“Non volevo essere Nabokov Io puntavo a David Bowie”

Stefano Benni ha la capacità innata di creare un mondo tutto suo sin dalla prima pagina. È un mondo in apparenza fiabesco, eppure credibilissimo. Sempre simile al microcosmo dei libri precedenti, eppure ogni volta diverso. Accade anche nel suo ultimo romanzo, Giura. Ironico e dolente. Soprattutto dolente.

Perché ha sempre inseguito l’apparente distacco dalla realtà più prosaica per narrarne (ancor più) le sue miserie più becere?

Molti motivi. Perché nascendo in campagna ho vissuto un’infanzia di libertà e fantasia, ma ho visto anche tanta povertà e fatica. Poi a scuola, amavo molto l’italiano, ma per fare dispetto agli insegnanti tromboni, sono andato a caccia di quelli che Paolo Poli chiamava “i fiori nascosti e maledetti” nel giardino della letteratura. Nel ’68 leggevo per sfida Céline ed Eliot, e non si poteva, era obbligatorio Marcuse. Adesso che sono vecchio, mi accorgo quando la scrittura è complessa e quando è misera.

Febo e Luna si rincorrono per una vita. Malattie, cliniche, scuola, lotte. Giura è in costante equilibrio tra slancio e malinconia. A fine libro, assai ispirato e centrato in ogni suo snodo, ho come avuta la sensazione che dominasse la seconda componente: quella della disillusione. Dell’amarezza. Sbaglio?

No, ma sono diventato vecchio, i miei amori giovanili, gli anni della lotta politica, l’entusiasmo dei primi libri non possono essere ripetuti. Ma non ho nostalgia né disillusione, semplicemente vorrei riviverli.

Febo è uno dei tanti ragazzini della sua produzione letteraria. Per lei gli adolescenti (o quasi, perché lui ha 13 anni) sono le “anime salve” di deandreiana memoria?

Forse ai miei tempi. Adesso conosco dei tredicenni che sono fior di carogne e conformismo.

Davvero “Non lasciarmi solo” è la frase più difficile da pronunciare senza che la voce tremi?

Non deve essere un modo per tenere legata a forza una persona. Ma pronunciata lealmente, è una frase che ricordo di aver detto anche piangendo.

Per un solitario come lei, o almeno così amano descriverla, essere costretto a stare chiuso in casa per due mesi e mezzo è stato più facile che per altri o una condanna doppia?

No, anzi ho avuto un sacco di tempo, ad esempio, per mettere ordine nella mia biblioteca e scoprire che avevo cinque-sei copie dello stesso libro. E poi uscivo con ogni trucco, ho inventato medicine dai nomi surrealisti.

Non tutti sanno perché la chiamano “Lupo”. È qualcosa legato alla sua infanzia sull’Appennino e alla sua capacità di vivere a contatto con gli animali, fin quasi a far parte integrante del branco.

I lupi vivevano nel bosco a cento metri della mia casa, da bambino incosciente ne ero affascinato. C’era un patto territoriale tra lupo e uomo. Se tu sbrani i miei vitelli, io entro nella foresta e ti sparo. E una lupa difende a sangue i suoi cuccioli. Ma adesso i lupi sono importati dai Balcani, non conoscono il territorio, l’antropizzazione li disorienta, si avvicinano alle case, attaccano. Il patto di lealtà tra specie diverse è finito.

E oggi qual è il suo rapporto con gli animali? Nelle sue opere hanno spesso ruoli chiave.

Ci sono cresciuto insieme da piccolo, ci giocavo, ci parlavo, ma li ho visti anche scannare e uccidere.

Lei ha lavorato con il primo Beppe Grillo, lo ha fatto litigare coi socialdemocratici, forse le ha fatto credere di essere un messia con la sceneggiatura di Topo Galileo. Lo sente ancora?

Ho visto poche persone cambiare come Beppe: era allegro, ottimista, credeva davvero di cambiare il Paese. Poi è stato tritato dalla macchina degli adulatori e da gente mediocre. Beppe pensava di essere meno intelligente di loro, invece era molto più saggio e disinteressato. Ora lo sento ancora, ma non parliamo di politica o ci sbraniamo.

Molti, come me, hanno cominciato a leggere Vonnegut e Pennac grazie a lei. Il secondo, in Italia, lo ha portato lei. Siete molto amici. E forse dal primo ha attinto più di tutti nella capacità di raccontare il reale attraverso il fantastico.

Non si impara solo da scrittori con cui credi di avere sintonia. Sylvia Plath, Nabokov, Steinbeck, Calvino, la Yourcenar e mille altri mi hanno insegnato tantissimo. Ma chi mi ha fatto davvero desiderare di diventare un artista è stato David Bowie. Io volevo essere come lui, non come Nabokov.

In ogni suo libro c’è una forte connotazione satirica. Gli anni berlusconiani, tremendi, sono stati meno duri anche grazie a lei. Quanto e come è cambiata la satira al tempo (ieri) di Renzi e (oggi) di Salvini?

