Ue, il virus in risalita L’Oms: “È l’effetto della fine-lockdown”

Scendono per settimane, poi all’improvviso puntano verso l’alto segnando una “U” in corrispondenza degli ultimi giorni. Mentre nel mondo – 9,5 milioni di contagi e 482mila morti – l’infezione da SarsCov2 continua a diffondersi a ritmi da record in Sudamerica e raggiunge numeri significativi in Africa e Medio Oriente, anche le curve epidemiche di molti Stati Ue tornano a salire. Hans Kluge lega il fenomeno alla “rimodulazione delle restrizioni” decise da molti Paesi: “La scorsa settimana l’Europa ha registrato per la prima volta da mesi una crescita dei casi settimanali”, ha detto il direttore regionale dell’Oms. “30 Paesi hanno visto aumenti negli ultimi 14 giorni” . “In 11” c’è stata “una ripresa significativa che, se non controllata, spingerebbe di nuovo i sistemi sanitari al limite”.

Kluge non ha elencato gli Stati, ma la sua analisi è sovrapponibile a quella che emerge dai dati del Coronavirus Government Response Tracker, progetto della “Blavatnik School of Government” dell’Università di Oxford. I ricercatori hanno messo a punto una scala su base 100 che misura il “rilassamento” dei Paesi: dei 45 più colpiti (che hanno cioè più di 25mila casi) 21 hanno allentato le misure di distanziamento sociale e 10 di questi sono alle prese con un rialzo della curva. È il caso della Germania, dove il focolaio scoppiato alla Tönnies – quasi 1.500 casi tra gli operai del colosso delle carni nel Nordreno-Vestfalia – ha riportato l’indice Rt (la capacità di contagio di un infetto, la cui soglia di allarme è pari a 1) a quota 2,88: secondo la ricerca, il “tasso di restrizione” di Berlino è crollato dai 73 punti di inizio maggio ai 50 attuali e ha registrato un +36,7% di casi su base settimanale. Nel novero figurano anche Ucraina (oltre 40mila casi, di cui 994 nelle ultime 24 ore), Svizzera, Francia, Svezia, Bangladesh, Indonesia, Iran, Arabia Saudita e Stati Uniti.

Nella sola giornata di mercoledì, Washington ha ricevuto segnalazioni di 36.880 nuovi contagi da tutto il Paese, che è il più colpito al mondo con quasi 2,4 milioni di casi, 122mila morti e ha uno stringency rate sceso da 72,7 di inizio aprile all’attuale 69,0. Una situazione che risente dell’ordine sparso in cui si sono mossi i singoli Stati federali, tanto che il record è segnato dalle impennate registrate nel Sud e nell’Ovest, con Texas, Oklahoma e North Carolina che hanno riportato dati senza precedenti in un solo giorno: la Florida ne ha registrati oltre 5.500. Nonostante i dati la Casa Bianca ha confermato il piano di tagliare i fondi per 13 strutture che effettuano i test dopo l’ordine impartito da Donald Trump a Tulsa di ridurre la capacità diagnostica del Paese per abbassare i dati dei contagi.

Dietro gli Usa, il Brasile, in un’America Latina ormai epicentro mondiale della pandemia, continua la sua impennata: i positivi sono saliti a 1.188.631 (+42.725) e i morti sono 53.830 (+1.185). Secondo Oxford, il Paese del negazionista Jair Bolsonaro è tra quelli in cui la curva continua a salire nonostante siano ancora in lockdown, che comprendono l’India (4° posto al mondo con 473mila casi, di cui 17mila in 24 ore) e il Sudafrica: ieri Pretoria ha annunciato il suo record giornaliero (5.688 nuovi positivi), oltre la metà dei 10mila registrati in tutto il continente che ne conta finora 336mila.

Altri 11 Stati, fra cui l’Italia, hanno allentato le restrizioni, il loro indice è inferiore a 70, ma continuano a registrare un calo dei casi. Anche se non sono al sicuro da una seconda ondata. “Siamo ancora nella prima – ha detto ieri Kluge –, ma dobbiamo prepararci per l’autunno, quando il Covid-19 incontrerà influenza stagionale e polmoniti. Il virus continua a circolare e non abbiamo ancora farmaci e vaccini efficaci”.

Scontri e fughe dalla zona rossa. A Mondragone arriva l’Esercito

Dalla Campania all’Emilia-Romagna, l’Italia non ha smesso di fare i conti con il Covid-19. Due nuovi focolai ci ricordano come non bisogna affatto abbassare la guardia: uno a Bologna, con gli oltre 60 operai dell’azienda di trasposto merci Bartolini positivi al virus, l’altro a Mondragone (Caserta), dove si contano 43 casi. Qui il cuore del focolaio è nel complesso residenziale noto come Palazzi ex Cirio. Cinque edifici – residenza di comunità italiane, bulgare, ma anche tunisine, moldave e marocchine – dove il Covid ha fatto da detonatore anche a problemi legati alla convivenza. Con un’ordinanza della Regione Campania del 22 giugno, si è deciso di “innalzare” un cordone sanitario e di istituire un presidio intorno all’area con obbligo di isolamento domiciliare. Tra proteste e fughe, il governatore Vincenzo De Luca ha chiesto aiuto al Ministero dell’Interno. Il Viminale ha messo in campo l’esercito, disponendo l’invio di 50 uomini arrivati ieri sera. Fino a ieri – in una situazione già esplosiva – a presidiare la zona erano solo quattro i militari, oltre alle forze di polizia locali, spiegano dal comune nel casertano. “Appena due giorni fa – ha detto il sindaco di Mondragone, Virgilio Pacifico – rappresentavo al questore di Caserta l’insufficienza delle risorse umane impegnate per il rispetto dell’ordinanza regionale. Il questore affermava la mia incompetenza in materia”.

