Wirecard, lo schianto tedesco con il suo gioiello tecnologico

“Tutte le strade portano al successo”, era scritto fino a ieri sul sito di Wirecard, la società di servizi finanziari e pagamenti elettronici finita al centro del più grande scandalo finanziario tedesco dalla Riunificazione. Ma tanto ottimismo non gli ha portato bene. Le strade ieri hanno portato il gioiello della finanza tecnologica a presentare richiesta di insolvenza al Tribunale di Monaco e l’ex ceo dell’azienda, Markus Braun, in una cella della procura con l’accusa di falso in bilancio e manipolazione di mercato. Dalle stelle del Dax alle stalle della bancarotta. Una prima assoluta nella storia tedesca. Braun è uscito dalla custodia cautelare grazie al pagamento di una cauzione da 5 milioni di euro, ma sulla sua testa pende un’accusa molto grave: truffa. Dal bilancio della società mancano all’appello 1,9 miliardi di euro (il 255 del totale) depositati in due banche delle Filippine. Sono scritti in bilancio, ma non ci sono estratti conto che ne confermino l’esistenza. Le somme sui conti fiduciari a favore di Wirecard per un totale di 1,9 miliardi di euro molto probabilmente non esistono”, ha detto la portavoce delle autorità inquirenti.

L’ipotesi è che Braun volesse “far apparire l’azienda finanziariamente più forte e più attraente per gli investitori e i clienti”, dicono dalla Procura. La scelta della società di presentare ieri “un procedimento di insolvenza per il rischio di incapacità di pagamento e sovraindebitamento” fa mormorare. Che l’ammanco sia maggiore? Due terzi delle vendite, dicono fonti vicine ai creditori, potrebbero essere state falsificate. I 15 istituti bancari che hanno prestato a Wirecard 1,85 miliardi fanno sapere di “non aver staccato la spina”. Quanto duri, non si sa. Intanto il titolo ha perso l’80% del valore in pochi giorni. Per avere un’idea del tonfo basti pensare che all’ingresso in Borsa nel settembre 2018 l’azienda valeva 24,6 miliardi e ora ne vale circa 3, mentre le azioni vendute a 190 euro, ieri erano scambiate a 9,96. Con buona pace dei piccoli azionisti.

Tutto comincia a inizio 2019 quando l’azienda, fondata nel 1999 nella periferia di Monaco dall’allora 30enne austriaco Braun, subisce una perquisizione nella sede di Singapore. In quell’occasione il Financial Times scrive che i conti sul mercato asiatico potrebbero essere stati “abbelliti”. Il risultato è che le azioni sprofondano da 160 a 99 euro. Braun grida al complotto. L’autorità di vigilanza bancaria tedesca, il Bafin, per tutta risposta vieta di scommettere contro le azioni di Wirecard per due mesi e, invece di aprire le indagini, querela i giornalisti. Nell’ottobre 2019 FT torna a scrivere dell’azienda e la scena si ripete. Questa volta la stampa finanziaria tedesca si allarma, aspetta che il Bafin intervenga, ma lo dice sottovoce per non turbare la sensibilità di chi vuole continuare ad andar fiero di quel gioiello tecnologico made in Germany in competizione con i colossi del web. Per allontanare le critiche Wirecard incarica come revisori la società Kpmg. In aprile il responso: “L’azienda non ha fornito tutti i documenti richiesti” e “non è stato possibile verificare in modo sufficientemente approfondito l’esistenza dei volumi delle transazioni nel periodo dal 2016 al 2018”. In parallelo Ernst & Young, che lavorano alla certificazione del bilancio 2019, giovedì non lo certificano. Le due banche filippine dicono di non avere tra i loro clienti Wirecard e che i documenti sono stati falsificati.

Il ministro tedesco dell’Economia, Peter Altmaier, si dice scioccato: “Ci saremmo aspettati una situazione del genere ovunque, ma non in Germania”. Il danno di immagine per il Paese è serio. Più mirata è la reazione del ministro delle Finanze, Olaf Scholz, che punta il dito contro la Vigilanza: “Dobbiamo chiarire rapidamente come modificare i nostri requisiti normativi per monitorare in modo completo, tempestivo e veloce anche le reti aziendali complesse”, “revisori e autorità di vigilanza non sono stati efficaci”. Felix Hufeld, presidente del Bafin, ammette “il completo disastro”. Ci vorrà più di un mea culpa nell’audizione in commissione Finanze il primo luglio.

La stampa tedesca ora si chiede come l’illusione Wirecard sia potuta durare tanto. “Per troppo è stata vista come una piantina fragile cresciuta in casa che doveva essere protetta”, ha detto il deputato tedesco Fabio De Masi. Era il sogno che la Germania voleva sognare: guardare i giganti Usa del web “all’altezza degli occhi”.

Dalla bufala di “Abc” al silenzio di al-Sisi, la fantasia al potere

Inventata da Alfred Jarry nel lontano 1921, la Patafisica, o Scienza delle soluzioni immaginarie, sta trovando in Italia un’impetuosa rinascita. Ne è prova il metodo col quale il giornalismo e la politica hanno trattano due vicende di cui si discute molto in questi giorni.

