Vitti d’arte e d’amore: divina

Attrice drammatica, perché “se mi si toglie la paura, la nevrosi, l’angoscia, io come faccio ad andare avanti? Se mi ritrovo sono perduta”. Attrice comica, per “ribellione all’angoscia della vita”. In questa confessa dualità, in questa fertile contraddizione ha vissuto Monica Vitti, eccellenza cinematografica irripetibile.

La prima e unica mattatrice del nostro cinema, la voce, anticipata da un Grido doppiato, dell’incomunicabilità di Antonioni, l’incarnazione del male di vivere: “Ora io vi domando: dal momento che, vista da fuori, io sono una privilegiata, ed è vero, godo di agi e di vantaggi, allora perché a volte vivo così male? Colpa mia? Sì. Credo proprio di sì” e l’incarnazione del bello di ridere: chi così comica prima di lei? Oltre il divismo omogeneizzato, seppe domiciliare bellezza e simpatia, fascino e ironia nell’immaginario collettivo. Senza copia conforme: la bellezza sfuggiva ai canoni coevi delle bonone, la simpatia era velata di tristezza, il fascino si nutriva di inquietudine, l’ironia era un salvavita.

Vitti era tanto quel che portava in campo che quanto teneva nel fuoricampo: non era contenibile né definibile, aveva il privilegio della libertà. “Tu chi sei? Boh, sono un’attrice”, sono le generalità rievocate dal bel documentario che per i novant’anni, il 3 novembre scorso, le aveva dedicato Fabrizio Corallo, Vitti d’arte, Vitti d’amore, ma quel “sono” andava coniugato alla Michelangelo: “Antonioni mi ha permesso di essere”. Come nessuna mai, capace di un paso doble, drammatico e comico, recitato a soggetto e senza possibilità di replica altrui: “Perché devo sempre avere bisogno degli altri?”, si spazientiva, ma quanto abbiamo avuto noi bisogno di lei per sentirci più grandi, più bravi, e più internazionali? Il 3 maggio del 1988 la sua fama costò a Le Monde la caduta “in un ignobile tranello”: l’autorevole quotidiano parigino pubblicò con grande rilievo la notizia, invero bufala, del suicidio dell’attrice. L’esigenza di non “bucare” prevalse sulla verifica, ma la fake news non tradì una verità, conservata fino a oggi: “Un’attrice straordinaria – scriveva Le Monde – e, in un certo modo, un mito”.

Il ritiro dalle scene verrà di lì a poco: la sua prima regia, Scandalo segreto del 1990, è anche il suo ultimo film, in tv si spinge fino al 1992 per la miniserie Ma tu mi vuoi bene?. Il resto è amore, Roberto Russo che sposerà in Campidoglio nel 2000 dopo lungo fidanzamento, e malattia, vissuti nell’assoluta discrezione: l’assenza, a patto di essere stati una presenza, non è la fine per un attore, ma l’inizio del mito.

I capelli biondi, la mascella disegnata, la voce inconfondibile, negli ultimi vent’anni l’abbiamo vissuta nel ricordo, meglio, nelle vestigia. “Vis comica pari a Tina Pica” secondo Christian De Sica, “nel cuore di tutti” per Carlo Verdone, “carattere incoercibile” certificato da Sandro Veronesi, “una grandissima conoscenza dell’esistenza” validata da Barbara Alberti, il “Vitti touch” cristallizzato da Enrico Vanzina: hanno ragione le talking heads di Corallo, ha sopra tutto ragione Maurizio Costanzo: “Mi manca molto come peraltro mi manca Sordi come mi manca Antonioni”, perché la mancanza è la proiezione dell’assenza, e Monica ci aveva preparato.

Eterodossa ed eterogenea, ondivaga e imprevedibile, come ribadito in quella gustosa “autobiografia involontaria” che è Sette sottane del 1993, “la regina del cinema italiano” (il ministro Franceschini) chiude un’epoca che già non abitava più, lasciandoci in dote splendidi film, splendide prove, una splendida attrice e i sentimenti, che ricambiamo: “I sentimenti resistono perché sono al di fuori della mia volontà: si ama anche chi non si vorrebbe e quando non si vorrebbe. I sentimenti vanno per conto loro, senza regole, senza tragitti prefissati”. Eccezione culturale, concezione attoriale, educazione sentimentale: è stata tutto questo, e rimarrà.