I primi casi in zona risalgono a sabato 20 giugno, quando una donna bulgara, arrivata in ospedale a Sessa Aurunca per partorire, è risultata positiva al Covid-19. L’Asl di Caserta ha individuato poi altri otto contagiati, per lo più asintomatici e di nazionalità bulgara. È partito così lo screening sui residenti dei cinque palazzi: sono stati effettuati 727 tamponi. All’esito si contano 43 casi positivi, sarebbero tutti bulgari, eccetto tre italiani. Alcuni sono anche usciti dalla zona, diventando dei possibili focolai di contagio per il resto della comunità. Circostanza che ha aggravato una situazione, già di per sé preoccupante, di tensione sociale.

Ancora ieri, un bulgaro ha lanciato una sedia dal balcone, italiani hanno risposto lanciando pietre e sfondando i finestrini delle auto dei bulgari parcheggiate, per poi mostrare le targhe delle vetture come fossero trofei.

Scene simili, per fortuna, non si sono viste a Bologna, dopo la scoperta di un focolaio nel magazzino dell’azienda logistica Brt Corriere espresso (ex Bartolini). Quasi 200 lavoratori in isolamento a casa e una cinquantina in attesa dei risultati. Ad oggi i positivi sono 64, di cui nove sono sintomatici, un paio ricoverati nei reparti Covid. “Il focolaio al momento interessa solo i magazzinieri dislocati nella sede Roveri – ha precisato Paolo Pandolfi, direttore del dipartimento di sanità pubblica dell’Ausl di Bologna –, non autisti, corrieri e impiegati ma faremo i tamponi anche a loro, per essere sicuri”. Il tampone verrà fatto a 370 persone in tutto, driver inclusi, mentre il magazzino è stato chiuso. Per Pandolfi “le regole non venivano rispettate in modo sistematico, qualche volta le persone non usavano la mascherina e non rispettavano la distanza di sicurezza. Purtroppo c’è gente che, passata la febbre, si è rimessa subito a lavorare”.

Una visione che dal sindacato SICobas non accettano: “Lunedì 15 giugno abbiamo mandato una pec per avvisare l’azienda e l’Ausl che due lavoratori erano positivi e per chiedere test immediati per tutti oppure il lavoro si sarebbe fermato. Siamo stati giudicati eccessivi ma avevamo ragione”, sottolinea il sindacalista Simone Carpeggiani. Che lancia un ulteriore allarme: “Abbiamo notizia di altri tre magazzini di altre ditte note, in cui sono stati trovati alcuni positivi. Sono aziende che impiegano tra le 200 e le 300 persone l’uno. Nessuno vuole prendersi la responsabilità di fermare tutto, ma il rischio è alto”. I lavoratori sono spaventati: dopo i primi due casi, denunciano, è stato cancellato solo il turno diurno mentre quello notturno, persino più affollato, è andato avanti fino a quando i contagi non sono cresciuti. Per Bartolini il focolaio “è stato originato da lavoratori di servizi logistici di magazzini gestiti da una società esterna” e tutto è stato fatto “con l’obiettivo di tutelare al massimo la salute di clienti, fornitori e collaboratori”.

Dopo la Borgonzoni, obiettivo Ceccardi. Le Sardine ricominciano dalla Toscana

L’appello è chiaro: “Ritorno nel banco!”. Obiettivo: battere la “destra” alle Regionali toscane e “liberare” Cascina (Pisa), prima roccaforte rossa espugnata nel 2016 dalla Lega di Susanna Ceccardi che andrà al voto nell’election day di settembre. A pochi giorni dal lancio della “zarina”, le Sardine toscane rispondono con un evento per dare il via alla campagna elettorale: domenica sera a Marina di Pisa, feudo della Ceccardi, ci saranno anche i fondatori bolognesi, tra cui il leader Mattia Santori. L’idea è quella di replicare la campagna emiliana per evitare che l’ex sindaca di Cascina espugni la rossa Toscana: la strategia delle Sardine è presidiare la costa, dove il centrosinistra soffre di più. “Sarà l’occasione per lanciare la campagna elettorale contro la destra sia a livello regionale che comunale” scrivono gli organizzatori, che si sono rivolti anche al candidato del centrosinistra Eugenio Giani perché sul tema migranti e abolizione dei decreti Sicurezza prenda una netta posizione: “Ci auguriamo che condivida le nostre idee e ne faccia tesoro per il futuro”.