La prima origina dalla pubblicazione sul quotidiano spagnolo Abc di un documento attribuito ai Servizi segreti venezuelani da cui risulterebbe un cospicuo pagamento ai Cinque Stelle. Si tratta di una falso piuttosto grossolano, come è facile constatare da un’indagine anche sommaria, e infatti in Italia viene subito smascherato. A quel punto direttori d’altri tempi avrebbero chiesto al corrispondente in Spagna di indagare sul motivo per il quale un giornale sonnacchioso come Abc, noto soprattutto per le sue appassionate recensioni delle corride, prenda sul serio una patacca di quelle proporzioni. Invece, la patafisica. Che i grandi giornali applicano in articoli e commenti congegnati all’incirca così: incipit adrenalinico come uno squillo di tromba sui 5Stelle finalmente smascherati; segue parziale frenata, il documento pare artefatto, forse, dicono, vai a saperlo; infine il rilancio, se però fosse vero… seguono ipotesi immaginarie e apocalittiche, i 5Stelle travolti dalla vergogna, Grillo grigliato, Conte finalmente minimizzato… In guisa di confessioni accompagnano i testi le dichiarazioni pregresse di pentastellati di scuola cubana, tipo: “Maduro è un patriota come i talebani, Juan Guaidó vorrebbe governare solo perché ha dalla sua la legge”.

Molto cubano è anche quell’affollarsi di titoloni e opinionisti per far la festa a Grillo: ricorda gli actos de repudio a L’Avana. Funziona così: se vi sta sulle scatole un dissidente, o semplicemente volete soffiargli l’appartamento, riunite una dozzina di amici davanti alla porta di casa e schiamazzate giorno e notte contro il gusano, il verme, finché quello non trasloca. Così la revolución è salva e voi potete trasferirvi in un bicamere decente.

Nella seconda vicenda il gusano è il premier Conte, anch’egli non privo di una vena patafisica. Da cinque anni i governi italiani chiedono, anzi “esigono”, che al Sisi ci faccia sapere cosa è successo a Giulio Regeni. In altre parole si vorrebbe che il dittatore egiziano metta a verbale quanto segue: ora che ci penso, Regeni l’hanno ammazzato i miei, faceva troppe domande e pensavamo fosse una spia; l’abbiamo torturato per giorni e alla fine era ridotto così male che non potevamo riconsegnarvelo; così l’abbiamo soppresso; e – perbacco, adesso mi ricordo – poi ho fatto uccidere anche cinque miei sudditi per allestire una messinscena e scaricare su di loro l’omicidio. Ora, tutti sanno che la verità è questa, ma dirlo non si può. Però un conto è tacere, un altro è fingere di “esigere” la verità dal capo degli assassini: soluzione immaginaria, dunque pura patafisica. Che Conte interpreta in un suo modo intimista e personale: racconta di aver parlato parecchie volte di Regeni con al Sisi “guardandolo negli occhi”, ma senza riuscire a cavargli nulla.

Poiché il Pd e la sua stampa adesso considerano il premier corresponsabile dello stallo, si aprono alla patafisica nuovi orizzonti. Intima al premier l’onorevole Quartapelle, che nella sua terza pelle era responsabile della politica estera del Pd e non obiettava quando Renzi proclamava al Sisi “salvatore del Mediterraneo”: “O noi riusciremo a far pesare il nostro Paese nelle relazioni con l’Egitto o saremo un Paese che verrà preso in giro da tutti gli altri”. Direi la seconda.

 

Il razzismo del “Giornale” contro i suoi stessi inviati

“La lotta alla casta e alla corruzione, il superamento di vecchi modelli della destra, della sinistra, andare oltre al dualismo vuoto, far leva sul sentimento comune, evocare la forza di un popolo stanco e sottomesso alle logiche dei piani alti di un potere ormai corrotto e distante dalle necessità, la crisi economica nel serbatoio della lotta per far trionfare ‘cittadini comuni’ contro élite ed establishment”. Così scrive il Giornale del 18 giugno riassumendo gli obiettivi del socialismo bolivariano attualmente all’onor del mondo in Venezuela e i tentativi, sia pur molto timidi, di esportarlo in Grecia a opera di Alexis Tsipras.

Uno legge e dice: bene, allora quelli del Giornale non sono così ottusi e trinariciuti da non riconoscere che, almeno nelle intenzioni, c’è del buono nel socialismo, bolivariano e non. Eh no. Tsipras, in un suo discorso, aveva detto: “È arrivato il momento di fare un grande passo verso il socialismo del XXI secolo, la storia ci chiama”. E come conclude l’autrice dell’articolo, Manila Alfano? Così: “Per fortuna poi la storia ha girato pagina”. Cioè a quelli del Giornale non gli sta bene la lotta alla casta e alla corruzione e si capisce poiché il loro patron è il principe dei corruttori. Gli va invece benissimo che la casta resti tale, che i ricchi diventino sempre più ricchi e anche un tantino più numerosi e i poveri sempre più poveri e molto più numerosi, un problema, anzi un dramma che è in atto da almeno quarant’anni, come segnalai sul Giorno nei primi anni Ottanta, e che esaurisce a poco a poco il ceto medio collante da sempre necessario perché non sia così oscenamente evidente il divario fra le classi agiate e quelle disperate, offrendo anche un po’di mobilità sociale, come, al contrario, gli sta malissimo che “un popolo stanco e sottomesso alle logiche dei piani alti” tenti di liberarsi da un potere che lo domina e lo schiaccia. Il fatto è che quelli del Giornale e di una destra che si fa fatica a definire destra, perché la Destra è stata una cosa seria, sono dei razzisti e della peggior specie: dei razzisti sociali.

