Scandinavia rovente e cittadini francesi contro i “gas serra”

In Italia – L’estate è arrivata proprio per il Solstizio, i temporali quotidiani si sono diradati, e sotto il sole dell’anticiclone “Utz” per la prima volta di quest’anno le temperature sono salite fino a 32-34 °C in Valpadana tra lunedì 22 e mercoledì 24. Caldo estivo pure in Sardegna, 35,5 °C giovedì a Orani, nel cuore dell’isola non raggiunto dalle rinfrescanti brezze marine. Tuttavia qualche scroscio anche intenso è tornato da metà settimana: nubifragio in Val Vigezzo (Ossola) la sera di San Giovanni, 110 mm di pioggia e grandine ad Arvogno, strade trasformate in torrenti. Forti acquazzoni anche in alta Lombardia giovedì notte (49 mm a Bergamo). Fino al 30 agosto il Museo della Montagna di Torino ospita la mostra “Sulle tracce dei ghiacciai” del fotografo Fabiano Ventura: spettacolari confronti tra immagini di un secolo fa e oggi che mostrano la drammatica deglaciazione in Himalaya, Karakorum, Ande, Alaska e Caucaso. Un’analoga campagna fotografica è in programma quest’estate sulle Alpi.

Nel mondo – Dopo gli incredibili 38 °C di sabato 20 giugno a Verkhojansk (Siberia), un caldo eccezionale 15 °C sopra media ha interessato anche la Scandinavia, come già accaduto nel 2018 e 2019: giovedì in Svezia centrale nuovi record assoluti di 32,2 °C a Hedeviken e 33,4 °C a Forse, ma anche una punta di 34,0 °C a Skellefteå (65° Nord); in Finlandia, 33,5 °C a Kankaanpää, a un soffio dal primato nazionale di giugno (33,8 °C a Ähtäri nel 1935). Nelle stesse ore si boccheggiava pure a Parigi (35,2 °C) e Londra (33,4 °C). Che la polvere del Sahara sollevata da tempeste desertiche e trasportata dagli alisei si spinga a Ovest sull’Atlantico è normale in questa stagione (si parla di Saharan Air Layer), ma l’evento dei giorni scorsi è stato inedito per intensità ed estensione. Una densa nube polverosa ha viaggiato per ottomila chilometri fino ai Caraibi e agli Stati Uniti, rendendo l’aria torbida e malsana (record di oltre 400 microgrammi di PM10 al metro cubo a Porto Rico e in Martinica). Almeno 83 persone sono state uccise da fulmini giovedì in India nord-orientale; d’altra parte, sorprendentemente, è proprio questo il fenomeno atmosferico più mortale nel Paese, responsabile di circa il 40% delle vittime da eventi naturali, spesso si tratta di agricoltori al lavoro nei campi durante le tempeste della stagione monsonica. Si aggravano le alluvioni cominciate in maggio in Cina sud-occidentale: Wuming ha ricevuto 257 mm di pioggia in 24 ore il 24-25 giugno, oltre 60 vittime finora, danni da tre miliardi di dollari e livello idrico di allarme alla diga delle Tre Gole. Inondazioni anche in Europa orientale (3 morti in Ucraina, almeno 2 in Turchia), Mongolia e Nicaragua. I grandi cambiamenti virtuosi, affinché avvengano e siano efficaci, vanno anzitutto desiderati e incoraggiati tramite la democrazia partecipativa. Per questo il governo francese ha tirato a sorte 150 persone per costituire la Convenzione dei Cittadini per il Clima, ed elaborare altrettante proposte per ridurre le emissioni serra nazionali del 40% entro il 2030, nel rispetto della giustizia sociale. Dopo nove mesi di lavoro, le idee – dal modulare i finanziamenti pubblici alle imprese in base al loro bilancio di gas serra, al rendere obbligatorie le fonti rinnovabili, fino a ridurre da 130 a 110 km/h il limite di velocità in autostrada – sono state presentate domenica scorsa. Strategie che potranno essere direttamente applicate, o sottoposte senza filtro a referendum o al voto del parlamento. Se adottate, costeranno circa 6 miliardi di euro all’anno, ma con enormi ricadute positive a lungo termine su ambiente, salute ed economia.

 

