Ci mancava solo l’infodemia dell’Oms

Che ci sarebbero state discordanze tra noi virologi, era previsto. Che queste discordanze si rivelassero spesso alimentate da cordate “politiche” (non partitiche, spero) si è capito. Che la pandemia fosse attraversata da un velato maschilismo, si è visto. Che spesso si sia parlato solo per non venir meno all’appuntamento serale in rete, è stato evidente a tutti, fino alla nausea. Non avevamo però ancora assistito alle diatribe tra esperti ed OMS. E questa pandemia ci ha fornito anche questo. Mentre ci interroghiamo sul significato da dare ad un risultato “debolmente positivo” che agli occhi di un mortale procura più confusione che certezze, arriva la dichiarazione di una persona che per il suo ruolo dovrebbe pesare con una bilancia di precisione ogni parola, Maria Van Kerkhove , capo del team tecnico anti-Covid-19 dell’Oms. “È molto raro che una persona asintomatica possa trasmettere il coronavirus”, ha detto durante un briefing con le Nazioni Unite. Ci chiediamo che significato voglia dare la rappresentante OMS al termine “raro”. La conseguenza di questa, a dir poco, superficiale affermazione, ha sollevato un polverone di critiche, che condivido pienamente. La dottoressa dovrebbe spiegarci ciò che da tempo cerchiamo di sapere e che dalla sua affermazione deduciamo a lei sia chiaro: vale a dire il ruolo degli asintomatici. Dovremmo ricordare che, per definizione, sono soggetti infetti (positivi al tampone) e pertanto potenzialmente infettanti poiché ospitano il virus. Perchè molti asintomatici, ma non tutti, restino tali e non progrediscano nella malattia, è a noi tutti sconosciuto. Le critiche sono fioccate immediate e numerose, tanto che il giorno seguente, ecco moderare il concetto… ”Li stiamo ancora studiando”. Spero che l’infodemia non contagi anche l’OMS. Abbiamo bisogno di poche ma chiare informazioni dall’OMS: qui la faccenda non è finita e, dopo una pausa estiva, focolaio sì, focolaio no, ci aspettano le stagioni fredde con le infezioni influenzali e simil influenzali e lì sì che sarà un bel da fare.

 

La destra fancazzista si diverte

Nel parco giochi della destra quel ragazzaccio di Vittorio Sgarbi si diverte un mondo a farsi portare via di peso dall’aula di Montecitorio (la prossima volta esce in barella). Spassoso lo scherzo che quella simpatica birba di Alessandro Sallusti tira al direttore editoriale di Libero

annunciando a nove colonne sul Giornale: “Feltri si dimette da giornalista”. Un gigantesco buco dato all’amico Vittorio, che infatti sembra all’oscuro di tutto: sulle sue pagine neppure un cenno alla notiziona che lo riguarda (che forse, ah ah, è un poco augurale auspicio tra colleghi). Prossimo round: guerra dei gavettoni a tre con Maurizio Belpietro. Ecco la sempre leggiadra Alessandra Mussolini, pronta per Ballando sotto le stelle con Milly Carlucci, che minaccia: “Ce la metterò tutta come sempre”. Sulle orme di Nunzia De Girolamo, ex ministro dei governi Berlusconi, e chissà che una volta attaccati al chiodo i tacchi a spillo anche la nipotona di Benito non vada a sbizzarrirsi nell’arenile di Giletti.

L’opposizione politica, caciarona e fancazzista, non tocca palla, tanto che Conte fa finta di invitarli a palazzo come si fa con i parenti sfigati. Infatti, Matteo Salvini preferisce dedicarsi alla fidanzata Francesca Verdini, “innamorati più che mai sulla spiaggia di Sabaudia” (tutti gli scatti su Oggi). Nel luna park sovranista fa eccezione la preside Giorgia Meloni, impegnata a tenere d’occhio Ignazio La Russa e gli altri scavezzacollo di FdI. Lei è la secchiona che studia i dossier e rischia di diventare pallosa come quelli di sinistra. Perché, diciamolo, Pd e 5Stelle sono divertenti come la mascherina sotto il sole di agosto, per non parlare dei savonarola di Sinistra italiana: ricordati che devi morire. Se rinasco mi butto a destra, per tirare le freccette con Mario Giordano e Nicola Porro sulle foto della ministra Azzolina, accusare gli immigrati zozzoni di contagio molesto e spargere le bombette puzzolenti sotto Palazzo Chigi.

Ps. il soffiatore sul fuoco Salvini annuncia che andrà a Mondragone (ha subito chiesto dov’è la spiaggia più vicina).

Il feticismo “gentili” di libero e Dagospia

Che genere di feticismo provano gli amici di Libero per Veronica Gentili? Per il terzo giorno consecutivo, il quotidiano di Vittorio Feltri dedica alla collega di Rete 4 un articolo e una foto in prima pagina. Per chiedere che sia licenziata. Il motivo è questo: Gentili in passato contestava Berlusconi, è fieramente di sinistra e ora lavora per una delle sue tv oltre a collaborare col Fatto. E quindi, si chiedono Feltri&C., che aspetta Silvio a farla fuori? La richiesta è curiosa. Ma come, Silvio non era un vero liberale, un uomo in grado di accettare il dissenso e di promuovere il pluralismo delle idee? E loro che si chiamano Libero e sostengono di ispirarsi a quella corrente di pensiero, con quale coerenza chiedono che sia rimossa un’opinione diversa dalla loro? Dev’esserci qualcosa sotto, tanta passione per Gentili è sospetta. Tre prime pagine di fila su una giornalista “avversaria” sono un lusso che si concede a pochi.

