“La tempesta perfetta mostra il Vasco che è in noi”

“Ho pensato all’ultima frase di Vasco alla fine di Modena Park, quando definì quella serata ‘una tempesta perfetta’. Aveva ragione. Per questo l’abbiamo intitolato così”.

Giorgio Verdelli è il regista dell’evento in onda il primo luglio su Rai1, “e non è la replica del concerto già trasmesso, ma la versione cinematografica realizzata con ventisette telecamere. E raccontato dallo stesso Vasco, più una serie di testimonial; (ci pensa un attimo) durante la registrazione ci ha parlato di suo padre in campo di concentramento. Da brividi”.

Chi è Vasco?

Per me è un fratello maggiore, per altri un padre, un parente o un confidente; è un essere pensante con un istinto animale pazzesco, e accompagnato da una curiosità umana e culturale non comune.

Sa ascoltare…

E poi sintetizza; lui ha bisogno di un contatto umano reale, tanto da portare avanti la stessa cerchia di amici da quaranta e passa anni.

Per Vasco uno dei miti è Bennato.

È vero, e lui stesso aggiunge Jannacci, Guccini, De Gregori e De Andrè; (ci pensa) però con Bennato il feeling è particolare.

Lei è di Napoli ed è cresciuto con Bennato.

Ci conosciamo dagli anni Settanta, e a Edoardo ho dedicato una puntata del mio programma Unici sempre sulla Rai; (cambia tono) il cruccio di Bennato è quello di non essere più di moda.

Bennato da ragazzo.

Determinato, lucido, geniale; un po’ lo ha danneggiato Notti magiche: quel brano gli ha intaccato l’immagine da cantautore, un errore che Vasco non ha commesso.

Cioè?

È difficile trovare punti di flessione nella carriera di Vasco e a lui devo l’inizio del mio percorso.

Come?

Nel 1986 arrivo in Rai per lavorare con Loretta Goggi, invito Vasco, già frutto ambito, e i responsabili della rete iniziano a prendermi in giro, convinti non fosse vero.

E invece…

All’improvviso lo vedo scendere da un’auto, con lui anche Guido Elmi, e sono entrato trionfalmente dentro gli studi televisivi. Da lì è cambiata la mia vita.

Torniamo alla Napoli anni Settanta.

Vivevamo nella creatività collettiva, io tra Edoardo e Pino Daniele.

I due non si amavano molto.

C’era una forte competizione, e divisi in fazioni; (sorride) una volta mi chiamò a casa la mamma di Edo, donna celebre perché direttrice di una scuola elementare, e carattere molto deciso.

E…

Mi investì di parole, era dispiaciuta perché Bob Dylan veniva in Italia e ad aprire il tour c’era Pino, “mentre è mio figlio il Dylan italiano!”

Pino Daniele.

Carattere complesso, era un misto di timidezza e insicurezza, spinto da una forte rivalsa verso la vita; era conscio del suo stato di salute.

Un suo rimpianto?

Non aver girato un documentario su David Zard (grande organizzatore di eventi musicali), un uomo intraprendente e visionario: bastava la sua firma sul manifesto pubblicitario per garantire la qualità dell’evento.

Di Vasco qual è la sua canzone preferita e perché.

Qui è difficile: con lui ognuno ha la sua…

Quindi?

Sarei tentato di rispondere Sally, ma canticchio E adesso che tocca a me, quando dice “ora che non ho più Topo Gigio, cosa me ne faccio della Svizzera?”. Da fuoriclasse. (resta in silenzio)

A cosa pensa?

Che c’è un po’ di Vasco in ognuno di noi.

Referendum, Putin val bene un tronco

Il futuro della Russia verrà deciso sul vecchio tronco di un albero. Il destino della Federazione sarà cambiato da un foglio inchiostrato in bella vista su una roccia, in uno sperduto e mal tenuto parco di provincia. Sono le nuove urne russe per il referendum costituzionale nell’era della pandemia: le votazioni sono iniziate, ma in alcune regioni al posto delle cabine elettorali, ci sono pietre, fili d’erba, piante e perfino il bagagliaio di un’automobile dove siede un’ossigenata, grassa volontaria che invita a votare.

Accade a Vladivostock, Siberia usualmente siderale ma rovente d’estate: è nel retro della sua auto che la responsabile raccoglierà le schede della votazione che permetterà al presidente Putin di rimanere in sella al Cremlino fino al 2036, dove siede già dal 1999. La Costituzione russa verrà ribaltata in un prato verde. Mentre il Cremlino sbandiera le sue capacità digitali di voto elettronico a Mosca, i governatori delle latitudini remote russe hanno sfidato la loro fantasia per permettere ai cittadini di votare nei luoghi più improbabili, in assenza di altri spazi, capacità e mezzi.

