Attrice drammatica, perché “se mi si toglie la paura, la nevrosi, l’angoscia, io come faccio ad andare avanti? Se mi ritrovo sono perduta”. Attrice comica, per “ribellione all’angoscia della vita”. In questa confessa dualità, in questa fertile contraddizione ha vissuto Monica Vitti, eccellenza cinematografica irripetibile.
La prima e unica mattatrice del nostro cinema, la voce, anticipata da un Grido doppiato, dell’incomunicabilità di Antonioni, l’incarnazione del male di vivere: “Ora io vi domando: dal momento che, vista da fuori, io sono una privilegiata, ed è vero, godo di agi e di vantaggi, allora perché a volte vivo così male? Colpa mia? Sì. Credo proprio di sì” e l’incarnazione del bello di ridere: chi così comica prima di lei? Oltre il divismo omogeneizzato, seppe domiciliare bellezza e simpatia, fascino e ironia nell’immaginario collettivo. Senza copia conforme: la bellezza sfuggiva ai canoni coevi delle bonone, la simpatia era velata di tristezza, il fascino si nutriva di inquietudine, l’ironia era un salvavita.
Vitti era tanto quel che portava in campo che quanto teneva nel fuoricampo: non era contenibile né definibile, aveva il privilegio della libertà. “Tu chi sei? Boh, sono un’attrice”, sono le generalità rievocate dal bel documentario che per i novant’anni, il 3 novembre scorso, le aveva dedicato Fabrizio Corallo, Vitti d’arte, Vitti d’amore, ma quel “sono” andava coniugato alla Michelangelo: “Antonioni mi ha permesso di essere”. Come nessuna mai, capace di un paso doble, drammatico e comico, recitato a soggetto e senza possibilità di replica altrui: “Perché devo sempre avere bisogno degli altri?”, si spazientiva, ma quanto abbiamo avuto noi bisogno di lei per sentirci più grandi, più bravi, e più internazionali? Il 3 maggio del 1988 la sua fama costò a Le Monde la caduta “in un ignobile tranello”: l’autorevole quotidiano parigino pubblicò con grande rilievo la notizia, invero bufala, del suicidio dell’attrice. L’esigenza di non “bucare” prevalse sulla verifica, ma la fake news non tradì una verità, conservata fino a oggi: “Un’attrice straordinaria – scriveva Le Monde – e, in un certo modo, un mito”.
Il ritiro dalle scene verrà di lì a poco: la sua prima regia, Scandalo segreto del 1990, è anche il suo ultimo film, in tv si spinge fino al 1992 per la miniserie Ma tu mi vuoi bene?. Il resto è amore, Roberto Russo che sposerà in Campidoglio nel 2000 dopo lungo fidanzamento, e malattia, vissuti nell’assoluta discrezione: l’assenza, a patto di essere stati una presenza, non è la fine per un attore, ma l’inizio del mito.
I capelli biondi, la mascella disegnata, la voce inconfondibile, negli ultimi vent’anni l’abbiamo vissuta nel ricordo, meglio, nelle vestigia. “Vis comica pari a Tina Pica” secondo Christian De Sica, “nel cuore di tutti” per Carlo Verdone, “carattere incoercibile” certificato da Sandro Veronesi, “una grandissima conoscenza dell’esistenza” validata da Barbara Alberti, il “Vitti touch” cristallizzato da Enrico Vanzina: hanno ragione le talking heads di Corallo, ha sopra tutto ragione Maurizio Costanzo: “Mi manca molto come peraltro mi manca Sordi come mi manca Antonioni”, perché la mancanza è la proiezione dell’assenza, e Monica ci aveva preparato.
Eterodossa ed eterogenea, ondivaga e imprevedibile, come ribadito in quella gustosa “autobiografia involontaria” che è Sette sottane del 1993, “la regina del cinema italiano” (il ministro Franceschini) chiude un’epoca che già non abitava più, lasciandoci in dote splendidi film, splendide prove, una splendida attrice e i sentimenti, che ricambiamo: “I sentimenti resistono perché sono al di fuori della mia volontà: si ama anche chi non si vorrebbe e quando non si vorrebbe. I sentimenti vanno per conto loro, senza regole, senza tragitti prefissati”. Eccezione culturale, concezione attoriale, educazione sentimentale: è stata tutto questo, e rimarrà.
Dopo il doppiaggio di Dorian Gray ne Il grido, la tetralogia L’avventura, La notte, L’eclissi e Deserto rosso – il suo “Mi fanno male i capelli” chi se lo scorda? – ne fa la musa di Antonioni e il nostro affaccio più bello, e più bravo, sul cinema mondiale. Ma è solo il primo tempo, il secondo è brillante, vivace, e altrettanto gratificante: è La ragazza con la pistola (1968) per Mario Monicelli, è la capricciosa Raffaella nell’Amore mio aiutami di e con Alberto Sordi, è Il tango della gelosia (1981) di Steno e il Flirt (1983) dell’amato Roberto Russo.
Se per Antonioni fu rabdomante di senso, nella comicità non è stata vicaria, non s’è fatta lussare, e sempre ha imposto tempi e modi, prospetti sociologici e prospettive ideologiche, come nel Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) di Ettore Scola: “Oreste, omo del mio destino, io te darò l’oblio”.
Se dovessimo isolarne il tratto, sarebbe forse l’emancipazione: dall’univocità di genere, dall’ineluttabilità di stereotipo, dalla prevedibilità di sentire. Aveva l’aura, Maria Luisa Ceciarelli in arte Monica Vitti, e ha saputo non farla pesare. Perché “i fatti sono presuntuosi, pesanti, invadenti. Le emozioni sono leggere e indipendenti. Ti ballano intorno e sono pronte a distrarsi al primo colore”. Monica Vitti ci ha emozionato. E ancora.