Il Giornale per la penna di Paolo Manzo attacca anche Paolo Mieli, uno dei più autorevoli ma anche più cauti editorialisti del Corriere della Sera, colpevole, a suo dire, di rifiutarsi di definire “dittatura” il regime di Maduro e di sposare la tesi che dietro i ripetuti tentativi di spodestare l’erede di Chávez ci sia una “manina americana”. Ma come, non è stato proprio Gian Micalessin, inviato di lungo corso del Giornale, ad avanzare per primo questa tesi (“Il sospetto della manina Usa dietro il documento di Abc”, Il Giornale, 16.6)? Il Giornale nella sua sbornia iconoclasta non sotterra solo Maduro, ma anche uno dei suoi migliori inviati.

Infine una nota a margine. La polemica è il sale del dibattito politico, ma anche personale (anch’io la sto facendo qui adversus Sallusti) e in definitiva della democrazia. In un passato recente e lontano abbiamo avuto polemiche clamorose e anche divertenti, fra Giovanni Papini, che si era inventato anche una rubrica Stroncature, da me ripresa molti anni dopo su Pagina, contro il critico letterario e storico dell’arte Emilio Cecchi, fra Giovanni Brera ed Ennio Flaiano.

La violenza invece non fa parte né del dibattito politico o personale né della democrazia. E segnalare una persona, con corredo di foto irridenti, al pubblico ludibrio è violenza che, fatte naturalmente tutte le debite proporzioni, ricorda quella delle squadracce fasciste contro gli avversari. Il giornalismo italiano, per quanto nient’affatto immacolato, non era mai sceso così in basso.

 

Csm, basta maquillage ora si passi al bisturi

Il “caso Palamara” continua a emanare miasmi pestilenziali sulla credibilità della magistratura tutta. Per chiunque abbia a cuore lo stato di salute di questa struttura portante della democrazia, la necessità e l’urgenza di buone e radicali riforme – a partire dal Csm – è di indiscutibile evidenza. Come lo è il groviglio che occorre assolutamente sciogliere: le “correnti” in quanto meccanismi clientelari che praticano (o passivamente accettano) un sistema di conferimento degli incarichi direttivi subordinato allo sciagurato criterio della “appartenenza”. Nefandezze e magagne si annidano principalmente su due versanti: le modalità di elezione dei componenti del Csm e le procedure per la nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari.

Nel primo caso, posto che i componenti del Csm debbono essere eletti (articolo 104 della Costituzione), si tratta di arrivare all’elezione innalzando un qualche robusto argine all’invadente strapotere delle correnti. Per esempio, facendo sì che l’elezione avvenga su “rose” di candidati formate nelle singole circoscrizioni mediante il voto espresso da tutti i magistrati dell’area (non solo ordinari, ma pure onorari), da tutto il personale amministrativo e da una congrua rappresentanza dell’Avvocatura. In questo modo le correnti non spariranno di certo come per incanto, ma la loro incidenza sarebbe senz’altro assai ridotta. Sia perché la platea dei votanti è molto più ampia, sia perché essa è formata in maggioranza da addetti ai lavori non coinvolgibili nel “gioco” delle correnti come possono essere i magistrati ordinari. Inoltre – e soprattutto – il voto sarebbe espresso da soggetti che conoscono bene pregi e difetti dei vari candidati avendoli visti all’opera “sul campo”, vale a dire da soggetti poco influenzabili dalle “argomentazioni” correntizie che prescindono dalle effettive capacità. Infine, alla formazione della “rosa” potrebbe candidarsi ogni magistrato di quell’area, con possibilità di votare anche chi non si fosse candidato da sé, di modo che la scelta sia svincolata quanto più possibile da ogni “preconfezionamento”.

Quanto alla nomina dei dirigenti, condivisibile (e attuabile) è la proposta del presidente della Corte d’appello di Brescia, Claudio Castelli. Tale nomina richiede la valutazione di specifiche attitudini in base all’analisi non dei soli “titoli”, ma anche di “come” il candidato ha ricoperto questo o quel ruolo e dei risultati conseguiti (in termini di statistiche, indipendenza, organizzazione, coesione dell’ufficio, rapporto col personale ecc.). Senonché, questa valutazione è una scienza che richiede una buona conoscenza di tecniche specialistiche che il Csm non possiede. Servirebbe allora un organismo consultivo formato da esperti esterni (nelle università vi sono le giuste competenze), capaci con apposite “istruttorie” di acquisire la documentazione e le informazioni che consentiranno al Csm scelte avvedute (spesso, del resto, nel settore privato l’amministratore delegato viene scelto proprio con la consulenza di società specializzate).