A Tver, davanti a un vecchio autobus bianco e verde con i ritratti del presidente Putin, la gente è rimasta in fila ore per salire sul veicolo: non in attesa che il mezzo partisse, ma per mettere una croce sulla scheda, riscendere e tornare a casa. Se nella regione Ulyanovsk, a Komarovka, gli abitanti hanno votato appoggiandosi ai tronchi, a Omsk le autorità hanno privilegiato un campo di calcio. Impiegati di grosse aziende, dottori in prima linea contro il virus, perfino bibliotecari statali: “Mai così tante persone ci hanno contattato perché messe sotto pressione per votare”, si tratta del voto “più manipolato e meno trasparente della storia del Paese”, ha detto Gregory Mekonyants, a capo dell’associazione non governativa Golos, una parola che in russo vuol dire voce, ma anche voto. Saranno necessari più del 50% dei sì per approvare il nuovo testo di legge e secondo l’Istituto sondaggi statale VtSiom, il 71% dei russi è favorevole al cambiamento costituzionale. Se sono le urne russe meno pulite, sono di certo le più fotografate: “I cittadini della Superpotenza mondiale al voto” dice la didascalia derisoria di una foto già virale sui social russi. Si tratta di un’altra cabina elettorale della periferia russa: un tavolo di plastica sistemato in un parco.

Polizia, la politica vanifica le proteste antirazziste

Sulla riforma della polizia, ennesimo scontro negli Stati Uniti tra Democratici e Repubblicani: neppure lo sdegno per le brutali uccisioni di neri e ispanici da parte di agenti bianchi innesca un’intesa bipartisan. E Donald Trump minaccia il veto, se la proposta dei Democratici dovesse diventare legge: un’ipotesi remota. È un gioco di blocchi reciproci. I Democratici al Senato, dove sono minoranza, riescono a silurare un progetto di legge repubblicano per la riforma della polizia presentato in seguito all’uccisione, il 25 maggio, a Minneapolis, di George Floyd: bocciano l’iniziativa, condivisa da Trump, ritenendola inadeguata alla situazione e ai problemi.

Alla Camera, dove sono maggioranza, i Democratici riescono, invece, ad approvare il loro progetto di riforma della polizia, per contrastare discriminazioni razziali e uso della forza eccessivo. Ma la misura non ha alcuna possibilità di passare al Senato: alla Camera, solo tre deputati repubblicani l’hanno votata, in disaccordo con il partito e con il presidente. I repubblicani non ritengono l’iniziativa dem neppure una base negoziale. Finirà che non se ne farà nulla. E già si aprono nuovi fronti: Trump prova a smantellare l’Obamacare, cioè la riforma della sanità di Barack Obama, per via giudiziaria, dopo avere fallito per via politica; e intanto la Camera dà per la prima volta il suo ok a fare del distretto di Washington il 51º Stato – i Repubblicani sono contrari, perché significherebbe garantire ai Democratici seggi facili –. L’inazione della politica vanifica le proteste anti-razziste che da un mese traversano tutta l’Unione. Nuovi particolari sono emersi sull’episodio di Tucson, in Arizona: per l’autopsia, il decesso di Carlos Ingram Lopez, 27 anni, è stato un effetto combinato della brutalità della polizia e di intossicazione da cocaina. Dalle cronache affiorano altri episodi inquietanti. In Michigan un sedicenne, che aveva lanciato un sandwich, è morto soffocato a maggio: tre dipendenti di un centro giovanile lo hanno bloccato a terra per quasi 10 minuti, premendogli sul petto. I tre sono stati licenziati e incriminati per omicidio colposo e abuso di minore. In North Carolina, tre poliziotti sono stati silurati dopo che è stata diffusa una video registrazione: parlano di uccidere afro-americani, pronunciano insulti razzisti, evocano una nuova guerra civile e criticano i colleghi che si inginocchiano dopo l’uccisione di Floyd. Gli agenti ammettono l’autenticità dell’audio, negando di essere razzisti.

Alcuni fatti inducono, però, a sperare che si stia rompendo il muro delle connivenze corporative e razziali. Così l’arresto a New York per tentato strangolamento dell’agente ripreso mentre stringe al collo un afro-americano durante un arresto. O l’incriminazione per omicidio da parte di una giuria dei tre uomini bianchi per la morte di Ahmaud Arbery, 25 anni, nero, inseguito e ucciso mentre faceva jogging nel suo quartiere in una cittadina della Georgia.

