“Quella sporca donnina”: escort entrate nella Storia

Tre smeraldi, quattro rubini, uno zaffiro, venticinque perle, per un totale di 157.927 franchi d’oro: sono gli acquisti che Therese Lachmann, ex marchesa de la Païva, partita ragazzina dal ghetto di Mosca e diventata la più costosa delle cortigiane del Secondo Impero, fa presso la boutique Boucheron a Parigi in un solo giorno, il 27 ottobre 1872. A pagare il conto è il suo nuovo marito ventenne, il conte von Donnersmarck, magnate amico di Bismarck. Non paga, si fa anche costruire un palazzo, l’Hotel de la Païva (ancora oggi visitabile a Parigi) dai soffitti affrescati e una vasca d’argento Christofle dai rubinetti d’oro (tra cui uno per lo champagne).

Ma la Païva non è la sola escort che si regala una dimora grazie al patrimonio accumulato a suon di marchette. Nella stessa metà del XIX secolo anche Pearl DeVere, in Colorado, inaugura un lussuoso locale di prostituzione: salotti con divani damascati, pianoforte a coda e una stanza con un oblò di vetro per scegliere in incognito le ragazze. La Païva e Pearl DeVere: due esempi di donne che attraverso la seduzione e il sesso abbattono le barriere sociali e riescono a conquistarsi, partendo dal nulla, un potere e un’autonomia, anche economica, impensabili per le donne “oneste” del loro tempo.

Ed è proprio per rendere onore a queste figure – contro la retorica che ha recuperato sì donne del passato, ma purché scienziate, rivoluzionarie o artiste – che la scrittrice Lia Celi ha deciso di raccontare alcune delle loro appassionanti biografie nel libro Quella sporca donnina. Dodici seduttrici che hanno cambiato il mondo (Utet).

La prima sex worker della storia si chiama Rahab e ce la presenta il Vecchio Testamento. Battona a Gerico nel XV secolo avanti Cristo, è una popolana che mantiene la famiglia e si salva dalla distruzione della città nascondendo due spie israelite. Nel IV secolo avanti Cristo troviamo invece Frine, escort distinta che intrattiene i gentiluomini con spettacoli di burlesque e fòlgora Prassitele, diventando la sua modella per l’Afrodite cnidia. Nella rigida società confuciana del V secolo dopo Cristo, in Cina, la giovanissima Su Xiaoxiao, fine poetessa, affascina invece ricchi mercanti e alti funzionari. Scappa invece da un matrimonio opprimente la veneziana Veronica Franco: letterata e star delle “cortigiane honeste”, avrà sei amatissimi figli e una vita inimitabile (diventerà protagonista del biopic Padrona del suo destino, uscito nel 1998). C’è poi anche chi, come l’inglese Harriette Wilson, dopo essersi ripassata tutta l’aristocrazia inglese, a fine carriera decide di scrivere un libro di memorie di successo per fare un po’ di soldi ricattando gli ex clienti. Nelle carceri del Terrore l’oscura fille de joie Eglé ride in faccia ai giudici e affronta la ghigliottina con la dignità di una regina, nel lager del Terzo Reich viene reclusa Hedwig Porschutz, che si prostituiva per sfamare ragazze disabili ebree nascoste nel suo appartamento: oggi è commemorata come Giusta fra le Nazioni.

Da Rahab a Divine Brown (la prostituta che cresce le figlie grazie a un po’ di sesso orale con Hugh Grant), queste “battone” – che l’autrice definisce “anarchiche, coraggiose, pragmatiche, intelligenti” – riescono a conquistarsi un anticipo di libertà di cui godono le donne del XXI secolo, relazionandosi abilmente con le autorità dell’epoca per aggirare i divieti, ma soprattutto utilizzando la moneta sonante dell’amore: perché il libro racconta anche di uomini perdutamente innamorati (spesso ricambiati) e fragili.

Dai bassifondi ai salotti, dalla Bibbia al Sunset Boulevard, le dodici “sporche donnine” di Lia Celi ci impartiscono una lezione antica e modernissima: “Nella vita può succedere a tutti di doversi vendere. L’importante è non permettere a qualcun altro di decidere il nostro prezzo”.

È pura poesia, Bellezza. Dario, una penna del 900

La prima volta che ho ascoltato il nome di Dario Bellezza ero nello studio di Enzo Siciliano, diventato la sede della nuova serie di Nuovi Argomenti. Enzo mi disse che era salito da lui un giovanotto magro, alto, con un gran ciuffo in testa, vestito con un cappotto nero. “Moolto gay”, aggiunse.