La satira politica è una delle cento dimensioni dell’umorismo. Adesso preferisco provarci con le altre novantanove.

Lei è tradotto in 30 Paesi e vende tantissimo da più di trent’anni. Eppure, forse, le manca un riconoscimento artistico definitivo. Quasi che, per certa critica, la “narrativa satirica” non sia mai all’altezza dei “romanzi veri”. Così, a prescindere. Avverte anche lei questo snobismo?

Sono tradotto in molti Paesi, ma in nessuno sono un best-seller. La critica non mi ha mai interessato molto, quasi sempre i critici leggono troppo in fretta o giocano in qualche squadra culturale.

Com’è stato dividere il palco con Nick Cave?

Ero più emozionato di mio figlio, che era presente. Mi dispiace che Cave abbia dovuto affrontare il dolore della perdita di un figlio. Il suo ultimo cd Ghosteen è bellissimo, ma molto triste e segnato dalla perdita.

A ogni sua presentazione c’è sempre qualcuno che le dice: “Ah quant’era bello Bar Sport, la Luisona…”. Immagino le faccia piacere, ma immagino anche che lei pensi: “Oddio che palle, un’altra volta!” A De André dava fastidio che gli chiedessero sempre La canzone di Marinella, perché sapeva di avere fatto molto altro (e molto di meglio). Che rapporto ha con una delle sue opere più celebri?

Lei ha ben sintetizzato nella frase “Oddio che palle”. Ma io qualche volta mi accontentavo di quello che avevo scritto. Fabrizio no, era un esploratore, cercava sempre sfide nuove.

Quanto è cambiato dai tempi di Comici spaventati guerrieri?. Intendo come uomo, ma anche come scrittore. Cerca meno il “colpo a effetto” e insegue una sorta di minimalismo magico?

Sì, i trucchi del comico li uso di meno. La mia lingua è più pensata e complessa. Forse ho perso un po’ l’istinto del comico.

“Che bella cosa se finirà/ metà dell’umanità”, scrive lei nel libro “citando un poeta brasiliano”. Lei ci ha mai creduto che il Covid-19 ci avrebbe migliorati?

Quella frase l’ha detta anche Emil Cioran. Vorrei sperare, ma l’umanità ha attraversato ingiustizie, guerre e catastrofi, e non mi sembra pronta a redimersi. Forse come dice Noon, la terra non merita più l’uomo.

Al di là del “climax” e della censura, tutti meritano una risata

Mia nonna mi fa: “Tuo padre è ebreo”. “Davvero? E dov’è? A Gerusalemme? Perché non lo so” (risate). E lei: “No, è in America. Sta scappando dalla legge”. E io: “Oh. Ok”. (È avvilita; silenzio del pubblico; fa un gesto come per tranquillizzare sul silenzio). Questa parte è vera (risate fragorose).

Tiffany Haddish

 

La settimana scorsa abbiamo ragionato sulla satira servendoci del gradiente satira > cinismo > fare il cazzaro > fare lo stronzo > sfottò fascistoide, uno strumento di tipo catastale che ci fa comprendere dove siamo con il nostro senso morale, sia che si faccia satira, sia che la si giudichi. Il gradiente non appartiene al mondo delle norme, ma a quello delle descrizioni. Ci aiuta a capire, fra l’altro, il perché di certe reazioni del pubblico, e se sono giustificate oppure no. Come si chiama una donna di colore che ha avuto sette aborti? Una combattente contro il crimine (Lisa Lampanelli). Questa battuta razzista sconcertò molti dei suoi fan, ma non tutti. Se godete di questa gag state confondendo la satira con ciò che non lo è. Oltre che essere delle teste di cazzo.

Qual è la reazione corretta a una gag satirica? Non esiste la reazione “corretta”: ogni reazione dipende dalla propria ideologia-cultura-moralità; ma il razzismo non è un’opinione: è un reato, ed è sempre inaccettabile, anche sotto forma di gag. Prendete adesso questa battuta di Frankie Boyle: La gente dice che Steve Jobs è morto troppo presto. Io la trovo una metafora perfetta di come la sua ditta tratta la vita delle batterie. Per me è solo una battuta cinica. Per voi? Oppure questa: Vorrei avere l’Aids, così potrei mordere qualcuno (Jim Norton). Altra battuta cinica; ma la mia è solo una delle interpretazioni possibili, che sostengo con argomenti. Né va dimenticato che l’arte partecipa di una certa dose di ambiguità, e questo spiega il lavoro di critici e studiosi.