Adottare questo sistema (almeno per gli uffici più importanti) significa automaticamente ridurre di molto i margini dell’arrivismo correntizio, perché alla fin fine le consulenze produrranno atti dai quali non sarà facile prescindere a chi voglia superare il confine dell’arbitrio per favorire il proprio protetto.

In sostanza, per porre rimedio all’attuale situazione di default non bastano operazioni di maquillage. Occorre sperimentare un coraggioso lavoro di bisturi, nella direzione e con gli obiettivi sopra ipotizzati. Altrimenti potrebbe crescere il rischio (enunciato dal presidente Mattarella nel discorso del 18 giugno in memoria di alcuni magistrati uccisi dalla mafia e dal terrorismo) “che alcuni attacchi alla magistratura nella sua interezza siano in realtà volti a porne in discussione l’irrinunziabile indipendenza”.

 

Mail box

Magistratura, concordo con Travaglio sui “laici”

Caro direttore, ho letto l’articolo del procuratore aggiunto di Torino Paolo Borgna su come dovrebbe essere riformato il Csm, e la sua risposta nell’editoriale di ieri. Concordo pienamente con lei sulla ipotesi del sorteggio integrato dei membri togati, unico sistema per frenare l’influenza delle correnti sugli esiti elettorali. Concordo ancora con lei sulla pericolosità della nomina di membri laici da parte del capo dello Stato, come proposto da Borgna. Non a caso la Costituzione, mentre ha previsto tale potere di nomina per la Consulta, non lo ha previsto per il Csm proprio perché esso è presieduto dal capo dello Stato e sembrò anomalo che egli potesse presiedere un organo composto in parte da componenti da lui nominati che potrebbero costituire un improprio “gruppo del presidente”. Se ci deve essere una riforma costituzionale, allora si può prevedere un sistema di nomina di membri laici (6 avvocati, 6 professori universitari) sottratto al Parlamento e attribuito a ordini od organismi professionali (come il Consiglio nazionale forense e la Conferenza dei rettori), così da troncare il cordone ombelicale che li lega ai partiti che li hanno indicati. Sono, infine, assolutamente contrario alla proposta di Borgna di aumentare la quota di 1/3 dei membri laici a 1/2 (come quella dei togati) o addirittura a 2/3, riforma che, come ho più volte scritto, ritengo pericolosissima per l’indipendenza della magistratura.

Antonio Esposito

 

Perché l’on. Riccardi è passata alla Lega?

Caro Direttore, non so come definire la scelta della senatrice Riccardi di passare dal M5S alla Lega. Mi domando che cosa può averla condizionata: è rimasta colpita dalla gestione della crisi da parte di Salvini? Ha ritenuto che le sue proposte fossero più valide di quelle attuate da questo governo? Ha ravvisato nella Lega un partito che ha saputo assumersi le responsabilità politiche di un’emergenza, pur stando all’opposizione? Quali circostanze hanno indotto la senatrice ad affrancarsi dal M5S per seguire qualcosa di migliore, individuandolo in Salvini? Questo interrogativo me lo sono posto con tutti gli altri fuoriusciti dal Movimento ma, riguardo al suo caso, la curiosità è ancora più alta: primo perché lei decide di passare direttamente alla Lega; secondo perché lo fa in un momento talmente delicato per una decisione così azzardata; terzo, mi chiedo come abbia risposto alla sua coscienza, quando vieni eletta con i voti di chi confidava in un impegno e vai ad assumerne uno opposto. Confido che a queste domande venga data presto una risposta, perché un onorevole è tenuto a rispondere all’elettorato.

Valentina Felici

 

Noi medici sfruttati, altro che “eroi”

Gentile dottor Travaglio, la seguo da anni e per la prima volta ho deciso anche io di scrivere al Fatto per portare alla sua conoscenza una vicenda che riguarda il personale sanitario. Sono uno dei tanti medici ex specializzandi che mai hanno ricevuto nel corso della scuola di specialità il sostegno economico che ci spettava e che per questo, in migliaia, abbiamo avviato un’azione collettiva per ottenere il dovuto rimborso. Numerosi tribunali italiani hanno finora dato ragione ai colleghi e perfino la Corte europea si è espressa favorevolmente: per moltissimi c’è stato un esito positivo, con l’erogazione degli emolumenti spettanti. Invece il gruppo in cui sono inclusa anche io sta attendendo l’ultima udienza ormai da anni: lo scorso 17 giugno c’è stato l’ennesimo rinvio. La nostra azione è stata intrapresa nel 2013. A lei il commento. In questo particolare momento in cui non se ne può più della retorica, a posteriori, sui medici eroi, sarebbe forse meglio che avessimo il rispetto dovuto, come tutti coloro che lavorano con impegno e fatica, e quindi anche il giusto riconoscimento di quanto lo Stato ci deve da decenni.

