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Belloni, il Pd non ha mai chiarito la bocciatura

Ho 25 anni e sono uno studente e un lettore del Fatto. Ho seguito con molta passione l’elezione del presidente e, a differenza di quello che viene dichiarato dall’Istituto Luce, il Pd non ha mai spiegato il perché la Belloni non andasse bene. Non ha mai detto nulla, eppure questo partitone esce sempre in piedi, con un Letta statista e vincitore non si sa di cosa. Che diamine di vittoria è? Il Pd depositò un disegno di legge costituzionale che vieta la rieleggibilità del presidente della Repubblica. Quindi delle due l’una: o questo Mattarella è un omonimo ed è incredibilmente somigliante al primo, oppure il Pd non ha vinto proprio nulla.

Christian Costantino

 

Attribuiscono a Salvini frasi false sulle donne

Ho criticato Matteo Salvini più di una volta. Tuttavia credo che anche a un politico avverso si debba una contrapposizione cavalleresca, e questa volta voglio difenderlo da un paio di donne che a DiMartedì lo hanno calunniato con una menzogna evidente, che Giovanni Floris non ha rilevato. Ebbene, l’impagabile “femminista” Concita De Gregorio ha accusato il bieco Salvini di aver detto: “Una presidente donna, MA donna in gamba”. L’impareggiabile Concita ha insistito con questa accusa abominando l’espressione di Salvini, come se fosse uno stupratore seriale. Però io non ricordavo questo particolare, e pensavo che quel “ma”, magari incautamente, significasse “ma non solo perché donna”. Anche l’ex ministra Fornero gli ha attribuito la stessa frase.

Giovanni Ghiselli

 

Sono fra chi ha criticato “Gigino” sui social

Sono una delle attiviste che hanno duramente criticato il dis-onorevole Luigi Di Maio sia sul suo profilo Twitter che sull’account del Movimento con le mie credenziali da attivista. Quindi, vi prego, di aggiungermi agli altri 300 attivisti o semplici cittadini veri e reali che vi hanno scritto e manifestato il loro disappunto verso il comportamento di Di Maio. Non sono una rompiscatole, sono solo una cittadina indignata dal modo e dal metodo, spesso a-democratico, in cui viene pilotata la politica, con la complicità di una ciurma di giornalisti e lobbisti. Ho semplicemente deciso di fare cittadinanza attiva.

Jocelyn de la cruz Castillo

 

Gasparri, uno dei comici più divertenti d’Italia

Spero non vi sia sfuggita l’intervista, durante la Maratona Mentana di qualche giorno fa, alla eminenza grigia di Forza Italia, il senatore Maurizio Gasparri, secondo il quale la Casellati non è stata eletta presidente della Repubblica per colpa del Pd che non è andato a votare.

Gianni Cicero

 

E come poteva sfuggirmi? È la gag comica della settimana.

M. Trav.

 

I giochetti della politica sul nome per il Quirinale

Dopo il dietrofront del Pd sull’elezione di Elisabetta Belloni alla presidenza della Repubblica, la sua candidatura andava comunque portata in aula per fare emergere le contraddizioni di quei partiti che l’avevano proposta. Come avrebbero fatto Di Maio, Enrico Letta e Renzi a votare contro una tale personalità?

Gabriele Salini

 

L’avrebbero fatto giustificandolo col rischio di rompere la Santa Maggioranza di Governo dei Migliori (che ovviamente non c’entra nulla con la maggioranza richiesta per eleggere il capo dello Stato).

M. Trav.

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo “Il voto? Meglio l’agnello da Razzi&C.” a firma di Andrea Sparaciari, pubblicato sul Fatto martedì, abbiamo erroneamente annoverato tra i presenti alla cena l’eurodeputato leghista Angelo Ciocca. Ci scusiamo con l’interessato. L’unico leghista immortalato nel video della suddetta cena è il senatore ed ex sottosegretario Armando Siri.

