Todo cambia

Ci avevano giurato che, dopo la pandemia, nulla sarebbe stato come prima e tutto sarebbe cambiato. Detto, fatto.

Il Senato resuscita il vitalizio, privilegio che definire medievale è offendere un’epoca seria come il Medioevo. E tutti quelli che 13 anni fa tuonavano e scrivevano articoli e libri contro la casta ridacchiano soddisfatti perché i 5Stelle sono stati sconfitti con la loro antipolitica, mentre la Politica con la P maiuscola è riempire le tasche finché morte non ci separi a vecchi arnesi mantenuti da noi dalla notte dei tempi. Fra le migliori esultanze degli incassatori per lo scampato pericolo, vince “Dalla politica ho avuto solo svantaggi”: parola di Francesco Speroni, leghista della prima ora, pensionato baby Alitalia a 50 anni, in politica dal 1986, parlamentare italiano e/o europeo dal 1989 al 2014 e financo ministro, sempre grazie alle leggendarie campagne contro “Roma ladrona”. Seguita da quest’altra: “Il taglio dei vitalizi fu una decisione pessima che ha messo alla fame alcuni ex parlamentari”: parola di un pesce di nome Zanda, già consigliere del gruppo Espresso, poi portaborse di Cossiga, poi presidente del Mose, di Lottomatica, del Giubileo2000, consigliere Rai, senatore del centrosinistra per appena 5 legislature, tesoriere del Pd (sua l’idea, l’anno scorso, di aumentare un po’ i magri stipendi dei parlamentari) dimissionario ma ancora in carica, perché nominato di fresco, alla tenera età di 78 anni, presidente della fondazione di Carlo De Benedetti (85 anni) che sta per dare alle stampe un nuovo giornale-ossimoro: Domani. Ridateci Storia Illustrata.

La Camera intanto espelle Vittorio Sgarbi perché dice dei magistrati e di chiunque lo contraddica (“vaffanculo stronza troia”) quel che diceva 30 anni fa su Canale5, prima che B. lo mandasse a spasso per non pagargli più le querele perse (tutte). Ma continuerà a essere invitato in tutti i salotti di Rai, Mediaset e La7, intervistato da tutti i giornaloni e giornalini e candidato a parlamentare, sindaco, assessore, ministro, viceministro, sottosegretario perché è tanto colto (sul fatto). Ridateci Sgarbi quotidiani.

Angela Merkel sul Mes dice un’ovvietà (“può essere usato da tutti”, ma quella dell’Italia “è una decisione italiana”), Conte risponde un’ovvietà (“A far di conto per l’Italia ci siamo io e i ministri italiani”) e tutti i giornali italiani titolano sul “gelo”, lo “scontro”, la “lite” Merkel-Conte e La Stampa su una frase mai detta dalla cancelliera (“L’Italia utilizzi tutte le risorse Ue”). Perché ovviamente ha ragione la Merkel: come osa l’Italia di non prendere ordini dalla Germania (che peraltro non s’è mai sognata di dargliene)?

