“Ohi vita, ohi vitalizio mio”: la Casta canta con Casellati

Lei dice che non c’entra nulla. Anzi che è dispiaciuta che il ripristino dei vitalizi deciso a Palazzo Madama nel blitz notturno di giovedì sia arrivato proprio ora, in un momento così drammatico per gli italiani. La presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati è davvero toccata da tanta ingiustizia che si è consumata sotto il suo naso. Le fa eco Matteo Salvini, che si sgola e tuona contro la decisione: è pronto a fare cose pazze pur di non passare per chi protegge l’odioso privilegio. Ma gli fioccano addosso le critiche di chi lo rimprovera di fare il doppio gioco. Il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, è implacabile: “Li tolga nelle Regioni dove governa la Lega”. E pure la Casellati è investita da una gragnuola di critiche da cui cerca di difendersi. Peccato però che lei per prima abbia fatto ricorso per ottenere l’assegno.

Nel settembre del 2018, quando Casellati era già stata catapultata sullo scranno che spetta alla seconda carica dello Stato, l’organo di giustizia interna del Senato le ha riconosciuto il vitalizio. Che aveva chiesto insistentemente di percepire durante i tre anni in cui aveva lasciato la politica per andare al Csm. Questo nonostante il divieto di cumulo tra gli emolumenti previsto dal regolamento sulle pensioni vitalizie: una vittoria da circa 200mila euro per le sue onorevoli finanze. Ma i fatti curiosi, da un anno a questa parte, si sono moltiplicati.

A partire dalle scelte fatte dalla Casellati rispetto ai due organi di giustizia interna del Senato, la Commissione Contenziosa e il Consiglio di garanzia, chiamati a decidere sulla valanga di ricorsi presentati da Maurizio Paniz contro il taglio degli assegni. Ai loro vertici, nell’ottobre del 2018 erano approdati due forzisti: Giacomo Caliendo e Luigi Vitali. In particolare, nell’organismo di Caliendo, erano entrati anche un leghista (Simone Pillon), una pentastellata (Elvira Evangelista) e due componenti laici di nomina presidenziale. Chi? L’avvocato del Foro di Tivoli, Alessandro Mattoni, e soprattutto Cesare Martellino, con il ruolo di relatore dei ricorsi. Un ex magistrato in rapporti di antica amicizia con Nitto Palma, uno dei 700 ex senatori che avevano fatto causa a Palazzo Madama per i vitalizi limati pure essendo capo di gabinetto della Casellati. Un triangolo perfetto: la presidente aveva reclutato l’ex ministro della Giustizia di B. di cui era stata sottosegretaria insieme a Caliendo.

Risultato? Dopo i primi articoli di stampa dedicati a questa curiosa rimpatriata, Nitto Palma aveva deciso di rinunciare al suo ricorso. Ma le situazioni imbarazzanti non erano affatto finite. E non risultano prese di distanza del Carroccio.

L’ombra di un conflitto di interessi e l’ambiguità della situazione che si era creata all’interno della commissione Caliendo, invece, aveva convinto Elvira Evangelista del M5S a dimettersi. Per determinare l’azzeramento dell’organo dove invece Simone Pillon della Lega è rimasto eccome. Anzi, nel frattempo, la presenza della Lega è raddoppiata. Dopo che Alessandra Riccardi, entrata nel collegio in quota M5S, adesso ha traslocato tra i fedelissimi di Salvini. Che ora rivendica che i suoi hanno votato contro il ripristino dei vitalizi, ma che viene apertamente accusato dai 5 Stelle di fare il “treccartista”.

“Definirlo il bomber delle fake news è fargli una cortesia. Quella presieduta da Caliendo è una commissione di centrodestra: Salvini sapeva che 3 dei 5 componenti avrebbero votato a favore dell’annullamento della delibera che aveva abolito i vitalizi”, picchia Danilo Toninelli. Che adombra il sospetto di una combine che ha evitato alla Lega di sporcarsi le mani.

Un’accusa pesantissima come quelle che sono piovute addosso alla Commissione contenziosa nei mesi scorsi, senza che però Salvini aprisse bocca e per la verità neppure il Pd, che ora si sgola, fatta eccezione per Luigi Zanda, senatore e presidente del Domani di Carlo De Benedetti, che ha sempre contestato il taglio dei vitalizi.

Neppure quando a gennaio il Fatto era riuscito ad anticipare il testo della sentenza e pure il comunicato stampa che Caliendo&C. avevano già bella e pronta addirittura prima di riunirsi per decidere. Certi evidentemente di avere i numeri sufficienti per procedere con la decisione di far saltare il taglio dei vitalizi deciso meno di due anni prima per ragioni di equità sociale. Nessuna protesta neppure quando Caliendo ha dichiarato di volersi astenere, salvo poi essere rimesso in sella da Luigi Vitali, l’azzurro presidente del Consiglio di garanzia che lo ha ritenuto perfettamente compatibile con l’incarico.