Dr.ssa Anna Sevo

 

Fede si riteneva forse al di sopra della legge

Ho letto sui giornali di un certo orientamento critico al trattamento usato nei confronti del giornalista Fede, “trattato come un boss”, “un 89enne trattato da criminale” e via dicendo. Chiedo a me stesso quale posizione doveva essere assunta nei confronti di un soggetto che si allontana dagli arresti domiciliari senza l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza. Secondo il ragionamento di certa stampa, nessun appunto doveva essere mosso: il soggetto era ai domiciliari e non poteva uscire, punto. Questi sono i fatti. Non mi pare, inoltre, che vi sia stato un ammanettamento o episodi di teatralità se non quello di rientrare in albergo. Anzi, se fossi il magistrato preposto, chiederei un aggravio di pena: certi si credono sempre al di sopra della legge.

Mario Valentino

 

Taglio delle imposte, ma poi chi paga i conti?

Il premier Giuseppe Conte taglia l’Iva. Che bello! Matteo Salvini vuole bruciare 8 milioni di cartelle esattoriali. Yu-uh! Pieno di positività per le nuove misure fiscali, ho preso la cornetta e ho fatto un giro di chiamate. Prima all’amministratore condominiale: “Da oggi non pago più le spese della casa”. Poi ho telefonato alla ditta di riscaldamento: “Non pago”. Analogamente ho fatto con le utenze di energia elettrica, gas e acqua. Tutti mi hanno risposto: “Che bello. E chi paga? Un coobbligato solidale? Un congiunto? Il governo?”. Ci ho pensato un attimo, poi ho detto: “Paga Pantalone!”.

Stefano Masino

Non solo i ritardi, si parla poco dei furbetti: serve denunciare

Buongiorno, sono un vostro nuovo abbonato. In queste settimane, dopo la fine del lockdown, sui “giornaloni” la maggior parte degli articoli critica il governo per il mancato arrivo dei soldi alle aziende per il pagamento della cassa integrazione dei dipendenti. Io invece vorrei che qualcuno scrivesse anche che ci sono diverse aziende che “stanno marciando” sulla prosecuzione della cassa integrazione. Ho amici che fanno 10 ore al giorno per 4 giorni e il quinto fanno cassa integrazione, altri che sono a casa “in cassa” ma lavorano in smart working, oppure vanno a sistemare i macchinari, che hanno problemi, in altre ditte. E potrei portarne tanti altri di esempi… Poi vogliamo parlare dei parrucchieri con negozio di proprietà, che hanno chiesto e ottenuto i 600 euro e ora fanno ricevute fasulle o neanche fanno la ricevuta? Questo è uno spaccato della realtà post-Covid coi soliti furbi. Cosa si può fare per denunciare questi comportamenti che danneggiano tutti quelli che hanno invece veramente bisogno di un contributo, ma per problemi vari non lo hanno ancora ricevuto? Vorrei che il Fatto, che si distingue dagli altri per far conoscere le verità nascoste, portasse a conoscenza questa disonestà. Continuate così!

Giacomo Caviati

Gentile Giacomo, un tema non esclude l’altro. I ritardi nel far arrivare gli ingenti aiuti stanziati sono innegabili, anche perché incanalati in procedure farraginose (la Cassa in deroga, per dire, passa dalle Regioni) su cui il governo ha deciso di intervenire, seppure – anche qui – in ritardo. A questo tema i giornali, e anche il Fatto, hanno giustamente dato ampio risalto. Ha invece fatto meno notizia l’assalto dei furbetti. Come abbiamo scritto, l’ufficio anti-frode dell’Inps ne ha scovati in due mesi quasi 3mila solo tra le aziende che richiedevano la Cig senza averne diritto (stesso numero dell’intero 2019): è solo la parte visibile di un fenomeno più grande. Le storie che lei racconta si ripetono in tutta Italia, ma possono essere rilevate quasi solo dall’ispettorato del lavoro. La soluzione è denunciare agli ispettori e – perché no – anche ai giornali. È l’unica arma a disposizione dei suoi amici e dei lettori che vivono queste situazioni, di far emergere la peggiore eredità del Covid. I ritardi nell’erogare gli aiuti sono ingiustificabili, così come le furbate a danno di chi ne ha davvero bisogno.

Carlo Di Foggia

Compensi artistici in Rai: propongo di misurarli con l’indice Luttazzi (iL)

Il Fatto Quotidiano ha pubblicato cifre mai smentite: il compenso annuo di Fabiofazio è 2 milioni 240 mila euro l’anno; in quattro anni, il programma costerà alla Rai 73 milioni di euro. Replica di Fabiofazio: “La Corte dei conti ha dimostrato che il programma costa meno della metà di qualunque altro varietà della stessa fascia oraria”. Dunque, il paragone va fatto sulla stessa fascia oraria, non sulla media di rete, come fa altrove Fabiofazio. Ma c’è un problema: la Corte dei conti spiega che il costo-puntata del suo programma è “meno della metà della media dei programmi di intrattenimento del servizio pubblico”. Di nuovo una media, addirittura dei programmi di intrattenimento! Il paragone, però, andrebbe fatto con altri talk-show, e della stessa fascia oraria, se si vuole un dato significativo.