L’altro focoso ammiratore di Veronica è Roberto D’Agostino. Su Dagospia le bordate di Libero vengono ricevute e volentieri ripubblicate. Ma questo si spiega più facilmente. Con Dago lavora Giorgio Rutelli, figlio di Francesco e di Barbara Palombelli. Che è un altro volto di Rete 4, come la Gentili. Lì, più che amore, magari è gelosia.

“Così portai via il cd con i nomi di morti e malati”

“Quel cd l’ho portato fuori io. Io l’ho trafugato dallo Stato maggiore dell’Esercito. L’ho fatto per me e per tutti quelli del battaglione che ho visto ammalarsi e morire”. Sergio – nome di fantasia – oggi ha 55 anni, ma quando ne aveva 28 pregava d’arrivarci battendo un linfoma. All’epoca, a cavallo degli anni Duemila, le vittime del “metallo del disonore” iniziavano a fare clamore ma se ne sapeva poco, soprattutto per la resistenza dei vertici delle Forze armate. I soldati sapevano, gli Stati maggiori negavano. Se l’Italia a un certo punto ha preso coscienza della dimensione della tragedia lo deve anche a lui, un soldato che – rischiando l’arresto – diffuse i primi dati realistici sui militari: malati e morti, nomi e cognomi. Non l’aveva mai raccontato. Ma la battaglia delle vittime da uranio impoverito contro il negazionismo di Stato va per i vent’anni. Si fa storia. E la resistenza dei vertici, che riemerge con la denuncia del generale Roberto Vannacci sulla mancata valutazione dei rischi in Iraq, lo ha convinto a parlare. “Volevo sapere se era il mio destino o una malattia dovuta ai sei mesi di missione in Bosnia”, racconta. “Dopo un anno e mezzo di cure chiamai il numero verde istituito dalla Difesa per raccogliere le segnalazioni e rassicurare i soldati. Non fui mai richiamato. Dai colloqui coi superiori capii che non li avevo vicino ma ‘contro’. Così, quando ho avuto l’occasione, l’ho fatto. E non me ne pento”.

In tanti credettero alla buonafede del ministero e telefonarono al “Centro Informazione Famiglie”: 800.228.877. Troppi. La Difesa chiuse il servizio e secretò i dati. Al diavolo mancarono però i coperchi. Per uno strano caso del destino, alla ricezione dei dati furono messi militari rientrati dalla Bosnia che di lì a poco scoprirono di essere ammalati. Tra loro, appunto, Sergio. “Lavoravo nel centro di calcolo dell’Esercito di via Guido Reni, al Flaminio. Andai all’ufficio Affari generali dello Stato maggiore. Parlai con un colonnello, oggi generale di corpo d’armata. Lo ricordo come fosse ieri. Gli spiegai che non avevo avuto risposte e chiesi a lui come tutelare la mia famiglia in caso di morte, della possibilità di intentare causa di servizio. Mi rispose che quelli come me volevano solo ‘abbattere le istituzioni e attaccare l’esercito’. Nulla di più lontano dal vero: nella mia ingenuità, pensavo che avendo giurato fino al sacrificio della vita sarei stato tutelato. Scoprii che non era così, che eravamo un problema da nascondere. Che avremmo dovuto lottare da soli, con i nostri pochi mezzi, contro un muro di gomma”.

Ma ecco che arriva l’occasione. “Di lì a poco fu istituita la prima commissione Mandelli, che negò il nesso causale. Lo stesso ministro della Difesa, Sergio Mattarella, ripeteva che i casi accertati erano 30 tra malati e deceduti”. Il futuro capo dello Stato, probabilmente, non sapeva che erano almeno dieci volte di più. Lui sì. “Quello studio era fatto su dati parziali e imprecisi. Chi come me lavorava al centro di calcolo lo sapeva, perché lo Stato maggiore aveva affidato alla nostra task force d’informatici il compito di elaborare un database. Fino ad allora si navigava a vista, computando i fogli presenza e le paghe di missione. C’era gente contata 3-4 volte perché aveva fatto più missioni brevi. Veniva contato anche il personale che faceva trasporti aerei e risultava in Bosnia per un giorno”. Un metodo che gonfiava la platea dei potenziali esposti e abbatteva quella dei malati, portando il professor Franco Mandelli alla conclusione errata per cui l’incidenza dei tumori non era significativamente diversa dalla statistica nazionale.

“I nostri dati dicevano altro. Incrociavano periodi di missione e stato di salute, contavano i militari malati e le cause di decesso. Nomi e cognomi. Li scaricammo su un cd che tenni per due giorni. Ci pensai a lungo e decisi di consegnarlo all’associazione ‘Osservatorio sull’Uranio impoverito’ di Domenico Leggiero che non ha più smesso di aggiornarli”. L’elenco originale, racconta Leggiero (nella foto), conteneva errori ma faceva emergere le proporzioni del problema. “Quel primo censimento è stato fondamentale. Nel tempo lo abbiamo verificato e messo a posto riscontrando uno ad uno, con contatto diretto o perché si sono affidati all’Osservatorio; altri in modo indiretto, per effetto del riconoscimento del danno per sentenza, che in alcuni casi c’è stato ed altri no. Solo grazie a questo oggi possiamo parlare di 372 vittime e 7.693 malati”.