I due laici finiti nelle peste invece sono stati sostituiti con due altri componenti nominati anche loro dalla Casellati. Che ha scelto Gianni Ballarani, docente di Diritto privato alla Pontificia università lateranense dove la presidente del Senato si è laureata in Diritto canonico. E Giuseppe Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto, già capo del Tribunale del Papa, che condivide con la presidente l’amore per il diritto canonico: in passato ha recensito il volume di Sua Presidenza dedicato all’indissolubilità del matrimonio. Dalla Torre è anche il fratello di Giacomo, gran maestro dei Cavalieri di Malta, morto da poco.

Ora che la frittata è fatta tutti si indignano. E pretendono che il Senato si costituisca in appello facendo ricorso contro la decisione. Che intanto però è un precedente pesantissimo in vista della analoga delibera attesa alla Camera, che dovrà decidere sui 1400 ricorsi degli ex deputati che adesso vedono la vittoria più vicina.

Bisogna essere in due

Concordo in parte sulla diagnosi di Gad e in pieno sulla cura. Purtroppo l’avanzata della Lega era in parte inevitabile e in parte voluta. Inevitabile perché Salvini occupa lo spazio un tempo presidiato da B. e, se cala, i voti vanno alla Meloni. Voluta per il calcolo cinico e miope dell’Innominabile che nel 2018 rifiutò il governo con Di Maio per gettarlo fra le braccia di Salvini, uccidere i 5Stelle e poi presentarsi come il salvatore della patria dai barbari populisti. Poi si sa com’è finito. Sotto il governo giallo-verde, più che l’egemonia culturale della Lega (che di culturale ha ben poco), ha pesato l’abilità manovriera e mediatica del partito più vecchio guidato dal leader più vecchio, opposta all’inesperienza dei 5Stelle. Il resto l’ha fatto il gioco sporco del Partito degli Affari che, rimasto senza padrini politici, ha usato i suoi media per esaltare e gonfiare Salvini, sia quando lo blandiva sia quando fingeva di attaccarlo, nella certezza che con lui ci si accorda per un piatto di lenticchie. Il dato interessante delle Europee 2019 è che i 5Stelle hanno dimezzato i voti in un anno, ma senza cederne se non pochissimi a destra e a sinistra: 4 milioni di italiani che li avevano votati alle Politiche si sono astenuti e messi in pausa, in sonno. In attesa di cosa? Non di una loro svolta a sinistra o a destra, ma di una nuova identità che s’impone dopo due governi così diversi, la metamorfosi al seguito di Conte e i successi ottenuti (Reddito di cittadinanza, dl Dignità, anti-corruzione, blocca-prescrizione, voto di scambio, taglio dei parlamentari…), ma che il M5S ha sempre rinviato, preso dagli impegni di governo e dalle beghe interne. Una delle lezioni che ha imparato governando è che non tutto è bianco o nero.

Sui migranti la scelta non è tra accogliere tutti o respingere tutti strillando ai negher (penso che le politiche di Minniti, peraltro rimaste a metà, fossero una buona mediazione); sullo Ius soli/culturae ci sono opzioni più rigide dell’automatismo fra scuola elementare in Italia e cittadinanza. Su altri fronti, invece, la mediazione è un pateracchio: i vitalizi, il taglio dei parlamentari, le concessioni ai Benetton sono questioni “prendere o lasciare”. Ma è vero che, anziché rinviare sine die, i 5Stelle dovrebbero avanzare proposte alternative a quelle (se esistono) del centrosinistra su Sicurezza e Ius soli/culturae, dopodiché spetterà al premier Conte trovare la sintesi. Ed è incomprensibile la loro afasia su temi fondativi come ambiente, beni comuni, controlli e analisi costi-benefici sulle grandi opere.
Ora le elezioni in sei Regioni sono alle porte e giustamente Zingaretti trova ridicolo che gli alleati a Roma siano nemici in Liguria, Veneto, Toscana, Marche, Puglia, Campania. Allearsi dappertutto è impossibile, ma provarci dove si può è doveroso. In Campania l’unica cosa ridicola sarebbe se i 5Stelle appoggiassero De Luca. In Toscana il renziano Giani, subìto dal Pd, è indigeribile per gli elettori 5S. In Veneto nulla può insidiare Zaia, anche se il civico Lorenzoni potrebbe aprire un dialogo. In Liguria s’è reso disponibile Ferruccio Sansa, nostro bravo inviato: nessun sospetto di conflitto d’interessi (che semmai è tenercelo stretto) può impedirci di definirlo persona cristallina, competente, ambientalista e progressista; e nessuno può appiccicargli etichette di partito, avendo sempre criticato M5S, Pd e Iv quando pensava lo meritassero. Figure come la sua possono dare un’identità alla coalizione giallorosa a livello locale.
Nelle Marche e in Puglia il Pd ha due buoni candidati (Mangialardi ed Emiliano) e i 5Stelle, non avendo chance di vittoria, dovrebbero porsi il problema di aiutarli alle proprie condizioni: imponendo pochi punti programmatici di discontinuità. Così rafforzerebbero il governo Conte e renderebbero vieppiù irrilevante Iv, che sabota Emiliano non per i suoi difetti, ma per i suoi pregi (troppo legalitario e green, dunque “grillino”). Per farlo, dovrebbero cambiare lo statuto. E il Pd fornire loro un buon motivo per farlo, con generosità e pragmatismo: chiudendo la lunga guerra a due sindache perbene come Raggi e Appendino. Se correre divisi alle Regionali è ridicolo, non lo è pure farlo alle Comunali 2021? A Torino e Roma non s’intravedono eredi di Cavour e De Gasperi in corsa col centrosinistra. Un segnale che abbatta il tabù Raggi-Appendino potrebbe servire già per le Regionali. Ma il tempo è pochissimo.