L’antefatto di un veto: Renzi e i messaggini del babbo a Emiliano

C’è un antefatto giudiziario al veto di Matteo Renzi: “Se il Pd non ritira la candidatura di Emiliano in Puglia, Italia Viva andrà da sola”.

Emiliano incrocia l’indagine Consip come testimone tre anni fa. Carlo Russo (indagato poi per traffico di influenze e millantato credito) amico di Tiziano Renzi, gran chiacchierone, il 3 agosto 2016 butta lì ad Alfredo Romeo, mentre l’imprenditore è intercettato dal Noe nel suo ufficio: “È venuto a trovarmi in Salento Tiziano (…) da quest’anno poi abbiamo preso una casa (… ) sul mare (…) è venuto Emiliano più volte, insomma (…) ci stiamo divertendo”.

Il Fatto aveva già svelato a dicembre 2016 le indagini del Noe su Luca Lotti e gli accertamenti in corso anche su Tiziano Renzi. Così il 24 febbraio 2017 chiese conto a Emiliano ricevendo una smentita secca. “Ma quale visita a casa… non diciamo caz…te . Mai’”. Così riportammo la reazione del politico pugliese: “Emiliano tira fuori il telefonino e fa il colpo di teatro: ‘Eccoli gli sms con Russo: si interrompono nel 2015. Ed ecco il messaggino di Lotti che mi dice di incontrarlo’”.

La rivelazione era politicamente sensibile per due ragioni: mostrava che Russo non era un millantatore quando diceva di conoscere i renziani e si inseriva nella corsa alla segreteria del Pd. Emiliano, infatti, si era candidato contro Renzi e quando il 29 marzo 2017 fu sentito dai pm di Roma non si tirò indietro: “Il primo riferimento – spiegò ai pm – è datato 11 ottobre 2014, ore 13.43 in uscita, allorquando inviai a Luca Lotti il seguente messaggio: ‘Tu conosci un certo Carlo Russo che sta venendo a Bari a sostenermi dicendo che è amico tuo e di Elena Boschi e che ha detto a Scalfarotto di far parte del mio staff?’. Luca Lotti rispose via sms sinteticamente, subito dopo: ‘lo conosciamo’. Poiché non riuscivo a comprendere il senso della risposta, inviai altro messaggio del seguente tenore: ‘nel senso che lo devo incontrare o lo devo evitare?’; la risposta di Lotti fu ‘ha un buon giro tramite il mondo della farmaceutica, se lo vedi dieci minuti non perdi tempo’”. Bum. La “raccomandazione” a Emiliano di Russo allora era una notizia. “Devo precisare – prosegue nel verbale del marzo 2017 Emiliano – che l’origine della mia richiesta di informazione a Lotti era una notizia che un collaboratore dell’on. Scalfarotto aveva riferito a qualcuno dei miei collaboratori (non ricordo a chi in particolare), ovvero che il Russo si accreditava come componente del mio staff elettorale (in quel periodo ero candidato alle primarie del centrosinistra per la Regione Puglia), cosa che non rispondeva affatto a verità”. Quel giorno Emiliano mostra ai pm anche gli sms ricevuti dal padre dell’ex premier.

“Qualche mese prima, se ben ricordo nell’estate del 2014, avevo conosciuto Russo (…) Non ricordo esattamente in che modo Russo si era presentato a me, ma mi aveva certamente detto di essere amico di Matteo Renzi”, mentre poi le indagini accerteranno che l’ amicizia era con Tiziano, non con Matteo. Emiliano mostrò poi un sms del 10 agosto 2015 ricevuto dalla sua segretaria: “Ricevo una chiamata da Carlo Russo (… si ricorda di Tiziano Renzi…) che ha avuto mandato ufficiale da Matteo di farsi una chiacchierata informale con lei per trovare una quadra. Lui è in Salento sino al 4 settembre. Gli ho detto che gli avrei fatto sapere”. Emiliano spiegò così il seguito della storia: “Non lo contattai in alcun modo, un po’ perché avevo già intuito che tipo fosse e anche perché i miei eventuali rapporti con Renzi ovviamente li avrei gestiti in prima persona. Quanto al riferimento nel messaggio a Tiziano Renzi, preciso che non lo ho mai incontrato e che sì ci furono vari tentativi da parte di Tiziano Renzi di incontrarmi, senza successo”. Poi Emiliano mostrò ai pm due messaggi ricevuti da Tiziano Renzi. Il primo del 16 febbraio 2015: “Sono Tiziano Renzi, posso disturbare?”. Emiliano spiegò ai pm il seguito: “Non ricordo di averci parlato al telefono subito dopo, ma non lo escludo”; il secondo ricevuto il 3 luglio 2015: “Buongiorno Presidente, sono Tiziano, tra un’ora sono al Palace per un incontro”. Emiliano non rispose ma per un caso: “Ricordo di averlo letto in ritardo”.