Era l’inverno del 1966. Aveva depositato una busta gialla, in cui c’era il suo lungo racconto arbasiniano La rapida ira, che uscirà sulla rivista due anni dopo. Era amico di Pasolini fin dal 1962 e dal 1963 di Elsa Morante che lo presentò a Moravia. Ci conoscemmo a casa di Amelia Rosselli quando ancora era un suo pigionante scontroso. Poi capitò a casa dei miei genitori per correggere le bozze delle sue prime poesie: La vita idiota. Vestiva ancora rigorosamente di nero. Quell’aria smunta commosse mia madre che per lui cucinò gli elaborati strozzapreti.

Uscirà nel 1970 L’innocenza con la presentazione di Alberto Moravia, romanzo che nel 1992 Mondadori ristampò in edizione economica con il titolo Storia di Nino. Moravia lo lodava come un autore “reale” a dispetto della vocazione all’irrealtà della neoavanguardia, sottolineando il rapporto tra innocenza e corruzione attraverso le peripezie erotiche di un quindicenne. Nella finta madre che lo accalappia c’è parso di riconoscere l’ombra di Elsa Morante. Quella fu la prima proiezione di Dario su una donna che di materno non aveva nulla. Scrisse poesie e romanzi sul suo rifiuto e quando uscì La Storia firmò ben due recensioni, una positiva e l’altra negativa, cosa che disturbò Moravia che gli scrisse una lettera il 23 maggio 1976: “In altre parole io vorrei sapere la verità su questa ossessione che a quanto pare dura dal 1969… che cosa devo pensare dei due articoli?… Un simile drastico cambiamento di giudizio deve essere per forza originato da motivi extra-letterari, cioè personali… Tu dovresti riparare in qualche modo… si tratta di uscire definitivamente dall’imbroglio dei fatti personali”. A un’altra lettera, in cui Dario lo pregava di scrivere una recensione al suo libro su Elsa, Moravia rispose: “Mi costringi a entrare in un discorso personale che mi sono finora studiato di evitare”.

Dopo Elsa, la più amata-odiata, ci furono altre due madri impossibili: Amelia Rosselli e Anna Maria Ortese, che però viveva lontana da Roma. Il rapporto burrascoso con la Rosselli l’ho raccontato in Miss Rosselli parlando del libro di poesie più bello, Invettive e licenze, del 1971, in cui nella prefazione Pasolini lo dichiara “il miglior poeta della nuova generazione” ma anche l’“Himmler” di se stesso, il primo piccolo borghese che si giudica in maniera “pretesca”. Dario gridò la sua sofferenza in quanto omosessuale in versi e in prosa (si leggano almeno Lettere da Sodoma e Il carnefice), dove né Pasolini né Penna avevano osato. Inoltre aveva agitato il suo io pimpantissimo davanti alla neoavanguardia che lo voleva cancellato, resuscitando il personaggio del poeta, non quello dei “colletti bianchi” alla Alfredo Giuliani che lo bollò come un “minus habens”.

Lo ricordo deluso al festival di Castelporziano del 1979, in cui aveva invitato i “minestrones” a salire sul palco nudi. Anche Dario credette che la morte della poesia (in Morte segreta accennava alla sua morte) era avvenuta già ne 1975 con il massacro di Pasolini. L’ossessione per quella morte gli fece firmare due libri in cui nel primo sosteneva che erano stati i suoi nemici gay a ucciderlo e nel secondo che invece furono i fascisti di Ordine Nuovo, come aveva sempre sostenuto Laura Betti, grande amica. Poi Dario si ammalò di Aids, cercò cure che furono palliativi. La società letteraria e quella televisiva, che da ultimo aveva frequentato, lo avevano abbandonato. Pochi amici lo aiutavano a sopravvivere, portandogli da mangiare.

Vedendolo come un ecce homo tutto ossa, chiamai sua sorella e sua madre. Loro lo ricoverarono allo Spallanzani. Dario Bellezza morì intubato, cercando di dirmi qualcosa che non riuscii a decifrare, il 31 marzo 1996. Con Veneziani, Gregorini e la sorella organizzammo il funerale nella chiesa di Santa Maria in Trastevere. Nella chiesa sconsacrata di Santa Rita dei Poverelli approntammo una commemorazione laica con gli amici e i lettori. È sepolto nel cimitero acattolico di Testaccio, per suo volere, accanto alla Rosselli.

Italia senza welfare: non si può essere mamme e lavorare

La politica, la cultura, il sistema produttivo, la classe dirigente: c’è un problema serio con la genitorialità in Italia (e quindi con la natalità). Lo dicono i dati, mentre le analisi raccontano che al di fuori di quanto previsto dalla legge o dai contratti collettivi, non esiste in una rete di sicurezza – pubblica o aziendale – per i neo genitori. Niente nidi, pochi incentivi, flessibilità organizzativa nulla. Solo chi guadagna abbastanza o ha i nonni vicini riesce a tamponare. Tutti gli altri soccombono.