“Coppe di veleno e coltellate: vi racconto lo Strega ieri e oggi”

Interrogato su fatti e misfatti del Ninfeo, l’intervistato spiegò con l’abituale franchezza: “La bellezza del Premio Strega è che è fondato sul tradimento”. E alla domanda “Mandava i suoi collaboratori a convincere le vecchie signore a votare per voi?”, rispose: “Delle vecchie signore mi occupavo personalmente, erano la mia specialità”. Gian Arturo Ferrari, gran signore dell’editoria italiana (una lunga carriera a Segrate con un paio di parentesi in Bollati Boringhieri e in Rizzoli) ha appena concluso il Grand tour dello Strega: è uno dei sei finalisti dell’edizione 2020 con Ragazzo italiano (Feltrinelli).

In quell’intervista del 2014 disse: “Nella sua storia, lo Strega ha sbagliato poco e solo per omissione: alcuni dei più importanti scrittori – Calvino, Gadda, Pasolini – non hanno ricevuto il premio. A parte questo, secondo me ci ha quasi sempre azzeccato”. Continuerà a essere vero anche se non vincerà lei?

Ma certo! Partecipo con estremo piacere e parecchia determinazione. So di essere, come certe primipare, un esordiente attempato.

Il premio è sempre il palio di Siena dell’editoria, fondato sul tradimento?

Era, e in parte è ancora, un premio assegnato tra pari. Visto che ci conosciamo tutti tra di noi, è naturale che ognuno riceva pressioni da tutti i concorrenti. C’è chi è sincero e dice chi vota davvero e chi promette preferenze che non si sogna nemmeno di dare.

Sempre lei: “Ho introdotto la fondamentale distinzione tra voti sicuri e voti non sicuri. Su alcuni ci si poteva giurare, su altri c’erano vaghe possibilità. Tutta la politica andava fatta sui primi, per consolidarli oltre ogni dubbio”. È ancora così?

Sì, guai a illudersi che tutti quelli che ti promettono il voto poi lo danno realmente. Ma anche quella sui “voti sicuri” è una valutazione e come tale suscettibile di errori. A questa distinzione sottende un principio di cautela, cui nei paraggi di Villa Giulia è bene attenersi.

Negli ultimi anni sono stati introdotti correttivi per limitare lo strapotere dei grandi: funzionano o sono una foglia di fico?

Il cambiamento fondamentale è stato nel sistema di elezione: dalla scheda fisica si è passati al voto elettronico, che quest’anno per via del Covid sarà obbligatorio. Un cambiamento decisivo perché impedisce il possesso materiale della scheda. Oggi, poi, si possono dare tre preferenze nella prima votazione e nella fase finale una sola. Questo complica i calcoli: nella prima fase ognuno dà un voto “principale” e due “accessori”. Arduo capire come sono distribuiti… E poi ci sono i voti “anonimi” dall’estero e dei lettori scelti da alcuni librai.

Quindi i rimedi funzionano?

Il potere dei grandi gruppi dipendeva da diversi fattori. Per esempio Maria Bellonci era un’autrice di Mondadori, come molti tra gli Amici della domenica… Oggi la più potente è Einaudi.

Che ha due autori in finale: bizzarro, no?

È già successo. Ora la scelta di partecipare è più degli autori che degli editori: non c’è più il candidato di bandiera. Gli scrittori hanno acquistato più autonomia. Oggi più che le case editrici hanno influenza i quotidiani. Repubblica appoggia Gianrico Carofiglio, il Corriere Sandro Veronesi.

Nell’89 si è battuto come un leone contro Le Nozze di Cadmo e Armonia, che era sostenuto da Anna Maria Rimoaldi, direttrice della Fondazione Bellonci.

Anna Maria appoggiava Roberto Calasso, che aveva un ampio favore. Noi avevamo Pontiggia con La grande sera e ce l’abbiamo fatta. Ma è stato un caso: raramente ha vinto un titolo non sostenuto da Anna Maria. Allora al Ninfeo c’era davvero il palio di Siena, erano notti di coppe di veleno, accoltellamenti dietro le spalle… Oggi, anche grazie a questi tour che si fanno insieme, sulla guerra per bande prevale lo spirito di corpo degli scrittori. E il tentativo, attraverso il Premio, di allargare la platea dei lettori.