I pm romani Mario Palazzi, Paolo Ielo e Giuseppe Pignatone usano una parte delle dichiarazioni per chiedere l’archiviazione di Tiziano Renzi: “Si tratta dell’ennesima vanteria, non corrispondente a verità, tipica dell’agire di un impostore: non solo il governatore Emiliano ha riferito di aver incontrato Carlo Russo in Bari solo occasionalmente nel 2014 e 2015 , nonché di non avere mai incontrato di persona Tiziano Renzi, ma (…) Renzi dal primo maggio 2016 al 3 agosto 2016 non si è mai recato in tale Regione”.

Mentre il Gip Gaspare Sturzo nel rigettare la richiesta di archiviazione di Tiziano Renzi cita altri punti della deposizione. “Emiliano ha riferito di aver parlato con Lotti del Russo durante la sua campagna elettorale del 2014, e di aver avuto dal Lotti notizia di una vicinanza del Russo al loro gruppo politico e della convenienza di riceverlo”, il tutto “in epoca non sospetta (ottobre 2014) e antecedente alla vicenda Consip”. Il Gip Sturzo scrive: “In sostanza, Russo Carlo, certamente è un faccendiere di un certo spessore che: (….) aveva tentato un approccio relazionale con Emiliano durante le elezioni regionali pugliesi del 2014; aveva una comprovata conoscenza con il Lotti Luca, secondo Emiliano”; E poi ancora “Lotti (…) secondo l’assunto di Emiliano effettivamente conosceva Russo e almeno nel 2015 dava una sorta di affidavit sullo stesso al politico pugliese”.

Il Gip Sturzo ha chiesto ai pm di verificare meglio il ruolo di Tiziano Renzi chiedendo nuove indagini prima di archiviare l’ipotesi di traffico di influenze in concorso con Russo e Romeo. Oggettivamente quella deposizione del marzo 2017 non ha aiutato Tiziano Renzi. E questo potrebbe essere un pessimo biglietto da visita per uno che vuole essere sostenuto da Matteo Renzi alle Regionali.

Cashback e riduzione dell’Iva Conte si impunta sulle tasse

Un messaggio simbolico Giuseppe Conte lo dà nel pomeriggio quando, durante una passeggiata a piedi nel centro di Roma, si ferma a parlare con alcuni cittadini e rilancia la sua idea sul fisco: “Dobbiamo pagare tutti di meno, perché la pressione fiscale è elevata, non possiamo affidarci al turista di turno, ma pagare tutto col digitale”.

L’obiettivo del premier ha un nome inglese, cashback, su cui punta le sue carte. Il cashback è lo sconto che si produrrebbe, sia per il consumatore finale sia per il negoziante, con l’utilizzo di pagamenti elettronici ed è in questo senso che va inteso il progetto di riduzione dell’Iva.

Ieri sera non si è entrati troppo nel merito delle scelte perché le divergenze ci sono, ma intanto è stato definito il passaggio molto delicato sullo scostamento di bilancio, cioè sull’ampliamento del deficit: sarà di nuovi 20 miliardi di euro che si sommano ai 75 già approvati e che produrranno alcune conseguenze non di poco conto. Da un lato, un rigonfiamento del deficit che dal 9,1% delle prime stime del governo è stato calcolato dal Fmi in un 12,8% a fine 2020 (e contestuale debito pubblico che schizzerebbe al 166%)

L’altro passaggio è politico: lo scostamento di bilancio ha bisogno, infatti, di un voto delle due Camere a maggioranza assoluta, quindi il numero del sostegno al governo, se non vorrà ricorrere all’aiuto delle opposizioni, dovrà essere certo.

Poi c’è il tema, il più importante, di come spendere queste nuove risorse e ieri sera si è cercato di individuare una prima quadra senza però arrivare a scelte definitive. Se Conte, infatti, punta sui pagamenti digitali, il ministro dell’Economia non ha le stesse idee e si propone, come ha ripetuto ancora ieri intervenendo al question time, di ottenere una riduzione delle tasse per lavoratori e imprese, un classico della cultura economica Pd. Nel mondo 5Stelle, non a caso, alcuni definiscono questa impostazione “uno slogan di partito” che quindi non passerà.

Un obiettivo che Conte sembra essersi dato, comunque, è quello di ottenere un segnale esplicito sul fronte delle tasse. Gualtieri ieri ha riproposto di nuovo il problema della revisione delle tax expenditure, le decine e decine di agevolazioni fiscali che da tempo strozzano il sistema fiscale e la cui eliminazione non è così semplice (anche perché si tradurrebbe improvvisamente in un rialzo di tasse per alcuni settori specifici). Ma al momento oltre il titolo non c’è nulla. Poi c’è la proposta di Italia Viva di rivedere l’Irpef e soprattutto la decontribuzione per le imprese, posizione ancora diversa da quella di M5S e Pd.