Il clamore suscitato da quei numeri costrinse la commissione Mandelli a rivedere le conclusioni. “E infatti – chiosa Leggiero – già nella seconda relazione la negazione lasciava il posto alla necessità di approfondire il nesso causale, fino alla terza dove Mandelli afferma che alcune malattie avevano incidenze significativamente superiori alle statistiche nazionali. E l’uranio era quantomeno una concausa. Lo Stato maggiore della Difesa formalmente l’ha condivisa, ma continua a negare gli indennizzi. Riconoscerli equivarrebbe a un’ammissione. Pur di non farlo subisce condanne e paga”.

“Scaricabarile sull’uranio e pressioni su chi parla”

È entrato nell’Esercito, da sottufficiale, nel 1984, da poco più di un anno è in pensione con il grado di tenente colonnello. “Sono un soldato che ha sempre tenuto i piedi nel fango”, dice Fabio Filomeni nella sua bella casa su una collina toscana. Incursore del 9° Reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin”, missioni in Somalia, Bosnia, Kosovo, Albania, Iraq. “Mi manca solo l’Afghanistan”. Croce di bronzo in Bosnia. E negli ultimi anni una carriera da Responsabile del servizio prevenzione e protezione (Rspp), tutela della sicurezza sul lavoro, “la mia seconda fase professionale”. Al tempo dei tumori e dell’uranio impoverito: “Ho perso colleghi, commilitoni. Ad altri sono stati asportati i reni e i medici hanno detto che non avevano mai visto una cosa del genere: un insieme di particelle metalliche e nanoparticelle che andavano a rivestire e coprire questi organi. Sono quelle che si liberano una volta che il proiettile all’uranio impoverito impatta sulle corazzature metalliche, c’è una vasta letteratura scientifica…”.

Alla fine del 2017 il generale Roberto Vannacci, comandante della missione in Iraq, la chiama.

L’avevo conosciuto da tenente, ho tenuto i piedi nel fango anche con lui. Poi, quando è arrivato a comandare il Nono, sono stato il suo Rspp.

Vannacci chiama perché, per la prima volta, gli Stati Maggiori hanno deciso di nominare datori di lavoro i comandanti delle missioni. Come in un’azienda deve fare la valutazione dei rischi e assumere le determinazioni per ridurli. Che situazione trova, nel maggio 2018, a Baghdad?

Trovo un datore di lavoro che di fatto non aveva alcun potere decisionale organizzativo e di spesa per far fronte agli obblighi di legge. Non aveva neanche la possibilità di organizzarsi il sistema di gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro come è previsto dalla 81/2008, non poteva nominare il medico competente, né gli addetti al servizio prevenzione e protezione. Sa qual era il servizio di prevenzione in un territorio di 80 mila chilometri quadrati con 11 basi sparse? Era solo il sottoscritto. E gli ordini li dirama il Comando superiore, il Comando operativo interforze, il Coi. Solo il Coi poteva fare i campionamenti sul suolo per quanto riguarda ad esempio l’uranio impoverito. Il generale Vannacci non aveva questi poteri. Ma nemmeno poteva omettere la pericolosità di questo elemento. In Iraq sono state impiegate da 300 a 1.000 tonnellate di munizionamento con uranio impoverito.

Avevate dati sulla presenza di uranio impoverito e metalli pesanti nelle vostre basi, alcune delle quali, come la sede del comando italiano a Baghdad, erano state bombardate con quel materiale?

No. Il generale Vannacci aveva chiesto l’intervento del Centro studi strategici di San Piero a Grado di Pisa. Il personale è venuto coi tempi dati dai comandi superiori, in ritardo, ha fatto queste rilevazioni, ma solo nell’area di Baghdad. Non è dato sapere le risultanze.

Dicono che le guerre sono finite da un pezzo, se il rischio c’era non c’è più.

Non abbiamo elementi per dire che non c’è rischio uranio impoverito. Si lascia la responsabilità a un comandante nominato datore di lavoro. In ambito civile diremmo scaricabarile, in ambito militare io dico fuoco amico. Armiamoci e partite.

Questa scelta nel 2017 può essere collegata al lavoro della Commissione di inchiesta parlamentare guidata dall’onorevole Gian Piero Scanu?

Lei credo abbia messo il dito nella piaga. La Commissione ha visto chiare deficienze che sarebbero state eliminabili se a ogni livello fosse stato fatto il necessario: una raccolta dettagliata delle informazioni, collaborazione tra nazioni. Quando sono andato giù mi hanno detto che avrei trovato altro personale, ma non c’era nessuno formato, solo in un secondo momento si è liberato un unico addetto a Mosul.

È vero che non c’era nemmeno un medico competente con i requisiti previsti?

È allucinante. Al generale Vannacci venne ordinato di nominare un medico che aveva a Mosul. Ma Vannucci era a Baghdad. E il medico di Erbil, dove ero io, non aveva i requisiti. Vannacci non ha eseguito. Ne avrebbe dovuto pagare le conseguenze, ma a quanto ne so non gli è stato fatto niente.