Ridateci l’asse Roma-Berlino-Tokyo e la Repubblica di Salò.
Il ministro Gualtieri ha un nuovo consulente: il giovane millennial Franco Bassanini, classe 1940, una dozzina di cattedre, 7 legislature, mezza dozzina di partiti dal Psi al Pci Pd, un ministero, una decina di Cda, banche, assicurazioni (la lista completa di poltronissime è a pag.4). Ridateci i dinosauri.
Aria nuova anche nei servizi segreti: pare che Conte e altri nel governo pensino, per la vicedirezione dell’Aise, a Marco Mancini. Che non è omonimo del Marco Mancini arrestato due volte nel 2006, quand’era capo del Controspionaggio del Sismi, per concorso nel sequestro dell’imam di Milano Abu Omar e per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla rivelazione di segreto d’ufficio per aver passato dossier segreti alla Security Telecom, poi condannato a 9 anni per la prima accusa e infine salvato sia per la prima sia per la seconda dal segreto di Stato apposto dai governi di destra e di sinistra: è sempre lui. Eppure la Corte dei diritti umani di Strasburgo nel 2016 ha stabilito che il Sismi e la Cia, sequestrando Abu Omar e mandandolo a torturare in Egitto, e i governi italiani, coprendoli, hanno violato ben cinque principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e “applicato il legittimo principio del segreto di Stato in modo improprio e tale da assicurare che i responsabili del rapimento, della detenzione illegale e dei maltrattamenti ad Abu Omar non dovessero rispondere delle loro azioni”. Ridateci Pollari&Pompa.
Salvini, noto leader del futuro visto che politicamente è più vecchio di B., non perde occasione per guardare all’avvenire con la strenua difesa dei pagamenti in contanti fino ad almeno 3mila euro a botta, in tandem con l’altro giovane vecchio che porta il suo stesso nome, ma ha un dodicesimo dei suoi voti. E, siccome il Matteo maior chiede a gran voce il condono tombale per gli evasori, il Matteo minor per non essere da meno lancia l’ideona di una “voluntary disclosure”, cioè di un bel condono sui contanti in nero. Poi, per essere ancora più moderno, rilancia sul Ponte sullo Stretto. Ridateci il decreto Biondi, i lodi Schifani e Alfano, la Cirami, la Cirielli e l’immunità parlamentare.
La gara di modernità fra i due Matteo prosegue sulla campagna acquisti di parlamentari. Salvini annuncia “altri 5Stelle pronti a passare alla Lega” e l’Innominabile risponde che “nel centrodestra c’è una miniera” di voltagabbana sul mercato. Ridateci Scilipoti, Razzi e De Gregorio.
Si attende ad horas il ritorno del borsello a tracolla, del telefono a gettoni, degli scubidù, delle pastiglie Valda e dell’Amaro Medicinale Giuliani.

Giù nell’inconscio in compagnia di Carofiglio (Francesco)

“Ho visto oscuri universi spalancarsi dove neri pianeti ruotano senza meta, dove ruotano nell’orrore invisibile”, scriveva Lovecraft. Non è un caso che Francesco Carofiglio, scrittore, architetto e regista, fratello del noto Gianrico, abbia scelto Lovecraft come epigrafe per Jonas e il predatore degli incubi, secondo capitolo di una serie che mixa fantasy e mistery. Perché il perno è il mondo dei sogni inteso come viaggio nell’inconscio, territorio in cui il protagonista Jonas sprofonda di frequente vivendo incubi che lo turbano.

Tredici anni, avido lettore (adora Conan Doyle), amante dei coleotteri, solitario e introspettivo, Jonas vede cose che agli occhi altrui sono precluse e che giungono da una dimensione altra, oscura e minacciosa. Quando s’imbatte in Leonardo Byron Palamidès, Psicoanalista, Studioso delle scienze occulte, Investigatore del sogno e delle illusioni, scopre che Leonardo può aiutarlo a interpretare e pilotare i suoi viaggi onirici, guidandoli in una specifica direzione e trasformandoli in una possibilità, abilità che richiede determinazione e motivazione e che si rivelerà salvifica quando il suo migliore amico sparirà e toccherà a lui ritrovarlo. Una storia in cui l’immaginazione è sovrana e un concetto passa forte e chiaro: per superare paure e insicurezze bisogna prima riconoscerle, poi affrontarle.

Il terzo Toni Negri, filosofo comunista con tanta voglia di “resurrezione”

Il terzo volume dell’autobiografia di Toni Negri, scritta con Girolamo De Michele, non poteva che arrivare alla vecchiaia. E alla morte. Dopo il racconto della giovinezza e dei primi anni 70, quello del processo e dell’esilio, con il terzo libro, il filosofo e militante comunista padovano racconta il ritorno in Italia dopo la fuga a Parigi, la disponibilità a completare la pena – alla fine farà undici anni di carcere comprese le pene alternative al carcere – la fase della notorietà mondiale.

