Stefano Benni ha la capacità innata di creare un mondo tutto suo sin dalla prima pagina. È un mondo in apparenza fiabesco, eppure credibilissimo. Sempre simile al microcosmo dei libri precedenti, eppure ogni volta diverso. Accade anche nel suo ultimo romanzo, Giura. Ironico e dolente. Soprattutto dolente.
Perché ha sempre inseguito l’apparente distacco dalla realtà più prosaica per narrarne (ancor più) le sue miserie più becere?
Molti motivi. Perché nascendo in campagna ho vissuto un’infanzia di libertà e fantasia, ma ho visto anche tanta povertà e fatica. Poi a scuola, amavo molto l’italiano, ma per fare dispetto agli insegnanti tromboni, sono andato a caccia di quelli che Paolo Poli chiamava “i fiori nascosti e maledetti” nel giardino della letteratura. Nel ’68 leggevo per sfida Céline ed Eliot, e non si poteva, era obbligatorio Marcuse. Adesso che sono vecchio, mi accorgo quando la scrittura è complessa e quando è misera.
Febo e Luna si rincorrono per una vita. Malattie, cliniche, scuola, lotte. Giura è in costante equilibrio tra slancio e malinconia. A fine libro, assai ispirato e centrato in ogni suo snodo, ho come avuta la sensazione che dominasse la seconda componente: quella della disillusione. Dell’amarezza. Sbaglio?
No, ma sono diventato vecchio, i miei amori giovanili, gli anni della lotta politica, l’entusiasmo dei primi libri non possono essere ripetuti. Ma non ho nostalgia né disillusione, semplicemente vorrei riviverli.
Febo è uno dei tanti ragazzini della sua produzione letteraria. Per lei gli adolescenti (o quasi, perché lui ha 13 anni) sono le “anime salve” di deandreiana memoria?
Forse ai miei tempi. Adesso conosco dei tredicenni che sono fior di carogne e conformismo.
Davvero “Non lasciarmi solo” è la frase più difficile da pronunciare senza che la voce tremi?
Non deve essere un modo per tenere legata a forza una persona. Ma pronunciata lealmente, è una frase che ricordo di aver detto anche piangendo.
Per un solitario come lei, o almeno così amano descriverla, essere costretto a stare chiuso in casa per due mesi e mezzo è stato più facile che per altri o una condanna doppia?
No, anzi ho avuto un sacco di tempo, ad esempio, per mettere ordine nella mia biblioteca e scoprire che avevo cinque-sei copie dello stesso libro. E poi uscivo con ogni trucco, ho inventato medicine dai nomi surrealisti.
Non tutti sanno perché la chiamano “Lupo”. È qualcosa legato alla sua infanzia sull’Appennino e alla sua capacità di vivere a contatto con gli animali, fin quasi a far parte integrante del branco.
I lupi vivevano nel bosco a cento metri della mia casa, da bambino incosciente ne ero affascinato. C’era un patto territoriale tra lupo e uomo. Se tu sbrani i miei vitelli, io entro nella foresta e ti sparo. E una lupa difende a sangue i suoi cuccioli. Ma adesso i lupi sono importati dai Balcani, non conoscono il territorio, l’antropizzazione li disorienta, si avvicinano alle case, attaccano. Il patto di lealtà tra specie diverse è finito.
E oggi qual è il suo rapporto con gli animali? Nelle sue opere hanno spesso ruoli chiave.
Ci sono cresciuto insieme da piccolo, ci giocavo, ci parlavo, ma li ho visti anche scannare e uccidere.
Lei ha lavorato con il primo Beppe Grillo, lo ha fatto litigare coi socialdemocratici, forse le ha fatto credere di essere un messia con la sceneggiatura di Topo Galileo. Lo sente ancora?
Ho visto poche persone cambiare come Beppe: era allegro, ottimista, credeva davvero di cambiare il Paese. Poi è stato tritato dalla macchina degli adulatori e da gente mediocre. Beppe pensava di essere meno intelligente di loro, invece era molto più saggio e disinteressato. Ora lo sento ancora, ma non parliamo di politica o ci sbraniamo.
Molti, come me, hanno cominciato a leggere Vonnegut e Pennac grazie a lei. Il secondo, in Italia, lo ha portato lei. Siete molto amici. E forse dal primo ha attinto più di tutti nella capacità di raccontare il reale attraverso il fantastico.
Non si impara solo da scrittori con cui credi di avere sintonia. Sylvia Plath, Nabokov, Steinbeck, Calvino, la Yourcenar e mille altri mi hanno insegnato tantissimo. Ma chi mi ha fatto davvero desiderare di diventare un artista è stato David Bowie. Io volevo essere come lui, non come Nabokov.
In ogni suo libro c’è una forte connotazione satirica. Gli anni berlusconiani, tremendi, sono stati meno duri anche grazie a lei. Quanto e come è cambiata la satira al tempo (ieri) di Renzi e (oggi) di Salvini?
La satira politica è una delle cento dimensioni dell’umorismo. Adesso preferisco provarci con le altre novantanove.
Lei è tradotto in 30 Paesi e vende tantissimo da più di trent’anni. Eppure, forse, le manca un riconoscimento artistico definitivo. Quasi che, per certa critica, la “narrativa satirica” non sia mai all’altezza dei “romanzi veri”. Così, a prescindere. Avverte anche lei questo snobismo?
Sono tradotto in molti Paesi, ma in nessuno sono un best-seller. La critica non mi ha mai interessato molto, quasi sempre i critici leggono troppo in fretta o giocano in qualche squadra culturale.
Com’è stato dividere il palco con Nick Cave?
Ero più emozionato di mio figlio, che era presente. Mi dispiace che Cave abbia dovuto affrontare il dolore della perdita di un figlio. Il suo ultimo cd Ghosteen è bellissimo, ma molto triste e segnato dalla perdita.
A ogni sua presentazione c’è sempre qualcuno che le dice: “Ah quant’era bello Bar Sport, la Luisona…”. Immagino le faccia piacere, ma immagino anche che lei pensi: “Oddio che palle, un’altra volta!” A De André dava fastidio che gli chiedessero sempre La canzone di Marinella, perché sapeva di avere fatto molto altro (e molto di meglio). Che rapporto ha con una delle sue opere più celebri?
Lei ha ben sintetizzato nella frase “Oddio che palle”. Ma io qualche volta mi accontentavo di quello che avevo scritto. Fabrizio no, era un esploratore, cercava sempre sfide nuove.
Quanto è cambiato dai tempi di Comici spaventati guerrieri?. Intendo come uomo, ma anche come scrittore. Cerca meno il “colpo a effetto” e insegue una sorta di minimalismo magico?
Sì, i trucchi del comico li uso di meno. La mia lingua è più pensata e complessa. Forse ho perso un po’ l’istinto del comico.
“Che bella cosa se finirà/ metà dell’umanità”, scrive lei nel libro “citando un poeta brasiliano”. Lei ci ha mai creduto che il Covid-19 ci avrebbe migliorati?
Quella frase l’ha detta anche Emil Cioran. Vorrei sperare, ma l’umanità ha attraversato ingiustizie, guerre e catastrofi, e non mi sembra pronta a redimersi. Forse come dice Noon, la terra non merita più l’uomo.