Dopo il doppiaggio di Dorian Gray ne Il grido, la tetralogia L’avventura, La notte, L’eclissi e Deserto rosso – il suo “Mi fanno male i capelli” chi se lo scorda? – ne fa la musa di Antonioni e il nostro affaccio più bello, e più bravo, sul cinema mondiale. Ma è solo il primo tempo, il secondo è brillante, vivace, e altrettanto gratificante: è La ragazza con la pistola (1968) per Mario Monicelli, è la capricciosa Raffaella nell’Amore mio aiutami di e con Alberto Sordi, è Il tango della gelosia (1981) di Steno e il Flirt (1983) dell’amato Roberto Russo.

Se per Antonioni fu rabdomante di senso, nella comicità non è stata vicaria, non s’è fatta lussare, e sempre ha imposto tempi e modi, prospetti sociologici e prospettive ideologiche, come nel Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) di Ettore Scola: “Oreste, omo del mio destino, io te darò l’oblio”.

Se dovessimo isolarne il tratto, sarebbe forse l’emancipazione: dall’univocità di genere, dall’ineluttabilità di stereotipo, dalla prevedibilità di sentire. Aveva l’aura, Maria Luisa Ceciarelli in arte Monica Vitti, e ha saputo non farla pesare. Perché “i fatti sono presuntuosi, pesanti, invadenti. Le emozioni sono leggere e indipendenti. Ti ballano intorno e sono pronte a distrarsi al primo colore”. Monica Vitti ci ha emozionato. E ancora.

 

Melis e i letto ripresi all’amo

Quando nel 2002 venne pubblicata la prima inchiesta di Melis, Il Maestro della Testa sfondata, avevo già chiari gli estremi temporali del ciclo.

Da poche settimane prima del sequestro di Aldo Moro al primo governo Berlusconi, gli anni, cioè, come ebbi a dire più volte, in cui si svilisce la grammatica di una civiltà. Non avevo chiaro il susseguirsi delle inchieste e l’evolvere dei personaggi principali. Mi era chiaro il voler raccontare la mutazione antropologica e sociale di quegli anni a Milano, città che, in economia in politica e nei costumi, è “il futuro cinque anni prima”, come recitava una sgargiante pubblicità di quando si aveva ancora fiducia nel futuro.

E avevo già chiaro che nell’ultimo volume della serie, Ma cos’è questo nulla?, Melis si sarebbe trovato in un ruolo molto diverso da quello di alto funzionario statale ricoperto sino ad allora.

Chiarito che il progetto originale si è venuto a definire titolo dopo titolo, pur senza perdere di vista le stelle che guidavano la navigazione, arrivo alla domanda che spesso un autore si sente fare: come ti è venuta l’idea?

Già, prima della trama viene l’idea, ma come in che forma e perché è un mistero, attesta Leonardo Sciascia: “Chi scrive libri diciamo d’immaginazione, sa quanto è difficile, e quasi impossibile, rifarne poi la genesi, ritrovare il primo seme, il primo elemento, la prima suggestione da cui sono nati – e insomma quella che si suole chiamare l’idea”. E per dimostrarlo cita Stendhal, che per Il Rosso e il Nero offre due versioni diverse e contraddittorie. Lo capisco, non sempre è facile dire come ci è venuta l’idea. A volte parti da un fatto, un nodo che sgomitoli e tessi; altre da un’immagine: chi sono quelle persone? Perché sono lì? E lì dove, quando?

L’idea è l’uovo, deve evolvere in trama. Che può crescere oca o cigno.