Italia, Libia ed Egitto: triangolo denso di nubi

C’è un rapporto (o somiglianza, o legame) fra l’Egitto, che non presta alcuna attenzione all’assassinio del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni, ma onora costosissimi prodotti italiani (navi da guerra) pronta cassa, e la Libia di Al-Serrai, che riceve paterne visite, paterni inviti a Roma e pagamenti abbondanti dall’Italia, mentre lo stesso Al-Serraj intreccia, alla luce del sole, legami capestro con potentissimi partner (la Turchia, la Russia) per affrontare costosi progetti di cui non si lasciano sfuggire una parola? Prima di rispondere, dobbiamo aggiungere una riflessione in più per l’altra Libia, quella del generale Hafthar, che appena può bombarda Tripoli, accetta carichi di armi dagli stessi fornitori (del suo nemico), ma non esita a fare, di tanto in tanto, un salto in Italia, da dove, presumibilmente, non torna a mani vuote. La domanda riguarda naturalmente l’Italia, che va in giro con questi amici, in modo da ridurre la sua immagine a quella di un privato abile e attivo, senza un’ombra di preoccupazione per gli interessi nazionali del Paese e un minimo di prestigio dello Stato italiano. Vediamo come questo può accadere. In Egitto, l’Italia è un venditore che si affida al prodotto. Vende bene e non vuole dissapori con il cliente. Il cliente, come si amava dire in tempi di capitalismo giovane e immaturo, ha sempre ragione. Il cliente Egitto non vuole controlli su altre cose, non sempre benevole, che fa per conto suo. Agenti segreti, ambasciatori e Farnesina non vedono perché proprio loro dovrebbero bloccare buoni affari, che probabilmente non sono che l’anello di una catena di altri buoni affari. C’è chi vi dice: pensate alla occupazione, e chi vi ammonisce: attenzione alla concorrenza. E così il caso Regeni e la sua fine barbara di cittadino italiano senza un Paese amico al suo fianco, da vivo o da morto, scende parecchio al di sotto della sua inevitabile natura di principale, ostinata richiesta italiana di verità. In Libia, l’Italia è un compratore fidato, quasi in esclusiva. Il ruolo dell’Italia è cominciato presto. È il riflesso, in tutta l’area, del “caso Mattei”, un uomo che agiva solo e rigorosamente per conto dello Stato. In seguito l’Italia è diventata valutazione e convenienza del momento. Leader e gruppi italiani hanno preso a lavorare adesso e subito, calcolando la convenienza del Paese sulla convenienza del gruppo di potere. A partire da Berlusconi i rapporti con la Libia sono un gran pasticcio, continuamente corretto e peggiorato, sempre in cerca di una grande convenienza sotto imperiali apparenze. Due cose erano molto importanti: i rapporti personali con il capo del regime libico, in modo da allargare a dismisura l’area dei reciproci favori utili. E il gettare nello scambio immigranti come merce, capolavoro tragico della Lega. L’uso dei migranti come merce (tuttora attribuito, a volte in buona fede, più spesso con finta ingenuità, ai “mercanti di uomini”) è frutto della invenzione organizzativa e politica della Lega, una volta ottenuto il divieto totale di sbarchi e di corridoi umanitari. Segue l’invenzione del “migrante economico” ruba-lavoro, proprio quando una costellazione di crudelissime guerre ha cominciato a riversare nel Mediterraneo migliaia di donne e bambini. Le due storie, Egitto e Libia, sono diverse, ma le due controparti interpretate dall’Italia, del venditore e del compratore, si assomigliano molto. Per entrambi (venditore e compratore) e per le loro controparti, le vite umane sono irrilevanti. Se in Egitto c’è il selvaggio e inspiegato assassinio di Giulio Regeni, la parte di Investigazione italiana si trasforma in una educata passività, incline alla distrazione. In Libia, l’Italia, che come potenza risulta perdente sia sul versante di Tripoli sia su quello di Haftar, è brutalmente offesa dalle passeggiate turche e russe sulle terre che l’Italia credeva di guidare, controllare o almeno influenzare, resta però complice attiva della caccia ai profughi, compresi i bambini e le donne che affogano a decine di fronte alle coste di Malta o di Lampedusa. L’Italia continua a raccontare di “mercanti di carne umana” laddove il Mediterraneo è sbarrato dai decreti Salvini e dal filo spinato dell’amico di Salvini, Viktor Orbán. Non sono previste verità, rivelazioni o cambiamenti su ciò che sta facendo l’Italia in Egitto (come fa un nostro ambasciatore a non sapere per sempre di quella morte di un giovane studioso italiano?). O su ciò che sta accadendo nelle regioni e nei regimi diversi della Libia. Non si è mai sentito di una verifica italiana con la Turchia o con la Russia, che pure ha molti amici nella Lega. La Libia degli “amici” e dei “nemici” è in vendita. L’Italia non c’entra. Ha versato, è vero, sin dai tempi del Trattato di fraterna amicizia votato all’unanimità dal Parlamento. Ma ciascuna Libia ha deciso di tenersi la caparra. Più i versamenti di tutti gli altri governi italiani, nessuno escluso.

 

I celebri dottori ateniesi Megastene e Autolico e la sfida sulle donne

Dai racconti apocrifi di Difilo. Vivevano ad Atene due medici, Megastene e Autolico. Amici d’infanzia, allievi di Ippocrate, sapevano curare la depressione con l’elettricità, applicando sulla testa dei pazienti la torpedine, quello strano pesce che a toccarlo dà una scossa. Amavano inoltre fare baldoria, e spassarsela con le donne. Differivano però nel carattere: Megastene, pieno di sé, era convinto di incarnare la perfezione umana e non faceva che vantarsi delle sue prodezze in campo medico e sessuale. Autolico, non meno bravo fra i salassi e le lenzuola, era più riservato, rivolgendo al prossimo giusto i saluti di circostanza.

Megastene, per questo, lo sfotteva, ma Autolico non ne era infastidito, perché i giudizi altrui li considerava irrilevanti. Un giorno, camminando per viuzze a scalini, strette fra pareti bianche sulle quali spiccavano grappoli di pomodori, si trovarono a discutere, dopo una battuta sapida di Megastene, resa ancora più divertente dalla sua espressione severa ed ermetica (“Mi piacerebbe essere un cavallo: non per andare al galoppo, ma per scacciare le mosche con un colpo di coda. E anche il cazzo non sarebbe da buttare”), si trovarono a dibattere sull’incapacità dell’uomo maturo di portare a compimento l’atto amoroso con lo stesso vigore posseduto in gioventù. Secondo Megastene, il motivo non era di natura fisica: “L’energia dell’adulto è la stessa del ragazzo, ma un marito, dopo un po’, si stanca della moglie, benché bella. ‘Anche stasera pernice!’, come diceva Pericle, alludendo ad Aspasia. Cambiò donna, e tornò subito gagliardo”.