È strano fare campagna elettorale per Feltrinelli e non per Mondadori?

No. La prima volta che ho messo piede al Ninfeo era il 1984: adesso ho deciso di partecipare per vedere l’effetto che fa da questa parte.

Oltre ai suoi personali conta anche sui voti di Feltrinelli?

I voti di scuderia non esistono quasi più, è cambiato il paradigma. Ci sono voti degli autori. Ho passato la vita nell’editoria, su qualche amico posso contare.

Da chi non si aspetta un tradimento?

Da Renata Colorni, è la mia più cara amica.

Se lei non ci fosse, chi voterebbe?

Gianrico Carofiglio.

E chi vincerà?

Credo Veronesi.

I mille contro Netanyahu. No al piano d’annessione

Il 1° luglio si avvicina e la speranza di una soluzione del conflitto israelo-palestinese si allontana fino a scomparire. Forse definitivamente. A meno di una reazione inedita e muscolare della finora passiva comunità internazionale (Europa in primis, dato che Trump è complice di Netanyahu) durante questo scampolo di tempo, mercoledì prossimo verrà ricordato nei libri di storia per l’annessione della Valle del Giordano e degli insediamenti israeliani in Cisgiordania.

Ma c’è chi non si dà per vinto e combatte contro questa mossa che viola tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite in merito e le Convenzioni internazionali ratificate anche da Israele. Si tratta dell’onorevole Avraham Burg, già presidente della Knesset, nonché presidente ad interim di Israele nel 2000. Burg ha deciso di utilizzare la propria autorevolezza per fermare questa decisione unilaterale che potrebbe far esplodere del tutto la polveriera medio orientale. Lo ha fatto scrivendo una lettera assieme a Michael Ben-Yair, ex procuratore generale di Israele, firmata da 1.080 parlamentari europei di 25 paesi e di diversi orientamenti politici. Nella lettera, pubblicata due giorni fa, i legislatori esprimono “serie preoccupazioni” sul piano americano di porre fine al conflitto israelo-palestinese che consentirebbe a Israele di annettere il 30% del territorio della Cisgiordania.

Nella lettera si avverte circa le “conseguenze commisurate” che una tale mossa potrebbe innescare, “per l’impatto dell’annessione sulla vita di israeliani e palestinesi, nonché per il suo potenziale destabilizzante in una regione alle porte del nostro continente”. I parlamentari inoltre sottolineano che “l’Europa deve assumere un ruolo guida nel riunire attori internazionali per prevenire l’annessione e salvaguardare le prospettive della soluzione a due stati e una giusta soluzione al conflitto”. Il piano ‘Vision for Peace’ presentato da Donald Trump e condiviso dall’Arabia Saudita “si discosta da parametri e principi concordati a livello internazionale”, scrivono i parlamentari, “promuove il controllo israeliano permanente a tutti gli effetti sul già frammentato territorio palestinese, lasciandoli senza sovranità e dando il via libera a Israele per annettere unilateralmente parti significative della Cisgiordania”. Secondo il piano, un futuro stato palestinese sarebbe più piccolo di quanto immaginato con diverse parti totalmente disgiunte l’una dall’altra. Inoltre riduce la definizione di ciò che costituisce un “rifugiato palestinese” – portando così a una limitazione grave dell’accesso agli aiuti internazionali – e impedisce a un futuro stato palestinese di avere forze di sicurezza. L’appello è arrivato il giorno dopo la lettera inviata da 100 legislatori europei e israeliani all’Alto Rappresentate europeo, Josep Borrell, per esortarlo a “rinnovare il lavoro del Consiglio di associazione Ue-Israele e riprendere le sue attività il prima possibile”. Al Fatto, Burg si è detto fiducioso che l’Europa avrà il coraggio di intercedere affinché il piano venga almeno depotenziato, “anche se non ci sono ancora segnali concreti ed evidenti che ciò avverrà”.

Gli Stati chiave con Biden. A Trump restano i bianchi

Questa volta, i distacchi sono ben superiori ai margini d’errore dei sondaggi: la fuga di Joe Biden sta assumendo proporzioni allarmanti per Donald Trump. Nel rilevamento del Siena College per conto del New York Times, il candidato democratico ha 14 punti di vantaggio – 50 a 36% – sul magnate presidente, che se la prende al solito con i “media corrotti” e i “falsi sondaggi”. Quel che più conta è che Biden è in testa anche in sei Stati in bilico: è avanti in media di 9 punti, ovunque almeno di 6. Si tratta di Wisconsin (+11%), Michigan (+11%), Pennsylvania (+10%), North Carolina (+9%), Florida (+6%), Arizona (+7%): nel 2016, Trump li vinse tutti.