La scrittura – lo stile – è quel che distingue l’oca dal cigno, quel che rende donne e uomini corpi esteticamente assai più interessanti e complessi dei loro pur necessari scheletri, facendo la differenza tra personaggi vivi o piatti, secondo la celebre classificazione di Edward M. Forster. E ogni buon romanzo ha sempre dentro più cose di quante consciamente ne abbia messe l’autore: è questa la misteriosa ricchezza dell’arte. La cucina ha ricette chiare, la cucina letteraria no. La scrittura non è una scienza esatta.

Perciò gli autori forniti di amor proprio quando si misurano con i romanzi di genere incrinano alcune regole del genere. Perché i buoni libri fanno pensare, e per farlo urtano ciò che è familiare facendo uso di deviazioni. Per limitarci alla trama nei romanzi di genere per eccellenza, esistono importanti romanzi gialli senza assassinio, altri nei quali il colpevole non è punito, e già dal 1912 esistono gialli nei quali il lettore sa dalla prima pagina chi è il colpevole.

Certo, l’inizio è importante. E Il sospetto di Francis Iles (1932), dal quale Hitchcock trasse un noto film, mette subito le carte in tavola: “Ci sono donne che generano degli assassini, donne che li amano, donne che li sposano. Lina Aysgarth ci mise otto anni per accorgersi di aver sposato un assassino”. Chi sia il colpevole, lo si sa da subito: ma l’inizio è folgorante, e il lettore capisce che la tensione sta altrove. Questo concetto vale anche per la grande letteratura. Ma un inizio troppo bello ha i suoi rischi: quel che segue deve poi esserne all’altezza. Scrivere un incipit a effetto richiede più tecnica e talento che genio. Scrivere un grande romanzo richiede genio.

Due esempi di inizi talentuosi? Eccoli.

“La mia prima persona fu dunque il mondo”. – Niccolò Tucci, Gli Atlantici. Quel dunque è magistrale.

“Del resto è sempre così. Uno fa di tutto per starsene in disparte e poi un bel giorno, senza sapere come, si trova dentro una storia che lo porta dritto alla fine.” – Gianfranco Calligarich, L’ultima estate in città. Magistrale, quel Del resto.

Prendiamo Robert Louis Stevenson. Le pagine iniziali dell’Isola del Tesoro sono tra le più riuscite della letteratura occidentale. Sentiamo che qualcosa – ma cosa? – , che una minaccia – ma quale? – si sta addensando all’orizzonte del piccolo mondo modesto abitudinario ma sereno della locanda del personaggio che narra gli eventi in prima persona, Jim. Se, da un lato, questo assicura il lettore della sopravvivenza del personaggio rispetto ai fatti narrati (Amabili resti di Alice Sebold arriverà centovent’anni dopo), nulla toglie alla tensione narrativa che ci sospinge, pagina dopo pagina, sino alla fine. Che a me era sempre parsa in discesa, rispetto a quel formidabile inizio. Poi ho avuto l’illuminazione: il lieto fine è tale soltanto in parte. Il padre, figura evanescente che Jim ha perduto nelle prime pagine, è stato alfine ritrovato, sì, ma in un personaggio ambiguo come John Silver, che ne esce enormemente arricchito in quanto villain, perché al suo essere pirata e omicida s’aggiunge il fantasma di quel che avrebbe potuto essere – e in parte è stato, almeno per Jim. A conferma che si cresce e si diviene adulti soltanto nell’ambiguità.

Esempi di inizio-e-fine di eccellente coerenza sono quelli dei tre volumi sui “nostri antenati” di Italo Calvino. Esistono però molti modi di prendere all’amo il lettore, e uno è la divagazione. Sulla pesca all’amo, un inglese d’età giacobita, Izaac Walton, scrisse un trattatello, The complete angler (1653), oggi un classico: in esso, infatti, si parla di tecniche e luoghi della pesca con la lenza in acqua dolce raccontando però abitudini quotidiane, feste, cibi e tradizioni dell’Inghilterra rurale negli anni di Cromwell. Insomma, si pesca ben altro che pesci, in quelle pagine. E così facendo, così divagando l’autore si assicura un posto imperituro nella letteratura della sua lingua.

Sulla pesca, quella vera, io non so. So però che l’uscita di scena di Norberto Melis non poteva che iniziare e finire così. Ma se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.