Libia, “il gioco” di Francia e Turchia

Buona ultima, la Francia ora punta il dito contro l’interferenza straniera e gli atti unilaterali di quei Paesi che hanno ottenuto una posizione dominante nel teatro di guerra libico. Ovvero Turchia e Russia. Ma “mister arrogance” (nomignolo con cui la maggior parte dei francesi chiama il proprio presidente Emmanuel Macron, non a caso in caduta libera nei sondaggi) e il suo ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, si riferiscono in realtà solo a Recep Tayyip Erdogan, il presidente della Turchia.

Perché è stato il crescente coinvolgimento di Ankara a difesa del premier libico Fayez al-Serraj – riconosciuto dall’Onu – a ribaltare in modo dirimente i rapporti di forza sul terreno della Tripolitania a scapito delle forze mercenarie del Generale Khalifa Haftar. L’uomo forte della Cirenaica, che fino a un mese fa assediava Tripoli, per anni è stato sostenuto e protetto proprio dalla Francia, unica in Europa, oltre che da Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti.

In queste ultime due settimane, grazie ai droni armati, addestratori e miliziani inviati da Ankara, l’esercito del governo di Accordo Nazionale di Serraj sta galoppando verso Sirte e la Cirenaica, dopo aver riconquistato Tripoli e Tahruna.

Una rimonta che di fatto è stata “accettata” da Mosca, anche se ancora non è chiaro del tutto in cambio di cosa, ma è presumibile che abbia a che fare con la guerra in Siria dove, come in Libia, Ankara e Mosca sono state finora su fronti opposti, pur dialogando. Sono le dinamiche tipiche delle guerre per procura. Per dare maggior risalto e credibilità alla propria ritrovata “imparzialità” e al j’accuse delle proxi war, il presidente Macron ha accusato “la sirianizzazione della Libia” di fronte al presidente tunisino Kaïs Saïed, invitato all’Eliseo lo scorso 22 giugno.

Tunisi è una strenua alleata di Serraj ed Erdogan, anche in nome della comune appartenenza alla Fratellanza Musulmana. Accogliendo il presidente tunisino, Macron ha detto: “Tra sei mesi, un anno, due anni, non voglio scoprire che la Libia si trova oggi nella situazione della Siria”. Peccato che non la pensasse così quando il suo cavallo, Haftar, sembrava sul punto di sorpassare Serraj. Invocando un cessate il fuoco, in linea con la conferenza internazionale di Berlino dello scorso gennaio, il capo della Republique ha criticato la Turchia rea “di fare un gioco pericoloso”. Un gioco che Macron conosce bene, essendo stato lui a iniziarlo in Libia. Ma da quando è rimasto con il cerino in mano in Libia, mentre il Sultano di Ankara si imponeva come il dominus della questione libica, sta cercando in tutti i modi di salvarsi almeno metà faccia attraverso l’uso strumentale dell’Unione europea di cui si ricorda quando gli serve.

Il risultato invece è stato disastroso: l’ha indebolita. Un paradosso visto che è uno dei rari momenti in cui l’Unione sembra finalmente presentarsi unita. Oggi gli europei non hanno mai avuto così poca influenza sulla dirimpettaia Libia. Francia e Italia, dopo annose strategie divergenti, hanno firmato un comunicato stampa congiunto con la Germania giovedì scorso, dopo il precedente del 6 giugno per esortare gli attori stranieri a porre fine a tutte le interferenze. “Queste comunicazioni congiunte arrivano dopo mesi di riavvicinamento tra Roma e Parigi, entrambe schiacciate dal tallone di Ankara”, ha scritto ieri Le Monde . L’Italia, ricorda il quotidiano francese, aveva sostenuto l’istituzione del governo di accordo nazionale di Tripoli, al contrario di Parigi anche se l’Eliseo non lo ha mai detto apertis verbis. Roma, avendo fin dall’inizio sostenuto Serraj assieme ad Ankara, potrebbe sfruttare questa posizione di fatto mai mutata e utile al Sultano per rientrare in gioco.

Ma non è troppo tardi? Agli occhi degli attori e dei commentatori di questo conflitto, che ha conosciuto diverse fasi dall’intervento militare occidentale del 2011 e dal linciaggio di Muammar Gheddafi, la scommessa della Francia su Haftar non solo è fallita, ma ha reso ancora più forte Ankara a scapito di Bruxelles.