Le partite cruciali del 2020 sono quelle dei Grandi Laghi e della Pennsylvania: se Biden fa bottino pieno lì, rovescia il risultato del 2016, quando meno di 100mila voti complessivamente nei tre Stati contesi decisero l’assegnazione della Casa Bianca, nonostante Hillary Clinton avesse 3 milioni 300mila voti popolari in più del suo rivale. L’ex vice di Barack Obama, osserva l’analista politica del Nyt Lisa Lerer, è davanti in tutti i gruppi demografici, specialmente nell’elettorato femminile (+ 22%), fra i giovani (+ 34%) e nelle comunità afroamericana (+ 74%) e ispanica (+ 39%). A Trump restano solo, e di una corta incollatura, i maschi bianchi di mezza età. Colpisce, osserva la Lerer, che Biden ottenga il suo risultato continuando a tenere un basso profilo, mentre Trump occupa la scena. Ma l’azione di contrasto inefficace alla pandemia e alla conseguente crisi economica e la gestione delle proteste anti-razziste hanno alienato al magnate presidente molte simpatie. Fronte coronavirus, gli Stati Uniti hanno i record mondiali dei decessi – oltre 122mila – e dei contagi – quasi 2 milioni 400mila – e l’epidemia sta riprendendo vigore in oltre la metà del territorio dell’Unione. Anche governatori “trumpiani” come il texano John Abbott invitano di nuovo la gente a stare a casa.

Fronte razzismo, la polizia di Tucson in Arizona ha diffuso un ennesimo “video choc”, vecchio di oltre due mesi: la vittima, questa volta, è un ispanico, Carlos Ingram Lopez, 27 anni. Nel video, ripreso da una body camera, si vedono gli agenti inseguire l’uomo dentro una casa, ammanettarlo e tenerlo con la faccia a terra per 12 minuti mentre chiede dell’acqua e prima di morire rantola “non posso respirare”, come George Floyd il 25 maggio a Minneapolis. I tre agenti coinvolti nel letale arresto si sono dimessi, il loro capo è pronto ad andarsene. La sindaca di Tucson Regina Romero, prima latina a guidare una città largamente ispanica, si è detta “profondamente turbata e indignata”. L‘episodio conferma, se ve ne fosse bisogno, che non solo i neri ma anche gli ispanici sono vittime dei comportamenti brutali della polizia bianca. Proprio ieri l’ex presidente Obama aveva lanciato un appello alla comunità ispanica – 32 milioni di potenziali elettori – perché si registri e vada a votare in quella che ha definito “l’elezione più importante della nostra vita”.

Dalle primarie di martedì erano venuti altri segnali che Trump non è in sintonia né col Paese né con l’elettorato repubblicano: per la prima volta in questa campagna, suoi candidati alla Camera o al Senato sono stati battuti da rivali più vicini ai conservatori moderati. In campo democratico, invece, il largo successo scontato a New York di Alexandria Ocasio-Cortez e di altri esponenti dell’ala radicale confermano l’influenza della sinistra “sanderista”. Nel 2016, i successi di Trump in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania sorpresero la sua rivale e la maggioranza degli osservatori. La parabola del Michigan e della Pennsylvania è paradigmatica: la globalizzazione, la dislocazione delle fabbriche, la crisi del manifatturiero vi fecero perdere posti di lavoro e trasformarono gli operai dell’auto e dell’acciaio, sindacalizzati e garantiti, in sottoccupati e precari, inclini ai richiami di Trump, populisti e nostalgici. A quattro mesi dal voto del 3 novembre, Biden ha un vantaggio su Trump che Hillary non aveva mai avuto nel 2016, né a livello nazionale né negli Stati in bilico.

Sindaco liberale sfida Duda: in ballo c’è la Ue

Le Presidenziali polacche di domenica sono l’ennesima puntata del confronto tra due modi opposti di intendere il Paese e il suo ruolo in Europa. Andrzej Duda, il presidente uscente, organico all’attuale governo populista, è l’interprete di una Polonia conservatrice e nazionalista, fautrice con l’Ungheria di Viktor Orbán di una “rivoluzione culturale” tesa a prosciugare la linfa liberale dell’Unione europea. Per i populisti, l’Ue deve essere minima: mercato unico, fondi strutturali, poco altro. È una Polonia, quella di Duda e di Jaroslaw Kaczyski, che dei populisti è la guida storica, che guarda anche all’America di Trump. Sia per una questione di valori, sia perché preferisce affidare la sua difesa a Washington, più che alla Nato. Mercoledì, Duda era a nello Studio Ovale per ricevere l’appoggio simbolico di Trump e convincerlo a spostare in Polonia 2.000 dei 9.500 militari che la Casa Bianca intende disimpegnare dalla Germania. Ma non ha strappato promesse concrete.