La Rai, da cui la Corte dei conti ha attinto le informazioni sul programma, considera infatti intrattenimento anche le fiction: hanno costi notevolmente superiori a un talk-show, che in paragone sembra regalato. Inoltre: stando alla Corte dei conti, “gli ascolti e gli incassi pubblicitari del programma sono stati adeguati”. Rispetto a cosa, se poi la Rai ha ritenuto di dover spostare il programma deludente su Rai2? Quanto al compenso per Fabiofazio, infine, i giudici spiegano che in Rai le prestazioni artistiche non sono soggette al tetto retributivo di 240.000 euro annui previsto per i dirigenti. Giusto; ma questo non implica che i compensi artistici siano insindacabili. C’è un criterio per stabilire se sono eccessivi? Propongo il rapporto compenso/spettatori. Chiamiamolo “indice Luttazzi” (iL). Fabiofazio prende circa 2 milioni di euro l’anno. Su Rai2, il programma è visto da 2 milioni di spettatori. Fabiofazio quindi prende circa 1 euro a spettatore (iL = 1). Su Rai1 faceva circa 3 milioni e mezzo di spettatori, quindi prendeva circa 0,5 euro a spettatore (iL = 0,5). Se Amadeus prende 1 milione l’anno per condurre I soliti ignoti, con una media di 5 milioni di spettatori, il suo iL è 0,2. Se Formigli a La7 nel 2016 prendeva 300 mila euro l’anno, con un’audience di 800 mila spettatori, il suo iL era 0,3. Il dato, calcolabile anche sull’audience di ogni puntata, permette un giudizio sul compenso (cioè sui rapporti di forza), ed è indipendente da quanto incassa il programma con la pubblicità, fattore influenzato innanzitutto dalla rete e dallo slot (lo dimostra proprio Fabiofazio, che a Rai2 ha uno share inferiore a quello che aveva su Rai1) (quindi fa incassare pure meno).

Salini, infine, impone un tetto massimo del 30 per cento agli artisti di una stessa agenzia in uno stesso programma. Era ora, ma Fabiofazio chiosa: “Se un agente ha i migliori, che senso ha fargli la guerra o mettergli limiti?”. Spieghiamoglielo: il problema è il dumping degli artisti, una forma di concorrenza sleale. Un super-agente potrebbe piazzare al Tavolo di Fabiofazio, per dire, altri 3 o 4 artisti della propria scuderia, dando loro risalto (una promozione pagata dalla Rai, per giunta). Tre dei tuoi vuol dire non-tre di altre agenzie. Fai così per 15-20 anni, e i tuoi artisti appariranno “i migliori”, dato che sono sempre in tv: ma sono davvero i migliori? O sono solo più popolari grazie a quella prassi, finalmente vietata? Quanti artisti non trovano spazio in tv perché non fanno parte di super-agenzie? Non me ne viene in mente nessuno.

 

Dibba l’incendiario: il passo della politica oltre purezza e ideali

Dibba ha la barba di un giorno e le basette western. Gira per Roma in calzoncini e infradito. Ha lo zainetto con mezza minerale. Chiacchiera con tutti. Ride. Quando controlla l’ora, vuol dire che deve dar da mangiare al pupo, oppure che sta per salire su un Low Cost, direzione altrove.

Altrove è il migliore dei suoi mondi, raggiungibile con bagaglio a mano. Gli piace sparire per mesi nel cuore della madre terra, la Pacha Mama, che ha scoperto nella foresta pluviale, benevola in tutto, tranne che per l’umidità, le ingiustizie sociali e i maledetti mosquitos che rovinano il sonno intorno al fuoco.

Il suo bello è che quando torna nel nostro mondo di insetticidi, plastiche e malumori wireless, i fuochi continua a accenderli, ma in mezzo a una piazza o davanti alla tv. Nell’ultimo giro di interviste a raffica, ha dato fuoco all’intero Movimento, con una sola frase esclamativa, “Voglio un congresso!”, per poi godersi lo spettacolo delle chiacchiere a seguire, i tamburi delle molte tribù politiche interne al Movimento che si chiedevano: “Vuole la scissione?”, “Vuole la rivoluzione?”, “Vuole diventare il capo politico?”. Fino all’anatema dell’Elevato, che poi sarebbe il divino Grillo, ricomparso dalla penombra estiva di Sant’Ilario, per dirgli più o meno: falla finita.

Ma Dibba, in arte Alessandro Di Battista, 42 anni all’anagrafe, meno della metà nel cuore, non ha neanche cominciato il suo nuovo viaggio che stavolta si configura nell’Odissea del suo ritorno. Vuole iscriversi anche lui al mondo del dopo Covid-19, archiviare nella differenziata il cartonato di Vito Crimi, battersi per la guida del Movimento sul futuro del quale annuncia minaccioso: “Ho le mie idee!”, rivelando la prima: “Tornare all’acqua pubblica”, non di strettissima attualità, salvo che nell’incantevole Patagonia. E in subordine “l’auto pubblica”, cioè il car sharing, “migliaia di auto elettriche da condividere”. Idea che propone non solo per decongestionare il traffico di Roma Nord, ma come viatico alla nuova economia nazionale. Aggiungendo: “Se avete idee, scrivetemi”.