E Andreotti che si eccita a guardare il corpo di Moro crivellato di proiettili nella Renault? Perché quella era satira, e la vignettaccia di Charlie Hebdo sul terremoto a L’Aquila no? Quando siete nel dubbio, chiedetevi sempre: “Chi è il bersaglio?” In quel mio racconto, il bersaglio non era la vittima (Moro), ma i suoi carnefici. Era un racconto di satira grottesca, e quando fu letto in un teatro di Genova (2003) suscitò emozione e applausi. La polemica fu creata il giorno dopo da un’agenzia Ansa che raccontava, mentendo, di un attore in scena che sodomizzava il cadavere di Moro. Mostrai il filmato della serata e la polemica diffamatoria si spense. Altro caso: durante il sequestro Moro, il Male pubblicò la foto BR di Moro in prigionia, aggiungendo la didascalia: “Scusate, abitualmente vesto Marzotto”. Quella non era più satira, ma sfottò fascistoide: sbeffeggiava la vittima vera di carnefici veri. Secondo me, ovviamente. Secondo quelli del Male, no. E si torna al discorso delle differenze ideologiche.

Censura della satira. Senza impatto comunicativo, la satira non ha conseguenze (è uno dei motivi per cui sul web ve ne lasciano fare quanta ne volete). Per avere impatto occorrono cultura, competenza tecnica, tenacia e volume. La censura (il potere e i suoi emissari) agisce sul quarto fattore, per silenziarvi dall’esterno impedendovi l’accesso alla tv; i bastardi di complemento (i media complici e gli stronzi) agiscono sul terzo, per silenziarvi dall’interno (demotivazione). “La curiosità è la forma più pura di insubordinazione” (Nabokov, 1947).

L’arte della prassi divertente. Ogni arte è informata dallo schema tensione/distensione, che contribuisce all’esperienza estetica (insieme con altri fattori: complessità dello stimolo, simmetria, familiarità &c.) e media le risposte emotive alle opere artistiche (Lehne & Koelsch, 2015). La prassi divertente consiste in strategie che creano una tensione emotiva e cognitiva, al fine di sorprendere l’uditorio. La premessa di una gag introduce il mostro minaccioso (una situazione di conflitto, dissonanza, incertezza) che attiva nella coscienza procedure predittive di eventi carichi di significato emotivo, e negli istinti uno stimolo all’azione (lotta/fuga); la fine della gag (punchline) genera una sorpresa giocosa rispetto all’evento temuto (conclusione dell’allarme emotivo-cognitivo); e in una frazione di secondo la coscienza ritorna a uno stato cognitivo consonante, scaricando nel riso l’attivazione motoria inutilizzata. È la costruzione della tensione emotivo-cognitiva, cioè la premessa della gag, a rivelare l’abilità di un comico (Ramachandran, 1998). Steve Martin (2007) racconta che, agli inizi della carriera, un trattato sulla comicità lo fece riflettere proprio su questo: “E se non ci fossero punchline? Se non ci fossero indicatori? Se creassi tensione senza mai rilasciarla? Se mi dirigessi verso un climax, ma poi facessi un anti-climax? Cosa farebbe il pubblico con tutta quella tensione? In teoria, essa dovrebbe sfogarsi, qualche volta. Ma se continuassi a negargli la formalità di una punchline, il pubblico alla fine sceglierebbe da sé il punto dove ridere, essenzialmente per disperazione”. Tre anni fa, la comica australiana Hannah Gadsby fece rumore con un monologo (Nanette, 2017) in cui rifiutava polemicamente di risolvere con battute la tensione suscitata nel pubblico dalla sua narrazione di uno stupro omofobico subito a 17 anni. Gadsby rifiutò il ruolo tradizionale della vittima comica, perché l’omofobia e il crimine sessuale non sono uno scherzo. Imputò però il problema alla comicità, e qui sbagliava: scaricare la tensione emotiva con una punchline non implica per forza la banalizzazione (da Aristofane a Tiffany Haddish, sono migliaia i comici che lo dimostrano). Una risata, come abbiamo visto nella prima puntata, è l’uccisione metaforica di un capro espiatorio. Fare il comico significa accettare questo ruolo sociale: il pubblico paga non per ridere dei tuoi problemi, ma grazie ai tuoi problemi, veri o immaginari che siano (il realismo non è l’unico modo per dare valore al racconto di un dramma, né il migliore: se così fosse, non esisterebbe l’arte). Il nuovo monologo della Gadsby (Douglas, 2019) è pieno di battute: “Nanette è il motivo per cui tutti quanti sono qui. Me compresa. Avessi saputo che il trauma è così popolare, il mio avrei potuto gestirlo meglio. Ricavarne almeno una trilogia. Fatemi capire: avete visto Nanette e avete pensato ‘Ne voglio ancora’”? E a proposito del medico che ha dato il nome al “sacco di Douglas”, una piccola cavità fra utero e retto, da cui viene il titolo del monologo: “È incredibile quanto poco debbano fare gli uomini per essere ricordati”.