Dall’altra parte della barricata, la Polonia dei liberali, che schierano il sindaco di Varsavia, Rafał Trzaskowski. Al primo turno prevarrà Duda: incrociando i sondaggi è di poco sopra il 40%, in calo rispetto a qualche settimana fa. Trzaskowski tende al 30%, ma al ballottaggio, che è dato per sicuro e si terrà il 12 luglio, se la può giocare fino in fondo. Quella liberale è una comunità politica che vede integrata pienamente nella Nato e in un’Europa ambiziosa e forte, anche se non federale. I liberali assegnano priorità al rapporto con la Germania, e non solo perché gli investimenti tedeschi sono cruciali per la crescita polacca. Nella relazione con Berlino conta molto anche il processo di riconciliazione, dopo il terribile 900. I populisti, al contrario, sollecitano periodicamente i sentimenti anti-tedeschi che si annidano nella pancia profonda del Paese. Rafal Trzaskowski, classe 1972, è un classico liberale europeista. Poliglotta, è stato eurodeputato, parlamentare nazionale, vice ministro degli Esteri con delega agli affari europei e ministro per la digitalizzazione. Nel 2018 ha stravinto le amministrative. Ha formato un “Patto delle città libere” con i sindaci di Bratislava, Praga e Budapest, le altre Capitali dell’area Visegrád, tutte amministrate da giunte liberali o progressiste, al contrario dei governi, dove dominano le pulsioni populiste. Europa, equità sociale e ambiente formano l’impasto di questa “opposizione dei sindaci”. Se eletto, Trzaskowski promette di contrastare ogni nuova mossa del governo guidato da Mateusz Morawiecki, sul fronte giustizia. Le riforme adottate in questi anni hanno portato a una vera e propria “cattura della magistratura”, sanzionata dalla Commissione Ue con varie procedure di infrazione, tutte fatte cadere nel vuoto. Il capo dello Stato, in Polonia, ha un veto forte, ribaltabile solo con i due terzi dei voti della Dieta, la camera bassa. Diritto e Giustizia, il partito di Morawiecki e Kaczyński, non dispone di questa larga maggioranza. Ecco perché vuole la riconferma di Duda, presidente organico, su ogni fronte.

Per Trzaskowski salvare lo Stato di diritto, anche a costo di porre il veto, è essenziale: per la Polonia e per l’Europa. In campagna elettorale ha insistito sulla democrazia. “È talentoso, ed è un intellettuale europeo, ma non so quanto ciò possa favorirlo”, ha detto però Adam Michnik, direttore di Gazeta Wyborcza, il principale quotidiano polacco. Il voto – inizialmente previsto per il 10 maggio, ma rimandato per la pandemia – si basa molto sulle percezioni, sui sentimenti. Duda, in questo senso, sa essere cinico. Nei giorni scorsi ha attaccato la comunità Lgbt+, la cui ideologia – ha detto – è peggiore di quella comunista. Parole violente, finalizzate a mobilitare il voto cattolico conservatore nelle aree rurali, il bacino del populismo. Quello dei liberali sono i grandi centri urbani.

Trzaskowski ha criticato molto il giudizio di Duda sulle minoranze sessuali, ma non ha ipotizzato riforme sui diritti civili per non alienare i cattolici moderati. Non pochi di loro voteranno per il candidato popolare Władysław Kosiniak-Kamysz (è dato intorno al 5%) e quello indipendente Szimon Hołownia (può superare il 10%). Sono preferenze che Trzaskowski deve portare dalla sua parte, al ballottaggio. Per Michał Szułdrzyski, vicedirettore di Rzczepospolita, un giornale conservatore, ma critico, il sindaco di Varsavia ce la potrà fare solo se al primo turno supererà il 30%. “Se restasse sotto – ha scritto in un recente editoriale – dovrà cercare una mobilitazione vasta, quasi impossibile da ottenere in due settimane”. Per ora, Duda resta il favorito.

Il car sharing e il noleggio hanno perso oltre 3 miliardi

L’emergenza sanitaria legata al Covid-19 ha colpito duramente anche noleggio e car sharing. Comparti che valgono circa un quarto del mercato auto complessivo, e che sono usciti di molto ridimensionati dal lockdown: nel trimestre marzo-aprile-maggio hanno perso 155 mila nuove immatricolazioni (tra vetture e veicoli commerciali) e poco più di tre miliardi di fatturato. Una vera e propria débâcle, se si pensa che quello dell’intero 2019 è stato di oltre sette miliardi. Ma anche l’Erario ne è uscito con le ossa rotte, visto che, tra Iva e balzelli vari, il mancato incasso è stato di circa un miliardo di euro.

I numeri diffusi nel rapporto Aniasa sulla mobilità cosiddetta pay per use e quella condivisa, sono dunque impietosi. Nel dettaglio, è stato il breve termine ad aver avuto la peggio, con un -98% nelle immatricolazioni dettato anche dal totale azzeramento della componente turismo, rispetto al lungo che ha perso “solo” il 73%. Mentre l’effetto sull’auto in sharing è stato altrettanto pesante, causa chiusura degli uffici e relativo smart working, ma anche timore di salire a bordo di mezzi che potenzialmente potevano essere ambienti di contagio: -73%.

