. Il cargo “Ivy” battente bandiera Isole Cook e di proprietà di una società con sede alle isole Marshall, salpa dal porto di Piombino dopo aver prelevato le 60 ecoballe da un’azienda di Grosseto: il comandante turco Sanin Ozkaya le deve portare a un cementificio di Varna, in Bulgaria. All’altezza dell’isolotto di Cerboli, zona protetta del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, però la “Ivy” comincia a perdere assetto nonostante il mare sia calmo e, per salvare l’equipaggio, il comandante disperde in mare il carico senza comunicare niente all’Autorità marittima. L’imbarcazione arriverà in Bulgaria solo il 2 agosto ma le autorità italiane, la Capitaneria di Piombino e la Procura di Grosseto, non riusciranno mai a rintracciare il comandante turco per spiegare i motivi dell’avaria e dei rifiuti dispersi sui fondali. Le 56 ecoballe però restano e piano piano iniziano a sfaldarsi. Ma non è finita: alle difficoltà investigative – il fascicolo è passato per competenza alla Procura di Livorno – si aggiungono i gangli della burocrazia romana in cui rimane impigliato il contrammiraglio Aurelio Caligiore.

Il 25 giugno 2019, quattro anni dopo l’accaduto, viene nominato dal governo commissario straordinario per il recupero e lo smaltimento di quei 63mila chili di plastica dispersi nel golfo di Follonica. L’incarico dura un anno, scaduto pochi giorni fa, ma Caligiore non ha mai potuto effettivamente applicare il suo piano: la nomina è stata bloccata a dicembre a causa di un procedimento aperto dall’Autorità garante per la concorrenza e il mercato (Agcm) per potenziale conflitto di interessi. A Caligiore viene contestata l’incompatibilità tra il ruolo di commissario straordinario e quello di capo del Reparto ambientale marino delle Capitanerie di porto (Ram), struttura del ministero dell’Ambiente. La decisione dell’Agcm era stata fissata al 22 aprile ma l’emergenza covid ha fatto slittare tutto al 31 luglio, quando ormai l’incarico del contrammiraglio sarà scaduto da un mese.

A metà giugno, lasciando il suo ruolo, Caligiore ha presentato un piano che potrebbe recuperare e smaltire le ecoballe in tre settimane e al costo di un milione e mezzo di euro. Ma nel frattempo il suo incarico è scaduto. Le 60 tonnellate di rifiuti sui fondali del mar Tirreno però rimangono e stanno provocando i primi effetti nefasti: tra il 2018 e il 2019 gli elbani hanno notato un vistoso aumento di plastiche e una ecoballa è stata recuperata nelle acque tra Capoliveri e Porto Azzurro. Poi ci sono i pescatori di Piombino che ormai, insieme ai pesci, tirano su rifiuti di ogni tipo.

“Il tempo passa e la presenza delle ecoballe diventa sempre più rischiosa per l’ecosistema marino – dice da settimane Angelo Gentili di Legambiente – Il rischio è la contaminazione dei fondali oltre ai disagi e ai rischi per i pescatori. Una bomba ecologica che deve essere disinnescata subito”. Di possibile “disastro ambientale” parla invece il sindaco di Piombino, Francesco Ferrari, in caso di rottura di una delle ecoballe. Solo nei ministeri romani si può sbloccare la situazione: il governatore della Toscana Enrico Rossi e il ministro dell’Ambiente Sergio Costa hanno scritto al capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, per dichiarare lo stato di emergenza e velocizzare le pratiche per il recupero delle ecoballe. Al momento però nessuna risposta è arrivata.