 

Relazione con una collega: si dimette il presidente della Cnn

Jeff Zucker lascia la poltrona di presidente della Cnn e della divisione news e sport di WarnerMedia. In una nota, Zucker ha ammesso di aver tenuto nascosta una relazione consensuale con Allison Gollust, vicepresidente esecutivo della Cnn e responsabile del marketing. Lei rimarrà al suo posto. Il dirigente si dimette mentre WarnerMedia, proprietaria della Cnn, sta per essere acquistata da Discovery Inc.: si tratta in una delle operazioni di fusione più imponenti dell’industria dei media americani. Nel memo inviato ai suoi colleghi, Zucker rivela che la vicenda della sua relazione è emersa durante l’indagine interna condotta su Chris Cuomo, il giornalista licenziato lo scorso dicembre per il suo coinvolgimento nelle vicende politiche del fratello, l’ex governatore di New York, Andrew Cuomo, accusato, e oggi scagionato, di molestie sessuali.

Trump fa incetta di fondi in vista del voto “Midterm”

Donald Trump fa incetta di centinaia di milioni di dollari per la campagna elettorale, mentre colleziona procedimenti giudiziari: il magnate ex presidente resta protagonista sulla scena politica e, con la sua popolarità, e i suoi soldi, cerca di condizionare le scelte dei Repubblicani per il midterm: ha già dato l’appoggio a oltre cento candidati e sta provando a cacciare dal partito Liz Cheney e Adam Kinzinker, due deputati che guidano la piccola fronda alla sua leadership. L’ex presidente George W. Bush ha invece fatto donazioni per la rielezione della Cheney, figlia del suo vice Dick, oltre che della senatrice Lisa Murkowski, un’altra anti-Trump. In un anno lontano dalla Casa Bianca, Trump ha raccolto 122 milioni di dollari, 105 dei quali tramite il Comitato di azione politica Save America: soldi – questi ultimi – che non possono essere spesi per un’eventuale corsa alla nomination 2024, ma che possono servire a influenzare la scelta dei candidati al midterm. I media Usa hanno già decretato ‘kingmaker del midterm’ e messo in pole per il 2024. Trump da solo ha raccolto oltre il doppio di quanto racimolato dal comitato nazionale repubblicano. La commissione d’inchiesta ha carte che dimostrano come Trump volesse fare sequestrare le macchine elettorali ritenute all’origine delle presunte frodi ai suoi danni, di cui non è mai stata prodotta prova. L’ex presidente avrebbe personalmente stracciato documenti per lui compromettenti che sarebbero poi stati rimessi insieme con lo scotch negli Archivi nazionali.

L’incubo di Putin: l’Ucraina e la Georgia dentro la Nato

Vladimir Putin, in conferenza stampa con il primo ministro ungherese Viktor Orban, ha detto che Usa e Nato hanno “ignorato” le sue richieste per porre fine alla crisi ucraina. Il quotidiano spagnolo El Paìs ha ottenuto le lettere, una della Casa Bianca e l’altra dell’Alleanza Atlantica, che hanno fatto infuriare il Cremlino. Le principali richieste russe, espresse in vari incontri diplomatici e poi inviate per iscritto a Washington e Bruxelles, erano due: vietare all’Ucraina l’accesso alla Nato e un trattato bilaterale sulla sicurezza tra Europa e Russia. Nelle lettere di risposta c’è un secco ‘No’. La controproposta è una negoziazione presso l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), e altri enti, per la smilitarizzazione del confine. Mosca aveva inviato una bozza di trattato a Usa e Nato. Esigeva una risposta scritta, arrivata con questi due documenti mercoledì scorso al Cremlino. Nella lettera della Nato, lunga quattro pagine divise in 12 punti, si legge: “La Russia ha rotto il rapporto di fiducia” e pone inoltre come condizione per nuove negoziazioni “la smilitarizzazione russa accanto ai confini ucraini”.