Curiosa storia quella di Negri. Tra i pochi filosofi italiani accreditati all’estero, uno dei due principali dirigenti del movimento degli anni 70, l’altro è Adriano Sofri, ad aver scontato il carcere – ma i “liberals” di Lotta continua si dichiarano innocenti, “io no” – il suo racconto si snoda tra camorristi “autorevoli e gioviali”, matti che dichiarano “io mi amo”, sguardi sui fiori nel cortile di Rebibbia, il ritrovo del terzo o quarto amore della sua vita, e poi l’esplosione teorica con la pubblicazione di Empire, libro tradotto in tutto il mondo e che incrocia felicemente il movimento no global.

Negri, del resto, rivendica sempre la fusione tra l’attività teorica e la sua vita militante, la voglia costante di fare riviste, anche quando falliscono, non solo con intellettuali e filosofi ma con giovani militanti. Racconta la politica italiana degli ultimi trent’anni da un punto di vista originale, si incrocia alla vita dei movimenti e alla sinistra detta “radicale” (compresa la “compassione” per un dirigente come Fausto Bertinotti). Ribadendo la fiducia nella “spontaneità” e nell’“ilarità, non cede però ai bilanci, quanto alla voglia di “resurrezione” dedicando le sue pagine “a quegli uomini e donne virtuosi che nell’arte della sovversione mi hanno preceduto e a quelli che seguiranno”.

 

Giacometti è d’una precisione svizzera

Nella prima edizione della silloge L’Air de l’eau di André Breton del 1934, a corredo di poesie quali “Sempre per la prima volta/ è già tanto se ti riconosco di vista/ rincasi così a tarda notte in una casa/ obliqua alla mia finestra/ una casa immaginaria”, spiccano quattro illustrazioni di Alberto Giacometti: una mano con dentro una torre; una creatura col corpo da serpente, gli artigli da felino e il volto umano; una montagna che svetta da un pianeta; un animale metà cavallo e metà papera.

Lo stesso Giacometti delle sculture verticali all’esasperata ricerca della rarefazione e della stilizzazione fu un disegnatore prolifico poiché per l’artista – così sempre diceva – “il disegno è tutto”. Ma non si deve scivolare nell’errore di reputare la sua produzione grafica come un’anticamera della scultura o della pittura, come dunque uno studio preparatorio all’arte che verrà altrove.

E che il disegno sia l’ininterrotto ed eletto terreno di ricerca e innovazione dell’artista nato in Val Bregaglia nella Svizzera di espressione italiana lo racconta la generosa esposizione Alberto Giacometti 1901- 1966 – Grafica al confine fra arte e pensiero (a cura di Nicoletta Ossanna Cavadini e Jean Soldini, fino al 10 gennaio 2021, al m.a.x. Museo di Chiasso) con più di quattrocento fogli tra incisioni a bulino, xilografie, acqueforti, litografie e matite messe in sinossi con una decina di statue e disegni.

Una mostra che parte dai paesaggi e i ritratti dei compagni al colleggio di Sils in Svizzera, in cui già si ravvisa il segno ricercato e non canonico. Il paesaggio montuoso, come in omaggio alle origini, rimarrà un topos delle sue raffigurazioni.

Si passa poi alle opere grafiche realizzate a Parigi nel celebre atelier di Rue Hippolyte-Maindron a Montparnasse in cui si nota il contatto con Breton: il suo celebre “Ci sarà una volta” tanto caro ai surrealisti si può rileggere nei disegni giacomettiani. I profili umani come Donna nuda in piedi, L’uomo e il sole, Testa d’uomo, o gli objets trouvés come Sedia o Sedia nell’atelier giocano tutti sul rapporto tra percezione e coscienza. Ed ecco allora, l’ossessione per gli occhi carichi (ricalcati dal tratto infinite volte) e per i contorni ripassati delle figure, sempre mobili, sempre sfuggenti, come in bilico tra presenza e assenza, o meglio – come dirà in quegli stessi anni un sodale e confidente di Giacometti, Jean-Paul Sartre – tra L’essere e il nulla.