Anche se la presenza militare francese in Libia a supporto di Haftar non è stata riconosciuta ufficialmente – a parte il ritrovamento di quattro missili anticarro, di fabbricazione americana, scoperti alla fine di giugno 2019 a Gharian, a sud-ovest di Tripoli, in una base abbandonata dalle forze del maresciallo Haftar – è fuor di dubbio che le azioni politiche di Macron a favore di Haftar abbiano causato molti danni all’Unione europea, soprattutto all’Italia. E ora è arrivato il momento del rendez vous all’ombra sempre più imponente di Erdogan.

Licenziamenti sospesi? 40mila a marzo

Negli ultimi dati Inps c’è una nuova conferma: sebbene sulla carta sia vietato licenziare, molte imprese se ne stanno infischiando. Ben 39.910 persone sono state mandate a casa per motivi economici tra il primo e il 31 marzo. Quasi 40 mila lavoratori messi alla porta in violazione del decreto Cura-Italia, che ha disposto la sospensione per tutti i licenziamenti successivi al 23 febbraio.

La disinvoltura dei datori, che paiono ignorare una legge dello Stato, si esercita soprattutto sui precari e gli stagionali: per questi ultimi gli allontanamenti sono quadruplicati. Colpiti quindi i più deboli, quelli che poi – pur avendone tutte le ragioni – sono meno propensi a fare causa per chiedere di essere reintegrati.

La moratoria, va ricordato, è stata introdotta il 18 marzo, ma ha un effetto retroattivo. Quindi tutti i licenziamenti intimati nelle settimane precedenti andavano revocati, anche perché il governo ha concesso cassa integrazione a tappeto per fronteggiare la crisi dovuta al Covid-19. Spulciando le tabelle dell’istituto di previdenza, almeno guardando quello che è successo a marzo, sembra che quella norma sia riuscita (ma molto poco) a proteggere i dipendenti a tempo indeterminato. I licenziamenti tra gli addetti permanenti, infatti, sono stati 21.035. Tantissimi, se si pensa che erano vietati, ma molto meno di quelli avvenuti un anno prima, a marzo 2019 (39.680). Il blocco, insomma, non è riuscito ad azzerarli, ha quantomeno dimezzato i licenziamenti.

Ben diversa la situazione dei tempi determinati; il dato è perfettamente in linea con quello dell’anno scorso: 10.852 licenziamenti a marzo 2020, 10.994 licenziamenti a marzo 2019. La realtà meno edificante, come detto, emerge tra gli stagionali. Qui i licenziamenti economici non sono diminuiti, ma si sono moltiplicati quasi per quattro: dai 1.159 di marzo 2019 ai 4.049 di marzo 2020. Del resto è noto che a marzo di quest’anno, con le prime chiusure, molte imprese turistiche hanno finito in anticipo la stagione invernale e hanno mandato a casa tanti lavoratori pur potendo metterli in cassa integrazione nelle poche settimane che restavano di contratto.

Il problema è il funzionamento del l lavoro stagionale in Italia: ogni anno si viene richiamati dalla stessa azienda, meglio dunque non mettersela contro facendo ricorsi in Tribunale. Non bastasse, tra gli stagionali sono schizzati pure i licenziamenti disciplinari (non vietati): fermi a soli 90 a marzo 2019, sono piombati a 606 nel terzo mese di quest’anno. Che questi fossero un modo per aggirare il blocco di quelli economici è più che un sospetto.

Il divieto di licenziamento scadrà il 17 agosto, ma il governo è al lavoro per decidere se e di quanto prolungarlo. Intanto, i molti casi di violazione da parte delle imprese sono noti sia all’esecutivo che all’Inps. Tanto che l’istituto, pochi giorni fa, ha pubblicato un chiarimento che sarà una magrissima consolazione per chi ne è stato vittima: quelli che , tra il 17 marzo e il 17 agosto, sono stati licenziati nonostante il blocco, avranno quantomeno diritto al sussidio di disoccupazione (salvo poi doverlo restituire in caso di reintegrazione in azienda).

Stagionali e precari più colpiti

Il divieto di licenziare per motivi economici è in vigore dal 16 marzo ed è retroattivo; vale dal 23 febbraio. Dai numeri Inps di marzo, però, si scopre che sono stati mandati a casa 21.035 lavoratori a tempo indeterminato (39 mila nel marzo 2019), 10.852 a tempo determinato (quasi come l’anno prima) e 4.049 stagionali (1.159 nel 2019)

Intesa-Ubi, l’ultima guerra di potere sulle banche

La più importante partita finanziaria degli ultimi 20 anni entra nel vivo, ma somiglia più alla classica guerra di potere per contare nel tinello italiano. Ieri, Intesa Sanpaolo ha pubblicato il prospetto dell’Offerta pubblica di scambio di azioni (Ops) su Ubi Banca, dopo l’ok della Consob, l’Autorità di Borsa: il primo istituto italiano lancia così l’assalto al terzo.