Su un altro fronte sembra esserci una posizione più condivisa. Palazzo Chigi l’ha esplicitata ieri in una nota in cui ha smentito dissapori o scontri dopo l’incontro con il presidente dell’Inps dell’altra sera. Da Conte viene ribadita “piena fiducia nel presidente Tridico”, ma anche la consapevolezza “che il meccanismo della cassa integrazione che abbiamo ereditato è troppo articolato e farraginoso”. E quindi ci sarà un mandato alla ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, per un progetto di riordino della cassa integrazione che comprende anche la staffetta generazionale, incentivi alle assunzioni di giovani e donne con un passato da disoccupati o scoraggiati. Nel progetto c’è anche la detassazione dei premi di produttività e un fondo strutturale per finanziare lo scambio tra la riduzione dell’orario di lavoro e la formazione. Un elenco di interventi che rispecchia la linea già emersa con l’idea lanciata dal premier Giuseppe Conte di agevolare fiscalmente le aziende che evitano il ricorso alla cig.

Infine, si dovranno precisare i termini del decreto Semplificazione: “È un decreto che verrà molto dibattuto”, ha detto ancora Conte ieri sera al Tg1, perché toccherà il Codice degli appalti, le Via, i permessi ambientali, ma “sono determinato e deciso a far comprendere a tutte le forze di maggioranza che è essenziale per la ripartenza”.

“Il contante serve ai corrotti, agli evasori e al lavoro nero”

Milena Gabanelli è la giornalista che da un decennio propone di ridurre il contante nelle transazioni economiche.

Come sei arrivata a questa proposta?

Parliamo di quasi dieci anni fa: l’intento era quello di offrire un suggerimento o quantomeno aprire una discussione. Nelle inchieste sulla corruzione, alla fine c’era sempre un giro di contanti; come in quelle sul lavoro nero, pagato sempre in contanti; sui professionisti, che preferivano i contanti, offrendo uno sconto del 20% senza fattura; e poi su quel gigantesco numero dell’economia sommersa (allora era sul 20% del Pil, secondo l’Fmi, sul 14% per l’Istat) che si nutre di contante e non paga le imposte dovute. Allora mi sono chiesta: se s’incentivassero i pagamenti tracciabili e si scoraggiasse l’uso del contante, non avremmo tutti da guadagnarci?

È anche un modo per ridurre l’evasione fiscale?

Credo sia difficile stabilirlo con precisione: l’economia sommersa è una stima, negli ultimi anni è un po’ calata, ma si aggira sui 190 miliardi l’anno. Però calcolando l’aliquota minima si fa presto a fare un conto.

L’uso della moneta elettronica potrebbe ridurre il lavoro nero e l’economia sommersa?

Di sicuro è più complicato sfuggire quando a monte c’è un pagamento tracciabile.

Ma come la riduzione del contante potrebbe essere un mezzo di contrasto alla corruzione e alle mafie?

I mezzi usati dal mondo dell’illegalità, purtroppo, sono sempre più sofisticati dei mezzi per combatterla, ma certamente la difficoltà a reperire contante qualche ostacolo lo mette. Anche l’ultimo episodio legato agli appalti di Atm Milano dimostra che le tangenti viaggiano sempre dentro a una busta con il cash. Che cosa ci facevano 67 mila euro in contanti in mano al dirigente Paolo Bellini?

È vero che meno contante significa più Pil?

Il Pil calcola anche la quota di sommerso, ma con meno contante in circolazione fai fatica a pagare i lavoratori in nero, per esempio, e sono circa 3 milioni, a cui non versi i contributi. Se li paghi con un assegno o un bonifico, dovrai per forza versarli, e questi soldi vanno nelle casse dell’Inps che poi paga le pensioni. Vale per tutto il settore del commercio e dei professionisti, che non pagano l’Iva e sotto-dichiarano. Sono tanti soldi, che consentirebbero di avere migliori servizi, di abbassare un po’ le tasse e creare nuovi posti di lavoro. Oltre a rendere tutto un po’ più equo, togliendo di mezzo la concorrenza sleale. Poi questo deve essere accompagnato dai mezzi necessari per combattere i grandi evasori, quelli che sfuggono completamente al fisco, o trasferiscono i profitti realizzati in Italia in un Paese a fiscalità agevolata, sfruttando però le infrastrutture italiane pagate con la fiscalità generale a cui tutti hanno contribuito, tranne loro.

Siamo uno dei Paesi occidentali più arretrati per uso di moneta elettronica.

Un po’ perché siamo ancora culturalmente analogici: ma si può recuperare incentivandola, consentendo per esempio di scaricare una percentuale di alcune spese. Occorre trovare un accordo con il sistema bancario per ridurre le commissioni. Per chi non si fida esiste sempre l’assegno. Contestualmente andrebbe scoraggiato pesantemente l’utilizzo del contante portando il tetto a un minimo mensile, o rendendone più costoso l’utilizzo. In fondo chi non può fare a meno del contante? Chi evade, chi fa il nero, gli spacciatori, i corruttori. Per tutti gli altri il problema non sussiste, nemmeno per gli anziani. Ricordo che ai tempi della social card, 12 anni fa, quasi 1 milione di indigenti e sopra i 65 anni fecero richiesta, dimostrando di non avere nessuna difficoltà a usare una carta elettronica con depositati 40 euro. Quando c’è un vantaggio, tutti imparano in fretta. Bisogna saperlo comunicare bene: “Se paghi con mezzi tracciabili, pagherai un ticket sanitario più basso, saranno meno lunghe le liste di attesa, ci saranno più asili nido, etc”. Poi le promesse vanno anche mantenute.