In gioventù siamo stati tutti (o quasi) come lui

Tutti, o quasi tutti, in gioventù, siamo stati Dibba. Almeno fino a quando la complessità del mondo vero ci ha insegnato a diffidare delle sue semplificazioni – buono-cattivo, giusto-ingiusto – e che anche lo spensierato altruismo terzomondista fa parte dei privilegi occidentali, avendo case riscaldate e abbastanza proteine per sceglierlo tra le molte offerte culturali, nel grande magazzino delle identità possibili. Ognuna con il suo guardaroba adeguato.

Direbbe lo psicologo che la sua identità l’ha scelta in opposizione a quella del padre Vittorio, fascistone d’alti ideali (“datemi il potere assoluto per sei mesi e risolvo tutti i problemi d’Italia”) iracondo contro “la ciurma di delinquenti che ci governa”, tanta rancorosa incontinenza a copertura (s’è scoperto poi) della modesta aziendina di ceramiche sanitarie piena di debiti con le banche, col fisco e con i dipendenti in nero, giustificata con il solito lamento del tengo famiglia.

I molto cinici che detestano la sua aria dinoccolata da eterno studente fuori corso, non sanno che Alessandro, dopo il liceo scientifico, si è laureato una volta e mezzo, prima al Dams di Roma Tre – che sarebbe Discipline di arte, musica e spettacolo – poi alla Sapienza con un master sulla Tutela internazionale dei diritti umani che ha maneggiato per due anni nelle Ong dell’Africa centrale e in una dozzina di Paesi sudamericani, dall’Argentina a Panama, passando per il Cile, l’Ecuador, Cuba.

I rivoluzionari e la retorica

Viaggi diventati in gran parte l’inchiostro di quattro libri, dove si annovera “il mormorio della foresta che diventa silenzio”, ci si immerge “nella giungla rigenerante”, si ammira “il fiume che scende placido”, si cammina con il solo “bagaglio maya”, si elogia l’autostop, “che è come fare l’amore”, ha le stesse regole basilari “sorridi, non disperarti, se qualche volta non ci riesci può succedere”. Per poi scoprire la morte “che in Guatemala non si nasconde come da noi”. E ogni volta rimettersi in viaggio grazie ai “piedi che scottano”, verso la vera meta, che è sempre interiore: “Sentivo crescere in me quel senso di appartenenza alla mia specie: quelle umana”.

Peccato che in quegli anni viaggianti non abbia mai trovato il tempo di fermarsi e riflettere su quanti rivoluzionari latinoamericani siano diventati più despoti dei despoti che hanno sostituito, come in Nicaragua, in Venezuela, e che dietro la retorica “dell’uomo nuovo” prima o poi spunti sempre il filo spinato dei campi di rieducazione.

Tra i contadini e le multinazionali, Dibba non ha mai dubbi, sceglie sempre i contadini, anche se fanno vite infami, coltivano coca e muoiono di stenti, poiché il pane che portano le multinazionali, anche quando sfama, è sempre avvelenato.

Così come è sempre avvelenata la politica dei politicanti, anche quando provano a sfamare la mediocre democrazia che ci riguarda, e che lui chiama “la repubblica dello spritz”, intesa come l’aperitivo che precede l’inciucio, oggi governata da una coalizione così fragile che bombardarla è un gioco da ragazzi. Chi se ne frega delle conseguenze, puoi sempre cambiare paesaggio, tornare in Centro America a scaricare cemento e a tradurre i versi di Neruda, con una Corona fresca al tramonto.

Non a caso il mito di Dibba è l’eroe rivoluzionario in transito, il Che Guevara dei Diari della motocicletta, che lui ha provato a replicare a cavallo dello scooterone a tre ruote, passando dalle Ande agli Appennini, con il suo “Costituzione Coast to Coast”, contro il referendum del Rottamatore, anno 2016.

Perché poi la motocicletta, senza troppe responsabilità e il vento in faccia, è la parte bella della storia, come lo è la giovinezza, ma solo a patto che si concluda, non necessariamente in modo tragico, come finì quella del Che in Bolivia. Per crescere gli basterebbe capire che nella vita, ma specialmente in politica, la purezza è (quasi sempre) il vetriolo dell’anima.

Marin, il re del doppio-ruolo tra bombe, trame e processi

Fossimo in America, gli avrebbero dedicato un film. Marco Morin, super-esperto di armi ed esplosivi, è morto a 82 anni, nella sua casa di Campo San Polo a Venezia, portando per sempre nella tomba i suoi segreti. Era davvero un personaggio cinematografico, capace di giocare più ruoli in partita, nello stesso tempo esperto di bombe e amico dei bombaroli, consulente dei tribunali e complice degli imputati. Gli piacevano i ruoli doppi. Aveva il gusto dell’intrigo e l’animo del falsario. Ingarbugliare le carte, millantare rapporti inesistenti, inventare particolari improbabili, aggiungere, anche senza motivo, elementi incredibili a storie vere, per lui era come respirare. Si vantava di lauree, una in Storia, un’altra in Geofisica, mai conseguite. Si spacciava per membro dell’autorevole “Società britannica di scienze criminali”: peccato che non sia mai esistita. Eppure quest’uomo è stato per decenni consulente balistico dei Tribunali o perito legale di parte nei processi su alcuni dei più delicati casi giudiziari della storia italiana, dall’omicidio del commissario Luigi Calabresi a quello di Aldo Moro, dall’assassinio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella a quello del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, e poi il maxiprocesso di Palermo, il caso del mostro di Firenze, la strage di Peteano.