10 – continua

Assange non fa più notizia e gli Usa ne approfittano

È un caso giudiziario che deciderà fin dove può spingersi il giornalismo nel mondo occidentale. Può un giornalista rivelare segreti di Stato, quando questi coprono gravissime violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e torture contro intere popolazioni? Il caso Julian Assange e WikiLeaks è questo. E il tentativo dell’Amministrazione Trump di imprigionarlo per 175 anni, per aver pubblicato documenti veri e nel pubblico interesse, non ha precedenti nella Storia degli Stati Uniti. Questa settimana, il Dipartimento della Giustizia Usa ha emesso un nuovo atto di incriminazione: la notizia ha ricevuto scarsissima attenzione.

Da oltre un anno il fondatore di WikiLeaks è detenuto nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh a Londra, in attesa che il processo di estradizione, in corso, decida la sua sorte. Una sola cosa è certa: dal 2010, quando WikiLeaks ha rivelato i documenti segreti del governo Usa, Assange non ha più conosciuto la libertà. Vani sono stati i tentativi di intervento delle Nazioni unite, come conferma al Fatto l’inviato speciale Onu contro la tortura, Nils Melzer: “Il 9 maggio del 2019, ho condotto una visita di quattro ore a Assange, nella prigione di Belmarsh, accompagnato da due medici esperti nell’esame di vittime della tortura. Assange mostrava tutti i sintomi tipici di chi è soggetto a torture psicologiche prolungate. Nonostante i miei ripetuti interventi attraverso canali diplomatici ufficiali – e in violazione a suoi obblighi internazionali – il governo inglese ha sistematicamente rifiutato di indagare sulle mie accuse o di stabilire un dialogo costruttivo, come richiede il Consiglio per i Diritti umani dell’Onu”. Il nuovo atto di incriminazione non aggiunge capi di imputazione, ma cerca di implicare Assange in attività di hackeraggio nel lontano 2011. E anche se non vengono nominati, nel documento si fa riferimento a due persone che, a titolo diverso, hanno collaborato con WikiLeaks: Sarah Harrison, la giornalista inglese che nel 2013 volò ad Hong Kong per aiutare Edward Snowden, e l’americano Jake Appelbaum, giornalista ed esperto di privacy. Al momento non è chiaro se le autorità Usa si preparino a incriminare anche loro. “La nuova incriminazione sembra un tentativo gratuito di dipingere Assange come ‘un hacker’, o come qualcuno associato agli ‘hacker’, invece che un giornalista”, spiega al Fatto l’avvocato americano Barry Pollack che fa parte del team legale di Assange. “Gli sforzi di dipingerlo come qualcosa di diverso da un giornalista non possono offuscare il fatto che è incriminato per le sue pubblicazioni e queste accuse sono una minaccia ai giornalisti di tutto il mondo e al diritto dell’opinione pubblica di sapere”. Kristinn Hrafnsson, attuale direttore di WikiLeaks, fa dichiarazioni altrettanto nette al Fatto: “È un ovvio tentativo di distrarre dalle vere accuse: punirlo per aver ricevuto e pubblicato documenti che rivelano i crimini e gli abusi degli Stati Uniti”.

La nuova incriminazione arriva in un momento in cui la salute di Assange è più in bilico che mai, anche per il rischio Covid. Questa settimana oltre duecento medici, riuniti nell’organizzazione Doctors for Assange, hanno denunciato la grave situazione in una nuova lettera alla più prestigiosa pubblicazione medica del mondo: The Lancet. “Siamo professionalmente ed eticamente tenuti a prevenire, fermare e denunciare atti di tortura dovunque essi accadano, non importa il rischio che corriamo”, dichiara al nostro giornale Doctors for Assange, “per questo teniamo fede a questo obbligo e denunciamo le condizioni in cui si trova Assange”.

Amministrative: il ballottaggio potrebbe essere fatale a Macron

La Francia difficilmente potrà dimenticare queste strane elezioni municipali vissute in piena pandemia. Oggi è il ballottaggio, che si tiene insolitamente a tre mesi dal primo turno e riguarda poco meno di cinquemila Comuni, poiché circa 30 mila sindaci sono già stati eletti al primo turno. La posta in gioco però è alta perché si decide il colore di alcune grandi città, tra cui Parigi, ma anche Lione, Marsiglia o Lille. Tre mesi dopo quel primo surreale turno del 15 marzo, con scuole e ristoranti già chiusi e a due giorni dal lowkdown, la paura del virus, anche a causa dei nuovi cluster in Francia e in Europa, c’è ancora. Stando ai sondaggi l’astensione potrebbe essere persino superiore a quella già da record, oltre il 55%, del primo turno. Il voto di oggi si sarebbe dunque dovuto tenere il 22 marzo, ma lo scrutinio era stato congelato. Nel frattempo il Covid ha ucciso quasi 30 mila persone in Francia. Queste elezioni si annunciano un fallimento per Macron che aspetta solo di voltare pagina e preferisce concentrarsi sulla “svolta” promessa ai francesi, con un probabile imminente rimpasto di governo.