Insomma, proprio mentre stava per spiccare il volo anche al di fuori del suo alveo naturale (quello aziendale), il noleggio si è visto tarpare le ali al pari, se non peggio, di quanto successo alla mobilità tradizionale. Eppure tutti i sondaggi ci dicono che gli italiani sono pronti a rimettersi in macchina, con ogni formula. Basta creare le condizioni perché ciò avvenga.

Mazda MX-30: utile e con personalità

Avere una banale utilità, oppure soprattutto personalità. Eccoli i veri poli opposti dell’auto a batterie. C’è tutto un fascino tecnologico da costruire attorno alla razionalità delle emissioni zero, ed è questo il primo lavoro di una elettrica che sia davvero di seconda generazione, anche se poi l’anagrafe della Mazda MX-30 è quella di un debutto assoluto. In tutto, tranne che nella sigla, che ricorda tutti i veicoli del marchio di Hiroshima nati in quattro decenni per sperimentare e coinvolgere. Due lettere diventate finora una auto vera solo con MX-5 nel 1989, la spider dei record, e atterrate adesso su un crossover che in 439 cm di lunghezza raccoglie storia e design, utilità e personalità.

Mazda ha voluto una carrozzeria filante con le piccole portiere posteriori ad apertura controvento, citazione della sportivissima RX-8 che però si apre su un abitacolo pensato attorno all’idea Premium Green, con tessuti bio compatibili, pannelli realizzati da plastica riciclata e materiali nobili come il sughero. Proprio ciò che produceva nel 1920 Toyo Cork Kogyo Co., primo nome di Mazda. Una suggestione, senza dimenticare la professione vera di un’auto come il costruttore nipponico la intende: trasmettere emozioni.

La posizione delle batterie da 35,5 kWh aiuta a bilanciare pesi, ad inserirsi in curva in modo netto, a guadagnare una agilità che non è nell’associazione mentale dell’auto elettrica, ma semplicemente di quella divertente. MX-30 ha un motore da 145 Cv, una velocità massima limitata a 140 orari e una grande linearità nella marcia cittadina, dove gli accumulatori consentono 260 km di autonomia nel ciclo Wltp, 200 km nei tragitti misti, dove verrebbe da chiedere una maggiore autonomia delle batterie se non fosse questa una strategia ben precisa. Mazda MX-30 oggi ha un pezzo di listino che parte da 34.900 euro, da cui possono essere detratti fino a 6.000 euro di Ecobonus in caso di rottamazione. Domani, l’elettrica diventerà ibrida, con il ritorno del leggendario motore rotativo Wankel a benzina, destinato a tornare non più come protagonista della trazione alle ruote, ma nel nuovo ruolo di Range Extender, cioè di generatore di energia elettrica per estendere l’autonomia. Una soluzione tecnologica vincente e disarmante. Di personalità.

Audi A3 Sportback, il nuovo look “curvy” contro i luoghi comuni

Vale un quinto delle vendite Audi in Italia ed è stata comprata nel mondo, dal 1996 a oggi, da oltre 5 milioni di automobilisti. La quarta generazione di una vettura importante come la A3 Sportback, modello che ha “inventato” il premium nel segmento C, debutta mentre la gente è alle prese con l’uscita dall’incubo-Covid. Bella sfida, che la compatta tedesca ha le spalle sufficientemente grosse (è anche più larga di 3 cm rispetto alla precedente), per accettare.

Look assai rinnovato, quasi curvy , con un benservito al totem della secchezza delle linee: la nuova A3, che in Italia verrà venduta al 95% con le cinque porte, è la più sportiva di sempre. Ben piantata per terra, con la mascherona esagonale a nido d’ape, le rastremature sul cofano davanti e il posteriore caratterizzato dall’andamento orizzontale dei fari e dallo spoiler, è di lato che la bavarese mostra i muscoli: merito della vistosa svasatura delle fiancate e della esasperata inclinazione dei montanti.

Digitale e connessa (a bordo salirà pure Amazon Alexa), con infinite opzioni di infotainment e di dotazioni di ausilio alla guida, pur senza allungarsi (è sempre 4,34 metri) ha più spazio a bordo e una plancia ridisegnata che ti fa sembrare ai comandi di un’astronave. Sfizioso il piccolo selettore del cambio automatico: pare perfino troppo piccolo, ma ci si abitua e affeziona dopo due km.

Si parte con 5 motori. E anche se, entro fine anno, ne arriveranno ben 12 (compresi metano, ibrido mild e con la spina), saranno i diesel quelli preferiti dal pubblico. “In questa lunga fase di transizione verso la mobilità elettrica, resto un appassionato cantore dei diesel di nuova generazione”, ha confessato il numero uno di Audi Italia, Fabrizio Longo.

