Concorsi: “Il limite d’età è ingiusto”. “Ma si può sempre fare ricorso”

Gentile redazione, desidererei un vostro parere super partes su una questione che mi indigna lancinantemente. È da un po’ di tempo che la nostra Pubblica amministrazione bandisce concorsi con i limiti di età per scremare a monte le folte platee di chi partecipa. Questa è per me una vera e propria discriminazione che non ha più ragione di essere. Grazie a Dio, chi scrive, un lavoro ce l’ha, ma questa limitazione mi ripugna: un concorso è serio solo quando è aperto a tutti e garantisce pari opportunità a ciascun candidato, nel pieno rispetto dell’articolo 3 della Costituzione.

Antonio Ruggiero

 

Caro Antonio, la Costituzione stabilisce che agli impieghi nelle Pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, “salvo i casi stabiliti dalla legge” (art. 97, comma terzo). L’eccezione prevista non giustifica né discriminazioni né generalizzazioni. Quando si parla di limitazioni viene chiamato in causa il criterio della ragionevolezza (qui l’idea di agevolare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro); al polo opposto c’è la proporzionalità (l’impossibilità di escludere vaste categorie di cittadini). Lei ha parlato dell’età, ma il problema si è posto a lungo rispetto ai requisiti fisici richiesti dai bandi pubblici (specie nei corpi di polizia: dal 2016, per esempio, non è più possibile mettere limiti di altezza). Sulla questione anagrafica vale la legge Bassanini che stabilisce che la partecipazione ai concorsi indetti da Pubbliche amministrazioni non è soggetta a limiti di età, “salvo deroghe dettate da regolamenti delle singole amministrazioni connesse alla natura del servizio o a oggettive necessità dell’amministrazione”. Sul tema è intervenuta anche l’Unione europea con la direttiva 2000/78 che consente disparità di trattamento con riferimento alla “fissazione di un’età massima per l’assunzione”, precisando che tali discriminazioni possono essere tollerate solo se proporzionate all’attività per la quale si concorre. Infine è intervenuta anche la Corte di Giustizia nel 2014 nella causa C-416/13, riconoscendo le ragioni di un cittadino spagnolo che aveva presentato ricorso contro un bando che stabiliva a 30 anni il limite anagrafico di partecipazione a un concorso per agente di polizia locale. Il rimedio, come sempre, è quello di fare ricorso.

Silvia Truzzi

Mail box

 

Il “Fatto” mi tiene compagnia in ospedale

Carissimo Fatto, da un letto dell’ospedale, ricoverata per grave malanno, continuo a leggervi e ora anche con ammirazione e gioia. Eh sì, perché nel 2009 e seguenti, le vostre pagine costellate di errori mi davano proprio un gran fastidio (da maestra elementare vecchio stile quale sono). Ora, invece, tutto scorre quasi perfetto e, con la formale esteriore precisione, arrivano pensieri, concetti, proposte buone con cui, di solito, sono molto d’accordo. Il tutto pervaso da una sottile vena umoristica che aiuta a sopravvivere. Bravi, insistete su questa strada.

Laura Collet

 

Complimenti al vostro ritrattista per Zaia

Compro il vostro giornale da oltre dieci anni! Quanti numeri sono? Complimenti a voi e al vostro grande artista per i ritratti che vi fa, ultimo quello di Luca Zaia. Grazie di esistere, e saluti cari a Marco Travaglio.

Graziella Iaccarino-Idelson

 

Nel Paese in cui nessuno legge, tutti scrivono

Gentilissimo direttore, com’è possibile che, in un Paese in cui nessuno legge, in tanti, dal salumiere al grande manager, sentano l’esigenza di scrivere un libro? E, soprattutto, che questa esigenza possa realizzarsi, insomma il libro venga pubblicato a fronte, a mio parere, di pochi o punti lettori interessati? Non sarà che, come per i giornali, c’è una forma di finanziamento pubblico? Cordialissimi saluti a tutti: siete i migliori.

Omar Longagnani

 

Trump è un vero leader o un irresponsabile?