FQ

Pandemie “Perché non possiamo paragonare il Covid alla Spagnola”

 

 

Gentilissima Dottoressa Gismondo, sono una pediatra in pensione da due anni. Le scrivo perché mi ha incuriosito il fatto che lei, come tutti i suoi colleghi, non abbia parlato della pandemia di Spagnola per ricercare e considerare eventuali correlazioni con quella attuale e per aiutarci a combatterla e risolverla. Ritengo assai interessante che la Spagnola sia durata due anni e sia scomparsa completamente nello stesso tempo in tutto il mondo. Io ho cercato di darmi una risposta: il virus Covid ha in sé un orologio biologico che è comune a questa tipologia di virus e che è tarato per auto-annullarsi in un certo periodo, e quindi contemporaneamente in tutte le varianti di Covid: credo che proprio questa sia la ragione per cui la Spagnola è scomparsa contemporaneamente dappertutto. Capisco poi che ci sono notevoli interessi correlati allo sviluppo dei vaccini, ma la Scienza è o dovrebbe essere libera da correlazioni politiche e da interessi economici.

Maria Vacca

 

Gentile collega, le sue argomentazioni sono molto interessanti. Analizziamo i due fenomeni pandemici sin dal loro insorgere. La mattina del 4 marzo 1918 l’addetto al rancio Albert Gitchell si presentò nell’infermeria di Camp Funston, in Kansas, con mal di gola, febbre e mal di testa. All’ora di pranzo l’infermeria si trovò a gestire più di cento casi simili, e nelle settimane successive il numero di malati crebbe a tal punto che il capo ufficiale medico del campo dovette requisire un hangar per sistemarli tutti. A distanza di 100 anni dalla pandemia, non è assolutamente certo che Gitchell sia stato effettivamente il primo uomo ad ammalarsi. C’è chi ritiene che l’infezione abbia avuto origine in America, altri in Francia o in Austria, altri ancora in Cina. Altri ancora che avesse viaggiato “dentro” un centinaio di migliaia di cinesi che arrivarono a lavorare dietro le linee del “fronte occidentale”. A oggi, dopo due anni dall’inizio della nuova pandemia, non abbiamo ancora individuato il caso “0”, né l’area del pianeta “1”. Ciò dimostra che, malgrado i progressi della scienza e la possibilità di condurre studi di filogenetica, le origini sono ancora difficili da individuare. Se invece analizziamo la durata, questa dipende da molte variabili. Certamente fra queste il virus è protagonista ma non possiamo sottovalutare l’attuale globalizzazione che favorisce gli scambi e la rapida diffusione delle varianti. Se parliamo della natura del virus, la Spagnola è stata determinata da un virus influenzale, l’attuale Covid da un Coronavirus. Quest’ultimo genere ha già fatto irruzione nel genere umano e non risulta che dopo si sia dileguato, anche se abbiamo avuto l’eccezione di Sars1 che è sparito. Quello che lei chiama “orologio biologico” è, in realtà, la risultante di una serie di probabilità che possono verificarsi, soprattutto dovute alla casuale formazione di una mutazione (variante) suicida. Gli studi, che lei auspica, sono stati fatti e continuano a essere prodotti. Mi è difficile comprendere la sua teoria sul business dei vaccini. La scienza va avanti sempre. Mi creda, a prescindere da tutte le considerazioni legittime di possibili interessi economici: se non avessimo avuto questi, seppur imperfetti, vaccini, avremmo contato i morti proprio come durante la Spagnola.

Maria Rita Gismondo

“The winner is… Sergio”: il teatrale Mattarella batte gli altri cantanti

L’indecoroso show di chi ha scambiato l’elezione del Presidente della Repubblica con le audizioni di “X-Factor” dimostra una sola cosa: bisogna far scegliere il Presidente direttamente ai cittadini. (Matteo Renzi, 27 gennaio)