Cosa avete potuto fare per proteggere il personale?

La principale forma di prevenzione e protezione in questi casi è limitare il più possibile l’esposizione del lavoratore. Il generale Vannacci ha più volte insistito con il Coi affinché i limiti dell’impiego del personale fossero massimo di 6 mesi. C’erano persone che stavano 9 o 10 mesi, un anno, perché mancavano i visti, i voli. Ma anche questa misura di mitigazione del rischio non era nei poteri del generale, era nei poteri del Coi.

L’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, allora a capo del Coi, ha detto alla Commissione d’inchiesta che le missioni duravano in media 4 mesi. Non è così?

Non posso contestare quello che ha detto un mio superiore. Le dico quello che ho visto di persona.

Cos’altro avete potuto fare in relazione all’uranio impoverito?

Abbiamo fatto formazione, ma sul campo, quando sarebbe dovuto avvenire prima. Il problema non è solo l’uranio, ma le nanoparticelle. L’Iraq è arido, piove poco, non è la Bosnia. Possono esserci fenomeni di risospensione delle particelle depositate. Una disposizione che avevo dato era di cercare di sollevare meno polveri possibile, anche con gli automezzi. Un’altra precauzione è coprirsi le vie aeree con mascherine e foulard, con sciarpe.

Il generale Vannacci ha fatto un esposto, i magistrati potrebbero chiamarla.

Nessun problema. Direi solo la verità.

Prima e dopo Vannacci, altri comandanti in Iraq, prima senza nomina a datore e poi con la nomina, hanno fatto la valutazione dei rischi e immagino abbiano escluso rischi particolari. Sottovalutano?

Non posso rispondere per altri.

Non c’è un’opacità delle Forze armate sui pericoli legati all’uranio?

Ho ravvisato zone d’ombra. E ho ricevuto pressioni per cercare di ammorbidire le posizioni del generale Vannacci. Nelle migliori forme, a titolo di cortesia. Nessuna minaccia. Però queste pressioni le ho ricevute telefonicamente da un ufficiale del Comando superiore.

Vogliamo chiarire che lei non ce l’ha con le Forze armate?

No, sono grato all’Esercito per tutto quello che mi ha insegnato. Ho avuto modo di esprimermi al meglio e avuto riconoscimenti che mi hanno consentito di andare in pensione con un grado di tenente colonnello. Ma sono stato anche orgogliosamente sottufficiale. Non ce l’ho assolutamente con l’Esercito. Ma dentro l’Esercito ci sono persone che non lavorano tutte per la stessa causa.

(il video dell’intervista completa oggi su ilfattoquotidiano.it)

La Lombardia silura Moretti, il dirigente elogiato dai medici

È stato l’unico dirigente dell’Ats di Bergamo per il quale i quattro sindacati dei 650 medici di famiglia della provincia lombarda (Fimmg, Snami, Smi, Simpef) hanno speso parole di elogio con una lettera aperta con la quale, il 15 giugno scorso, non hanno invece risparmiato durissime critiche ai vertici dell’agenzia sanitaria, guidata da Massimo Giupponi, direttore generale. Ma Roberto Moretti, dirigente dell’unità operativa complessa delle cure primarie, che organizza i medici di base, è stato rimosso. Al termine del periodo di prova – era in carica dall’1 gennaio – l’organismo tecnico di valutazione ha espresso su di lui un parere negativo, ultimo atto di una guerra interna per individuare capri espiatori sui quali scaricare le responsabilità del disastro nella gestione dell’epidemia di Covid che ha colpito il Bergamasco con la violenza di uno tsunami. “Il clima è pesantissimo”, conferma Orazio Amboni, responsabile Welfare della Cgil di Bergamo. “Almeno una dozzina di medici – prosegue Amboni – se ne sono già andati. Una vera e propria fuga. E le motivazioni ufficiali sono le più varie: motivi di famiglia, di salute. In realtà scappano. Si dimettono perché non reggono più la situazione. C’è chi è andato a lavorare nel settore sanitario privato, chi ha scelto di fare il medico di base. Adesso l’azienda è decapitata e si trova in una condizione di paralisi”.

Moretti resta in servizio senza avere più la carica di dirigente dell’unità operativa cure primarie con la quale, nei mesi caratterizzati dai picchi dei contagi ha coordinato l’attività dei medici di base. Spendendosi instancabilmente, come avevano rilevato i sindacati dei camici bianchi nella lettera aperta, “per aiutare decine e decine di colleghi ammalati a trovare un sostituto o una soluzione alternativa, a creare le Usca, a cercare dispositivi di protezione individuale”. Non come i vertici dell’azienda, “che a noi medici dicevano che tutto andava bene, che era tutto sotto controllo e non bisognava creare allarmismo tra la gente”. Tutto “mentre ponevamo decine di quesiti senza ricevere risposte e non venivamo interpellati sui problemi se non saltuariamente”.