A questo proposito, l’esito del voto a Le Havre sarà rilevante: nella città portuale del nord il favorito infatti è il popolare premier Edouard Philippe, sostenuto da LaRem, di cui non ha mai preso la tessera. Se Philippe resterà o no alla testa del governo molto dipenderà da questo voto. La disfatta di LaRem non dovrebbe riguardare solo Parigi ma è vero che nella capitale è un disastro: prima c’è stata la candidatura dissidente del matematico Cédrid Villani, poi lo scandalo a luci rosse del fedele marcheur Benjamin Grivaux, infine la campagna senza slancio di Agnès Buzyn, l’ex ministra della Salute screditata per la cattiva gestione dell’emergenza Covid. A Parigi la rielezione della socialista Anne Hidalgo, che guida la capitale da sei anni, sembra scontata, grazie anche all’alleanza con i Verdi. Da parte sua Rachida Dati, candidata Les Républicains, spera di attirare i voti dei delusi di Buzyn, ma i sondaggi non le sono favorevoli. Per molti osservatori, l’ex ministra di Sarkozy avrà avuto il merito di “resuscitare” la destra. Nel resto della Francia, l’alleanza della gauche, con un capolista Ps o Verde, potrebbe risultare vincente. Città come Marsiglia e Lione potrebbero risvegliarsi ecologiste. Occhio anche a Perpignan, grande città del sud, che potrebbe essere scippata alla destra da Louis Alliot, ex numero due del Rassemblement National ed ex compagno di Marine Le Pen.

La destra nascosta da Brexit. Estrema, violenta e anonima

Londra, 13 giugno. Nel cuore di Westminster, centro storico e politico del Regno Unito, marciano centinaia di militanti di estrema destra. Sono nella Capitale, dichiarano, per proteggere le statue simbolo del Paese, il Cenotafio che ricorda i caduti nelle due Guerre mondiali e la statua di Churchill, dalla presunta minaccia degli attivisti di Black Lives Matter, che due giorni prima a Bristol hanno gettato nel fiume il monumento a Edward Coulston, grande benefattore della città grazie ai profitti della tratta degli schiavi africani. Gridano slogan fascisti, fanno il saluto nazista, inneggiano a Tommy Robinson, uno dei molti alias di Stephen Yaxley-Lennon, co-fondatore ed ex leader della English Defense League che ha coagulato le pulsioni fasciste, anti-islamiste e anti-immigrazione del nazionalismo più duro. Il bilancio è di 6 poliziotti feriti e 100 manifestanti arrestati. Poteva andare peggio. Nel Regno Unito l’estrema destra ha già ucciso, ed è una storia così dolorosa da essere diventata, malgrado i periodici ossequi di rito, un ingombrante tabù per la politica. È il primo pomeriggio del 16 giugno 2016. La parlamentare laburista Jo Cox, appassionata sostenitrice dell’Unione Europea e dei diritti dei rifugiati, sta facendo campagna fra i suoi elettori a Birstall, West Yorkshire. Un uomo le si avvicina. Esplode colpi di rivoltella, poi attacca con 15 coltellate.

Testimoni riferiscono di averlo sentito gridare: “Questo è per la Gran Bretagna”, “Britain first” “Gran Bretagna indipendente”. Jo è ancora viva quando viene soccorsa, ma muore poco dopo in ospedale, lasciando due figli piccoli e un paese sgomento. L’assassino è il giardiniere disoccupato Thomas Mair. Al processo, alla richiesta delle generalità risponde: “Il mio nome è morte ai traditori, libertà per la Gran Bretagna”. Accanto al quadro squallido di una vita di miseria e isolamento, emergono anche i rapporti con formazioni politiche di estrema destra, fra cui lo statunitense National Vanguard e gli inglesi National Front e English Defence League, la frequentazione di siti di suprematismo bianco e pro-apartheid, e di propaganda nazista e anti-semita: tutto l’armamentario ideologico di estrema destra. Condannato all’ergastolo, media e opinione pubblica lo archiviano come lupo solitario con problemi mentali. L’attenzione torna a essere monopolizzata da Brexit e dalla minaccia del terrorismo islamico. Eppure nel paese l’estrema destra non è più né marginale né inoffensiva: al contrario, sta vivendo un rapido processo di rafforzamento e modernizzazione, tanto che nel settembre 2019 il capo dell’antiterrorismo Neil Basu la definisce “la minaccia terroristica in maggior crescita”. Nel 2017 un terzo degli attentati terroristici sventati, 7 su 22, sono stati di estrema destra, mentre fra il 2016 e il 2018 gli attivisti di destra coinvolti nel programma di de-radicalizzazione Prevent sono passati dal 10 al 18%. E secondo il rapporto annuale di Europol, nel 2019 il Regno Unito è stato il paese europeo con il maggior numero di attentati di estrema destra riusciti, uno, e sventati, tre. A che si deve questa crescita? A un mix complesso di fattori economici, culturali e politici. Quella che si riconosce in Robinson, scrive Joe Mullhal della organizzazione antifascista Hope not Hate, è una “folla arrabbiata” di esclusi, che “attraverso un consapevole processo di modernizzazione si è allontanata da nazismo, fascismo e politiche esplicitamente razziste e le ha sostituite con una piattaforma più limitata, anti-islamica, unita alla nozione populista della “gente’ oppressa da una elite tirannica”. E questo, in una Inghilterra in crisi economica e culturale, ha una presa ampia.