I racconti di Sarti Antonio, breviario ideale per l’estate del giallo italiano

Trentatré è un numero impegnativo ed evocativo e quindi all’altezza di Sarti Antonio, il questurino più famoso del giallo italico. 33 indagini per Sarti Antonio è infatti il titolo della poderosa raccolta di racconti che Sem manda in libreria per l’estate. L’ideale per affrontare luglio e agosto in ozio letterario, a mo’ di breviario quotidiano non seguendo necessariamente l’ordine dei manoscritti. Il gusto delle pagine sartiane – con la folla dei co-protagonisti, in primis Rosas l’extraparlamentare di sinistra – è uguale all’aroma del caffè buono, che tanto fa impazzire il poliziotto che lavora a Bologna. Anche se Sarti e il caffè sono un mistero nel mistero, essendo il detective, a memoria d’uomo, il più grande bevitore di liquido nero non fumatore.

Siamo arrivati sin qui senza mai citare il nome dell’inventore di Sarti Antonio. Ma lo sapete tutti: è Loriano Macchiavelli, padre di Sarti ma anche padre del giallo politico, come ricordano i due curatori del volume, Massimo Carloni e Roberto Pirani. Sin dall’esordio nel 1974, i fatidici Settanta in bianco e nero, “il giallo di Macchiavelli si rivela subito provocatorio e, rispetto, a ogni modello noto, assolutamente anomalo. È, come suol dirsi, un giallo ‘impegnato’, perché l’indagine sul crimine è sempre indagine sulle matrici sociali e politiche, da cui esso trae origine. La scelta, ad ‘ambiente del delitto’, di Bologna, per molti quasi una città ideale, fu all’epoca sentita come un oltraggio e una dissacrazione”. Macchiavelli però è tante cose: rovescia lo stereotipo dell’investigatore figo e introduce un’ironia irresistibile (il racconto Se d’estate si spara è colpa di Nicolini è un gioiello). Il suo modello ha avuto un successo duraturo e popolare e la sua attualità politica resiste ancora. Quanti giallisti italiani, per esempio, oggi hanno il coraggio di disturbare il manovratore, come fa Macchiavelli?

 

Lo scalatore geniale: “Non pensare, respira”

“Le migliori esperienze della vita non hanno una forma costante. Quando ti rimetti in strada, non pensare troppo. Guardati in giro e (…) ascolta ciò che ti circonda. La pioggia che cade, la sensazione che si prova quando si calpesta il muschio bagnato. E il silenzio. Chiediti: dove mi trovo adesso? Grazie. Mi trovo qui”. Qui e ora, dentro la magia dell’estemporaneo che dovrebbe però coesistere, in equilibrio, col dinamismo interiore di chi si pone obiettivi e li persegue. Quella tensione verso terrà vivi e proteggerà da rimpianti e rimorsi. Parola dell’esploratore Erling Kagge, incapace d’immaginare un mondo in cui non ci sia più niente da fare né da scoprire.

57 anni, cresciuto a camminate ed escursioni in una famiglia che non possedeva auto né Tv, restituisce nel suo ultimo libro, Tutto quello che non ho imparato a scuola, un’immagine di sé bambino assai onesta ma per nulla eroica. Disastroso a scuola, per nulla sportivo, piuttosto asociale (era preso di mira per la dislessia, i “denti da coniglio” e un difetto di pronuncia), non spiccava per straordinarietà, “ma avevo dei sogni, a quelli non ho mai rinunciato”, sottolinea. È questo approccio ad aver fatto la differenza. Dai 27 ai 31 anni Kagge ha raggiunto i tre poli senza supporti – Polo Nord, Polo Sud (in solitaria, senza radio, 1.300 km in 50 giorni, il primo al mondo) e una punta dell’Everest – ha poi esplorato il sottosuolo di New York passando per tunnel fognari, ferroviari e metropolitani, ha attraversato a vela l’Atlantico due volte, doppiando Capo Horn. Ora è padre di tre figlie, è collezionista d’arte contemporanea e dirige la casa editrice Kagge Forlag, una delle più importanti in Norvegia. I suoi sogni si sono realizzati, sì, non certo per mera fortuna, ma perché quel bambino ha poi esercitato, indefesso, forza di volontà, ottimismo, perseveranza, mettendo in conto la giusta dose di pericolo, rischio, probabilità di fallimento. In queste pagine distensive e discrete eppur appassionanti, continuum coi precedenti bestseller Il silenzio e Camminare, aneddoti, riflessioni e ricordi privati di Kagge si amalgamano al pensiero di molti filosofi e alle imprese di altrettanti esploratori come Shackleton, Scott, Messner. Si riflette sull’importanza di ripristinare un legame con la Natura (l’alienazione appiattisce il mondo e acuisce insicurezza e solitudine), di disconnettersi dal virtuale per riconnettersi a se stessi, di rallentare arginando la frenesia dei tempi moderni.