Carlo Messina ha annunciato la mossa il 17 febbraio scorso, in asse con la Mediobanca di Alberto Nagel (in qualità di advisor) e la Unipol-Sai di Carlo Cimbri, la compagnia assicurativa delle coop che rileverà il settore delle polizze di Ubi, mentre la partecipata Bper si prenderà 532 sportelli per ridurre la quota di mercato in diverse zone e far ottenere a Intesa l’ok dell’Antitrust, che in una prima valutazione si è espressa negativamente.

L’Opa partirà il 6 luglio e si concluderà il 28. Entro cinque giorni, il cda di Ubi guidato dall’ad Carlo Massiah, predisporrà una risposta che arriverà poco prima dell’inizio dell’offerta sul mercato. Servirà a indirizzare i soci della banca, i cui vertici ritengono la mossa di Intesa “ostile”: Messina offre 17 azioni Intesa ogni 10 azioni Ubi portate in adesione fissando così, almeno per ora, il valore di Ubi a 3,3 miliardi, la sua attuale capitalizzazione di Borsa. Se andasse in porto, l’operazione trasformerebbe Messina e Nagel, i due banchieri oggi alleati, nei padroni d’Italia, ma l’esito non è scontato. Dalla loro hanno le difficoltà di Ubi. Negli anni Massiah (imputato nel maxi processo per la manipolazione dell’assemblea del 2013) si è preoccupato più di mediare i conflitti di bottega tra gli azionisti di Bergamo e di Brescia, mentre l’istituto perdeva valore in Borsa. Per di più, se Ubi quotasse a bilancio i crediti deteriorati al valore medio del settore, avrebbe un ammanco di capitale da 700 milioni. L’operazione sembra quindi più un salvataggio e Messina ha cercato di rassicurare in ogni modo i soci storici di Ubi. Che però non mollano.

Intesa punta a ottenere il 66,7% del capitale di Ubi, ma nel prospetto spiega di potersi accontentare del 50% più un’azione. Nel primo caso, però, avrà i voti in assemblea per poter fondere Ubi al suo interno, nel secondo invece l’operazione potrebbe essere ostacolata da una minoranza di blocco, complicando non poco la vita a Messina. I grandi azionisti del territorio come le fondazioni Cassa di risparmio di Cuneo (5,9%) e Banca del Monte di Lombardia (4,9%), riunite nel patto di consultazione Car insieme ad altri soci storici (le famiglie industriali bresciane e bergamasche che si sono divise la banca) si oppongono all’Ops. Con loro c’è il controverso fondo Parvus guidato da Edoardo Mercadante, che ha circa l’8% del capitale: insieme potrebbero raggiungere il 27% e Parvus essere l’ago della bilancia. Come ha rivelato il Fatto, la Procura di Milano sta verificando se dietro il fondo con base alla Cayman ci siano gli stessi soci bresciani e bergamaschi che si oppongono a Intesa.

In questo scontro tutte le azioni contano, anche l’1% di Ubi oggi in mano a Cattolica assicurazioni. Ed è anche in quest’ottica che va inquadrata l’operazione lanciata nei giorni scorsi dalle Generali. La compagnia assicurativa guidata da Philippe Donnet ha messo sul piatto 300 milioni per diventare il primo azionista di Cattolica. Generali è controllata da Mediobanca. La mossa non sembra avere una logica industriale – Generali si rafforza in un mercato, quello italiano, dove è già leader – e per questo non è piaciuta ai soci privati. Nel cda che ha dato il via libera non c’erano, per dire, i rappresentanti di Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio. Quest’ultimo, a quanto filtra, sarebbe pronto a far contestare l’operazione con una lettera dello studio Bonelli Erede. L’irritazione del patron di Luxottica ha una sua logica: nelle scorse settimane ha lanciato l’assalto a Mediobanca (e quindi a Generali) chiedendo alla Bce di salire al 20% della banca per dettare la linea a Nagel. Gli spiragli per ottenere il via libera sembrano essersi ridotti. E forse anche per questo Generali ha deciso di muovere in aiuto di quelli che, se tutto andasse in porto, sarebbero i padroni incontrastati della finanza italiana.