Nel 1967, a 29 anni, era sottotenente di complemento dell’Aeronautica militare in servizio all’aeroporto di Treviso: gli trovano in casa sette pistole, munizioni, una bomba a mano e pezzi di armi da guerra. Viene processato e condannato. Eppure qualche anno dopo diventa grande amico dei giudici veneziani e il più richiesto dei periti balistici giudiziari. Tanto che nel 1982 lo chiamano a esaminare le armi trovate a due personaggi di Ordine nuovo appena arrestati, Carlo Digilio e Carlo Maria Maggi. Stila una memoria che vale la scarcerazione immediata di Digilio (che molti anni dopo ammetterà la sua partecipazione alla strage di piazza Fontana). E una perizia giudiziaria in cui sostiene che un caricatore per fucile mitragliatore trovato durante una perquisizione a Maggi non è “parte essenziale di arma da guerra”, ma solo un “accessorio”: quanto basta a far concedere la libertà provvisoria a Maggi (che decenni dopo sarà condannato per la strage di Brescia).

Aveva una concezione molto creativa del suo ruolo di perito, tanto da far sparire, negli anni Ottanta, i campioni di esplosivi e munizioni su cui stava lavorando, provenienti dall’arsenale sequestrato al comandante militare di Ordine nuovo Pierluigi Concutelli. A smascherarlo, dopo molti anni, è il giudice di Venezia Felice Casson, impegnato nelle indagini sulla strage di Peteano. Lo accusa di aver coperto i suoi amici di Ordine nuovo. E nel 1987 gli sequestra alcune registrazioni, appunti a voce su perizie in corso, scoprendo sul lato B di una microcassetta una frase registrata con tono cavernoso: “Qui parla Ludwig, sarai la prossima vittima”. Ludwig è la sigla con cui vengono firmati tra il 1977 e il 1984 numerosi omicidi nell’Italia del Nord-est, in Germania e nei Paesi Bassi. La sua registrazione, giura Morin, era solo uno scherzo preparato per una collega. Peccato che la collega lo smentisca: mai stata vittima di scherzi così idioti. Morin era stato il perito sull’esplosivo della strage di Peteano: lo aveva classificato come Semtex H di fabbricazione cecoslovacca, esplosivo “di sinistra”, usato dalle Br e dai terroristi palestinesi.

Casson ordina una nuova perizia, svolta da altri esperti, e scopre che il rocchetto con tracce di Semtex ospita da lungo tempo una larva di lepidottero. È la prova che non può essere il rocchetto originale: Morin l’aveva sostituito e vi aveva inserito l’esplosivo “rosso”.

Chi è davvero Morin? Casson lo chiede ripetutamente, dal 1987 al 1991, al Sismi, che non gli risponde, tanto che il giudice decide di incriminare il capo del servizio Fulvio Martini e il suo braccio destro, Paolo Inzerilli. Intanto tutti i documenti che riguardano Morin spariscono nel nulla: dagli archivi dell’Aeronautica militare, dal Palazzo di giustizia di Verona, perfino dall’inaccessibile laboratorio scientifico di Scotland Yard, a Londra, dove si era svolta la perizia (menzognera) di Morin sull’esplosivo di Peteano. Così Casson non si stupisce, quando trova il nome di Morin negli elenchi di Gladio. Eppure il superconsulente continuerà per anni ad avere le chiavi, riservatissime, del Centro indagini della Procura di Venezia e a essere il consulente più ascoltato dai magistrati, e non soltanto quelli veneziani.

Luminarie del sindaco per il veliero di B. jr.

Arriva Pier Silvio Berlusconi in barca e il paese accende le luminarie natalizie. Accade a Portovenere, estremo levante ligure. Il veliero del presidente Mediaset, un bi-albero “Perini”, ha ormeggiato davanti al pittoresco borgo spezzino guidato dal sindaco Matteo Cozzani, berlusconiano doc, amico del governatore ligure Giovanni Toti e possibile candidato alle Regionali di settembre.
Tutti hanno notato la strana illuminazione a festa, in un mercoledì senza ricorrenze e con pochi turisti. Anche qui la crisi morde. Gli hotel sono ancora chiusi, hanno appena riaperto i locali della movida. Difficile giustificare luci sfarzose a spese della comunità. Nei bar c’è chi giura che a bordo del veliero ci fosse anche Silvio Berlusconi. Pier Silvio, invece, è un habitué. Il sindaco Cozzani è in odore di candidatura con Toti alle Regionali di settembre. E il governatore, che vive nella vicina Bocca di Magra, a Portovenere è parte attiva nel progetto “Masterplan” sull’isola Palmaria, separata da un piccolo braccio di mare, smilitarizzata e a rischio cemento.