Ma con tutte le campagne contro il diesel possibile che la gente non abbia paura a spendere tutti questi soldi? Per dissipare le incertezze dei clienti, Audi ha spinto molto la cosiddetta Formula Audi Value, che fa pagare l’auto a rate (di 199 euro mensili) e stabilisce subito quanto verrà valutata dopo due o tre anni (più o meno il 60 per cento), se non la si riscatterà. Nel 2019, per dire, due terzi dei clienti privati ha scelto questa formula. E ora c’è anche l’opzione Audi Noleggio, con rate da 299 euro. Insomma, il messaggio è che anche chi non ha il grano può permettersi la signorinella premium del segmento C. Persino diesel. L’allestimento meno caro della A3 è il tre cilindri turbobenzina da 110 Cv, (di listino 27.950 euro). Sotto i 30 mila sta anche il più tranquillo dei turbo a gasolio, il 2 mila da 116 cavalli, ma sarà preferito quello da 150 Cv abbinato all’automatico S tronic, (doppia frizione e palette al volante) che parte da 35.200 euro.

Fca, un recupero dell’occupazione, ma solo nel 2022

Dopo essersi assicurato il finanziamento da 6,3 miliardi garantito dallo Stato Fca ha informato ieri il Parlamento con una audizione del suo responsabile per l’Europa e il Medio oriente, Pietro Gorlier, alla commissione Industria del Senato. E oltre alle rassicurazioni generali il dirigente della casa automobilista ha dovuto fare un’ammissione che non rassicura per niente: “Abbiamo un piano di riassorbimento completo di tutta la manodopera che abbiamo in Italia per il 2022-23” ha infatti spiegato ai senatori Gorlier. Un’eternità per un gruppo che è ancora in larga parte in cassa integrazione e con pochissime produzioni riattivate. Del resto, dalle sue parole si capisce che il finanziamento servirà a tappare i buchi provocati dal Covid e che per rimettersi in sesto e quindi riassorbire quanti oggi sono in Cassa integrazione, servirà molto tempo. I 6,3 miliardi di finanziamento Sace “sono legati alle nostre necessità di liquidità nel breve periodo, quindi coprono le spese che stiamo sostenendo in Italia e hanno lo scopo di sostenere noi e la nostra filiera”. La situazione è allarmante: “Sul mercato italiano ci sono 450 mila veicoli in stock, che non vengono assorbiti alla velocità di prima”. E quindi Fca chiede incentivi all’ibrido leggero per rimettere in moto la filiera “e alleggerire la posizione finanziaria, oggi molto critica, di 12 mila concessionari”. Nessun trasferimento di produzione all’estero ma, come detto, riassorbimento dell’occupazione in un tempo lungo.

Sulla vicenda incombe l’emendamento al decreto Rilancio presentato alla Camera dal Pd Gianluca Benamati che propone 4 mila euro di incentivo per le auto Euro 6 con emissioni di CO2 superiori a 61 grammi al chilometro. Non esattamente ecologiche. Un emendamento che preoccupa, ad esempio, la Fiom che con Michele De Palma chiede un tavolo di confronto serio ma anche una scelta più ecologica sugli incentivi in grado di affrontare il problema degli stock di auto in giacenza e prendendo a esempio proprio quanto fatto dalla Francia. Il presidente della commissione Industria del Senato, Pietro Girotto, del M5S, se da un lato dice che “finalmente abbiamo un impegno pubblico per quanto riguarda l’occupazione” dall’altro garantisce di “vigilare affinché questi impegni siano confermati”.

La situazione, come si vede, è piuttosto complessa e può avere un’influenza sul processo di fusione con Psa-Peugeot. Carlo Tavares, Ad di Psa-Peugeot, intervenuto ieri a margine dell’assemblea degli azionisti francesi, ha invitato a “non destabilizzare” la fusione che, a suo dire procederà secondo le linee guida indicate. La dichiarazione da un lato vuole assicurare che le richieste della Ue, relative al possibile ruolo dominante nel campo dei furgoni leggeri, sembra soprattutto rispondere a quanto sollevato il giorno prima dal fondo di investimento francese Phitrust (azionista di Psa con obiettivi “sociali e ambientali”): “Dopo l’annuncio della fusione Psa-Fca, ha scritto il Fondo, il gruppo Psa ha mostrato la sua resistenza alla crisi grazie a una liquidità favorevole e alla buona gestione dei suoi costi: non è il caso del gruppo Fca il cui equilibrio finanziario è apparso più fragile”. La situazione dei due gruppi, quindi, non giustificherebbe una fusione “50/50” come deciso a dicembre e quindi non si giustificherebbe il ricco dividendo da 5,5 miliardi per gli azionisti di Fca, leggi gli Agnelli. Il prestito italiano, che al momento non offre grandi certezze sul fronte dell’occupazione, potrebbe paradossalmente mettere nei guai anche la fusione.