La grande operazione

il 6 luglio prossimo partità l’Offerta pubblica di scambio lanciata da Intesa Sanpaolo su Ubi Banca, durerà fino al 28. Il 25 luglio dovrebbe pronunciarsi l’Antitrust, che finora ha espresso dubbi sull’operazione.
Ieri è stato pubblicato il prospetto: Intesa stima 5 miliardi di utili nel 2022 per il nuovo gruppo bancario. Punta al 66,7% del capitale,
ma basta anche il 50% più una azione

Dialogo con Dio: De Donno e il “fan” Joseph Dominus

Piccola premessa: dopo l’intervista sul Fatto, il professor Giuseppe De Donno, il mago della plasmaterapia, mi ha fatto scrivere dal suo avvocato per diffidarmi dallo scrivere “alcunché inerente la sua persona citandolo espressamente né con allusioni e riferimenti”. In effetti vedrò di accontentarlo e scriverò non di colui che ha firmato la diffida, ovvero tal “professor” Giuseppe De Donno, ma del “dottor” Giuseppe De Donno, quello del Carlo Poma di Mantova, che non mi risulta avere la qualifica di professore universitario e che mai la utilizzerebbe – ne sono certa – per firmarsi. Dunque. Le novità sul dottore preferito da Salvini che dice di aver trovato la cura per il Covid e la sua sperimentazione parla chiaro (solo che non c’è alcuna sua pubblicazione al riguardo, chissà come mai) sono tante. E tutte meravigliose. Partiamo dalla migliore: il 21 maggio, nella succitata intervista, avevo chiesto al dottore se fosse sua intenzione candidarsi con la destra a Mantova. Risposta: “Se io le rispondo a questa domanda però lei scrive PAROLA PER PAROLA quello che dico? Io sono felicemente un primario ospedaliero, ho un gruppo di medici meravigliosi, lavoro in un’azienda fantastica, ma secondo lei io mollo una roba del genere per andare a fare il consigliere comunale a Mantova o l’assessore o ADDIRITTURA il sindaco di Mantova?”.

Scelto come alfiere  dalla destra a Mantova
Oh, io l’ho scritto parola per parola, mica si scherza qui. Bene, la notizia è che Giuseppe De Donno è passato a rispondere alla stessa domanda “Non confermo e non smentisco” nel giro di un mese e che ormai manca solo l’ufficializzazione: spinto da Matteo Salvini, ha intenzione di candidarsi a sindaco di Mantova con una lista civica. In questo modo Matteo Salvini, il cui scopo è quello di far fuori il sindaco Pd Mattia Palazzi, avrà sostanzialmente due candidati che remeranno dalla stessa parte: il leghista Stefano Rossi e Giuseppe De Donno. Che si sosterranno al ballottaggio. De Donno, “l’umile medico di campagna” come ama definirsi, è già sicuro di vincere e va dicendo (non è una boutade) che coinvolgerà il Vaticano e la Presidenza della Repubblica nella sua campagna elettorale, oltre che il suo popolo social. Già me li vedo Mattarella e Papa Francesco chiudere la sua campagna sul palco a Curtatone. Si dice, anche, che in cambio gli sia stato promesso altro, magari una delega, magari un ruolo più vicino ad Attilio Fontana che però, sempre secondo voci, lo riterrebbe “inaffidabile”. Nel frattempo, c’è il particolare che De Donno sarebbe ancora consigliere di minoranza a Curtatone e non si è mai dimesso, nonostante non frequenti la sede comunale da tempo. Ed è proprio col Pd che ce l’ha a morte, reo di non averlo osannato abbastanza: “Il mondo intero mi ha premiato. Mantova mi ha ignorato!”, ha scritto ieri De Donno in un post rivolto all’attuale sindaco Mattia Palazzi.
Giuro, l’umile medico di campagna ha scritto “il mondo mi ha premiato”. Quale mondo? Della notte? Della musica? Di Disney? Il mondo che vorrei? Il favoloso mondo di Amelie? No, lui intende proprio “mondo” come globo terracqueo. E in effetti c’è da credergli: lo si vede spesso conversare su Facebook con un misterioso biologo mantovano che ha studiato ad Harvard e lavora ad Atlanta registrato sul social come “Joseph Dominus” (tradotto: Giuseppe Dio/maestro). Chissà chi sarà questo “Giuseppe Dio” biologo suo fan incontenibile dall’America. Ma il cammino di umiltà di De Donno è inarrestabile.
Il 20 giugno va a farsi premiare dal mondo a Lequile, provincia di Lecce, dove gli viene conferita, vai a capire, la cittadinanza onoraria. “La terapia col plasma iperimmune di pazienti già guariti ha funzionato su tutti i soggetti a cui è stata somministrata. Si può guarire in poche ore, se gli organi vitali non sono già compromessi dal Covid-19. De Donno è l’eroe del momento”, recita con sobria partecipazione il super partes Corriere Salentino, nell’accoglierlo in Salento. Scusate, “nel mondo salentino”. Ed è dal palco di Lequile che De Donno sottolinea: “I miracoli avvengono perché sono guidati, non a caso. Io sono uno scienziato umile, mai cercata la visibilità personale!”. Insomma, della serie: sono guidato dal Signore, ma resto umile. La stessa umiltà con cui nell’ultimo mese il dottore ha scritto una lettera al ministro Roberto Speranza dicendosi “scientificamente a sua disposizione”. O con cui, si apprende, ha accettato di partecipare a un film il cui titolo sembra una specie di reality in salsa Covid, ovvero Quarantena live in cui si calerà, che ve lo dico a fare, in un ruolo che ama smisuratamente: se stesso.