In quei mesi di emergenza, sprovvisti anche di mascherine, tanti medici di base sono stati contagiati (il 25%) e sei di loro sono morti. “È assurdo – dice ora Mirko Tassinari, medico, segretario provinciale della Fimmg – che si parli di rafforzare la medicina territoriale se poi i primi passi che vengono fatti sono questi. Moretti ha affrontato molte emergenze in un dipartimento ridotto all’osso. Adesso i colleghi mi chiedono con chi si devono interfacciare per cominciare a studiare un piano per affrontare una nuova, eventuale ondata epidemica in autunno. La situazione è davvero preoccupante”. Alla domanda del Fatto sul motivo della rimozione di Moretti, l’Ats non ha voluto rispondere. Una cosa è certa: la caccia alle streghe è iniziata. A Massimo Giupponi si deve anche l’incarico affidato a un legale, Angelo Capelli (ex consigliere regionale del centro destra), per verificare se ci sono state condotte negligenti da parte dei medici dirigenti, molti dei quali infettati (nel periodo della piena emergenza il 50% del personale dell’Ats era in malattia). Incarico che, paradossalmente, prevede che venga verificato anche l’operato dei medici di base.

Tamponi privati: il Lazio contro assessore di Zinga

Nuovi problemi interni per Nicola Zingaretti, stavolta nella “sua” Regione Lazio. L’assessore alla sanità Alessio D’Amato, elogiato da più parti per la gestione dell’emergenza Covid, non piace più al Pd. Giovedì i consiglieri Dem, compatti, gli hanno votato contro, facendo approvare “a larga maggioranza” una mozione del centrodestra favorevole all’esecuzione dei tamponi nei centri diagnostici privati. Una battaglia, quella della gestione pubblica dei test molecolari che D’Amato aveva sposato sin dall’inizio insieme all’unità di crisi regionale composta dai tecnici dell’Istituto Spallanzani e dell’Iss. Attirandosi però la netta opposizione – fra gli altri – del capogruppo regionale Pd, Marco Vincenzi.

Il casus belli il 17 giugno, quando il Tar del Lazio accoglie il ricorso di Altamedica Artemisia, noto centro diagnostico di Roma, consentendo ai privati di effettuare tamponi a pagamento. Alle spalle di quel ricorso, il vasto e articolato mondo della sanità privata laziale, che spinge da settimane per la “liberalizzazione”. “Diffidate dai laboratori non autorizzati”, è invece l’appello di D’Amato ai cittadini. Poche ore dopo, viene depositata mozione di Stefano Parisi, già candidato governatore per il centrodestra nel 2018, che impegna la giunta a non opporsi al pronunciamento. Nelle premesse, anche un elogio al Veneto leghista: “La Regione Lazio ha eseguito meno della metà dei tamponi eseguiti in regioni virtuose come il Veneto”. Poco importa a Vincenzi, che giovedì in Aula fa approvare la mozione, con la sola astensione di FdI. D’Amato non ha fatto alcun passo indietro. Giovedì stesso ha depositato il ricorso in Consiglio di Stato, ottenendo la sospensiva della sentenza del Tar, con la discussione nel merito fissata per il 16 luglio.

Secondo i giudici amministrativi, l’attuale rete Coronet “è idonea a gestire, tracciare, elaborare la sottoposizione a test senza che l’auspicato contributo privato sia di decisiva utilità”. Al contrario, dieci giorni fa il Tar sosteneva che “nel bilanciamento degli interessi coinvolti, l’interesse pubblico prevalente è quello di eseguire quanti più esami possibile”. “Abbiamo voluto mandare un segnale a D’Amato. Nel merito, perché condividevamo il testo. Ma pur sempre un segnale”, racconta al Fatto uno dei consiglieri che preferisce restare anonimo. Il contesto pare essere la guerra in Giunta fra l’assessore alla Sanità – forte dei numerosi apprezzamenti ricevuti – e il vicepresidente Daniele Leodori, da un po’ di tempo il “reggente” causa impegni nazionali di Zingaretti. Fra i consiglieri esiste la convinzione che i documenti sul caso delle “mascherine fantasma” – raccontato ad aprile in un’inchiesta de ilfattoquotidiano.it – che ha messo in grande difficoltà Leodori, siano usciti grazie a una “manina” dell’assessorato Sanità. “Illazioni ignobili”, affermano dall’entourage dell’assessore. “Abbiamo tutti gli accessi elettronici, non abbiamo dubbi”, replicano i consiglieri dem. Nessun segnale, per ora, da Zingaretti. Marco Vincenzi, tecnicamente, è un suo fedelissimo, indicato come “esponente dello zoccolo duro degli zingarettiani”, ma appare difficile che il governatore abbia condiviso lo “sgambetto” al suo assessore più in vista.

Mondragone: i fuggitivi negativi A Bologna altri 27 casi alla Brt

 

Tanto rumore per nulla, perché i 19 fuggiti dalla zona rossa di Mondragone, ieri, sono stati rintracciati, e alla prova del tampone sono risultati tutti negativi al SarsCov2. Così assicura il governatore della Campania, Vincenzo De Luca. Mentre a preoccupare è anche l’altro focolaio, quello della ditta di logistica Brt di Bologna dove sono stati registrati altri 27 positivi che vanno sommati ai 65 già individuati; i sindacati chiedono di fermare tutto. Ieri il bollettino dei morti ne annunciava altri 30, mentre i nuovi casi rilevati sono 259 di cui ben 156 nella sola Lombardia. L’Iss, invece, registra “focolai di una certa rilevanza”, anche se l’indice Rt in Italia rimane sotto quota 1. Sopra 1 nell’ultima settimana solo in Lazio, Emilia e Lombardia.