29 gennaio. “Vogliamo un presidente condiviso”. Volge così al termine la nuova stagione di X-Factor 2022 dagli studi di Montecitorio, dove i 4 giudici (Letta, Salvini, Meloni e Conte) stanno selezionando chi possiede l’x-factor tra le migliaia di aspiranti presidenti. È la prima volta di Matteo Renzi nei panni del conduttore. Ganassa e antipatico, sa però improvvisare quando, dopo aver chiamato i 4 finalisti sul palco, questi non si presentano. E lui resta solo a riempire il vuoto. “Mi pare di essere a un congresso di Italia Viva”, commenta, del tutto a suo agio. Ma deve ancora imparare i trucchi del mestiere: in conferenza stampa, cerca di intervistare lui i giornalisti. La gara di quest’ultima giornata prende il via con il duetto dei 4 concorrenti coi rispettivi giudici (il meno votato non passa alla manche successiva). E così Mario e Letta propongono Sulla nostra relazione, pezzo del 1978 del primissimo Vasco Rossi. Un duetto davvero ben fatto. Pier Ferdinando azzarda La locomotiva di Guccini, con Salvini alla batteria. Certo, il brano scelto fa tanto. Sergio canta con Conte Altrove di Morgan, convincendo in pieno. “Non hai mai avuto un momento di sbandamento. Sei un talento incredibile”, ammette Salvini. Giorgia gli dà un’occhiata incredula, dice “Il centrodestra va rifondato”, e si esibisce con Nordio nel suo remix Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana. Spaccano, ma Nordio è il meno votato. E si commuove rivedendosi dal primo provino fino all’arrivo a Montecitorio. “È stato tutto incredibile. Siete spaziali”, sono le sole parole che riesce a dire. La seconda manche vede i tre concorrenti rimasti portare il proprio Best Of, ovvero il medley di alcuni dei brani che hanno cantato durante le puntate live di X-Factor 2022. Pier Ferdinando riassume il suo percorso a X-Factor 2022 proponendo Rimmel di Francesco De Gregori (“E qualcosa rimane, fra le pagine chiare e le pagine scure”) e Io sto bene dei Cccp (“È una formalità”). Ha talento, questo eterno ragazzone con la scucchia. Ma prima del voto si sfila: “Sono diversi giorni che X-Factor purtroppo è paralizzato senza la possibilità di un’indicazione risolutiva per l’elezione del capo dello Stato. L’Italia non può essere ulteriormente logorata da chi antepone le proprie ambizioni personali al bene della trasmissione. Certamente io non voglio essere tra questi. Chiedo alla produzione, di cui ho sempre difeso la centralità, di togliere il mio nome da ogni discussione, e invito i giudici a votare Sergio nell’interesse del programma”. Poche ore dopo, posta sui social un selfie con Renzi e Letta: “Viva X-Factor! Viva la produzione! Viva l’Italia!”. La sfida finale è dunque fra Mario e Sergio. Mario fa sua London Calling dei Clash. Essenziale e scarna, la sua esibizione è una rivelazione. E lascia sorpresi persino i giudici. Ma Sergio fa ballare tutti con brani storici come Don’t Stop ’Til You Get Enough di Michael Jackson, Give It to Me Baby di Rick James, Stayin’ Alive dei Bee Gees e Sos degli Abba, mentre il pubblico di Montecitorio impazzisce e canta a squarciagola con lui: “When you’re gone, how can I even try to go on?”. Energia pura. Alla fine è il Parlamento che decide. E Sergio stravince anche il televoto. “Mi trovo sempre troppo teatrale: d’ora in poi, meno controllo”, dice in serata al Tg1, soddisfatto, con un look da quinto Måneskin, e un cannone in mano. (3. Fine)

 

Il “Sanremellum” e il protocollo Cia: follie festivaliere

Sanremo è Sanremo e, com’è noto all’intero orbe terracqueo, è soprattutto lo specchio del Paese, a partire dal fatto che i due presidenti, Mattarella e Amadeus, avevano entrambi finto di non volere un nuovo mandato. E non manca nemmeno una polemica elettorale: mentre la politica discute di un, secondo noi benedetto, ritorno al proporzionale (che avrebbe come unica controindicazione il mancato trasloco di Matteo Renzi in Arabia Saudita) all’Ariston si vota con un sistema così complicato che nemmeno la Corte costituzionale riuscirebbe a valutarlo per bocciarlo o promuoverlo. Ci proviamo, non del tutto certi di riuscire a spiegarci. Le prime due sere le canzoni sono state votate dai giornalisti, divisi però in tre macro aree media (che pesavano al 33% per carta stampata e tv, 33% per il web, 34% per le radio). Dopo questa sorta di primarie, è stata stilata una prima classifica generale, ieri sera. Oggi cambia il il corpo elettorale: voteranno il pubblico tramite televoto e la giuria Demoscopica 1000 (composta per l’appunto da mille componenti selezionati secondo “equilibrati criteri di età e di provenienza geografica”) con un peso sul risultato del 50 per cento ciascuno. Poi si fa una media tra i voti dei grandi elettori, cioè tra i voti presi nelle prime due sere e nella terza, che determina una nuova classifica generale. Domani, serata cover, il televoto peserà per il 34%, la sala stampa per il 33% e la Demoscopica 1000 idem. Alla fine si conta e si compone l’ennesima classifica generale. Sabato c’è solo il televoto fino al podio, poi sui primi tre classificati se la giocano il suddetto televoto, con peso del 34% sul risultato complessivo, la sala stampa, (33%) e la Demoscopica (33%). Il popolo alla fine – e nella finalissima – conta poco col Sanremellum, come già fu con il Porcellum.