Molte polemiche, nessuna pubblicazione
La stessa umiltà con cui ha criticato i medici cinesi che in uno studio pubblicato (al contrario del suo) dicono che la plasmaterapia dà risultati deludenti. O con cui scrive sul suo fb al sindaco di Mantova Palazzi: “Hai balbettato di un premio che darai a tutte le Unità Covid del nostro Ospedale. Questo è meritorio. Ma un giorno ti leggerò le motivazioni che hanno portato ad attribuire a me il Premio Papa Paolo VI. E il Premio San Giuseppe Moscati, patrocinato dalla Presidenza della Repubblica. Volutamente taciuti dalla nostra Gazzetta di Mantova, assieme a tutti gli altri premi!”.
Insomma, Palazzi, il Pd, il quotidiano locale, i poteri forti, Burioni, la giuria del Nobel e quella di Miss Rocchetta, tutti si rifiutano di riconoscergli la sua grandezza. Tutti tranne il mondo che l’ha premiato, ovviamente. Che poi voglio dire, se ti premia il mondo, con rispetto parlando, che te frega della Gazzetta di Mantova. Ma De Donno è così: un umile medico di campagna. Solo che la campagna, al momento, sembra più quella elettorale. O quella “acquisti”.

“Aiutare la Ue è nell’interesse tedesco; sul Mes decide l’Italia”

Una intervista molto ampia, concessa ad alcuni selezionati quotidiani d’Europa che le agenzie italiane hanno subito tradotto nella richiesta all’Italia, da parte di Angela Merkel, di utilizzare i fondi del Mes. Tanto da provocare la replica di Giuseppe Conte: “Io rispetto la Merkel, ma a far di conto per l’Italia ci sono io, Gualtieri e i tecnici del governo”.

Guardandola con gli occhi europei, però (vedi il titolo di Le Monde) le preoccupazioni di Merkel sono ben diverse e si riassumono in una sola: impedire che l’Unione europea sprofondi e porti con sé anche l’economia tedesca.

L’interesse “vitale” dei vari Stati europei, spiega Merkel, è quello “di mantenere un mercato unico europeo forte e di presentare un fronte unito sulla scena internazionale”. “Scommetto sul fatto che gli Stati membri abbiano un interesse forte a concentrarsi sui punti in comune”.

E quindi si arriva al fondo di solidarietà o Recovery fund. “L’obiettivo del fondo – dice la cancelliera – è di apportare un aiuto e mostrarci solidali”: “Per i Paesi che hanno un indebitamento totale molto elevato hanno più senso degli aiuti non rimborsabili che dei crediti supplementari”. Non si tratta di bontà d’animo: “La Germania è pronta a un gesto ‘di solidarietà straordinaria’ in particolare verso Italia e Spagna” anche perché, dice senza tanti giri di parole, “agendo così, noi agiamo nel nostro proprio interesse: è interesse della Germania avere un mercato unico forte”.

Sul Mes “tocca all’Italia decidere: abbiamo creato gli strumenti, tutti possono ricorrervi, non li abbiamo creati perché restino inutilizzati”. Infine, sostegno pieno alla candidatura della spagnola Nadia Calviño alla presidenza dell’Eurogruppo dopo che Mario Centeno è diventato presidente della Banca centrale del Portogallo: “Non è un segreto il sostegno tedesco”. La Calviño potrà contare sicuramente anche sull’appoggio italiano, nonostante al momento non ci siano posizioni ufficiali.