Autolico, con il suo fare dimesso, dissentiva: “Non è così, mio buon amico. Io stesso ne soffro, eppure frequento le donne più ammalianti di Atene”. Ne elencò diverse, alcune delle quali costavano, per una notte di piacere, più di 10 cavalli. Megastene si infiammò: “La mia diagnosi è che fai poca pratica. La mia terapia è che dovresti farne di più”. Autolico non era d’accordo, ma poiché l’amico insisteva con la sua teoria, scommise 100 cavalli che Megastene non sarebbe riuscito a trovargli una donna ateniese in grado di risvegliare in lui l’ardore di un tempo.

L’altro, orgoglioso com’era, accettò la sfida e, nei mesi seguenti, procurò ad Autolico donne meravigliose, con le quali Autolico si divertiva parecchio, per poi dire a Megastene, mentendo, di aver fatto per l’ennesima volta cilecca. E così, etera dopo etera, il cocciuto Megastene finì col dilapidare il suo patrimonio, pur di non ammettere di avere torto. È proprio vero che la verità ha un prezzo.

“Le discussioni con un uomo, almeno, hanno un inizio e una fine”, si consolò Megastene. “La discussione con una donna, invece, non è mai finita del tutto: può sempre riprenderla, anche dopo anni, in un litigio, portando alla ribalta, per la comodità dell’accusa, un fatto remoto, snaturato dal tempo e dalla lontananza, i cui particolari sono svaporati del tutto dalla tua memoria, e su cui tu non hai più sottomano gli argomenti di difesa: ‘Un anno fa, tu…’”. Ma lui sapeva come bloccare l’attacco attico: “Chissà qual era il contesto. È un discorso morto e sepolto. Che è più di quanto possa dire dei miei pazienti”.

E se a questo punto, invece di ridere, lei insisteva, lui le applicava la torpedine.

 

“Limitare il contante è fondamentale anche contro le mafie”

“In un momento di crisi come questo, limitare l’uso del contante è fondamentale per evitare che la criminalità organizzata approfitti della difficoltà di aziende e cittadini”. Luca Tescaroli, 55 anni, è procuratore aggiunto a Firenze, ma i reati della criminalità organizzata e quelli dei colletti bianchi li persegue da quando era a Caltanissetta e poi a Roma. Da mesi sostiene che porre un limite alla circolazione del contante non serva solo a combattere l’evasione, ma sia anche uno strumento investigativo fondamentale: “Più il denaro è tracciato più si possono scoprire attività illecite”.

Limitare l’uso del contante a cosa serve?

Inibire la circolazione del contante è un’esigenza per contrastare alcuni tipi di reati. In primo luogo, quelli della criminalità mafiosa, ma anche la corruzione e l’evasione fiscale. Oltre che il lavoro nero.

Perché serve a contrastare le mafie?

La prima legge con lo scopo di limitare l’uso del contante per prevenire l’attività di riciclaggio risale al 3 maggio 1991. La ricordo perché fu concepita subito dopo che Giovanni Falcone era stato nominato alla Direzione Affari Penali: era lui a volerla. Già da allora Falcone aveva capito che era importante limitare l’uso del contante nella lotta alla mafia: chi ha grosse disponibilità di liquidi le può inserire senza limiti nel mercato e nell’acquisto di società. Oggi che le imprese sono in grossa difficoltà, questi affari vanno evitati a ogni costo.

Vale anche per gli altri reati economici?

Certo, la liquidità è un elemento caratteristico della corruzione nel versamento delle tangenti. Il contante viene usato anche per l’evasione fiscale: così si evitano fatture e il passaggio di denaro avviene senza tracciamento. Per questo dobbiamo limitare la circolazione di contante.

Perché proprio adesso?

In questo momento di crisi il ruolo delle mafie viene avvantaggiato ancora di più. C’è una carenza di liquidità e chi ne ha disponibilità senza limiti può incidere sul mercato dei capitali impadronendosi delle società in difficoltà che hanno bisogno di denaro. Per contrastare questo fenomeno lo Stato deve veicolare risorse con velocità ed efficienza e poi serve l’attività di controllo.

Arriveranno anche molti fondi Ue: rischiano di finire nelle mani sbagliate?

Sì, e limitare l’uso del contante servirebbe anche a questo: più si riesce a imporre il tracciamento, più i controlli sono puntuali e si può evitare che finiscano in mani sbagliate. Per esempio le ‘Sos’, segnalazioni di operazioni sospette, sono uno strumento fondamentale che consente di radiografare quelle movimentazioni che presentano anomalie. Questo strumento agisce sulle operazioni tracciate e molte inchieste che ho fatto, come su Amara & C. sulla compravendita delle sentenze nella giustizia amministrativa, sono nate proprio grazie a una ‘Sos’. Questo dimostra che quando i trasferimenti sono tracciati e non avvengono in contanti, si possono scoprire le attività illecite. Altrimenti diventa difficile.

Il contante va abolito?

Progressivamente ritengo di sì. Del resto, quella dei pagamenti elettronici è una tendenza che va avanti da tempo: in un mondo sempre più legato alla telematica, i soldi di carta saranno eliminati.

L’idea del governo del cashback la convince?

Mi sembra un principio ragionevole. L’incentivo economico all’uso della moneta elettronica può contribuire a un cambio di mentalità, soprattutto tra gli anziani: se conviene pagare senza contanti, sarà più facile adeguarsi.