È pensabile, in futuro, l’abolizione della carta moneta, sostituita da una moneta elettronica di Stato?

In futuro saranno possibili tante cose, intanto guardiamo al presente.

Cosa pensi dell’eventualità di un condono in questa materia, suggerito anche dalla commissione Colao?

Se intendi l’emersione del contante depositato nelle cassette di sicurezza, che secondo il procuratore di Milano, ho letto sul vostro giornale, sarebbero 200 miliardi, i mezzi sono diversi, anche quello di proporre l’acquisto di titoli di Stato con un rendimento per esempio dell’1,5% a 3/5 anni, dedicati a realizzare infrastrutture.

Esistono monete elettroniche non tracciabili (tipo bitcoin): la guerra contro il contante non rischia di essere vana?

Chi vuole farla franca il modo lo trova sempre, però non per questo bisogna tenere la porta di casa aperta. Almeno mettiamoci una buona serratura.

Il conclave giallorosa: altri 20 miliardi per uscire dall’angolo

La grande incertezza che può divorare il governo è fatta dei volti e dei sussurri dei parlamentari che sciamano per i Palazzi, fiutando un’altra estate infinita. Ha la voce del governatore dem dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, che da Stasera Italia recapita consigli come siluri al suo segretario Nicola Zingaretti: “Irrobustisca il gruppo dirigente, il Pd deve dare una spinta riformista con più fatti e meno parole”.

I venti contrari bussano forte alle porte di Palazzo Chigi, dove ieri sera il governo si è raggrumato in un ennesimo vertice con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e i capi delegazione, per provare a costruire un’altra manovra d’emergenza, con un altro scostamento di bilancio. Una manovra da 20 miliardi, la carta per uscire dall’assedio. Ma non è semplice sottrarsi alla morsa, per il governo che di pomeriggio in Consiglio dei ministri aveva stabilito che in Puglia e in Liguria alle Regionali si voterà con la doppia preferenza, per garantire l’equilibrio di genere nei rispettivi Consigli. Una proposta avanzata dal ministro per gli Affari regionali, il dem Francesco Boccia.

Però nelle stesse ore lì fuori c’è un altro big del Pd, il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio, che cannoneggia da Sky Tg24: “Cominciano a esserci alcuni problemi nei numeri, i fuoriusciti al Senato del M5S hanno determinato uno stato di minore certezza”. Soprattutto, precisa: “Serve che ci spieghino perché il taglio dell’Iva sia diventato una priorità”. E l’avvertimento vale per il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, come per il Movimento. Non il miglior viatico al vertice che inizia poco prima delle 19. Con i Cinque Stelle, guidati dal capo delegazione Alfonso Bonafede e dalla viceministra all’Economia Laura Castelli, che si siedono al tavolo puntando tre obiettivi: una forte riduzione delle tasse, la sospensione dello split payment (procedura in base alla quale il cliente, cioè la Pubblica amministrazione, paga l’Iva al posto del fornitore) e più soldi per la scuola. “Ci serve un miliardo in più per aumentare l’organico e per creare spazi aggiunti negli istituti” ha chiesto in Cdm la ministra all’Istruzione Lucia Azzolina, grillina da tempo sotto il bombardamento di Pd e Italia Viva. Il M5S fa quadrato, con gli altri ministri. E anche Conte dice parole concilianti. Sa che un eventuale rimpasto, invocato da parecchi dem (Dario Franceschini, in primis) partirebbe proprio da lì, dall’Istruzione. E rischierebbe di travolgerlo, solo se si cominciasse davvero a parlarne.

Ma anche lo stop allo split payment è un nodo centrale. Perché è un punto condiviso da 5Stelle e Italia Viva: e c’entrano anche i contatti delle ultime settimane tra Luigi Di Maio e Matteo Renzi, quelli che hanno insospettito il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Di sicuro è un problema per un altro dem, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, che sullo split la pensa all’opposto di grillini e renziani, tanto da aver chiesto all’Unione europea il via libera alla proroga della misura. Così sostiene l’Ance, l’associazione nazionale costruttori, che in una nota accusa: “Qualcuno in questo governo vuole uccidere le imprese, a cui lo split payment sottrae liquidità. I dati dell’Agenzie delle entrate sugli effetti benefici della fatturazione elettronica dimostrano che è una misura inutile”. Ed è un altro modo per sostenere la pressione di 5Stelle e grillini. Ma la partita è soprattutto un’altra. Perché dal Movimento lo dicono chiaro: “Dobbiamo portare a casa qualcosa di concreto, perché i nostri parlamentari sui territori sono tutti sotto pressione”. Per questo Castelli chiede “una decontribuzione per incentivare i rientri dalla cassa integrazione” e il rinvio delle scadenze fiscali.

Gualtieri ascolta e schiva, assieme al Pd, sul taglio dell’Iva: “Ci avevamo già lavorato, valuteremo”. Prende tempo, il ministro. Per la preoccupazione di Palazzo Chigi, soprattutto. Se ne riparlerà la prossima settimana, in un nuovo vertice. Dove bisognerà decidere, davvero.