I dati. Secondo la rilevazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro pubblicata ieri, nel 2019 si sono dimesse dal lavoro 37.611 neo-mamme e 13.947 neo-papà (11.488 per passare a un’altra azienda). Un aumento del 4% rispetto al 2018. Le donne, nel 73 % dei casi, si sono licenziate. La cifra non fotografa neanche l’intero fenomeno: riguarda infatti solo i casi di dimissioni “certificate” dall’Ispettorato (per legge in Italia non si possono licenziare i lavoratori nel primo anno del bambino e le dimissioni devono essere convalidate dall’Ispettorato) e i casi di bambini di età inferiore a tre anni. A fronte dell’alta probabilità che ci siano zone d’ombra o dimissioni mascherate non rilevabili.

Le motivazioni. Secondo i dati, poi, il fenomeno riguarda soprattutto genitori al primo figlio, che hanno tra i 29 e i 44 anni e con meno di tre anni di servizio. La spiegazione più frequente è “la difficoltà di conciliare l’occupazione con le esigenze di cura della prole” (20.730 casi, erano 20.212 nel 2018). Manca il supporto dei parenti e, nei casi in cui non sia stata proprio respinta la domanda (2%) il costo dell’asilo nido o delle baby sitter è troppo alto. Per quasi 11mila lavoratori il problema sono “l’organizzazione e le condizioni di lavoro, particolarmente gravose” o poco compatibili con l’assistenza dei piccoli. Poi luogo e orario di lavoro, sia per l’impossibilità di modificarli sia per il rifiuto di concedere il part time.

Chi e dove. Le dimissioni riguardano soprattutto il settore terziario (39.247 casi) e l’industria (8.555). Non si salva la Pubblica Amministrazione, con 142 episodi. E se in numeri assoluti può sembrare che ci sia una sproporzione tra Nord (33.442), Centro (9.899) e Sud (8.217), le cose cambiano in percentuale. Al Nord le madri dimesse sono lo 0,49% delle lavoratrici, al Centro lo 0,43% e al Sud lo 0,4%. Quanto ai padri, sono molti di più al Nord, complice un mercato del lavoro è più dinamico.

Il welfare. L’altra faccia della medaglia è l’assenza di un welfare aziendale adeguato che tuteli la vita familiare. Lo si è visto, durante l’emergenza Covid, nella necessità impellente di avere le scuole aperte. Ma lo racconta anche il rapporto sul 2019 “Welfare Index Pmi” promosso da Generali. Sul supporto ai genitori è attivo solo il 60% delle imprese italiane. La flessibilità organizzativa è praticata solo dal 34%. Malissimo telelavoro e smart working: il primo si ferma al 5,5%, il secondo al 5,3. Solo il 21% delle aziende ha previsto almeno una attività per il supporto alla genitorialità, tra permessi aggiuntivi e integrazione salariale. Completamente assente la cultura dell’assistenza diretta: asili nido convenzionati, aziendali, scuole materne, centri gioco o doposcuola solo in circa lo 0,4% dei casi. Lo 0,5 per il reperimento di baby sitter.

Il commento. Francesca Zajczyk è professoressa ordinaria di Sociologia urbana alla Bicocca di Milano. “L’abbandono del posto di lavoro con la nascita dei figli è un fenomeno tipicamente italiano – spiega – e qui chi lo sceglie non rientra più nel mercato del lavoro”. Per la Zajczyk è positivo il dato che riguarda gli uomini. “Indica una crescente volontà di vivere e condividere la genitorialità in un contesto in cui i cambiamenti sono lenti”. Peccato che il tessuto socio-economico non vada di pari passo. “Le grandi aziende hanno già incamerato la cultura del welfare genitoriale – spiega la professoressa – ma il tessuto produttivo italiano è quasi esclusivamente formato da piccole e medie imprese che sono molto indietro. Basti pensare che considerano lo smart working ancora una sperimentazione”. Il sindacato poi è assente e gli accordi avvengono tra lavoratori e datori: “Il ricatto della firma in bianco è ancora una realtà, soprattutto per le donne”. Il culmine di questo sistema è il progressivo calo delle nascite. “C’è una disattenzione totale alla questione (ormai diventata problema) della famiglia – conclude Zajczyk –. Le aziende non si chiedono cosa possano fare attivamente, soprattutto ora che le nuove generazioni sono pronte a un sistema ibrido di conciliazione tra vita e lavoro: nidi aziendali, assistenza di baby sitting, lavoro dinamico”. Insostenibile per le piccole imprese? “Si possono pensare moltissime soluzioni, a partire dalle alleanze territoriali tra le diverse aziende o sussidi specifici. È una sfida, ma è necessaria”.