La risposta di Washington, intitolata Confidential/Rel Russia, è composta da cinque pagine e sette punti e nella sua introduzione sembra più incline al dialogo “siamo pronti a considerare accordi e regolamenti con la Russia su temi di interesse bilaterale”. Però basta avanzare di un paio di righe per leggere la peggiore delle risposte per Putin: “Gli Stati Uniti continuano ad appoggiare la politica di porte aperte della Nato”. Questo per Mosca allarga il campo. Non si parla solo più di Ucraina, ma anche di Georgia. Nella lettura della crisi ucraina proposta nel documento redatto dall’amministrazione Biden c’è un rimprovero a Putin per aver dispiegato oltre 100 mila militari sul confine. Ma anche un invito ad abbassare la tensione. Rispetto al trattato sulla sicurezza proposto da Mosca la Casa Bianca scrive “la Russia avanza richieste che minano principi sui quali si è impegnata in documenti precedenti” e aggiunge che la stabilità europea si basa su trattati firmati pure dal Cremlino “che sanciscono i principi di integrità territoriale, sovranità e diritto di ciascuno Stato di scegliere i propri accordi e alleanze in materia di sicurezza”. Il punto resta e rimane l’adesione dell’Ucraina alla Nato.

Per la Russia l’ingresso di Kiev nell’Alleanza Atlantica sarebbe non solo una sconfitta per la riduzione del campo d’influenza, ma una minaccia. La Nato, quindi gli Usa, potrebbero impiantare basi militari nel paese e quindi installare missili a corto e medio raggio capaci di colpire direttamente Mosca. Ed è proprio per limitare questa preoccupazione che nel documento scritto a Washington ci sono diversi riferimenti alla distribuzione di razzi e non solo nell’area. Il governo americano propone un percorso per arrivare a un nuovo trattato di disarmo che parte dal quello vigente New Start, nel quale sono compresi solo gli ordigni a gittata intercontinentale. New Start resterà in vigore fino al 2026, però non menziona alcune nuove tecnologie di lancio che hanno la possibilità di trasportare testate nucleari. “Iniziare immediatamente la discussioni per il futuro di New Start” e fare nuovi accordi che “includano tutte le armi nucleari Usa e Russia”. Per procedere la Casa Bianca propone un “meccanismo di trasparenza” che permetterebbe a Mosca di verificare l’assenza dei missili Tomahawk in Romania e Bulgaria. Questo tipo di razzi sono infatti capaci, lanciati da quelle distanze, di raggiungere in territorio russo. Gli Usa chiedono come contropartita di poter verificare che gli stessi missili non siano presenti in alcune basi russe.

Quei bobbies bastardi senza regole

Agente 1: “Hai mai picchiato la tua donna? Dopo ti amano di più. Sul serio, ora la mia mi sta sempre addosso. Picchia una pupa e ti amerà. È la natura umana, sono programmate per amare quella merda”.

Operation Hotton, l’ultimo rapporto dell’Independent Office for Police Conduct, l’ufficio che indaga sulla condotta della polizia, è pieno di scambi come questo. Raccoglie gli esiti di nove indagini separate condotte fra il 2016 e il 2018 su alcuni agenti del corpo di polizia londinese (Mps), e si concentra su 14 di loro, di stanza a Charing Cross, nel West End di Londra, una zona ad alto rischio di spaccio, violenze anche sessuali, disordini pubblici e furti. Da allora, quegli agenti sono stati mandati a casa, ma per il relatore di Operation Hotton, Sal Naseem, “questi incidenti non sono isolati, e non sono da ricondurre solo a poche ‘mele marce”.