Caro direttore, giorni fa, Donald Trump per criticare aspramente l’oppositore democratico Joe Biden, che aveva aderito inginocchiandosi alle proteste per la barbara uccisione di Floyd, s’espresse così con tono sprezzante: “I leader guidano, i codardi s’inginocchiano”. Ma può essere considerato un leader un malaccorto politico che ha gestito con superficialità, con arroganza e con ignoranza la pandemia Covid-19? Può essere considerato una guida uno sprovveduto repubblicano che si fa beffare da gruppi di teenager e ventenni progressisti? Il comizio di Trump tanto atteso di Tulsa s’è trasformato in un flop clamoroso. “Abbiamo ricevuto un milione di richieste online”, recitava, trionfale, alla vigilia, la campagna di Trump. I giovani contrari alle idee xenofobe, omofobe, razziste del presidente si sono prenotati in massa, per poi disertare l’evento. Alla fine, erano presenti solo 6.000 sostenitori. Ma davvero un esponente che capitola al cospetto d’una trappola ben congegnata da ragazzini è un leader?

Marcello Buttazzo

 

Magistratura, ormai il velo è caduto

Il magistrato Palamara ha alzato il coperchio su una pentola che bolliva da sempre. Non lo notava solo chi non voleva vedere, preferendo immaginare la magistratura e la sua Associazione come contropotere con le “mani pulite”. Si tratta invece di una “Ultracasta” come descritto nel libro del giornalista Stefano Livadiotti (Bompiani, 2009): “Uno stato nello stato – scrive – governato da fazioni che si spartiscono le poltrone… un formidabile apparato di potere che è riuscito a blindare la cittadella della giustizia, conquistando per i propri associati un carnevale di privilegi”. Paiono parole dirompenti, difficili da pronunciare, e invece era tutto chiaro ai magistrati più probi, che pur esistevano ma venivano tacitati o messi in minoranza. Parliamo di Giovanni Falcone che fino dal lontano 1988 così si espresse: “Le correnti dell’Anm si sono trasformate in macchine elettorali… nei fatti il dibattito ideologico è scaduto a livelli intollerabili”. Parole dimenticate negli anni e nei decenni successivi, con la magistratura militante in prima linea a fare giustizia politica sommaria degli altri, con la grancassa mediatica e populista al seguito. Doveva cominciare da se stessa.

Nicola Zoller

 

Covid-19: i meme fanno ridere. La scienza no

Li sbircio anche sui cellulari dei miei parenti e, a volte, fanno ridere: le freddure e i “meme” al tempo del Coronavirus. C’è la storia di quello che si rifiuta di stringere la mano al collega… e finisce con “trapezista morto”. Il blog Spinoza è crudelmente sapido: “Niente baci né abbracci e stop alle manifestazioni sportive. Praticamente la vita dopo il matrimonio”. C’è chi punzecchia Macron e chi si diverte con le parodie di prodotti famosi. Non c’è nulla di male, in fondo anche ai tempi della peste di Firenze un gruppo di ragazzi sfollati, per passare il tempo e mantenere il buonumore nonostante l’isolamento, prese a raccontarsi storielle (era il Decameron). Sorridiamo, sì, ma, per favore, quando ci informiamo rivolgiamoci solo alle fonti scientifiche. Troppe “bufale” stanno ancora girando: e sono pericolose quanto il virus.

Pino Ezio Beccaria

 

Nole ha dimostrato che il virus c’è ancora

Dobbiamo ringraziare Novak Djokovic (detto “NoVAX DjokOVID”) per aver provato che il virus è sempre molto contagioso. Ammiro e stimo Novak come campione (e vegetariano) ma purtroppo, per quanto riguarda virus e vaccini, credeva di sapere ma non sapeva di non sapere (Socrate?). Un caro saluto.

Claudio Trevisan

Neotangentopoli, Sala non può dire “io non c’entro”

La Neotangentopoli del metrò milanese pone alcuni problemi alla politica e alla amministrazione della città, in primo luogo al sindaco Giuseppe Sala. Protagonista delle vicende di corruzione è Paolo Bellini, un impiegato della azienda Atm che non è neppure un dirigente, non ha poteri di firma e non fa parte delle commissioni di gara. Eppure ha condizionato tutti – ma proprio tutti – gli appalti, le assegnazioni, le gare degli ultimi due anni, almeno. Il suo non era sport dilettantistico, ma professionistico, non esercitava il bricolage della tangente, ma aveva imposto un consolidato “sistema di gare truccate”, come ha spiegato il procuratore Francesco Greco. Un sistema scientifico, ingegneristico, senza eccezioni e senza scampo.