È bene poi attribuirsi il giusto valore pur ammettendo i propri limiti, da accettare o osservare nell’ottica del miglioramento e realizzare che “la responsabilità e le fatiche danno sostanza alla vita. Scegliere la via più facile è la ricetta per svuotarla di significato… Fare una scelta è sempre la parte più difficile”, scrive Kagge. Non farne nessuna è però deplorevole. Conta fare il primo passo, mettersi in cammino, ognuno col proprio ritmo. Le risposte giungeranno mano a mano o d’emblée e non è da escludere nascano dai silenzi. “Qui il silenzio è pervasivo”, scrisse nel suo diario di viaggio in Antartide, “Lo avverto e lo sento. Questa silenziosa vastità non solo non sembra minacciosa o spaventosa, ma rasserena”. Rasserena chi sa ascoltare, ascoltarsi.

Il profondo Veneto secondo Pennacchi: solo un popolo di “mona” e banditi

Racconti per voce sola: da Marco Paolini a Natalino Balasso, è così che da anni il teatro veneto rappresenta le sue storie esemplari, proponendole a un pubblico che sembra sempre pronto a farsi perculare.

I nuovi monologhi di Andrea Pennacchi – Pojana e i suoi fratelli –, accompagnati dalle brillanti cantate folk di Giorgio Gobbo, non sono né le satire di Balasso né i diari o il teatro didattico del Bestiario veneto di Paolini: più tesi e terragni, più fieri, più compiaciuti dell’innesto di parole difficili su un dialetto greve di bestemmie e storpiature, essi non ammiccano, denunciano o ammaestrano (la politica è teatrino ridicolo e lontano, la storia è un ammasso di popoli che “se copa tra lori”).

Dal derattizzatore che avvelena le élite al generoso buttafuori che diventa assassino, il teatro di Pennacchi vive di iperboli che deformano le notizie di cronaca portandole ora verso la battuta da sketch ora verso l’allegoria di un popolo falsamente “buono”, e in realtà assetato di sangue. Un popolo di “mona” e di banditi.

Andrea Pennacchi, Pojana e i suoi fratelli, in tournée (il 30 giugno all’Arena Puccini di Bologna; il 18 luglio a Padova; il 30 luglio a Castelfranco Veneto…)

Come sono “Dark” gli autori tedeschi

Non bastavano i viaggi nel tempo. Nella sua terza e ultima stagione, disponibile da oggi su Netflix, Dark introduce i viaggi fra dimensioni parallele dando vita a un mondo alternativo, uguale e nello stesso tempo diverso, in cui le vite degli abitanti di Winden si rimescolano per generare un passato, un presente e un futuro differenti. Non ci avete capito nulla? Be’, il fascino di Dark è proprio questo: confondere lo spettatore con situazioni e incastri assurdi, dandogli l’impressione di aver creato un universo realistico in cui tutto si tiene.