Perché le verifiche interne hanno trovato ampie prove di bullismo, aggressività verso il pubblico e i colleghi, specie se donne, discriminazione, offese, mascolinità tossica, misoginia, molestie sessuali e violazioni del codice deontologico. Comportamenti resi possibili grazie a ‘problemi strutturali” fra cui turni massacranti imposti ai colleghi non graditi, che venivano isolati o sottoposti a vessazioni se si ribellavano agli abusi. Il documento è una rassegna di orrori, messaggi intimidatori condivisi dai poliziotti su chat di Whatsapp, in violazione dei codici di condotta sulle comunicazioni. Minacce come ‘Fottuto gay”, “se fossi single ti scoperei’, ‘se fossi single con te userei il cloroformio’. Discriminazioni etniche, razziali, religiose o contro disabili: “Mio padre ha rapito dei bambini africani e ne ha fatto cibo per cani’. “Ratti somali… Ne ho massacrato uno l’altro giorno…”. Pregiudizi: un agente manda ad un altro la foto di un ragazzo di colore in maglietta bianca. Il secondo chiede spiegazioni, e la risposta è: “Ignora il ladro, mi piace la maglietta”. Un razzismo che appare pervasivo, e ‘si riflette in atteggiamenti di bullismo verso colleghi neri o asiatici”. E spesso si mescola a una profonda misoginia, come per le vessazioni a lungo denunciate da Parm Sandhu, la prima non bianca promossa a Chief Superintendent di Scotland Yard. Che, dopo trent’anni di servizio e un processo interno da cui è uscita pulita, si è dimessa nel 2019 e ha denunciato la cultura di ‘razzismo istituzionale’ di cui è stata testimone. Operation Hotton, l’ennesima devastante conferma delle disfunzioni del Met, si conclude con 15 proposte di riforma di procedure interne, considerate urgenti e necessarie per ristabilire quel rapporto di trust and confidence, fiducia e stima, che è lo slogan con cui la polizia si presenta al pubblico. Fiducia e stima oggi ai minimi, almeno per quanto riguarda Scotland Yard, al centro di enormi critiche per tre episodi recenti. L’ultimo è l’apertura, considerata tardiva, di una inchiesta formale sui festini proibiti a Downing Street. Poi c’è il caso di due agenti che indagavano sull’omicidio brutale di due sorelle in un parco di Wembley e si sono scambiati foto dei cadaveri insanguinati. Infine, ancora dolorosissimo per l’opinione pubblica, il calvario di Sarah Everard, trentenne arrestata, rapita, violentata e uccisa dall’agente scelto Wayne Couzens, che aveva manifestato tendenze sessuale aggressive anche in servizio, ma non era stato fermato. Un caso che aveva condotto a una mobilitazione senza precedenti, culminata in una veglia pubblica molto partecipata sui luoghi del rapimento.

Nessuno ha dimenticato le immagini degli agenti che caricano e malmenano, per violazione delle restrizioni sul lockdown, alcune delle giovani donne presenti a quella veglia. Couzens è stato poi condannato all’ergastolo, una pena rarissima per un poliziotto, ma il processo ha rivelato una sequela ingiustificabile di coperture e insabbiamenti. Il rapporto Hotton ha scatenato la furia del ministro dell’Interno Priti Patel, che ieri ha denunciato il comportamento degli agenti di Charing Cross definendolo ‘raccapricciante, disgustoso e ingiustificabile’ ma ha anche parlato di ‘responsabilità dei vertici’ di alcuni dipartimenti di Scotland Yard e fatto riferimento alla necessità di profonde riforme della cultura interna al Met. La Patel ha anche accennato alla possibilità di aprire una inchiesta ad ampio raggio sul sistema penale e sulla misoginia strutturale nelle forze di polizia, non appena avrà gli esiti dell’indagine commissionata dal suo ministero sulle circostanze ambientali dell’omicidio Everard.

L’arcivescovo di Monaco apre al celibato: “I preti sposati avrebbero una vita migliore”

Nella guerra dei porporati europei sulla gestione del caso pedofilia all’interno del clero irrompe il tema del celibato sacerdotale. A favore della sua abolizione è il cardinale arcivescovo di Monaco e Frisinga, Reinhard Marx: “Per alcuni preti sarebbe meglio se fossero sposati. Non solo per ragioni sessuali, ma anche perché la loro vita sarebbe migliore se non fossero soli. Questa discussione va affrontata”. Una proposta che arriva da un porporato di primo piano non solo all’interno del Collegio cardinalizio, ma anche nel governo di Papa Francesco. Marx è, infatti, da sempre uno dei membri del Consiglio di cardinali istituito da Bergoglio dopo la sua elezione con lo scopo principale di elaborare la riforma della Curia romana. Francesco lo ha anche nominato coordinatore del Consiglio per l’economia e, dal 2014 al 2020, è stato anche presidente della Conferenza episcopale tedesca. Sul celibato sacerdotale Bergoglio ha sempre ribadito di essere contrario alla sua abolizione. Posizione condivisa dal Papa emerito Benedetto XVI.