Alfredo Biondi, dal Pli al decreto “Salvaladri” per B. & Previti

Era pure simpatico, Alfredo Biondi, che quando ti parlava restava per un attimo in silenzio e poi iniziava ad argomentare con veemenza toscana, aspirando le vocali all’inverosimile. Il prossimo 28 giugno (era nato nel 1928) avrebbe compiuto 92 anni, e invece è morto ieri, a Genova.

Avvocato prestato alla politica, è stato uno dei protagonisti della storia del PLI, con cui arrivò in Parlamento nel 1968, ci tornò diverse volte, per poi aderire a Forza Italia, nel 1994, e diventare, nel primo governo Berlusconi, ministro della Giustizia. Di quel partito-azienda Biondi, almeno all’inizio, incarnò l’anima liberale, insieme a Giuliano Urbani, Saverio Vertone, Antonio Martino.

L’arrivo in via Arenula fu concitato. La prima scelta di B., si sa, era Cesare Previti. Ma quando Scalfaro vide quel nome sulla lista dei ministri, lo cancellò con un tratto di penna. “Questo no”. Così toccò a Biondi, il cui nome viene ricordato per uno dei momenti più drammatici di Mani Pulite. Il 13 luglio 1994, infatti, firmò il “decreto salvaladri”, che vietava il carcere preventivo per i reati finanziari, tra cui corruzione e concussione. Una mazzata micidiale sui giudici del pool di Mani Pulite e scarcerazione immediata di decine di inquisiti. Un decreto, come si è raccontato, scritto facendo un copia e incolla da un fax proveniente dallo Studio Previti.

Indignazione massima dell’opinione pubblica e “popolo dei fax”, con Borrelli, Di Pietro & C. che si presentarono in gruppo ai telegiornali della sera per chiedere di “essere trasferiti ad altro incarico”. Il decreto venne ritirato, ma segnò il destino di quell’esecutivo, che cadde di lì a pochi mesi. Sarà poi rieletto più volte a Montecitorio, e poi in Senato, nel 2006. Nel 2008 entra nel Pdl, ma non viene ricandidato. Nel 2010 rompe definitivamente con Berlusconi “perché nel partito ci sono troppi signorsì”. “Piango la scomparsa di un grande amico. Le sue idee su diritti e giustizia sono ancora attualissime”, il commento, ieri, dell’ex Cavaliere.

Veneto City, stop alla “cattedrale” di Galan e Zaia

Addio Veneto City. Addio alla cattedrale dell’era di Giancarlo Galan. Addio al progetto (caro anche alla Lega) di 2 milioni di metri cubi di cemento nel cuore della Riviera del Brenta, la campagna veneta cara a pittori come Tiziano. Dopo oltre dieci anni di battaglie viene messa una pietra tombale. La parola fine arriva dal comune di Dolo (centrosinistra) su cui avrebbe dovuto sorgere la parte più rilevante dell’operazione mobiliare. La società che doveva realizzare il progetto – sollecitato dall’assessore all’Urbanistica, Matteo Bellomo (Pd) – ha manifestato il venire meno dell’interesse a costruire. Immediatamente il Comune ha deliberato la decadenza dell’accordo di programma (firmato nel 2011). Adesso la parola è passata alla Regione che deve eliminare il progetto dal Piano Territoriale Regionale di Coordinamento.

Caso chiuso. Ma Veneto City è molto più di un’operazione immobiliare. È il simbolo della cementificazione della regione, quando in cinque anni furono rilasciate concessioni per 94 milioni di metri cubi di nuove costruzioni, l’equivalente di una palazzina alta e larga dieci metri e lunga 1.800 chilometri. A poca distanza (a Fiesso) doveva sorgere un altro complesso, la Città della Moda, anch’esso, pare, abortito. Era l’epoca d’oro di Giancarlo Galan (il Doge berlusconiano, poi travolto dagli scandali). Tra i suoi assessori – era vicepresidente della Giunta – anche l’attuale governatore Luca Zaia. E la Lega, si diceva è sempre stata favorevole al progetto. Ma altre figure chiave del Veneto degli anni di Galan avevano puntato su Veneto City: da Luigi Endrizzi, l’uomo che realizzò il polo di Padova Est, a Piergiorgio Baita, l’allora signore della Mantovani costruzioni toccato dallo scandalo Mose. Tra gli interessati c’erano anche gli Stefanel, il marchio rivale della Benetton che oggi è finito all’asta. Un mondo al tramonto.