Le scelte nella Ue Paese per Paese e i rischi del “post”

La recessione più grave in tempo di pace ci regala il ritorno dello Stato nell’economia dopo anni di demonizzazione. Nel pezzo qui accanto, Andreoni e Mazzucato spiegano perché, per evitare che si tratti di una mera socializzazione delle perdite, i governi debbano pretendere, in cambio degli aiuti, di fissare obiettivi di politica industriale. In Europa, però, la situazione è complicata anche dalla peculiare forma giuridica dell’Unione: stesse regole per tutti, diverse possibilità. “Non possiamo accettare situazioni per cui con gli aiuti di Stato alcuni Paesi siano in grado di dispiegare risorse a sostegno dell’economia e altri no – ha detto un mese fa il commissario al Mercato interno, Thierry Breton –. Di fronte a uno choc simmetrico anche la risposta dev’essere simmetrica, altrimenti c’è il rischio di squilibri e di una frammentazione dell’Ue”. Di fatto è la richiesta di una risposta comune a mezzo di trasferimenti sul modello del Recovery Fund (almeno nella sua formulazione iniziale “spagnola”).

A cosa si riferisce Breton? Qual è il problema? A quel che è successo dopo la sospensione del Patto di Stabilità e l’allentamento nel 2020 delle regole che limitano gli aiuti di Stato: la Commissione Ue in una prima tornata ha già autorizzato 166 misure nazionali di intervento nell’economia normalmente vietate (altre ne arriveranno) per un totale di quasi 2.000 miliardi. Ebbene com’è noto il 51% sono del governo tedesco, seguono Francia (17%) e Italia (15). Insomma, Berlino sta investendo più di tutti gli altri messi assieme e oltre il doppio del suo peso nel Pil dell’Unione: il rischio è che il post-Covid sia un monologo dell’industria tedesca ancor più di quanto sia stato finora. Quanto agli strumenti scelti, ecco una breve panoramica dei Paesi maggiori.

Germania. La banca per lo sviluppo KfW (simile alla nostra Cdp) e il nuovo fondo di stabilizzazione WSF possono fornire garanzie pubbliche virtualmente illimitate sui prestiti: un aiuto soprattutto per il malmesso settore bancario tedesco. Il fondo WSF, inoltre, ha 100 miliardi per entrare direttamente nel capitale delle grandi imprese in difficoltà: è successo, per fare un solo esempio, con l’acquisto del 25% di Lufthansa, a cui lo Stato ha imposto diverse condizioni. Berlino poi, oltre a ampliare le maglie della loro cassa integrazione (Kurzarbeit), ha approvato 50 miliardi di sussidi per piccole imprese e gli autonomi.

Francia. Anche il governo Macron ha fornito alle imprese garanzie sui prestiti e schemi di riassicurazione dei depositi per un totale di 315 miliardi: 7 sono andati ad Air France-Klm (sempre con “condizioni”) e altri 5 miliardi alla Renault, in cui peraltro lo Stato francese è già azionista, a cui però è stato chiesto di investire nell’auto elettrica. Quanto al fisco, Parigi ha stanziato 110 miliardi per rinviare le tasse e accelerare il rimborso dei crediti d’imposta. Esistono anche misure specifiche per le realtà più piccole: un fondo di solidarietà da 1,5 miliardi e 4 miliardi per le start-up. Infine, sono disponibili 20 miliardi per ricapitalizzare le imprese in difficoltà. È escluso dagli aiuti (come in Danimarca) chi ha sede nei Paesi inseriti nella lista Ue dei “paradisi fiscali”.

Spagna. Oltre alla normale cassa integrazione, il governo ha stanziato 2,2 miliardi per le imprese che non licenzieranno. Ovviamente anche Madrid concede garanzie sui prestiti: 100 miliardi lo stanziamento, più piccoli fondi per esportatori e agricoltori. Pure la Cdp spagnola (Ico) è stata dotata di fondi per il credito (10 miliardi) e di 400 milioni per sostenere il turismo. Le Pmi hanno avuto il differimento di sei mesi delle tasse e gli autonomi circa un miliardo di esenzioni contributive.

Gran Bretagna. Londra ha varato misure dirette per 27 miliardi di sterline a sostegno delle imprese e deciso di pagare l’80% degli stipendi di lavoratori autonomi e in congedo fino a maggio. Anche qui si è difeso il sistema bancario: tra prestiti e garanzie lo stanziamento è di 330 miliardi di sterline. Circa 600 milioni di questi fondi se li è aggiudicati a maggio Ryanair, il cui ad O’Leary si era appena scagliato contro gli aiuti di Stato. Anche l’altra low cost EasyJet ha avuto garanzie per 600 milioni dopo essersene pagati 174 in dividendi un mese prima.

Salvataggi gratis? No, grazie: aiuti condizionati

La crisi e la recessione Covid-19 offrono un’opportunità unica per ripensare il ruolo dello Stato, in particolare i suoi rapporti con le imprese. L’ipotesi di lunga data secondo cui il governo è un peso per l’economia di mercato è stata smentita. Riscoprire il ruolo tradizionale dello Stato come “investitore di prima istanza” – piuttosto che come prestatore di ultima istanza – è diventato uno dei presupposti per un’efficace elaborazione delle politiche nell’era post-Covid.

Fortunatamente, gli investimenti pubblici sono aumentati. Mentre gli Stati Uniti hanno adottato un pacchetto di stimolo e salvataggio da 3 trilioni di dollari, l’Unione europea ha introdotto un piano di risanamento di 750 miliardi di euro (850 miliardi di dollari), e il Giappone ha raccolto un ulteriore trilione di dollari in assistenza per le famiglie e le imprese.

I soldi non bastano: serve una direzione

Tuttavia, affinché gli investimenti possano condurre a un’economia più sana, resiliente e produttiva, il denaro non è sufficiente. I governi devono ripristinare la capacità di progettare, attuare e applicare le condizionalità nei confronti dei destinatari, cosicché il settore privato operi in modo da favorire una crescita inclusiva e sostenibile.