Seconda questione. Mentre il governo pensa a un allentamento delle misure di contenimento del Covid (riaprono addirittura le discoteche, via le mascherine all’aperto), qui in Riviera i protocolli sono rimasti roba da Cia, altro che Green pass eterno. Per arrivare a Sanremo i giornalisti accreditati devono avere un tampone da casa, non più vecchio di tassative 48 ore che serve per accedere all’area dove ti viene consegnato il pass stampa, che però a sua volta serve per accedere a un’area tamponi. Se il test è negativo il pass si sblocca. Per sempre? No, per le prime 72 ore. Al termine delle quali ti arriva un allarmante messaggino sul telefono: “Attenzione, il tuo pass sta per scadere. Recati all’area tamponi”. Dove naturalmente c’è una coda mostruosa. Da ora in poi il tampone non dura 72 ore, bensì 48. E poi si ricomincia. Tutto ciò per accedere alla sala stampa dove i posti sono contingentati. Un giornalista a testata, dovrebbe essere la regola. Che non è sempre rispettata (alcuni giornali hanno più accreditati, che si turnano in sala, uno per il sito e uno per la carta). Il Foglio però, che ha inviato Saverio Raimondo e Michele Masneri (un comico e un giornalista), si ritrova con un accredito per Raimondo (prima negato e poi ottenuto dopo un lancio dell’Agi lunedì) che può entrare in sala stampa, però non può fare domande in quanto comico. E qui vorremmo fare una battuta sulla confusione involontaria delle due categorie, ma siamo giornalisti e dunque ci asteniamo. Masneri invece, che teoricamente potrebbe prendere la parola, però non può entrare perché non ha avuto l’accredito. Il massimo della burocrazia si raggiunge volendo salire sulla nave ormeggiata davanti a Sanremo, con cui Amadeus si collega ogni sera. Per salire sulla lancia che ti accompagna alla nave devi avere un tampone molecolare, il quale poi ti permette di accedere al successivo antigenico che in caso di esito negativo finalmente ti dà il diritto di visitare la Love boat del Festival. L’esame delle urine non è richiesto solo perché dopo le dichiarazioni di Ornella Muti si teme un’epidemia.

Aumenta l’inflazione, occorre aggiornare salari e pensioni

L’inflazione sta correndo senza che nessuno sia in grado di predire quando avverrà l’arresto. A gennaio l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (Nic), al lordo dei tabacchi, ha registrato un aumento dell’1,6% su base mensile e del 4,8% su base annua, rispetto a +3,9% del mese precedente. Un aumento, dice l’Istat, che non si vedeva dal 1996.

La notizia sembra passare piuttosto in sordina e non registra allarmi nel governo in Parlamento. Probabilmente a causa delle rassicurazioni della Bce che continua a descrivere come “transitorio” il fenomeno e non prevede di modificare la politica dei tassi di interesse. Al rialzo dell’inflazione, in genere, le Banche centrali alzano i tassi per restringere la quantità di moneta in circolazione. La Fed, negli Stati Uniti, ha già annunciato cinque rialzi nel corso del 2022, ma l’istituto guidato da Christine Lagarde sta mantenendo una posizione attendista e cerca di tranquillizzare governi e mercati.

Ma c’è da scommettere su questa ipotesi transitoria? Questa linea, in realtà, va avanti dall’estate scorsa, quando le prime fiammate inflazioniste si sono manifestate negli Stati Uniti. E già allora è prevalsa in Europa la linea della temporaneità. Però l’inflazione aumenta dappertutto e ieri nei Paesi dell’Unione ha toccato il 5,1% su base annua. Il dibattito sulla transitorietà dell’inflazione, in realtà, sembra non tener conto della quantità di eventi eccezionali che la determinano e per i quali non si intravedono risoluzioni immediate.