Sospiro di sollievo in Campania

Il governatore De Luca ha quindi spiegato: “I 19 erano andati presumibilmente nella Piana del Sele, nel Salernitano, dove vi è un’altra piccola comunità di bulgari. Siamo riusciti a individuarli tutti e 19, abbiamo fatto i tamponi e sono tutti negativi”. In totale sono stati eseguiti “743 tamponi a tutti gli occupanti delle palazzine. I positivi sono 43, di cui 9 nella palazzina di senzatetto italiani, il resto nelle 4 palazzine di bulgari e di rom”. Da ieri mattina “sono presenti due camper per fare tamponi a tutti i cittadini di Mondragone nell’area circostante le palazzine. Gli stessi dipendenti dell’Asl vanno anche nei negozi e locali commerciali per fare i tamponi, il lavoro procede in maniera seria. Il lavoro di tamponamento serve a fare 3-4 mila tamponi nell’area contigua per verificare se c’è stata una diffusione di contagio. Dobbiamo spegnere assolutamente il focolaio e non farlo diffondere nei Comuni vicini. La provincia di Caserta è una di quelle che ha retto meglio, abbiamo avuto contagio zero per tanto tempo ed è doveroso non farlo diffondere”. E ora, in tutta la Campania, l’obiettivo è “tamponi di massa per mantenerci a contagio zero”.

In Emilia fiato sospeso in attesa dei tamponi

Da Sud a Nord, a Bologna intanto rimane il fiato sospeso per la situazione del focolaio alla ditta di logistica Brt, la ex Bartolini. Paolo Pandolfi è il direttore del dipartimento di Sanità pubblica dell’Ausl di Bologna: Oggi “siamo in attesa dei risultati dei tamponi eseguiti anche ad amministrativi, autisti e altro personale. Faremo una valutazione del focolaio: se ci sono evidenze epidemiologiche e condizioni specifiche, per come si è manifestato, potrebbe essere una strada da percorrere quella di proporre la sospensione dell’attività”.

La lotta a SarsCov2 deve continuare

“Bassa criticità, ma in alcune aree casi in aumento”. È questa la sintesi del report settimanale dell’Istituto superiore di sanità relativo al periodo 8-21 giugno e pubblicato ieri. “In quasi tutta la Penisola sono stati diagnosticati nuovi casi di infezione nella settimana di monitoraggio, con casi in aumento rispetto alla precedente settimana di monitoraggio in alcune regioni – si legge nel documento –. Tale riscontro in gran parte è dovuto alla intensa attività di screening e indagine dei casi con identificazione e monitoraggio dei contatti stretti. Tuttavia, la presenza di focolai – dieci in tutto –, anche di una certa rilevanza numerica, mostra come il virus continui ad essere in grado, nelle attuali condizioni, di trasmettersi in modo efficace. Questo conferma che l’epidemia da SarsCov2 non è affatto conclusa in Italia. È essenziale mantenere elevata l’attenzione e continuare a rafforzare le attività di testing-tracing-tracking in modo da identificare precocemente tutti i potenziali focolai di trasmissione e continuare a controllare l’epidemia. È anche fondamentale continuare a rispettare in modo rigoroso l’igiene individuale e il distanziamento fisico”.

Scuola, arriva l’accordo con le Regioni: ora si corre

Alla fine arriva l’accordo sul rientro a scuola a settembre tra il ministero dell’Istruzione e le Regioni, coadiuvato anche dal ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, che ha replicato il modello utilizzato durante l’emergenza anche sugli altri settori. Trovata l’intesa, insomma, è ora che parta la macchina e che parta in fretta: ci sono i soldi (un miliardo in più che ha aiutato molto a placare tutti gli animi e anche i sindacati) per aumentare i docenti e il personale fino a 50mila unità, c’è la disponibilità a parole di ogni attore coinvolto, c’è l’impegno del premier Giuseppe Conte su un’Istruzione che sia al centro della strategia del governo (e si spera anche del Recovery Fund quando arriverà), c’è l’annuncio da parte della ministra Lucia Azzolina di un “tour” tra scuole e comuni per aiutare concretamente a trovare soluzioni rapide, e quello dell’aumento a luglio dello stipendio dei docenti di 80-100 euro (che saranno però scaglionati in base al reddito e che sostituiranno, potenziati, gli 80 euro di Renzi).

Rispetto a giovedì, scompare il riferimento al contributo di soggetti del terzo settore per gestire gli alunni delle classi che dovessero eventualmente essere divise. Se ce ne sarà bisogno si potranno chiamare dei supplenti. Del “patto con la comunità” resta però soprattutto la collaborazione nel trovare nuovi spazi per gli studenti, dai parchi ai teatri, alle biblioteche e agli archivi. Si dovrà pensare a una didattica nuova, diversa, fuori dalla classe. Questo viene ribadito ancora. La scuola come la conosciamo sembra destinata a finire, anche per necessità pratiche. Durante la conferenza stampa a palazzo Chigi, ieri, la ministra ha infatti confermato che dalle rilevazioni fatte finora sul 75 per cento dei 40mila istituti scolastici che ci sono in Italia, è risultato che il 15 per cento degli alunni dovrà essere portato “fuori dagli edifici scolastici”. Sul tema delle elezioni il 20 settembre, la ministra ha detto che saranno gli enti locali con il ministero dell’Interno a decidere se vi siano altri luoghi oltre le scuole dove svolgere la tornata elettorale.