Il sostegno del governo alle grandi imprese assume molte forme, tra cui sovvenzioni dirette in denaro, agevolazioni fiscali e prestiti emessi a condizioni favorevoli o con garanzia statale – per non parlare del ruolo espansivo svolto dalle banche centrali, che hanno acquistato obbligazioni societarie su vasta scala.

Questa assistenza dovrebbe essere accompagnata da condizioni, come richiedere alle imprese di adottare obiettivi di riduzione delle emissioni e di trattare i propri dipendenti con dignità (in termini sia di retribuzione che di qualità del lavoro). Per fortuna, anche con la riscoperta da parte della comunità imprenditoriale dei meriti dell’assistenza condizionata – persino sulle pagine del Financial Times – questa forma di intervento statale non è più un tabù.

Qualche buon esempio c’è: alcuni casi in Ue e Usa

E ci sono alcuni buoni esempi. Sia la Danimarca che la Francia oggi negano gli aiuti di Stato a qualsiasi società domiciliata in un paradiso fiscale designato dall’Ue e vietano ai grandi destinatari di pagare dividendi o di riacquistare le proprie azioni fino al 2021.

Negli Stati Uniti la senatrice Elizabeth Warren ha richiesto rigorose condizioni di salvataggio, tra cui salari minimi più elevati, rappresentanze dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle società e restrizioni permanenti su dividendi, riacquisti di azioni e premi esecutivi. E nel Regno Unito, la Bank of England (BOE) ha sollecitato una moratoria temporanea su dividendi e riacquisti.

Lungi dall’essere dirigista, l’imposizione di tali condizionalità aiuta a guidare strategicamente le risorse finanziarie, garantendo che vengano reinvestite in modo produttivo anziché essere catturate da interessi ristretti o speculativi. Questo approccio è tanto più importante se si considera che molti dei comparti più bisognosi di salvataggio sono anche tra i più economicamente strategici, come il settore aereo e quello automobilistico.

Ad esempio, alle compagnie aeree statunitensi sono stati concessi prestiti e garanzie fino a 46 miliardi di dollari, a condizione che le imprese beneficiarie mantengano il 90% della loro forza lavoro, riducano le retribuzioni dei dirigenti e evitino l’outsourcing o l’offshoring. L’Austria, nel frattempo, ha subordinato i suoi salvataggi del settore aereo all’adozione di obiettivi climatici. La Francia ha inoltre introdotto obiettivi quinquennali per ridurre le emissioni interne di anidride carbonica.

Il settore dell’auto: il caso francese

Allo stesso modo, molti Paesi non possono permettersi di perdere la propria industria automobilistica nazionale e vedono i salvataggi come un’opportunità per guidare i progressi verso la decarbonizzazione del settore. Come ha recentemente affermato il presidente francese Emmanuel Macron, “non dobbiamo solo salvare il settore, ma trasformarlo”. Pur estendendo fino a 8 miliardi di euro i prestiti al settore, il suo governo richiede che entro il 2025 ciò comporti un milione di automobili in più a energia pulita. Inoltre, dopo aver ricevuto 5 miliardi di euro, la Renault deve mantenere aperti due impianti strategici francesi e contribuire al Progetto franco-tedesco per la produzione di batterie elettriche. Come principale azionista della Renault, il governo francese sarà in grado di far rispettare queste condizioni sia all’esterno che all’interno dell’azienda.

In alcuni casi, i governi sono andati oltre le condizionalità per modificare i modelli di proprietà. Germania e Francia stanno acquisendo o aumentando (rispettivamente) la partecipazione azionaria dello Stato nelle compagnie aeree, citando la necessità di salvaguardare le infrastrutture strategiche nazionali.

Il prestito Fca-Fiat: cose da non fare/1

Ma ci sono anche esempi negativi. Il salvataggio dell’industria automobilistica ha avuto un andamento molto diverso in Italia rispetto a quello francese. Il gruppo Fca ha convinto il governo italiano – che storicamente ha fornito grossi sussidi alla Fiat – a concedere alla sua controllata Fca Italia un prestito garantito di 6,3 miliardi di euro praticamente senza condizioni. Si prevede che Fca Italia si fonderà con il gruppo francese Psa entro la fine di quest’anno, e il gruppo Fca stesso non è più nemmeno una società italiana.

Nato nel 2014 dalla fusione di Fiat e Chrysler, è domiciliato nei Paesi Bassi con sede finanziaria a Londra. Peggio ancora, la società ha una cattiva reputazione nel mantenere gli impegni di investimento in Italia, Paese sparito dalla mappa globale dei produttori automobilistici, sia in termini di volume che di veicoli elettrici.

In altri casi negativi, le principali aziende e i settori più importanti si sono valsi del loro monopolio o del loro potere di contrattazione dominante sul mercato per esercitare forti pressioni contro le condizionalità, oppure hanno sfruttato il sostegno delle banche centrali, che tende a concretizzarsi con minori condizioni o addirittura senza.

EasyJet e i dividendi: cose da non fare/2

Ad esempio, nel Regno Unito, EasyJet è stata in grado di accedere a 600 milioni di sterline (746 milioni di dollari) di liquidità dalla BOE, nonostante abbia pagato 174 milioni di sterline di dividendi un mese prima. E negli Stati Uniti, la decisione della Federal Reserve di iniziare ad acquistare obbligazioni ad alto rendimento più rischiose ha alimentato i timori di azzardo morale.

Tra coloro che approfittano per guadagnare ci sono i produttori statunitensi di olio di scisto (il famigerato shale oil), che erano già altamente indebitati e per lo più con attività non redditizie prima dell’arrivo della pandemia.