A trainare il rialzo è infatti il prezzo dell’energia, ma cosa può far pensare a una riduzione ravvicinata con quello che sta accadendo in Ucraina? Non a caso il governo è dovuto ricorrere a misure straordinarie per tamponare il trasferimento del caro energetico sugli aumenti in bolletta che comunque ci saranno lo stesso.

Stesso scetticismo si può nutrire per gli effetti delle enormi immissioni di moneta nel circuito economico che ormai datano dalla crisi del 2008, ma che hanno avuto un balzo improvviso (per fortuna) a seguito della pandemia da Covid. Chi può augurarsi una riduzione delle misure di sostegno alla domanda dopo quello che è successo negli ultimi due anni? Senza contare che la limitazione del commercio internazionale ha spinto o sta spingendo diversi settori produttivi ad affidarsi proprio alla domanda interna con quello che questo comporta in termini di pressione sui prezzi.

Si potrebbero fare altri esempi (il comportamento dei risparmiatori, ad esempio), ma resta comunque un dato ineliminabile: l’inflazione si è già scaricata sui prezzi al consumo. Bollette, beni alimentari e di necessità stanno già aumentando o sono aumentati anche molto di più del 5% ufficiale. E questo in un contesto di stagnazione salariale che, come ha dimostrato esaurientemente l’Ocse pochi mesi fa, vede l’Italia con salari mediamente più bassi di quelli del 1990. Quando, non a caso, furono inaugurate (quest’anno ricorre il trentennale) le politiche di contenimento dell’inflazione con l’abolizione di fatto dell’indicizzazione dei salari all’inflazione.

A distanza di 30 anni servirebbe un ripensamento di quella stagione e delle scelte prese allora. E se l’idea di ristabilire un meccanismo automatico che agganci salari e pensioni all’inflazione fa orrore ai nostri liberisti da divano (molti dei quali sono al governo) una misura basilare come il salario minimo costituirebbe almeno una risposta decente. Perché l’inflazione può anche essere transitoria, ma l’aumento nella busta della spesa una volta che si è prodotto resta per sempre.

 

L’informazione è ancora schiava dei poteri forti

La corsa per il Quirinale, che ha confermato Sergio Mattarella, ha prodotto un ulteriore allarme per la libertà d’informazione in Italia, da molti anni stimata a livelli da Terzo mondo nelle classifiche internazionali. Innanzitutto perché Silvio Berlusconi, capo di Forza Italia e padrone di Mediaset, ha potuto ventilare la sua incredibile “candidatura” senza venire sbattuto in prima pagina dai principali giornali come pregiudicato per frode fiscale e per il coinvolgimento in vari scandali. Ma anche perché altri presunti candidati sono stati legittimati ridimensionando o occultando le controindicazioni che potevano renderli inadatti come “capo dello Stato”.

In pratica tanti media sembrano aver consolidato – perfino nella scelta della massima carica della Repubblica – quella che da tempo appare una progressiva rinuncia al loro dovere di controllo sul potere. Al punto che tanti potenti si sentirebbero già tranquilli di non correre troppi rischi nel confronto quotidiano con i principali organi d’informazione.

A Berlusconi è stato addirittura concesso di poter essere lui a lasciare la corsa al Colle, dopo aver fallito nell’acquisire sufficienti voti di grandi elettori. Mentre i giornalisti avrebbero dovuto imporgli un abbandono immediato: anche per evitare il pericoloso precedente di un “candidato” condannato per un grave reato fiscale (ancora più pesante per un politico in quanto attuato contro lo Stato e la collettività). Se si escludono il Fatto e qualche altro giornale, i media hanno giudicato l’ex Cavaliere un “normale” papabile per il Colle. E hanno considerato “normali” i vari Giuliano Amato, Pier Ferdinando Casini, Gianni Letta, Paolo Gentiloni, ecc., pur offuscati da “ombre” e controindicazioni. Hanno usato toni celebrativi per la candidatura del premier Mario Draghi, dimenticando errori e segreti mai chiariti nella sua brillante carriera. Hanno di fatto sottovalutato la soluzione della prima volta di una donna al Quirinale, non scandagliando a fondo le caratteristiche e le conseguenti possibilità di consenso di candidate emerse o individuabili.