Marx, non nuovo a questo tipo di aperture, è attualmente nell’occhio del ciclone dopo i dati mostruosi emersi nell’indagine sulla pedofilia del clero della sua arcidiocesi in un arco di tempo di 74 anni, dal 1945 al 2019: 497 vittime e 235 abusatori. Vicenda che ha scalfito anche Ratzinger, che fu arcivescovo di Monaco e Frisinga dal 1977 al 1981, accusato di negligenza in 4 casi di abusi. Nel giugno 2021 Marx si era dimesso ammettendo il fallimento della Chiesa nella gestione della pedofilia. Dimissioni subito respinte da Francesco, ma che ora, dopo i nuovi dati emersi, il porporato ha offerto nuovamente al Papa.

Una situazione analoga a quella dell’arcidiocesi di Colonia dove il cardinale Rainer Maria Woelki, d’intesa con la Santa Sede, ha lasciato provvisoriamente il governo a uno dei vescovi ausiliari, monsignor Rolf Steinhäuser, in qualità di amministratore apostolico. Il passo indietro del porporato tedesco, che si è preso una pausa di riflessione, è dovuto proprio alla gestione della pedofilia del suo clero. Il cardinale arcivescovo di Lussemburgo, Jean-Claude Hollerich, che è anche presidente della Commissione delle conferenze episcopali della Comunità Europea e vicepresidente del Consiglio delle conferenze dei vescovi d’Europa, ha recentemente suggerito a Woelki di lasciare l’incarico. Il segnale di uno scontro in atto.

Perché quei numeri “pazzi” sui decessi

È un argomento trattato già più di un anno e mezzo fa, anche in questa rubrica. I numeri dei decessi per Covid non sono esatti. Ultimamente questa allerta arriva anche da altri colleghi che hanno molto bene il controllo della situazione. Sembra, però, che l’argomento, al di là di qualche eccezione, non riscuota interesse. Eppure sono i dati ufficiali che inducono a perplessità. Già il bollettino dell’ISS di ottobre aveva sollevato il caso, indicando che nel campione statistico di cartelle cliniche raccolte solo il 2,9% dei decessi registrati dalla fine del mese di febbraio 2020 sarebbe dovuto al Covid-19. Gli altri deceduti avevano da 3 a 5 patologie che, da sole, avrebbero comunque causato la morte. L’ultimo bollettino di gennaio riporta “dall’inizio dell’epidemia alle ore 12 del 19 gennaio 2022 sono stati diagnosticati e riportati al sistema di sorveglianza integrata Covid-19 8.784.135 casi, di cui 140.606 deceduti”. È il numero totale, non sono più evidenziate le comorbidità (presenza di altre malattie). La definizione pubblicata dall’Iss sulla morte per Covid recita: decesso risultante da una malattia clinicamente compatibile in un caso probabile o confermato di Covid-19, a meno che non vi sia chiara causa di morte alternativa non correlabile al Covid-19. Basta avere un sintomo respiratorio e non esser morto per incidente, per essere un decesso Covid. Pochi forse sanno che se arriva un paziente in ospedale per qualsiasi patologia e risulta positivo (oggi molto frequentemente), viene immesso in un reparto “Covid” e, se malauguratamente dovesse morire, sarebbe un morto per Covid. Il fatto non è solo un errore, ma la causa di conseguenze serie in termini sociali ed economici. Comprendo che non sia facile spiegare tali interpretazioni numeriche, si potrebbe però evitare di enfatizzare ogni giorno numeri che non sono rispondenti a una reale gravità, nel rispetto della serenità dei cittadini.