Porre “condizioni” s’è rivelato strumento efficace

Lungi dall’essere a un passo dal controllo statale dell’economia, i salvataggi condizionati si sono dimostrati uno strumento efficace per guidare le forze produttive nell’interesse di obiettivi strategici e ampiamente condivisi.

Se progettati o implementati in modo errato, o se evitati del tutto, possono limitare la capacità produttiva e consentire agli speculatori e agli addetti ai lavori di estrarre ricchezza per se stessi.

Se applicati nel modo giusto, però, possono allineare il comportamento aziendale alle esigenze della società, garantendo una crescita sostenibile e una migliore relazione tra lavoratori e imprese.

Perché la crisi non vada sprecata, ciò deve far parte dell’eredità post-Covid-19.

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Project Syndicate, 2020. www.project-syndicate.org

Casaleggio-Dibba muovono guerra sui due mandati

Dicono che qualche giorno fa un 5Stelle di rango lo abbia chiesto al fondatore: “Beppe, ma tu che ne pensi della regola dei due mandati?”. E lui, il Beppe Grillo tornato al centro di tutto, non si è scomposto più di tanto: “Per me dovrebbe restare così com’è”. Non si espone, il Garante: non su questo, quantomeno non ora. Sa perfettamente che questa è la vera guerra dentro i 5Stelle: più urgente, più decisiva della scelta tra il virare verso una segreteria collegiale, come vorrebbe lo stesso Grillo assieme a Luigi Di Maio e a gran parte di big, oppure se mantenere un capo politico eletto dagli iscritti, come reclama quello tenutosi fuori, Alessandro Di Battista. Anche se, come è evidente, le due partite si incrociano. Così bisogna tornare al Di Battista la settimana scorsa ad Accordi&Disaccordi che ha fatto una distinzione: “Il vincolo è nato per contrastare la politica professionistica, e nessun ministro del M5S mi ha mai parlato di questo problema”. Però “per gli amministratori si può fare una riflessione”, e per amministratori l’ex deputato intende innanzitutto la sindaca di Roma, Virginia Raggi. Ed è qui che si arriva al punto nodale. Perché per gli eletti che sostengono Di Battista il sospetto è già accusa: “Di Maio e gli altri big puntano a un’unica votazione sul doppio mandato, mettendo assieme sindaci e parlamentari. Vogliono schermarsi con le sindache Raggi e Appendino, altrimenti gli iscritti non direbbero mai di sì”. Non accetterebbero l’ennesima deroga ai vecchi totem, se non guarnita dal via libera a due amministratrici molto popolari tra la base.

Certo, poi c’è anche un dimaiano di peso che replica: “Tutte storie, e poi anche diversi di quelli che sostengono Di Battista sono al secondo mandato”. Vero. Ma la battaglia sul vincolo c’è. Anche per questo Di Battista giorni fa ha preso malissimo il consiglio arrivatogli dal M5S, quello di candidarsi nelle suppletive in Sardegna di novembre per un posto alla Camera. “Un boccone avvelenato per mandarlo a perdere o almeno per fargli spendere subito il secondo mandato” ringhia un grillino vicino all’ex deputato. E non a caso Davide Casaleggio continua a ripetere che “le regole vanno rispettate”. Perché per il figlio di Gianroberto i due mandati rappresentano l’argine contro la vecchia guardia, quella che vorrebbe togliergli la gestione della piattaforma web Rousseau e che gli ha impedito di votare un nuovo capo politico prima dell’estate, con l’appoggio decisivo del Garante Grillo. “Verrebbe bruciato in due mesi, gli imputerebbero la disfatta nelle Regionali” gli hanno replicato Di Maio e gli altri big. Ostili, anche perché Casaleggio è il principale sostenitore di Di Battista. E allora non può stupire che i due facciano muro per difendere la regola dei due mandati. Così come tutti e due temono che i nomi dell’eventuale, futura segreteria collegiale vengano calati dall’alto, senza passaggi sul web. E dall’alto significa innanzitutto da Grillo, per il quale l’unica, vera priorità è sostenere il governo, quindi schivare conte interne. Ma Casaleggio non sta fermo. Negli ultimi giorni sta parlando molto, come mai fatto in precedenza, per rivendicare un suo spazio politico.

Così ieri a Sky Tg24 ha assicurato: “Sento regolarmente Beppe Grillo”. E lo scontro tra lui e Di Battista? “A me interessano le idee che vengono portate avanti o il metodo di partecipazione collettivo del M5S”. Ed è il riferimento al metodo collettivo, cioè alla centralità del web e della sua piattaforma, la bandiera del Casaleggio che vuole resistere. Anche grazie ai due mandati.

“Pd e 5S vivono solo se vanno insieme dalla Liguria a Roma”

“Se ci fosse un briciolo di razionalità politica, Pd e Cinque Stelle dovrebbero allearsi naturalmente sia alle elezioni regionali sia alle comunali del 2021”. Secondo Marco Revelli, per i giallorosa c’è una sola strategia possibile: quella che non stanno percorrendo. “Sarebbe interesse di entrambi. Invece mi pare prendano strade diverse. In politica le scelte intelligenti si fanno quando si ha una leadership forte. Quando invece c’è una guida debole, si fanno delle sciocchezze”.

È il caso di Pd e grillini?

Sono due partiti che hanno un grande peso, almeno in Parlamento, ma i piedi di argilla.

Zingaretti l’ha detto: non allearsi alle Regionali sarebbe “tafazzismo”.