Per il resto, è confermato il di stanziamento degli alunni di un metro tra bocca e bocca, come previsto dal Comitato tecnico Scientifico che, due settimane prima dell’inizio della scuola (confermata il 14 settembre) si esprimerà sulla necessità delle mascherine in base al quadro epidemiologico. Il sabato a scuola resta ma diventa “una diversa modulazione settimanale del tempo scuola su delibera degli organi collegiali competenti” ed è confermata la didattica mista e integrata con il digitale. E ancora gli ingressi scaglionati, si prevede un raccordo con il trasporto locale – scolastico e non – che dovrà essere a ranghi dimezzati, non si riducono le ore di lezione ma bisognerà garantire a tutti lo stesso tempo. Dopo le ricognizioni, poi, dirigenti ed enti locali comunicheranno ciò di cui avranno bisogno: da più insegnanti e personale ai lavori di manutenzione ed edilizia. Più dettagliate le indicazioni per i più piccoli, che non dovranno indossare le mascherine e a cui dovranno essere garantiti gruppi ridotti e spazi sicuri e costanti, per ridurre al minimo le variabili e le occasioni di contagio.

La giornata di ieri, poi, è stata l’occasione per ribadire un impegno che per l’Azzolina è di vecchia data, per il premier Conte quasi una novità: riuscire ad eliminare le “classi pollaio”, iniziare ora con l’iniezione di fondi per l’emergenza, spingendo con quanto arriverà da Bruxelles (ma non è stato ancora quantificato quanto andrà alla scuola) e forse riuscendo a immaginare una riforma che sia strutturale e duratura nel tempo. Le premesse ci sono, le promesse anche: solo i prossimi mesi e le decisioni che verranno prese confermeranno il livello di priorità che il governo dà all’istruzione anche in tempi normali. “La mia visione per il futuro – ha detto Azzolina – è una scuola digitale, con pochi alunni per classe e innovativa. Anche colorata. Una scuola da cui gli studenti escano malvolentieri”. Settembre dovrebbe essere solo l’inizio. Si vedrà.

 

Tomaso Montanari

“Nulla di nuovo: ritardi e inerzia”

Il presidente del Consiglio che alla fine di giugno chiede altro tempo per capire come riaprire le aule tra due mesi è il simbolo dell’8 settembre della scuola italiana. Sia chiaro: la scuola pubblica collassa sotto il peso di decenni di malgoverno. Tagli selvaggi, organici drammaticamente insufficienti, aziendalizzazione, precariato schiavistico, edilizia da incubo, autonomia per finta: ecco il prodotto dell’estrema marginalità della scuola nella mentalità dei politici italiani. Ma la colpa di Giuseppe Conte, e del suo governo, è quella di stare completamente dentro questa mentalità: dimostrando che, per la scuola, un governo vale l’altro.
Conte era stato avvisato: il ministro Fioramonti (il quale aveva evidentemente preso sul serio la retorica del cambiamento del Movimento 5Stelle) aveva chiesto con forza un’inversione di marcia, fino a dimettersi di fronte alla pervicace inerzia con cui il presidente del Consiglio rifiutava di dare attenzione alla scuola.
Ora è il Covid a presentare il conto. La ministra Azzolina si è rivelata radicalmente incapace di governare la scuola, rilasciando dichiarazioni contraddittorie e rinviando costantemente le decisioni. Che si sono poi sempre risolte (come dimostrano ancora una volta le tardive, e non risolutive, linee guida diffuse ieri) in uno scaricabarile che lascia dirigenti e consigli d’istituto a prendere decisioni molto più grandi di loro.
Fin dai primi di marzo Azzolina avrebbe dovuto lavorare, ventre a terra e in silenzio, per assumere almeno altri 100mila docenti (che ci volevano comunque e che ora diventano indispensabili per riaprire); bloccare gli effetti della pessima legge Gelmini che taglia classi e scuole; ottenere non 4,5 ma almeno 7,5 miliardi di euro (che ci sono eccome, ma stanno su altri capitoli di spesa meno decisivi per il futuro del Paese); acquisire spazi provvisori e avviare subito i cantieri per ampliare quelli stabili; scrivere direttive chiare e univoche.
Non ha fatto niente di tutto questo: ottenendo il difficile risultato di compattare in unico fronte di sacrosanta protesta presidi, professori, famiglie e ragazzi.
Nonostante gli annunci, gli stessi ragazzi che ora vanno in discoteca e in palestra e gremiscono piazze e spiagge, rischiano seriamente di non tornare in aula a settembre. E sarebbe un vero disastro.