Rai, Renzi a Saxa Rubra senza mascherina. Alla fine paga solo l’addetto alla vigilanza

Venerdì 12 giugno. Matteo Renzi entra nella palazzina del Tg2, a Saxa Rubra. Il senatore di Italia Viva non ha la mascherina: gli verrà consegnata solo in studio, dove di lì a poco sarà intervistato. Non è l’unico problema, nella cittadella romana della Rai che ha registrato cinque casi di Covid-19 sui circa 130 tamponi effettuati dopo la scoperta di un collegamento con il focolaio del San Raffaele Pisana, blindata da rigide procedure per ingressi e spostamenti e con buona parte del personale in smart working per abbassare il rischio di contagio: nessuno ha registrato la temperatura corporea dell’ex premier. Presto dalla task force che in Rai vigila sulla corretta applicazione delle norme anti-Covid parte una lettera per segnalare il caso all’agenzia che ha in concessione il servizio di vigilanza. Pochi giorni dopo l’addetto alla sicurezza che all’ingresso della cittadella avrebbe dovuto compiere le due operazioni, viene rimosso dall’incarico. A quanto apprende il Fatto, la società ha assegnato il dipendente ad altra mansione in un altro settore.

“Il MeToo si gioca ora. Le donne non sono la bocca della verità”

Ha un tono di voce quasi sommesso, per quanto è calmo, “ma poi tira fuori la pistola e te la punta in faccia”. È Susan Faludi – giornalista Premio Pulitzer, tra le voci più originali e acute del femminismo contemporaneo – nelle parole di suo padre, o meglio di quello che era suo padre, visto che ora è diventato Stefánie, dopo un intervento di riassegnazione chirurgica del sesso a 76 anni. Una storia a cui l’autrice ha dedicato Nella camera oscura, un viaggio a ritroso nella sua infanzia. E nelle ragioni profonde che l’han portata al femminismo, dice lei. E ad accendere proprio l’ultimo dibattito attorno al MeToo è stato un suo articolo, apparso di recente sul New York Times il giorno dopo il pezzo con cui Ben Smith ha demolito le inchieste di Ronan Farrrow su Weinstein.

Nei suoi scritti, lei spesso parla di quella nuova mascolinità alla John Wayne che, nel post 11 Settembre, si era affermata in risposta all’attacco. Quel ritorno nell’immaginario di una famiglia anni 50, con tanto di femminilità riaddomesticata. Possiamo incorrere nello stesso rischio ora col Covid?

È troppo presto per dirlo. Negli Stati Uniti la risposta all’11 settembre è stata molto complessa. L’attentato fece riaffiorare tutti gli impulsi relativi ai ruoli di genere che stavano alla base della nazione. Nella narrazione rassicurante proposta da politica e media, gli uomini erano supereroi da fumetti, le donne, apprensive security moms. Un intero Paese ha creduto a questa replica western anni 50, con conseguenze terribili che vediamo ancora oggi. Penso alle sciagurate decisioni di politica estera – dalla guerra in Iraq al waterboarding– espressioni dirette di quel machismo post 11 Settembre.

La pandemia potrà portare a un nuovo “contrattacco” ai diritti delle donne?

Col lockdown si sono impennati i casi di violenza domestica. I posti di lavoro maggiormente a rischio sono quelli nei settori che più interessano le donne. E sempre le donne sono in prima fila a casa, dove si stanno assumendo un carico immenso tra cura dei figli e lavoro domestico. Sono loro a sopportare il peso maggiore della pandemia, con effetti dal punto di vista sociale e psicologico devastanti.

Ha vinto il Pulitzer nel 1991 con Backlash. In italiano lo tradurremmo “contrattacco”: la guerra che, pur se non dichiarata, viene fatta alle donne. Da allora cosa è cambiato?

Negli anni 80 il contrattacco ai diritti delle donne era molto più subdolo, sottotraccia. Arma fondamentale era la diffusione della leggenda secondo cui le donne sarebbero state infelici perché a trent’anni avevano più probabilità di morire in un attentato che di sposarsi. Era il femminismo ad averle rese orfane d’amore e senza matrimonio, figli, e salute mentale. Nell’era di Trump, invece, l’offensiva è sotto gli occhi di tutti: è lui stesso a incarnarla.

A che livello siamo di contrattacco, quindi?

Difficile immaginarne uno più forte di Trump. Colpisce e umilia qualsiasi donna osi criticarlo. Denigra l’agenda politica delle donne. Pezzo per pezzo ha smontato i capisaldi del diritto americano sull’uguaglianza di genere e sulle libertà delle donne: aborto, controllo delle nascite, gender gap, tutele contro le violenze domestiche, pene per i reati sessuali. Tutto questo ha avuto però il merito di riaccendere il femminismo americano. Dalla Marcia delle Donne nel 2016 a Washington al numero di esponenti femminili che si candidano, al movimento #MeToo. C’è da chiedersi se questo fervore femminista saprà sopravvivere alla pandemia.