L’analisi è corretta, poi però servono fatti concreti. L’occasione ideale per il Pd sarebbe in Liguria. C’è una candidatura che dovrebbe andare liscia come l’olio, quella del vostro giornalista Ferruccio Sansa. Una bella proposta, capace di raccogliere le migliori energie liguri, per la quale ho firmato anche un appello. Mi sembra che le difficoltà principali su Sansa vengano proprio dal Pd. L’affermazione generale di Zingaretti è lucida, la pratica locale del Pd è opaca.

L’anno prossimo si vota anche a Torino e a Roma. Secondo lei il Pd dovrebbe considerare le conferme di Appendino e Raggi?

Sarebbe opportuno, ma anche qui non vedo segnali di razionalità politica. Il rischio è che si consegnino anche queste città alla destra: persino un baluardo democratico come Torino, che finora ha resistito all’assedio della Lega. Io non ho un giudizio straordinariamente positivo della giunta Appendino, ma nemmeno catastrofico, non è certo peggiore delle precedenti.

Su Appendino e Raggi però i giallorosa si sono dati battaglia per tutta la consiliatura, sia a Torino che a Roma. Con quale faccia si possono presentare insieme dopo cinque anni di scontri?

Il ragionamento è politico. Non credo che i profili personali di Appendino e Raggi siano di per sé un ostacolo. D’altra parte Pd e M5S hanno già fatto un triplo salto mortale carpiato accordandosi sulla presidenza del Consiglio di Giuseppe Conte. Eppure, tutto sommato, ha funzionato: è un anno che questo governo tiene. Nel periodo dell’emergenza sanitaria ha lavorato bene e personalmente ringrazio il cielo che al governo non ci fossero gli altri: avremmo fatto la fine del Brasile, degli Stati Uniti o del Regno Unito.

Ora però i giallorosa sembrano bloccati. Perché?

Per una mancanza di coraggio e una profonda pigrizia mentale delle forze di maggioranza.

Sempre conseguenza, come diceva, della debolezza dei leader?

Sì. Questo ripiegamento nelle identità di partito – ormai svanite, ma agitate come uno straccetto di bandiera – avviene quando chi deve prendere le decisioni non è sicuro di sé. Sono preoccupato soprattutto per la tenuta dei Cinque Stelle, che sono ancora la forza di maggioranza relativa in Parlamento. Un corpaccione con una testa fragile.

Vede qualche candidato plausibile a raccogliere la guida di Pd e Cinque Stelle?

Per quanto riguarda il Pd credo che la tenuta sia talmente precaria che sarebbe molto rischioso mettere in discussione la sia pur debole leadership di Zingaretti. Non è questo il momento di aprire un congresso. Per i Cinque Stelle invece è questione di vita o di morte trovare subito una soluzione, ma è molto complicato ridefinire il proprio assetto mentre si prospetta una gravissima crisi sociale. Verrebbe quasi da auspicare un ritorno in campo di Beppe Grillo, che sospenda le ostilità interne e assuma una funzione di guida. Altrimenti rischiano davvero l’implosione. Credo che sarebbe un danno generale per il Paese.

Mi sembra pessimista, Revelli.

Più che altro sono preoccupato. Perché questa debolezza della politica toglie energie che si dovrebbero investire sulla crisi sociale. La situazione è davvero grave. Sono stati usati dei provvedimenti eccezionali nella fase del contenimento del virus, ne servirebbero di altrettanto eccezionali nella cura delle ferite sociali che si stanno aprendo. Invece si perde tempo a discutere dei capricci di Gori e Di Battista. È piuttosto deprimente.

Erano davvero gli hacker: Tridico rifiata

Dàgli al presidente dell’Inps Pasquale Tridico. La richiesta di dimissioni è all’ordine del giorno, ma le accuse sono ora infondate. Da quattro mesi è sulla graticola per i ritardi nel far arrivare gli ingenti aiuti stanziati dai diversi decreti perché incanalati in procedure farraginose. La cassa integrazione ne è diventata l’esempio più drammatico su cui il governo ha deciso di intervenire, seppure in ritardo, con una nuova procedura. Difficile sostenere che le complesse procedure e la macchina organizzativa messe in atto siano state efficienti (sono ben 25mila i lavoratori ancora in attesa della Cig ai quali vanno aggiunte 130mila domande presentate a giugno), così come non si possono addossare tutte le colpe al presidente Tridico. Sicuramente non è il responsabile del disastro del primo aprile, il tumultuoso click day per la presentazione delle domande da parte dei lavoratori autonomi e delle partite Iva per accedere all’indennità di 600 euro, con il sito andato in tilt e migliaia di account violati.

A provocare il blocco fu un attacco hacker, così come conferma il Report dell’Organismo permanente di monitoraggio e analisi sui rischi di infiltrazione della criminalità organizzata, la struttura del Viminale creata per monitorare le infiltrazioni delle mafie durante l’emergenza coronavirus. L’intrusione sul portale del primo aprile è ora scritto nella pietra. La stessa versione che Tridico ha dato il pomeriggio del primo aprile quando, presentandosi in tv, s’è scusato per i problemi. Stessa versione ripetuta il 21 aprile in audizione alla Commissione Lavoro della Camera. Ma una dalle polemiche più accese durante il lockdown era già andata in scena con molti esponenti politici di maggioranza e opposizione (da Forza Italia al Pd, da Fratelli d’Italia ad Azione di Carlo Calenda) che da allora hanno chiesto la cacciata di Tridico per “le sue menzogne spudorate”, come detto dal forzista Maurizio Gasparri. A giudicarlo “un disastro” è da sempre il leader di Italia Viva, Matteo Renzi. “Tridico – ha detto – non dovrebbe essere richiamato: dovrebbe essere licenziato”. Del resto la poltrona al vertice dell’Inps è da sempre un pallino dei renziani. Mentre per il leghista Claudio Durigon, Tridico ha incolpato gli hacker “per non ammettere le sue gravi mancanze. Anche la lettura data dal presidente Inps sull’attacco aveva lasciato più di qualche dubbio anche tra gli esperti informatici che avevano escluso che i disservizi registrati potessero derivare esclusivamente da pirati informatici adducendo tra le ipotesi più probabili un errore nella configurazione del sistema delle rete del sito”.