Grasso il martire dà lezioni d’inchiesta

Buonultimo dopo tanti politici (soprattutto renziani), anche Aldo Grasso attacca Report e si iscrive alle pattuglie – ormai un esercito – del revisionismo su Berlusconi. Il critico del Corriere della Sera si improvvisa maestro di giornalismo d’inchiesta e dà sfogo a un fastidio incontenibile per la trasmissione di Sigfrido Ranucci, dopo la puntata dedicata all’ex Cavaliere. Andata in onda – che cattivo gusto e mancanza di tatto – quando “Silvio Berlusconi era appena uscito dall’ospedale”. “Ranucci è libero di organizzare inchieste su Berlusconi – concede Grasso, bontà sua – ma, a quasi 30 anni dalla ‘discesa in campo’, mi sarei aspettato un salto di qualità, un’analisi politica, insomma qualcosa degno della Rai”. Invece sono stati ricordati, che assurdità, “editti bulgari” e “interessi personali”. Grasso definisce Report così, sobriamente: “La tragicommedia del giornalismo complottista”. Se la prende con la “gestione Ranucci”: quando alla guida c’era Gabanelli nessuno o quasi si azzardava a contestare la libertà d’inchiesta. Ora invece colpire Report è di moda, Grasso non poteva esimersi. Mica è berlusconiano lui, mette le mani avanti: “Nel 1994 anch’io fui fatto fuori da Berlusconi, per mano di Moratti Letizia di Milano. Non mi sono mai sentito un martire”, a differenza di Biagi, Luttazzi e Santoro. Si riferisce a quando dirigeva i programmi di Radio Rai, ma si dimentica di ricordare i pessimi ascolti.

È ufficiale: siamo al boom economico

Era dal Pleistoceneche l’Italia non stava così bene e solo perché per il Pliocene non disponiamo di adeguate serie storiche. Com’è noto, infatti, è “Boom Italia” (MF), ma anche “Record per il Pil 2021” con “Borsa e spread che festeggiano il bis al Quirinale” (Il Giornale), a non dire che “L’Italia è la locomotiva dell’Ue” (Agi). Con questo “Gran rimbalzo del Pil” c’è pure l’effetto secondario che “sei imprese su dieci” sono “a caccia di addetti” (Il Sole 24 Ore), sfortunata a quanto pare. Stiamo così bene che esiste “La via italiana alle Grandi Dimissioni” ovvero “Mi licenzio per un posto migliore”: “La molla non è il burn out, ma il Pil nazionale al più 6,5%” (Repubblica). Svolgimento: “Più che ‘lascio il posto e cambio vita’, sembra un ‘lascio il posto di prima per uno migliore’. Non ci siamo abituati, perché il nostro mercato del lavoro è da sempre tra i più rigidi. Ma con un Pil rimbalzato del 6,5% nel 2021 (…) la mobilità occupazionale tra alcuni settori economici si è fatta sentire”. Una cuccagna che, dato curioso, riguarda soprattutto gli over 50 uomini e con contratti a termine, specie nell’edilizia del fu Superbonus e nella sanità delle assunzioni Covid. Ora, se lo scrivono, avranno appurato che ci si dimette per un posto migliore, ma ci permettiamo di ricordare che tre quarti dei nuovi lavori creati nel 2021 erano a termine, che molti contratti sono da poche ore a settimana, che le retribuzioni sono aumentate un terzo dell’inflazione. “I dati – ha scritto Francesco Armillei su lavoce.info – ridimensionano l’idea di dimissioni trainate da profili qualificati che decidono di ‘cambiare vita’, così come l’idea che il fenomeno interessi prevalentemente i giovani o chi ha un posto fisso”. Da escludere anche che riguardi i giornalisti, interessati semmai dal fenomeno del Grande Prepensionamento coi soldi pubblici. Tagliandola un po’ con l’accetta, in qualche settore, dopo l’infarto del 2020, se va bene si passa da un lavoretto di merda a un lavoretto un po’ meno di merda. Vedete anche voi, col Riformista, che l’Italia “vola e Draghi ora è più forte”: era dal Pleistocene che non avevamo un presidente del Consiglio così figo (e sempre solo perché per il Pliocene mancano le statistiche).