La lista di Palamara: decine di magistrati e politici chiamati a testimoniare al Csm

In vista del 21 luglio, giorno in cui è stata fissata la prima udienza del suo processo disciplinare, la difesa di Luca Palamara depositerà una corposa lista testi. Non si tratta di una sfumatura tecnico giuridica. Perché dinanzi alla sezione disciplinare del Csm – se la sua richiesta sarà accolta – potrebbero sfilare molti magistrati e politici chiamati a fornire chiarimenti sulle condotte tenute dall’ex presidente dell’Anm. In altre parole si annuncia un nuovo terremoto. In totale i magistrati finiti sotto processo disciplinare sono dieci. Tra questi c’è anche il pm Stefano Fava che è indagato a Perugia per favoreggiamento e rivelazione del segreto nei confronti di Palamara. Nel maggio 2019 Fava spiega a Palamara come, secondo lui, gli investigatori sono risaliti ai viaggi che l’imprenditore Fabrizio Centofanti avrebbe pagato al pm romano. Alla Procura di Perugia Fava ha spiegato che si trattava di una deduzione fondata sulla base della sua esperienza: i pm umbri hanno stralciato la sua posizione e, per questa accusa, nei mesi scorsi hanno ritenuto necessario “formulare richiesta di archiviazione in quanto il fatto non sussiste o, comunque, non costituisce reato”. Non sappiamo se l’accusa sia stata già archiviata, l’addebito resta però in sede disciplinare dove, va precisato, a Fava non è contestato alcun ruolo negli incontri che Palamara teneva con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri per la nomina del futuro procuratore di Roma (è invece l’incolpazione principale per l’ex presidente dell’Anm).

Centrale, per le incolpazioni di Fava, l’esposto che nel marzo 2019 presenta al Csm sull’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. Secondo l’accusa disciplinare l’esposto riguarda anche il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, che è effettivamente citato nel fascicolo depositato da Fava ma, come altri magistrati, soltanto in un documento allegato. A Fava viene contestata anche la modalità con cui predispone l’esposto: avrebbe per esempio saltato il passaggio con il procuratore generale della corte d’Appello. Avrebbe violato – secondo la Procura generale della Cassazione e il ministro di Giustizia – i “doveri di imparzialità, correttezza, riserbo, equilibrio e rispetto della dignità della persona” nei riguardi di Ielo e Pignatone “insinuando”, in un dialogo con Palamara, “l’esistenza di una favorevole predisposizione dei predetti magistrati nei confronti degli indagati”. Va precisato che Fava aveva predisposto e depositato l’esposto al Csm senza alcun accordo con Palamara, con il quale ne discute molto tempo dopo consegnandogli – e per lui si tratta di un altro capo d’incolpazione – alcuni documenti che però erano pubblici e non secretati.

Liguria, giochi quasi fatti: Renzi blocca Sansa

In Liguria i giochi sono quasi fatti in vista delle elezioni regionali di settembre: il candidato del centrosinistra con ogni probabilità sarà Aristide Massardo. Professore ordinario di Ingegneria all’università di Genova, Massardo è un candidato moderato, meno “divisivo” del giornalista del Fatto Ferruccio Sansa, il cui nome sembrava avere messo d’accordo i Cinque Stelle con buona parte del Pd. Ma alla fine a dare le carte anche questa volta è Matteo Renzi. L’ex premier ha messo il veto su Sansa (“In Liguria se il candidato è un giornalista del Fatto noi non ci stiamo”, ha detto alla Stampa) e ha indirizzato il resto della coalizione anti-Toti su Massardo.

Il nome del professore non dispiace ai Cinque Stelle ed è particolarmente gradito anche a chi nel Pd non ha mai mandato giù le inchieste di Sansa sul “partito del cemento” (la corrente ligure legata all’ex governatore Claudio Burlando).

Gli sponsor di Sansa – appoggiato anche da Verdi e Sinistra – tra i dem ruotavano attorno alla figura del vicesegretario Andrea Orlando. L’ex Guardasigilli in queste ore è il più seccato per la svolta decisiva sulla candidatura di Massardo, la ritiene un atto di debolezza nei confronti di Renzi. L’idea di Pd e Cinque Stelle, infatti, è quella di comunicare la scelta di Massardo in queste ore proprio per anticipare l’annuncio dell’ex premier ed evitare di essere “bruciati” da lui. Renzi oggi infatti arriva a Chiavari e poi a La Spezia per presentare il suo libro, La mossa del cavallo. Nella città spezzina sarà accompagnato da Raffaella Paita, a sua volta perfetta erede della tradizione burlandiana, candidata alla presidenza della Regione nel 2015 , clamorosamente sconfitta da Giovanni Toti. Malgrado quella pessima esperienza, il centrosinistra ritorna su quei passi: decide Renzi, in perfetta continuità.