E poi c’è l’attacco della stampa. A ridosso del 1º aprile i titoloni si sono susseguiti. Per La Verità “Il sito in tilt e la privacy violata” sono la “Waterloo giallorosa” e l’attacco hacker era solo “la possibilità di smarcarsi parzialmente dalla figuraccia”. “Gli hacker? Ci sono, ma non c’entrano nulla”. Il Giornale in uno dei tanti titoli ha scritto: “Dalla colpa degli altri agli hacker: le ridicole scuse dei 5 Stelle per il flop”. E poi per il capitolo risiko delle nomine, Tridico è diventato “un boiardo grillino a rischio per il disastro bonus” a cui “nessuno crede più”. Insomma, il collasso dell’Inps per il Sole 24 Ore è stato “una falsa partenza per chi voleva mostrare la presenza efficace dello Stato”, ma che ora sappiamo aver ribadito la fragilità della Rete.

“Sui vitalizi ora decido io: no alle minacce di 5S e Pd”

“Io delle pressioni me ne fotto, per usare un francesismo. Spero lo facciano anche gli altri, sennò mi toccherà intervenire”. Luigi Vitali di Forza Italia è tra l’incudine e il martello. Da presidente del Consiglio di Garanzia gli toccherà decidere definitivamente sulla questione dei vitalizi del Senato e proprio non gradisce il clima: i 5Stelle, ma pure la Meloni, Salvini, Zingaretti dicono di essere già al lavoro per fare coriandoli della sentenza con cui in primo grado la Commissione Contenziosa presieduta dall’altro azzurro, Giacomo Caliendo, ha mandato in soffitta il taglio degli assegni. Non saranno loro a ricorrere, in ogni caso. Come ricorda l’avvocato Maurizio Paniz, ma il Segretario generale del Senato Elisabetta Serafin. Da cui ci si attende la costituzione in giudizio di fronte al collegio presieduto da Vitali. Che si presenta così.

“Lo sa chi sono io? Sono quello che ha portato a casa la ex-Cirielli (passata alla storia come legge salva-Previti, ndr) nonostante le feroci polemiche. Me ne hanno dette di tutti i colori: a partire dall’accusa di essere il cameriere di Berlusconi. Figurarsi se adesso mi lascio intimorire: quando sono stato nominato da Casellati ho accettato l’incarico ed è stato un grande onore. Certo che mai avrei subito condizionamenti da chicchessia. Parlo con il Fatto Quotidiano non per dire cosa penso della sentenza Caliendo, di cui peraltro non conosco ancora le motivazioni, ma per dare un modesto suggerimento. Anzi due”.

Quali?

Mi permetto di suggerire ai soloni del Pd e dei 5Stelle che se vogliono davvero sgombrare il campo da veri o presunti conflitti di interessi come quelli che sono stati adombrati sul mio collega Caliendo, non devono far altro che cambiare la legge. In modo che non siano più gli organi di giustizia interna del Senato a decidere sui vitalizi degli ex senatori. Se davvero sono tutti d’accordo ci vuole poco. Certo meno tempo di quello che servirà a noi per decidere.

Quale tribunale potrebbe decidere su un privilegio come quello dei vitalizi?

Ma quale privilegio! I vitalizi sono calcolati in base a quanto si è versato come tutte le pensioni.

Scusi quanti italiani conosce che maturano la pensione dopo soli 5 anni di lavoro?

Nessuno. Ma è pure vero che gli ex parlamentari non possono ricongiungere i loro contributi.

Ora che tutti sono pronti a far saltare in aria la sentenza Caliendo lei dice che ci vuole un giudice esterno…

Mi ascolti bene. Io mi meraviglio che Salvini e Meloni si mettano a inseguire Pd e 5S sul campo della demagogia. Detto questo, se dovessi pizzicare i componenti del collegio che presiedo, che sono eletti nei partiti e nei movimenti che si sono espressi contro la decisione di Caliendo, non secondo diritto come hanno fatto finora, ma sulla base di altre valutazioni, farò tutto quello che mi consentono le norme per denunciare questo comportamento. Non sono disponibile a subire decisioni politiche.

Ma è una minaccia?

No. È una promessa. Il Consiglio di garanzia è un organo giurisdizionale. L’avvocato Paniz, già in un’altra occasione, ha presentato istanza per ottenere che non fosse il nostro collegio a decidere e l’abbiamo respinta. Non escludo che possa rifarsi sotto ora che i capi partito hanno già detto come si dovranno comportare i loro rappresentanti nel mio organismo.

Scusi, con quello che è successo in primo grado, tra sentenze preconfezionate e ombre di conflitti di interessi, il problema è ciò che dicono i leader?

In primo grado ci sono state delle superficialità gravi. Ma non tali da convincere l’amministrazione del Senato a ricusare Caliendo &C.

Dice che Casellati doveva intervenire?

Dico che il Senato era una delle parti in giudizio. E la parte in giudizio può ricusare i giudici.

A proposito della Casellati: quando era al Csm ha chiesto il vitalizio di ex senatrice e lo ha ottenuto quando era già presidente del Senato. Lei lo avrebbe fatto al suo posto?

D’istinto direi di no. Ma bisogna trovarcisi.