A proposito del MeToo, lei ha scritto un articolo sul NYT che ha fatto molto discutere. Una riflessione a partire da Tara Reade, la donna che sarebbe stata insidiata dal candidato democratico Joe Biden…

È la destra americana a sostenere che, avendo il MeToo fatto proprio lo slogan #BelieveAllWomen, “credere a tutte le donne”, le femministe sarebbero “ipocrite” perché “predicano, ma poi non lo fanno”, visto che non pensano in automatico che Tara Reade dica la verità su Biden. In realtà, il #BelieveAllWomen è una creazione dei conservatori: una trappola per le femministe da cancelletto di Twitter. “Credete alle donne” non significa “a tutte le donne”. Questo non è un hashtag del #MeToo. Il pericolo, come ho scritto, sta nella purezza, nell’intransigenza.

Ovvero?

Difendere “senza se e senza ma” anche una sola donna non sincera, per il #MeToo è più pericoloso che un esercito di predatori sessuali. Questo movimento ha portato cambiamenti necessari, e attesi. Moltissime donne che hanno sofferto troppo a lungo in silenzio si sono fatte avanti, e sono state finalmente considerate dai media, dalla giustizia. Così come tante mele marce sono state cacciate dalle stanze del potere. È importante, però, per il futuro del movimento che, di fronte ad accuse di violenze sessuali, non ci siano condanne per partito preso: non tutti gli uomini sono stupratori e non tutte le donne sono la bocca della verità.

Soddisfatte, quindi?

Non abbatteremo il patriarcato togliendo di mezzo i maschi uno per uno. Non possiamo focalizzarci solo sulla violenza. Va allargato lo sguardo a tutti gli elementi strutturali su cui il dominio maschile si regge: su questo, si gioca la sopravvivenza stessa del MeToo.

Le storie che riguardano le donne – lei ha detto spesso – sono distorte. Dipende dai media dominati dagli uomini?

Troppo semplice pensare che il problema siano i media. Sono la cultura, la politica, la società stessa che alimentano gli stereotipi di genere. E questi non dipendono solo dagli uomini: pensiamo alle riviste femminili, dirette da donne, e ai messaggi distruttivi agitati per anni.

Come si può raccontare oggi il femminile?

Le storie che ci renderanno libere sono quelle che abbandoneranno stereotipi e ritratti semplicistici. Quelle che senza demonizzazioni racconteranno le donne – e gli uomini – in tutte le loro sfaccettature, la loro complessità. E, quindi, in tutta la nostra umanità.

Traduzione di Carlo Prosperi

Di Maio-Serraj: dialogo sui migranti

Missione a Tripoli del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, per riposizionare l’Italia nella crisi libica e riallinearla al capo del governo riconosciuto dalla comunità internazionale, Fayez al-Serraj, dopo qualche oscillazione quando i rapporti di forza sembravano favorevoli al generale Khalifa Haftar, prima della pandemia e prima che l’intervento turco facesse sentire i suoi effetti.

I nuovi mantra sulla Libia della diplomazia internazionale sono quelli vecchi: sì a una soluzione della crisi politica, e non militare; e no a una spartizione del Paese tra Tripolitania e Cirenaica, che, dice Di Maio di ritorno a Roma, è “inaccettabile” e sarebbe “l’anticamera di nuovi conflitti armati”. La missione di Di Maio a Tripoli s’inquadra in un risveglio dei contatti sulla Libia, che hanno pure visto un sussulto d’interesse degli Stati Uniti. Martedì, a Zuara, al-Serraj ha incontrato l’ambasciatore degli Usa, Richard Norland, con il capo del Comando militare americano in Africa (Africom), generale Stephen J. Townsend: per Washington, la pace in Libia deve essere raggiunta “tramite il processo politico, non con mezzi militari” – strano avere delegato un generale a dirlo –. Di Maio ricorda che, anche nelle fasi più tragiche dell’epidemia, il dialogo tra Italia e Libia “non si è mai interrotto”. “La Libia – dice – è una priorità della politica estera e della sicurezza nazionale”, anche perché chi controlla la Libia controlla il flusso dei migranti verso l’Italia. Roma propone modifiche al memorandum del 2017, Tripoli mette sul tavolo sue idee: le trattative in merito inizieranno il 2 luglio. Secondo fonti di Tripoli, al-Serraj e Di Maio “hanno sottolineato l’importanza di tornare sul sentiero della politica e di respingere negativi interventi esterni nella questione libica”. Un’affermazione che suona singolare, visto che chi la fa è riuscito a rovesciare i rapporti di forza militari con Haftar grazie all’appoggio della Turchia e alla presenza sul territorio di unità turche e mercenarie. Come Haftar era riuscito a guadagnare il suo vantaggio grazie all’appoggio dell’Egitto, cui l’Italia sta fornendo armamenti, e della Russia. Se all’Italia interessano i migranti, alla Libia, ma pure all’Italia, interessa il petrolio. Al-Serraj nota “l’estrema necessità di un ritorno alla piena produzione, che è la ricchezza dei libici”, facendo implicito riferimento alla chiusura di pozzi e terminal petroliferi imposta a gennaio da Haftar. A Di Maio e all’Ue, al-Serraj rinnova la richiesta che la nuova missione nel Mediterraneo, Eunavfor Med Irini, blocchi le forniture di armi che giungono via terra ad Haftar, e non solo i traffici via mare. L’operazione deve attuare l’embargo sulle armi alla Libia, deciso da ultimo a Berlino in gennaio.