Recalcazzola didattica con tarapia tapioco

I problemi della scuola – quelli vecchi e quelli nuovi creati dalla pandemia – sono noti. Il governo fa quel che può, per i pochi soldi, il poco tempo e il rischio che le aule diventino nuovi focolai nella stagione autunnale, la più propizia per un’ondata di ritorno del Covid. Occorrono classi più piccole e spazi più vasti per garantire il distanziamento, dunque più insegnanti, bidelli, assistenti, strutture ed edifici idonei, oltre alle precauzioni anti-contagio. Una montagna di soldi che, anche se fossero disponibili, non si riuscirebbe a spenderli in tempo. Qualche demente voleva riaprire le scuole a maggio, poco prima di richiuderle per le ferie, perché “tutta Europa le riapre tranne noi”. Balle: in Francia, Macron ci ha provato su base volontaria e contro il parere degli scienziati, ma il 70% dei genitori han tenuto i figli a casa; idem in Inghilterra, dove il 50% non ci mette piede; la Spagna, come noi, riapre a settembre. Allora i dementi han preso a dire che la maturità sarebbe stata un disastro, anzi non si sarebbe mai fatta: invece tutto procede decentemente.

Ora il Partito Preso dell’Apocalisse preannuncia catastrofi per settembre e ha individuato il bersaglio perfetto: Lucia Azzolina, che è donna ma grillina, ergo può essere lapidata senza problemi. Intendiamoci: di ogni ministro è sacrosanto criticare pensieri, parole, opere e omissioni. Ma qui, come spesso accade a questo governo, non si capisce quali sarebbero i suoi errori. E soprattutto le soluzioni alternative (con relative coperture finanziarie): assumere 150mila docenti per sei mesi-un anno e poi licenziarli quando finirà l’emergenza? Costruire nuove scuole fra luglio e agosto? Stampare moneta come Totò e Peppino nella Banda degli onesti? È ovvio che si cerchi di investire il più possibile, di assumere più personale, di alternare la didattica a distanza con quella di presenza, di rispettare l’“autonomia scolastica” che consente a ogni preside di gestire le proprie risorse e strutture (alcuni istituti ne hanno troppe, altri troppo poche). Cioè di tamponare l’emergenza sperando che passi presto e intanto gettare le basi per un riassetto complessivo della scuola. Bene fanno insegnanti, genitori e studenti a scendere in piazza per chiedere al governo il maggiore sforzo possibile. Ma chi pensa di avere tutto subito sostituendo la ministra con qualcun altro fa ridere: specie se non ha mai detto una parola sui veri responsabili del disastro: non solo la Gelmini, ma pure le Giannini, le Fedeli (nota falsa laureata). Noi leggiamo con devozione Repubblica, organo ufficiale del Partito Preso, che pullula di aspiranti ministri dell’Istruzione.

Chiara Saraceno ha già individuato il bubbone: la “ministra alla sciatteria” che delega troppo “in nome dell’autonomia scolastica”. Cioè di una legge dello Stato, che fra l’altro non ha fatto lei. E “non si rende conto” che bisogna “aumentare i docenti” (infatti li sta aumentando, con un concorso osteggiato dal partito della sanatoria Pd-sindacati). E non “apre la didattica alla comunità locale”, qualunque cosa voglia dire. Sempre in cerca di soluzioni praticabili e comprensibili, ci abbeveriamo alla fonte di Massimo Recalcati, un altro degli “intellettuali” reclutati da Repubblica per spiegarci “quello che la politica dovrebbe fare per la ripartenza”. E qui, va detto, concretezza portami via. Sul giornale che per un mese ha preso per il culo Conte sugli Stati generali dell’economia, Recalcati ha un’ideona: “Subito gli Stati generali per l’Anno zero dell’istruzione”. Già, perché occorrono “sguardo e pensiero lungo”, soprattutto limpido, mica come “le decisioni ministeriali incerte e farraginose che disorientano”. In parole povere: “una rivoluzione culturale” per “inaugurare una nuova stagione culturale” in “quello spazio culturalmente decisivo dove la vita dei nostri figli prende forma”. Quindi, in concreto? “Senza una buona Scuola un Paese è morto”. Eh già. E attenzione: “Una Scuola chiusa è evidente che non è una Scuola”. Ma va? Se è chiusa come si fa con la “trasmissione di cultura della cittadinanza, di pensiero critico (tipo il suo alle Leopolde, ndr), di desiderio di sapere?”. Ah saperlo. “Il sapere che dà forma alla vita è un sapere mai scisso dalla relazione”. Perbacco. Senza dimenticare “l’universo plurale delle lingue” (tipo la sua alle Leopolde).