Secondo una analisi del 2019 Centre for Research and Evidence on Security Threats (Crest) della Lancaster University, la raccolta di informazioni aggiornate sui numeri dell’attivismo di estrema destra si scontra con ostacoli strutturali. L’identità transnazionale e informale delle organizzazioni rende arduo isolare membri dei singoli Paesi; la maggior parte delle attività è affidata a canali virtuali sicuri o app come Telegram e difficili da intercettare. Il reclutamento avviene grazie alla propaganda su YouTube. O a media dedicati come Defend Europa, Rebel Media, Red-Ice Radio, Breitbart News. La cui fruizione, grazie alle garanzie democratiche che quella destra vuole abbattere, non è censurabile.

Matano, Cuccarini e le seppie con i piselli

Ogni volta che incappavo in Lorella Cuccarini e Alberto Matano impegnati a condurre La vita in diretta mi sovveniva l’immortale attacco delle Seppie coi piselli di Achille Campanile: “Le seppie coi piselli sono uno dei più strani e misteriosi accoppiamenti della cucina.” Grande verità. “Le seppie non hanno e non possono avere alcuna idea di quelle leguminose”, osserva Campanile; ma anche la Cuccarini, avendo sempre vissuto tra varietà, balletti e pippibaudi, sarà arrivata ignara a un programma giornalistico. E se i piselli “non possono avere che un’idea molto vaga del mare”, anche un mezzobusto come Matano dovrebbe avere un’idea molto vaga di duetti brillanti con una soubrette. Tuttavia, uniti sul tegame, seppie e piselli appaiono fatti le une per gli altri: “Nel primo istante c’è un po’ di freddezza ma dopo poco, bon gré mal gré, s’accordano a maraviglia.” Ecco, qui finiscono le analogie. Perché anche Lorella e Alberto sfrigolavano, ma non di piacere, e anzi non vedevano l’ora di mandarsi a quel paese come fatalmente è accaduto. Infotainment, fusione di informazione e intrattenimento. Ma le seppie coi piselli sono un’altra cosa.

Povero Orsina: se avesse letto il sondaggio

Povero Giovanni Orsina, uscito con il suo commento su La Stampa lo stesso giorno in cui Nando Pagnoncelli (mica uno qualsiasi) sul Corriere della Sera pubblica un sondaggio: “Movimento in ripresa a quota 18%”. Lo avesse letto prima magari non lo avrebbe scritto il suo pezzo intitolato “I grillini e le ragioni del declino”. Che poi tutte queste ragioni mica vengono spiegate. Si dice che “restano abbarbicati al potere a ogni costo” impegnati a “gestire risorse pubbliche”, come un partito clientelare qualsiasi. Un po’ poco per supportare il declino. Ma poi, uscire proprio lo stesso giorno in cui i numeri dicono il contrario e c’è chi insinua che il Pd sia nervoso proprio perché a guadagnare è il M5S. Che peccato! Ma Orsina, che ha studiato i liberali italiani, a cominciare da Malagodi, al declino è affezionato.

Mail Box

 

Vitalizi al Senato, strafottenza illimitata

La recente notizia “Senato annullata la delibera sui vitalizi” lascia gli italiani esterrefatti. Non si può oltremodo tollerare l’arroganza e la… mi consenta il termine, strafottenza, di certa classe politica. Palesemente insensibili alle difficoltà degli italiani e del contesto di sofferenza del momento in spregio ai più elementari sentimenti di umanità cristiana (non nel senso biblico). La democrazia ha consentito di combattere, con le armi a disposizione, il malcostume e a nulla sono valse le campagne mediatiche di evidenza dei molteplici privilegi raggiunti in virtù di uno “status”: io so io e voi non siete un cazzo.

Direttore la esorto a dare incessantemente voce e denunciare le disuguaglianze evidenti con i cittadini e le distanze di questo mondo politico. Chiudo con un mea culpa: sì, la colpa è sempre nostra.