Kohler, “volontario” fedele alla corte di Emmanuel

All’Eliseo, dopo Macron, c’è Kohler. Non è solo il braccio destro del presidente, è la sua ombra. “La torre di controllo” del mandato di Macron, aveva scritto il quotidiano Le Figaro quando nel 2018 il segretario generale dell’Eliseo era stato indagato per presunti conflitti d’interesse. Proprio perché non c’è nessuno più vicino di lui al capo dello Stato l’affaire Kohler già all’epoca imbarazzava molto l’Eliseo.

Nel 2014, una volta nominato ministro dell’Economia, Macron lo ha voluto come capo di gabinetto e ne ha fatto il suo uomo di fiducia. L’alto funzionario, nato a Strasburgo nel 1972, aveva anche lui, come Macron, frequentato la prestigiosa scuola Ena, da dove escono i futuri leader politici francesi. Aveva già affiancato il ministro Pierre Moscovici all’Economia quando il presidente dell’epoca, François Hollande, eletto nel 2012, gli aveva aperto le porte dei ministeri. Nel 2016, Kohler è stato uno dei primi a seguire il giovane aspirante presidente della Repubblica nella creazione del suo nuovo partito, En Marche!. E nel 2017, a elezione vinta, è diventato il numero due dell’Eliseo.

All’epoca era un volto ancora semisconosciuto per i francesi che hanno imparato a conoscerlo un anno dopo, con le prime rivelazioni di Mediapart sul presunto conflitto d’interessi, tra le sue funzioni pubbliche e i legami familiari con l’armatore Msc. Uomo chiave della campagna elettorale del presidente, del suo impegno per farlo eleggere Mediapart parla come di un atto quasi di volontariato. “Il funzionario di alto rango ha sempre pesato sulla strategia di En Marche!, Ma mai sui conti del partito”, scrive nel 2018 il giornale francese secondo cui “il braccio destro di Macron è stato pagato per un solo mese, nell’autunno del 2016, per la sua partecipazione alle elezioni presidenziali”. Nelle settimane successive, mentre era coinvolto nella campagna “lavorava come direttore finanziario di Msc che continuava a pagarlo”. Due anni dopo le accuse di Mediapart implicano direttamente Emmanuel Macron: il presidente ha influenzato l’inchiesta della giustizia, scrivendo una lettera per discolpare il suo braccio destro? Mediapart ha dimostrato che solo pochi giorni dopo che la nota del presidente è arrivata nelle mani degli inquirenti, l’inchiesta su Kohler, che fino a quel momento conteneva molti elementi contro di lui, è stata chiusa. L’accusa è grave: Macron, come capo dello stato, è garante dell’indipendenza della giustizia e della separazione tra i poteri. Ieri è dovuta intervenire la portavoce del governo, Sibeth Ndiaye, a dare spiegazioni: “Il presidente della Repubblica – ha detto – non interviene in nessun caso nell’ambito di una procedura giudiziaria aperta”. Non fornire quel documento “avrebbe privato l’interessato dell’esercizio normale e legittimo dei suoi diritti alla difesa”. La nota di Macron è stata fornita su richiesta dello stesso Kohler a inizio luglio “insieme alle note di diversi superiori ai quali l’interessato – ha aggiunto la Ndiaye – aveva reso nota la sua situazione particolare rispetto a Msc. L’ha scritta in qualità di ex ministro dell’Economia e superiore di Alexis Kohler”. Per questo la nota è stata scritta su carta semplice e non intestata dell’Eliseo, “per evitare ogni ambiguità”. Anche Richard Ferrand, presidente dell’Assemblea nazionale, e marcheur della prima ora come Kohler, ha preso le difese del presidente: “Non bisogna confondere – ha detto – la separazione dei poteri, che è una regola assoluta, con una sorta di attestato di ex datore di lavoro”. Per le opposizioni, si tratta invece proprio di relazione tra giustizia e politica. Un deputato della France Insoumise, il partito della sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, ha chiamato in causa anche l’attuale ministra della Giustizia, Nicolle Belloubet, accusandola di “coprire” Macron e Kohler. “La questione dell’indipendenza della giustizia si pone”, ha scritto in un tweet Eric Ciotti dei Républicains.