In un mondo (non solo quello seriale) che tende all’ipersemplificazione, è per certi versi incomprensibile il successo di questa serie tedesca ipercomplicata che si permette il lusso di aprire la sua stagione conclusiva, quella che dovrebbe rispondere a tutte le domande rimaste in sospeso, con un’enigmatica citazione di Schopenhauer: “È certo che l’uomo può fare ciò che vuole, ma non può volere ciò che vuole”. Dark comincia con la scomparsa di due ragazzini a Winden, cittadina in mezzo ai boschi che ospita una centrale nucleare e poco altro. Un mistery, insomma, ma anche un drama intergenerazionale che coinvolge quattro famiglie, i cui legami sono molto più profondi di quanto non appaiano. “Siamo partiti dalle tragedie greche” ha spiegato Jantje Friese, creatrice di Dark insieme al marito Baran bo Odar: “Anche se si tratta di una serie di fantascienza, anche se comincia con un mistero, nel suo nucleo si tratta delle relazioni umane e di quanto possano essere incasinate”. E quanto siano interconnessi i Kahnwald, i Nielsen, i Doppler e i Tiedemann lo si intuisce quando la serie introduce l’elemento sci-fi: il tunnel, e in seguito anche una macchina del tempo, che permettono di viaggiare in avanti e all’indietro di 33 anni. Mescolare tragedia greca e fantascienza? Con un’ambizione del genere il rischio di scivolare nel ridicolo è molto alto. Dark, invece, è ancorata a teorie solidissime. La trama delle prime due stagioni è infatti basata sul principio di autoconsistenza, o paradosso della predestinazione, secondo cui il corso degli eventi non può essere modificato. I personaggi viaggiano nel tempo ma non sono in grado di cambiare il proprio destino né quello degli altri; anzi, è proprio cercando di modificarlo che fanno accadere le cose esattamente come dovevano accadere.

La prima stagione si svolge su tre piani temporali: 1953, 1986 e 2019, l’anno dell’apocalisse a Winden. La seconda allarga gli orizzonti al 1921 e al 2052. La terza, anticipata nell’ultima scena della precedente dall’arrivo di una Martha “alternativa”, li espande ancora. Ma soprattutto introduce una dimensione parallela, riaprendo alla possibilità che il circolo temporale chiuso, in cui gli eventi futuri sono inevitabili in quanto già avvenuti, possa in realtà essere spezzato. L’asticella è ancora più alta, coi personaggi che non solo coesistono con le loro versioni più giovani e più vecchie (Jonas è l’antagonista di se stesso) ma anche con gli omologhi provenienti dalla dimensione parallela. Per la serialità tedesca, che negli ultimi anni ha prodotto titoli coraggiosi e di successo come Deutschland 83 e Babylon Berlin, Dark rappresenta un ulteriore salto in avanti. “Per tanto tempo non siamo stati cool – ha detto Baran bo Odar – ma le cose stanno cambiando”.

Camus a Napoli: la nuova “peste” è ai piedi del Vesuvio

Sono previste in agosto, a Budapest e dintorni, le riprese finali del kolossal di fantascienza Dune diretto da Denis Villeneuve per Warner Bros, forte di un budget stratosferico e un cast stellare che comprende Timothée Chalamet, Jason Momoa, Rebecca Ferguson, Stellan Skarsgård, Zendaya Coleman, Josh Brolin e Javier Bardem. Il nuovo adattamento della saga ambientata da Frank Herbert in un remoto futuro e in un impero feudale (dopo quello degli anni 80 di David Lynch per un faraonico e sfortunato progetto di Dino De Laurentiis) sarà incentrato sull’ascesa al potere di Paul, giovane erede della Casa Atreides. A lui verrà affidato il compito di sostituire la Casa rivale degli Harkonnen sullo strategico pianeta Arrakis, unica fonte di una speciale sostanza che permette di sostenere i viaggi interstellari.