Mario Valentino

 

Scuola, un “buono” per l’acquisto di tablet

Egregio Direttore, in merito al suo articolo sulla Scuola, a mio avviso una soluzione semplice sarebbe quella di un buono per l’acquisto di tablet e pc, in modo da mantenere una quota pari al 50 per cento di alunni e studenti da casa collegati in rete alle lezioni che si tengono in classe con doppio insegnante uno dedicato alla presenza e l’altro che cura le lezioni in rete, la quota del 50 per cento o inferiore permetterebbe classi meno affollate, riduzione del traffico per accompagnamento dei figli presso la scuola, mantenere e migliorare un servizio telescolastico che potrebbe rendersi necessario in caso di ritorno pandemico o altri problemi di chiusura per eventi naturali o sanitari anche a livello locale, chiaramente l’informatizzazione dovrebbe cancellare l’acquisto dei libri cartacei preferendo la versione e-book, con conseguente sollievo per le schiene dei nostri figli e tasche dei genitori. Questa soluzione potrà essere adottata consentendo ad almeno uno dei genitori lo smart working chiaramente per poter tenere i figli a casa. Tutto questo chiaramente è subordinato a una seria riforma della scuola e soprattutto al rifacimento degli edifici scolastici ormai vetusti e fatiscenti, molti non in regola con le attuali norme di sicurezza per non parlare dei criteri antisismici.

Antonino Cabras

 

Ridurre i contanti è un colpo per i criminali

In merito al titolo “Gabanelli: Il contante utile a corrotti, lavoro nero ed evasori”, vorrei fare presente altre considerazioni che non ho mai sentito sostenere da nessuno …

1) Il denaro elettronico stroncherebbe il traffico di stupefacenti (ce lo vedete un pusher con Sumup?)

2) Il denaro elettronico stroncherebbe usura e criminalità “di strada” (i cravattari si farebbero fare un bonifico? Con quale causale?).

3) Non ci sarebbe possibilità di fare “nero” ed esportazione di valuta nei paradisi fiscali, perché poi il denaro non potrebbe rientrare in Italia, ma dovrebbe essere necessariamente reinvestito all’estero senza mai potere essere capitalizzato. Ma come potrebbe essere gestito questo metodo? Il modo migliore che mi viene in mente è che tutte le transazioni passino dal ministero delle Finanze (come oggi avviene per le fatture elettroniche), che poi le girerebbe alle banche. Potrebbe imporre un costo per operazione “a copertura delle spese bancarie”, in modo che gli istituti non ci rimettano e lo stato ci guadagnerebbe lo stesso dal controllo di ogni passaggio di valuta recuperando l’elusione fiscale. Spero che possa condividere queste mie considerazioni.

Massimo Casini

 

Magari sui social i giovani saranno d’insegnamento

Dal prossimo anno scolastico, dalle scuole dell’infanzia alle superiori, l’Educazione civica diventerà materia obbligatoria. Si studieranno la Costituzione e lo sviluppo sostenibile e la cittadinanza digitale. La ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, è stata precisa: “I ragazzi, fin da piccoli, possono imparare principi come il rispetto dell’altro e dell’ambiente che li circonda, utilizzando linguaggi e comportamenti appropriati quando sono sui social media o navigano in Rete”. Piena fiducia nelle giovanissime generazioni. I ragazzi potranno magari mostrare a tanti adulti la postura etica giusta e la semantica corretta per poter accedere e scrivere, ad esempio, sui social. Tanti adulti oggi, ahimé, trasformano scriteriatamente Facebook e Twitter in un ricettacolo terminale di frustrazioni e di insulti, in un poco praticabile bar sport di volgarità e di improperi.

Marcello Buttazzo

Covid, l’incertezza ora è sovrana

 

“Questa pandemia si sta comportando come avevamo ipotizzato. Il paragone è con la Spagnola che si comportò esattamente come il Covid, andò giù in estate e riprese ferocemente a settembre e ottobre facendo 50 milioni di morti durante la seconda ondata”.

Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). “Agorà”. Rai3

 

Al tempo dell’incubo Coronavirus – centinaia di morti al giorno, la processione delle bare, le città deserte – tra le poche certezze ne avevamo una: la conferenza stampa della Protezione civile dove i virologi del comitato tecnico-scientifico ci tenevano aggiornati sull’evoluzione del mostro. Su quei numeri tremendi, su quelle valutazioni avvolte nella più insondabile cupezza fondavamo, comunque, le nostre coordinate di vita. Avevamo una bussola, non sempre così precisa ma sapevamo cosa temere e come rassicurarci. Dopo il liberi tutti di maggio-giugno, siamo tornati alle nostre abituali esistenze, sperando in cuor nostro che le profezie sull’apocalisse dell’economia siano fortemente esagerate. Preferiamo assaporare la bella estate, e poi a settembre che sarà sarà. Purtroppo il Covid-19, che abbiamo rapidamente cancellato dalle nostre teste in un normale processo di rimozione, è ancora qui con noi. Leggiamo di un indice di contagio che risale in mezza Italia: dal Lazio alla Lombardia, all’Emilia-Romagna alla Toscana. E se pure i numeri sono fortunatamente assai limitati, i casi di Mondragone e della Bartolini di Bologna non ci fanno stare tranquilli. Anche perché ci sono venuti a mancare i riferimenti certi. I bollettini della Protezione civile sono quotidiani, ma chi li legge? E quanto agli esperti, non è una novità, ma dicono tutti cose diverse. L’ala rassicurante parla di focolai inevitabili ma esclude un ritorno dello tsunami. L’ala prudente non si pronuncia e se interpellata sui pericoli autunnali, allarga le braccia. L’ala catastrofista evoca, come abbiamo ascoltato sul Servizio pubblico Rai, i 50 milioni di morti della Spagnola che devastò l’Europa nel primo dopoguerra. A questo punto avanziamo una modesta proposta: ridateci il professor Franco Locatelli. Fosse soltanto con una diretta televisiva settimanale, ci dica come stanno le cose. Reso immortale da Maurizio Crozza, il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, con quella sua deliziosa lingua perduta dell’Arcadia, non ci ha mai mentito, di lui ci fidiamo. Poi c’è un incombente nuvolone nero, a cui non vorremmo assolutamente pensare. Esiste una infausta, e speriamo remotissima possibilità, che si ritorni a un lockdown, totale o parziale? Esistono dei piani governativi eventualmente pronti per l’uso, anche se come ci auguriamo destinati a restare in fondo a un cassetto? Senza inutili allarmismi, non sarebbe il caso di informare il Paese su eventuali ipotesi B e C? Fermo restando che con l’attuale profilassi delle mascherine e dei distanziamenti siamo destinati a convivere a lungo. Fateci sapere, per cortesia.