Draghi non ha finora replicato al dubbio che la benevolenza di tanti media verso governanti e politici sia influenzata dagli ingenti aiuti di Stato agli editori e all’élite dei giornalisti, varati dal suo “governo dei migliori” rappresentativo di tanti partiti (e di “poteri forti”). Ma, al di là delle cause, resta l’effetto. Perché i giornalisti non dovrebbero comunque defilarsi dal loro dovere di controllo sugli inquilini del Palazzo. I cittadini hanno il diritto di conoscere le controindicazioni e le “ombre” di chi punta alla massima carica della Repubblica o ad altri ruoli pubblici. Invece troppi media italiani non hanno privilegiato i requisiti da “capo dello Stato”. Si sono affannati a legittimare ogni nome trapelato dagli “inciuci” dei partiti. Non hanno diffuso fatti del passato, se critici o scandalosi, con adeguato risalto.

Amato per esempio – “braccio destro” del leader del Psi Bettino Craxi negli anni delle tangenti e tra i maggiori responsabili del maxi debito pubblico, della difesa suicida della lira nel ’92 e di tanto altro – non era inadatto per il Colle? Si è letto invece che – da buon membro della Corte costituzionale (ora neo-presidente) – avrebbe potuto svicolare dalla Costituzione, che impone il settennato, e promettere una irrituale staffetta al suo antico sodale Draghi. I giornali non avrebbero dovuto bocciare “a priori” politici di mestiere come Casini o Gentiloni in quanto simboli di mediocrità, trasformismo e poca trasparenza? Draghi non andava sollecitato a chiarire errori e segreti del suo passato? Il boiardo dc Ettore Bernabei confessò al Corriere della Sera di aver elargito un miliardo e mezzo di lire provenienti dai fondi neri dell’Iri – “per promuovere l’immagine dell’Italstat” – al direttore del quotidiano Tempo, Letta. Questi, da allora, poteva andare oltre il ruolo di “braccio destro” di Berlusconi?

Le testate benevole con i candidati controversi per il Colle sono uscite male anche dal confronto con i grandi elettori, che hanno preferito invocare Mattarella: magari grigio, ma almeno senza evidenti controindicazioni. Pertanto l’allarme sulla libertà d’informazione appare urgente e da gridare forte. Perché un sistema mediatico inefficace e prono, che non assolve il dovere di controllo sul potere, mette a rischio non solo la sua credibilità, ma anche la democrazia, lo sviluppo e il futuro dell’Italia.

 

E ora tutti aspettano

Quando dice “non so se il governo dura”, il ministro leghista Giancarlo Giorgetti pensa probabilmente, anche, alle prossime Idi di Primavera. Quando cioè si voterà in quasi mille comuni (sui circa 8mila), con 23 capoluoghi di provincia tra cui Genova, Palermo, Verona, Padova, L’Aquila, Parma, Piacenza, Alessandria, Catanzaro. Un sostanzioso anticipo delle elezioni politiche del 2023 che sulla carta potrebbe già scomporre partiti e coalizioni usciti con le ossa rotte dal Quirinal Tango. Soltanto dopo si potrebbe provare a ricomporre la griglia di partenza in vista della nuova legislatura. Prendiamo il M5S dove la mediazione elevata di Beppe Grillo potrebbe nel breve periodo scongiurare lo scontro finale Conte-Di Maio. Difficilmente però si eviterà la resa dei conti programmata dal ministro degli Esteri contro l’attuale capo politico, nel caso i voti del Movimento si riducessero in misura cospicua (come quasi sempre accade nei test amministrativi).

Quanto al centrodestra, è probabile che, malgrado l’alleanza politica funestata dall’esito del Mattarella Bis “non esiste più” (Giorgia Meloni), il cartello elettorale sopravviva, anche se da tempo ha perso la sua spinta propulsiva (vedi il recente tracollo alle Comunali di Roma, Milano, Napoli, Bologna). Sembra difficile, infatti, che per aprile-maggio il cosiddetto partito repubblicano vagheggiato da Matteo Salvini (con Berlusconi e i cespugli centristi) avrà preso una qualche forma. Al momento appare il classico, mediocre espediente per sviare l’attenzione dai disastri quirinalizi combinati dall’uomo del mojito. Nei prossimi mesi vedremo anche se la maionese del cosiddetto terzo polo impazzirà prima di aver messo insieme i partitini di Lupi (Noi con l’Italia), Toti (Coraggio Italia), Forza Italia e l’Udc (il problema è sempre lo stesso: ok, ma chi comanda?). Operazione che, tuttavia, necessita come l’aria di un’adeguata legge proporzionale, tutta da vedere. Grandi e piccole manovre che lascerebbero una vasta prateria a Giorgia Meloni, anche se i voti di cui si rimpinza la destra rischiano di restare inutilizzati nel frigorifero di un’opposizione fine a se stessa. Ecco perché, oltre a Giorgetti, alle Idi primaverili guarda con un certo timore Mario Draghi, che già oggi passa come il premier di un’unità nazionale scaduta come lo yogurt.