Così Macron salvò il “caro Alexis”

Emmanuel Macron è sospettato di aver interferito sul lavoro dei giudici intervenendo in prima persona in difesa del suo braccio destro, il segretario generale dell’Eliseo, Alexis Kohler, coinvolto in un’inchiesta giudiziaria per conflitto d’interessi. Al centro di questi sospetti c’è una nota, pubblicata ieri da Mediapart, che Macron ha scritto e firmato e che è arrivata il 1 luglio 2019 sul tavolo degli inquirenti incaricati di indagare su Kolher. Un’inchiesta che presentava degli elementi “schiaccianti” contro il fedelissimo di Macron, scrive Mediapart, ma che pochi giorni dopo, il 22 agosto, è stata archiviata. Ieri i giudici hanno deciso di riaprirla dopo le rivelazioni della stampa.

“In spregio alla separazione dei poteri – accusa il giornale – il presidente è intervenuto direttamente in una procedura giudiziaria. Un intralcio alla giustizia finalizzato a proteggere il suo collaboratore più vicino, Alexis Kohler, e a coprire una menzogna di Stato”. Questi i fatti. L’inchiesta per “traffico di influenze e conflitto di interesse” è stata aperta dalla Procura finanziaria di Parigi il 4 giugno 2018. All’origine c’è una denuncia dell’associazione anti-corruzione Anticor, che già all’epoca si era basata su alcune rivelazioni di Mediapart. Il giornale aveva infatti portato alla luce i legami professionali e familiari tra Alexis Kohler e l’armatore italo-svizzero Gianluigi Aponte, fondatore del gruppo Msc, uno dei principali clienti dei cantieri navali di Saint-Nazaire: la madre di Kohler è la cugina di Rafaela, moglie di Gianluigi Aponte. Mediapart aveva ottenuto queste informazioni mentre indagava sulle tensioni che erano nate all’epoca tra Francia e Italia proprio per Saint-Nazaire, dove si producono le grandi navi, e per l’acquisizione del sito di produzione da parte di Fincantieri.

Il problema è che Kohler, alla direzione generale del ministero del Tesoro dal 2000, tra il 2010 e il 2012 è entrato nel cda della società che gestisce i cantieri navali, la Stx France (poi diventata nel 2018 Chantiers de l’Atlantique), come rappresentante dello Stato, che ne è azionista. Nel 2016, dopo essere passato per il Ministero dell’Economia, aveva quindi lasciato per un certo periodo la funzione pubblica per diventare direttore finanziario di Msc. Sulla base di queste informazioni, per Anticor, Kohler non poteva ignorare il conflitto di interessi in cui si è trovato per tutti quegli anni e anzi aveva consapevolmente tenuto nascosti i suoi legami familiari. Msc è “un gruppo di trasporti, piuttosto opaco che dipende molto da sovvenzioni pubbliche – scrive Mediapart – e Alexis Kohler, nelle sue diverse funzioni, è stato portato a prendere posizione in nome dello Stato in diversi fascicoli”. Un primo rapporto dell’Ufficio francese per la repressione della delinquenza economica, datato 7 giugno 2019, di cui Mediapart ha rivelato il contenuto, confermava chiaramente la malafede di Kohler: “La sua conoscenza del conflitto di interessi è confermata – vi si legge –. Alla sua presa di funzioni, la commissione deontologica gli aveva consigliato di rinviare tutte le questioni legate a Msc. Ma non è stato fatto. Tutte le informazioni relative a Stx e a Msc gli sono state trasmesse”.

Il 18 luglio, poco più di un mese dopo, lo stesso ufficio ha presentato un secondo rapporto che invece discolpava il braccio destro di Macron in tutto e per tutto: “Alexis Kohler – si legge – non ha mai nascosto i suoi legami familiari e li ha indicati più volte a voce e per iscritto ai suoi superiori e collaboratori diretti. Le numerose mail di questo periodo attestano la sua buona fede”. Per Mediapart la marcia indietro degli inquirenti può avere una sola spiegazione: che nel frattempo una “lettera magica dell’Eliseo” era stata fatta pervenire a Kohler e trasmessa a inizio luglio dal suo legale alla Procura di Parigi. Su carta non intestata, Macron, che all’epoca al Ministero dell’Economia, ha scritto: “Caro Alexis, confermo che, al momento della mia presa di funzioni al ministero dell’Economia, ero già informato dei suoi legami familiari con gli azionisti di controllo di Msc, così come sapevo della sua intenzione di raggiungere questa azienda alcuni mesi dopo”. Macron scrive ancora: “Del resto, quando ha preso il posto di direttore del mio gabinetto, mi aveva formalmente consegnato una lettera in cui mi chiedeva di non dover mai trovarsi a gestire le questioni legate a questa società. E le dovute misure d’organizzazione sono state prese”.