 

Gesù e la ricerca di un discepolato esigente ma non del tutto intransigente

Ci sono parole dure nella Bibbia che sembrano scritte per confermare la diffidenza di coloro che ritengono che sotto la scorza di ogni credo religioso si nasconda sempre una fanatica intransigenza. Oggi leggiamo una di queste parole dure, che si trova in bocca a Gesù: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me. Chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà” (Matteo 10,37-39). Viene da chiedersi se il Vangelo abbia ben capito e riportato le parole di Gesù, oppure se queste siano come dei “versetti satanici” interpolati, frutto di una fanatica allucinazione religiosa che, purtroppo, è il rischio di tutte le religioni, compresa quella cristiana. Bisogna però sapere che nel capitolo 10 di Matteo sono raccolti una serie di insegnamenti sulla missione cristiana in cui Gesù avverte i discepoli di non aspettarsi soltanto successi e gloria, ma anche difficoltà, incomprensione, conflitto, persino nella stessa famiglia di provenienza. Gesù ne parla per dolorosa esperienza personale: ha vissuto una grave incomprensione familiare con sua madre e i suoi fratelli e sorelle (Marco 3,21), ha sperimentato una decisa opposizione tra “quelli stessi di casa sua” (Matteo 10,36), cioè i suoi compatrioti, in particolare tra il gruppo dirigente dei suoi compatrioti, che lo porterà a subire grandi sofferenze, un arresto ingiusto, un processo farsesco e una condanna a morte da innocente. I suoi discepoli non si devono augurare di passare per tutto ciò ma, se dovesse capitare, devono esservi preparati. Da qui le parole di Gesù (“Chi ama padre e madre, o figlio e figlia più di quanto ami me, non è degno di me…”), che devono essere intese in un contesto in cui chi parla è la parte debole, non la parte forte del conflitto, non è colui che perseguita, reprime e terrorizza, ma colui che è perseguitato e represso. Insomma, queste sono parole di incoraggiamento a resistere nella prova e non una chiamata alla guerra santa o alla redazione di liste di proscrizione, di liste di nemici. Ricordiamo anche il Gesù che dice: “Chi ama padre e madre, o figlio e figlia più di quanto ami me, non è degno di me…”, è quello stesso Gesù che ribadisce il comandamento di onorare i genitori e di assisterli nelle loro necessità (Marco 7,10-13), che definisce il rapporto tra sé e Dio come una rapporto tra genitore e figlio (Matteo 11,27), che definisce Dio come un padre misericordioso anche per i figli ribelli (Luca 15,11-32), è lo stesso Gesù che ci insegna a chiamare Dio nel modo più familiare (“Padre”, non nel senso del maschile – o maschilista –, ma nel senso del “genitore”, del buon genitore che ha cura di noi, che ci protegge, che ci fa crescere, che ci educa nella libertà e nella responsabilità). Chi dice le parole dure del testo biblico di oggi è quello stesso Gesù che parla di amore per il prossimo, persino per i nemici (Matteo 5,44), e lo mette in pratica coerentemente (Luca 10,25-37). Dunque, non è possibile comprendere le parole di Gesù come un invito alla fanatica intransigenza religiosa, con le sue tragiche conseguenze di divisione, sofferenza e morte. Queste parole, invece, sono un richiamo a quel discepolato “esigente” (ma non “intransigente”) che, in certe circostanze, può anche portare a dover mettere in discussione realtà e valori acquisiti. A volte fino a conseguenze estreme per se stessi e per la propria vita (senza mai imporla agli altri, però). Per questo il passo evangelico termina con la promessa: “chi avrà perduto la sua vita a causa mia, la troverà” (v.39).