 

Salvatore Giuliano
“Si entra nella modernità”

Qeuste linee guida sono l’opportunità per ripensare il modello organizzativo e didattico della scuola. Molte delle soluzioni citate sono già state introdotte nelle scuole”: Salvatore Giuliano, ex sottosegretario all’Istruzione, è dirigente scolastico dell’Itis Ettore Majorana di Brindisi. “Questa è l’occasione per uscire dagli schemi di una scuola pensata nell’Ottocento”.
Professor Giuliano, le va di farci qualche esempio di questo cambiamento?
Penso alla divisione degli studenti in gruppi eterogenei ma raggruppati per livello di competenza, che non significa creare classi differenziate ma solo riorganizzare la didattica. Penso alla compattazione oraria, al dividere le dieci discipline in due macro gruppi così che gli studenti possano dedicarsi all’uno o all’altro in modo intensivo per una parte dell’anno.
Non rischiano di annoiarsi?
È qui il punto. Non si possono fare dieci ore a settimana di lezione frontale sullo stesso tema: ecco che allora la didattica cambia, innova e trova spunti inediti. Al punto da permettere ad ogni studente di tirar fuori i propri talenti. Nelle linee guida vedo queste possibilità.
È una occasione di cambiamento?
Questa pandemia è stata una grande tragedia, ma ora si mostra anche come possibilità di rilancio. C’è un effettivo aumento delle risorse, ora si dovrà definirne quanto prima i criteri di ripartizione per progettare al meglio il rientro degli studenti.
Da dove partire?
Dalla formazione dei docenti, prima di tutto. La didattica deve essere più laboratoriale ed esperienziale per tutti, anche per gli insegnanti. Col Covid ho dovuto formare 4.200 insegnanti e lo abbiamo fatto con metodologie innovative, le stesse che poi i docenti applicheranno per gli alunni. Ho visto tanta motivazione, nonostante le difficoltà: spero permanga anche adesso. Finora la tecnologia è stata vista come l’unica possibilità, ora diventa ordinaria e integrata, fondendosi alla libertà di insegnamento dei docenti. È una grande opportunità.

“Il M5S farà ricorso: vedremo se Lega e Pd fanno sul serio”

Uno “schiaffo” ai cittadini, soprattutto vista l’enorme crisi economica che è appena iniziata. Per Paola Taverna, vice-presidente del Senato e veterana dei 5Stelle, il taglio dei vitalizi è tema identitario e adesso pure simbolico, sintomo fuori tempo massimo “di una politica anti-storica” che l’altra notte “si è ripresa i privilegi”.

Paola Taverna, sui vitalizi in Senato è tutto da rifare.

L’aspetto che mi ha colpito di più è che l’annullamento del taglio arriva in un momento in cui siamo tutti impegnati a fare qualcosa per chi si trova in enorme difficoltà a causa del coronavirus. In un contesto del genere, si sono riuniti di notte e si sono riconosciuti un privilegio che eravamo riusciti a eliminare. È stato uno schiaffo all’Italia in difficoltà.

Eppure, a parole, tutti sembrano contrari al ripristino degli assegni.

Che sia una battaglia di tutti i cittadini non ho dubbi. Adesso vedremo se è anche una battaglia di tutta la politica oppure no: nelle dichiarazioni successive al voto i partiti si sono detti contrari all’annullamento del taglio. Hanno l’occasione di dimostrarlo quando si discuterà il nostro ricorso al Consiglio di garanzia.

I due senatori leghisti hanno votato per confermare il taglio. Una decisione coerente almeno da parte loro?

Credo abbiano fatto solo una battaglia di facciata. Ripeto: sarò felice di vedere Fratelli d’Italia, Lega e Pd “grillizzarsi” quando si voterà il ricorso. Ma se fossero stati davvero convinti del taglio al privilegio potevano fare qualcosa in più di alzare il dito e dire “io sarei contrario.” Potevano lanciare l’allarme prima, potevano persino arrivare alle dimissioni dei due senatori in Commissione per manifestare tutto il loro dissenso. È quello che fece lo scorso anno la nostra Elvira Evangelista. Ero consapevole che la vecchia politica avrebbe trovato un modo per contrastare il taglio, mi è dispiaciuto che sia stata coinvolta Alessandra Riccardi, una nostra ex parlamentare passata alla Lega.

Rischia di non essere un caso singolo: Salvini ha parlato di altri grillini pronti a aderire alla Lega. Preoccupata?

Da un po’ di tempo Salvini sta “acchiappando” diversi colleghi, guarda caso quasi sempre in posizioni strategiche. Lo abbiamo visto sul caso Open Arms in Giunta per elezioni e adesso nella Commissione sui vitalizi.

Decisivo è stato il voto del forzista Caliendo. Segno di una decisione politica?

Abbiamo più volte sollevato il potenziale conflitto di interessi, perché il presidente della Commissione Caliendo ha maturato lui stesso il vitalizio. Il problema è che quando si è rivolto al Consiglio di garanzia, a giudicarlo c’era il suo collega di partito Luigi Vitali, che non ha evidenziato alcun problema lasciandolo al suo posto. Peraltro lo stesso Caliendo aveva dichiarato che si sarebbe astenuto, attendiamo che ci spieghi perché ha cambiato idea.

La norma sul taglio si è dimostrata troppo fragile?

Ogni ricorso è stato vagliato come caso a sé. Non si può fare un calderone unico: tra gli ex parlamentari davvero in difficoltà e chi invece ha lavorato un giorno in Parlamento maturando assegni da migliaia di euro ci passa un mare enorme di dignità. E invece sono basita dalla sfrontatezza con cui hanno rivendicato tutti un privilegio ormai anti-storico, con una bassezza morale che non dovrebbe appartenere a chi ha rappresentato il popolo. Evidentemente rappresentava soltanto sé stesso.