La “didattica a distanza” non gli garba, anzi “non esiste”. Sì, è vero, fino a due mesi fa si moriva come le mosche, ma “è stato un errore non introdurre dispositivi simbolici anche minimi per sancire la promozione delle scuole secondarie”, tipo un traduttore simultaneo delle recalcazzole. Quindi basta “ragionare sulle distanze necessarie da preservare, sul rischio degli assembramenti, sulle mascherine, sulle pareti di plexiglass”: questo Covid ha rotto i coglioni e “il dibattito non può restare ostaggio del virus e del problema della sicurezza”. Ci vuole ben altro, detto terra-terra: “rimodulazioni profonde”, “interdisciplinarietà”, “ricomposizione inedita”, “diversa circolazione degli allievi” (a targhe alterne) e soprattutto “portare la scuola verso la città, nei quartieri, nei territori” (le famose classi a rotelle) e “favorire la permanenza” indovinate di chi? Non dei peggiori, ma nientemeno che “dei migliori”. Del resto “la Scuola da tempo è in terapia intensiva”, ergo serve “una terapia d’urto”. Con tarapia tapioco come fosse Antani.

Listino Rai. Moretti rimandato, al lido Rosi e Luchetti

Tre piani di Nanni Moretti non sarà alla Mostra di Venezia. Ve l’avevamo anticipato, la conferma dal listino, ovvero i titoli di prossima uscita, di Rai Cinema e 01 Distribution. L’adattamento da Eshkol Nevo arriverà in sala a primavera 2021, con successivo approdo a Cannes. Al Lido (2-12 settembre) troveremo certamente Miss Marx di Susanna Nicchiarelli, sugli schermi dal 17 settembre, probabile Lacci di Daniele Luchetti, dal romanzo di Domenico Starnone (1° ottobre), ma il pezzo forte dovrebbe essere il documentario di Gianfranco Rosi (Sacro G.R.A., Fuocoammare) Notturno, ambientato in Medio Oriente. Niente Laguna neanche per Freaks Out, l’opera seconda dalla gestazione infinita di Gabriele Mainetti: mix del precedente Lo chiamavano Jeeg Robot, La vita è bella e Pinocchio, dall’adattamento di Matteo Garrone mutua dunque l’astinenza festivaliera e l’uscita prenatalizia (16 dicembre). Quindici giorni dopo, il 31, toccherà a Diabolik dei Manetti Bros. Nel ricco listino 01 le cose migliori paiono Il cattivo poeta di Gianluca Jodice, con Sergio Castellitto Gabriele D’Annunzio, e il musical The Land of Dreams dell’esordiente Nicola Abbatangelo.

Con Daniela Mazzucato e Marco Scolastra, “La voce umana” ritrova le giuste note

Nel 1959 andò in scena all’Opéra Comique di Parigi, sotto la direzione di Georges Prêtre, un vero esperimento drammatico: La voix humaine, un lungo monologo per soprano di Francis Poulenc. L’Autore volle denominarlo, all’antica, Tragédie Lyrique. Il testo è di Jean Cocteau ed esordì nel 1930. Una grande novità drammaturgica è che tutto si svolge a telefono. La protagonista parla con l’uomo che, dopo una relazione di cinque anni, l’ha appena lasciata; il telefono nel teatro d’Opera appare per la prima volta in Intermezzo di Richard Strauss, rappresentato nel 1924. L’invenzione di Cocteau è diversa: il telefono, l’unico mezzo con il quale la sventurata comunica col mondo esterno, diviene un altro protagonista, o deuteragonista. Non sappiamo il nome della donna né udiamo la voce dell’ex amante; tutto il dialogo va desunto dal blaterare psicopatico di lei, tra continue scariche, interruzioni, sovrapporsi di altre voci.

Solo Cocteau avrebbe potuto immaginare un carattere così sciocco insieme ed egocentrico; la pazienza dell’uomo che l’ascolta dev’essere senza fine, giacché sarebbero bastati cinque minuti, non cinque anni, a decidere di troncare ogni rapporto con una donna simile. Fra estenuanti ripetizioni, ella tesse un filo di bugie; apprendiamo che dopo l’abbandono è trascorsa anche per un tentato suicidio. Alla fine, preceduta da strazianti “pedali” melodici dell’orchestra, ella si strangola col filo del telefono.

Il genio di Poulenc s’impadronisce del testo e lo sviluppa mostruosamente, senza per questo allungare la durata della rappresentazione, ché elle stride a una velocità superiore a quella di una conversazione parlata. Lo approfondisce in senso espressivo; gli stili di canto trascorrono dal declamato-recitativo a parti liriche, senza che in apparenza vi sia un nesso in questo eterno fluire di suppliche e lamenti. L’orchestra, particolarmente densa, ha da essere “sontuosa”, scrive egli. Poi la riassunse in una versione ove all’orchestra si sostituisce il pianoforte; era uno straordinario pianista, e la parte dello strumento è molto difficile. L’accompagnamento è fatto di traduzione figuralista del carattere di lei, di ironici contrappunti al suo disgraziato destino, di acri dissonanze a tradurre la sua petulanza. Questa versione è stata ora incisa da una veterana del nostro canto lirico, Daniela Mazzucato (Brilliant Records), accompagnata da un pianista bravo, colto e coraggioso, Marco Scolastra. Completa il disco un altro capolavoro del grande compositore: un Melologo, L’histoire de Babar. Qui il pianoforte è il destinatario autentico, mentre la voce recitante è del tenore Max-René Cosotti.