Il romanzo di Albert Camus La peste, già adattato in un film del 1992 di Luis Puenzo con William Hurt, è al centro di una nuova trasposizione diretta da Francesco Patierno per la Run Film di Andrea e Alessandro Cannavale. In una Napoli di oggi deserta per il Covid-19 un medico in prima linea, Bernard, riscontra gravi casi di polmoniti atipiche causate da un virus invisibile e si batte con coraggio per salvare i suoi pazienti. In un primo momento nessuno vuole credergli, ma quando la drammaticità della situazione sarà evidente anche alle autorità che la negavano, l’intera popolazione verrà messa in quarantena. Dopo le riprese iniziali effettuate nei mesi scorsi grazie a un drone che sorvolava la città vuota durante il lockdown, la troupe tornerà sul set a Napoli nei prossimi giorni con i suoi interpreti: il protagonista Francesco Di Leva (anche co-sceneggiatore con il regista e con Andrej Longo); Peppe Lanzetta, un gesuita che considera il morbo un flagello inviato da Dio e Cristina Donadio che sarà Cotton, una losca figura che si arricchisce grazie alla borsa nera.

“Sotto il sole di Riccione” ci si scalda poco

Già ascoltato e già visto, eppure non tutto il già vien per nuocere. Il titolo è quello della hit estiva del 2017 dei Thegiornalisti, di cui YouNuts!, al secolo Niccolò Celaia e Antonio Usbergo, firmarono il video: qualche anno più tardi, Tommaso Paradiso è uscito dal gruppo e la coppia di videoclippari esordisce al lungometraggio, disponibile dal 1° luglio su Netflix, che sforna un original, si fa per dire, in associazione con Mediaset per una produzione Lucky Red.

C’è posto per tutti, insomma, e come potrebbe mancare Enrico Vanzina? La piattaforma streaming c’è affezionata, sinceramente: Enrico ha scritto Natale a 5 stelle (2018), una fallimentare reprise delle Vacanze di Natale, e dunque del cinepanettone avito, che il compianto fratello Carlo – l’8 luglio sono due anni dalla scomparsa – avrebbe dovuto dirigere. Allora lo sostituì Marco Risi, qui aleggia in spirito – “Lo pensavo ogni giorno, non potevo sbagliare”, confessa Enrico – e nulla è cambiato: passano le stagioni, mutano gli spartiti (commedia balneare), cangia il Sapore, ovviamente, di mare, ma Sotto il sole di Riccione è il proseguimento per altri streaming dell’epopea vanziniana.

I bermuda non si risciacquano più a Forte dei Marmi bensì sulla Riviera romagnola; all’originaria Isabella Ferrari (“La cosa più bella è innamorarsi ad agosto”) la prevalenza della piadina richiede l’accostamento di Andrea Roncato, già mitologico Loris Batacchi di Fantozzi subisce ancora; la destinazione Paradiso, Tommaso, è certificata. Eppure, “scavare in una generazione che ha tantissimi sentimenti ma – Vanzina – li nasconde” è ritorno al futuro: solo non si vedono i due liocorni, Jerry Calà e Christian De Sica – c’è Luca Ward, che non casualmente prima di tutto è doppiatore.

Insomma, la rivoluzione Netflix continua, da Trieste in giù, a essere per lo più restaurazione di gusti, e quando – nell’incipit – per svecchiare si arriva a Riccione in car sharing e si pernotta in bed and breakfast cadono le braccia, e non solo quelle, ma poi sarà che il mestiere di Enrico, affiancato al tavolo di scrittura da Caterina Salvadori e Ciro Zecca in quota anti-boomer, è tanto; sarà che le musiche le abbiamo canticchiate tutti; sarà che gli attori non sono male, ed ecco, il sole non brucia, ma per cento minuti riscalda, un pochino. Gli attori, appunto, presi come per i cinepanettoni che furono, traslando l’estrazione geografica in quella seriale: Cristiano Caccamo (La vita promessa, Celebrity Hunted), Fotinì Peluso (La compagnia del Cigno), Lorenzo Zurzolo (Baby), e via dicendo. Ma qualcosa si muove: se i Natali Filmauro ci portavano in giro per il mondo, da Miami al Sudafrica, l’estate Netflix vuole esportare Riccione in 190 Paesi. Certo, il sapore di mare è universale, però quello primigenio vanziniano recuperava nel 1983 – lo stesso anno di Vacanze di Natale – il 1964, qui tempo del film e della diegesi coincidono: e con la nostalgia canaglia come la mettiamo?