Repubblica in ginocchio: Mattarella ci perdoni

Più che giornalismo, raccoglimento religioso. Natalia Aspesi firma su Repubblica un’invocazione pubblica a Sergio Mattarella. Una catarsi a nome dell’intero popolo italiano: presidente non siamo degni di partecipare alla Sua mensa, ma dica soltanto una parola e noi saremo salvati. “Gentile Presidente – esordisce – credo che per la sua seconda elezione si possa usare una parola un po’ pomposa e antica: è stato un plebiscito, cioè non sono stati solo i 759 Grandi elettori a votarla, ma davvero la volevano gli italiani”, alcuni forse a loro insaputa. Eppure l’autrice non riesce a domare il senso di colpa per aver sottratto Mattarella all’affitto ai Parioli per altri 7 anni nel tugurio Quirinale: “Perché Lei sul serio non voleva essere rieletto… La sua volontà non è stata rispettata, i signori di tutti i partiti, incapaci di trovare una soluzione, si sono sentiti liberi di usarla”. Tutti noi siamo egoisti per aver esultato alla sua riconferma, conclude Aspesi, in un epilogo lisergico in cui divaga sui “begli occhi azzurri” di Sergio, sulla durezza del settennato per un 80enne come lui (“ma alla fine sarà sempre un fiore”) e sulla Sua sobrietà “in tempi in cui i sindaci si fanno fotografare con mutande e casco da ciclista”. Mattarella ci perdonerà?

Saipem, possibile affiancamento del management

Cominciano a ballare i vertici di Saipem dopo l’allarme sui conti lanciato lo scorso lunedì. Nel percorso per risanare il gruppo controllato da Eni (30,54%) e Cdp (12,55%), è spuntato un possibile affiancamento al management di Saipem. E, quindi, all’amministratore delegato Francesco Caio e al direttore finanziario Antonio Paccioretti. La scelta sarebbe emersa dal confronto serrato tra i soci in corso ieri sera, anche se solo a livello di ipotesi in vista del cda del prossimo 23 febbraio sui conti. Una data che hanno segnato sul calendario anche le banche, che vogliono vedere i numeri del disastro annunciato. Il colosso pubblico dell’ingegneria petrolifera ha avvisato che, per problemi sul portafoglio ordini, chiuderà i conti 2021 con una perdita superiore a un terzo del capitale sociale e dovrà quindi chiedere agli azionisti un aumento di capitale. Prosegue intanto la corsa all’indietro del titolo. Dopo il crollo del 30% di tre giorni fa, ieri ha ceduto l’1,24% a 1,31 euro, aggiornando il minimo storico.

Mps, Tesoro tenta il blitz contro l’ad Bastianini

Il Tesoro tira dritto e fa arrivare nel cda della controllata Mps di lunedì prossimo, quando dovrà essere approvato il bilancio 2021, la questione della fiducia all’ad Guido Bastianini. “La banca comunica che nel contesto del prossimo consiglio di amministrazione è stato inserito all’ordine del giorno un punto inerente una verifica di corporate governance riguardante la figura dell’amministratore delegato”, ha annunciato una nota del Monte, confermando quanto rivelato dal Fatto martedì.

A lavorare per convincere i consiglieri a ritirare le deleghe al banchiere 88 sarebbero a favore) è la presidente Patrizia Grieco, che si trova nella imbarazzante situazione di essere destinata a finire in una ipotetica lista Caltagirone nella guerra per le Generali. Dalla sua il manager ha i risultati: Mps nel 2021 dovrebbe chiudere in positivo di quasi mezzo miliardo, ma il bilancio potrebbe essere contestato dai consiglieri. A difesa di Bastianini si sono schierati 5Stelle e Lega. Solo a novembre il dg del Tesoro, Alessandro Rivera, aveva negato la volontà di cambiare l’ad.