Com’è possibile? Come può un funzionario di grado non elevato condizionare tutta l’attività di una azienda grande e complessa come quella dei trasporti milanesi? Come mai non sono scattati i controlli, le reti di protezione, i relais di sicurezza manageriali, qualitativi ed etici? Come mai il contesto in cui Bellini operava lo ha accolto e assecondato e coccolato, invece di contrastarlo e disinnescarlo? Non si è mai accorto di niente il suo capo, il direttore operativo Alberto Zorzan? Non ha visto nulla il capo dei capi, Arrigo Giana? Un capo che non si accorge di ciò che gli succede attorno o è complice, o è incapace di garantire il corretto svolgimento del business che è stato chiamato a dirigere. Il secondo caso è, dal punto di vista manageriale, forse perfino più imbarazzante del primo. E il comandante in capo Sala, onnipresente e onnisciente, che ha i meriti di tutte le cose belle che succedono a Milano, non pensa di avere qualche responsabilità anche di ciò che non funziona nella sua amministrazione? È parte lesa, ha detto. Come ai bei tempi di Expo, quando gli arrestavano a uno a uno tutti i collaboratori, che rubavano a man bassa, e lui restava fisso a scrutare nella notte, senza accorgersi di niente.

Del resto, è Sala che ha richiamato Giana a guidare l’Atm, da cui era stato cacciato nel 2013. Formalmente per “soppressione di posizione”, ma solo dopo una trattativa e una transazione seguita alla contestazione di una gestione discutibile della fiscalità dell’azienda, perché da direttore amministrativo aveva dichiarato per anni al fisco costi deducibili per oltre 20 milioni, che deducibili non erano. La capacità di annusare al volo le cose che non vanno è come il coraggio: chi non ce l’ha non se la può dare. A volte non è neppure questione di moralità, ma di cultura, di sensibilità, di disponibilità a cogliere i segnali, anche i più piccoli.

Milano è ferita. La stagione di gloria che ha vissuto negli ultimi anni, grondante di retorica, marketing e stucchevole storytelling, sembra essersi arrestata. Prima la pandemia ha messo in rilievo la fragilità di un sistema “d’eccellenza” che di fronte all’emergenza è saltato, senza riuscire a far funzionare una rete sanitaria territoriale e senza riuscire a impedire che molti ospedali e case per anziani si trasformassero in trappole mortali. Così la regione più ricca d’Europa si è trasformata nell’area a più intenso contagio e più alta mortalità. Poi la retata del metrò ha mostrato che i riti di Tangentopoli sono ancora ben oliati. I vecchi tangentari di Mani pulite avevano almeno l’ipocrisia con cui il vizio rende omaggio alla virtù. Quelli di oggi sono senza vergogna, vorrebbero un conto “Gabbietta” come quello del compagno Greganti, rivendicano le mazzette come diritto e conquista professionale. Nell’unica città al mondo in cui salire sul metrò ti mette a rischio di andare all’ospedale per le improvvise, inspiegabili frenate automatiche del sistema, sarà bene che chi sta in alto cominci a interrogarsi su cosa non funziona nel sistema automatico della moralità alla milanese.

 

Il corso d’aggiornamento, rompicapo per il giornalista

Trattasi di un problema di casta, è vero; ma vogliamo condividere coi lettori un piccolo dramma. Da qualche anno, nel bel mezzo dei nostri impegni e disimpegni quotidiani, piomba mediante mail un’ingiunzione terrificante: “Ti invitiamo pertanto a completare entro il prossimo anno il percorso formativo… ricordandoti che il mancato assolvimento prefigura una violazione deontologica”. È l’obbligo della cosiddetta formazione per i giornalisti: in pratica ciascuno di noi deve seguire, di persona oppure online, i corsi organizzati dall’Ordine. Al termine, si viene sottoposti a un esame in forma di quiz a risposta multipla. Viceversa, l’Ordine richiama l’abusivo a mettersi in regola e se quello persiste gli toglie il tesserino. Poiché tempo fa ci toccò sorbirci ore di lezioni sulla privacy e pure un corso obbligatorio aziendale sulla sicurezza sul lavoro (quali sostanze chimiche si sprigionano in un incendio, quando sono obbligatorie le scarpe antinfortunistiche etc., tutte cose fondamentali per comporre un editoriale politico), quest’anno ci siamo dati come imperativo morale di riuscire a sfangarla senza seguire nemmeno un minuto di lezione.

Il tema è “deontologia, libertà di espressione ed etica giornalistica”. Relatore è Michele Partipilo, giornalista, apprendiamo da Google, della Gazzetta del Mezzogiorno. Ne seguiamo qualche passo: “Perché la verità è difficile da dire?” (risposta: “Perché costa fatica”) e clicchiamo direttamente su “Accedi al quiz per verificare quanto appreso”. Domanda: “In una delle vignette di Charlie Ebdo (sic) mostrate nel corso del video si fa esplicito riferimento a”. È chiaro che vogliono verificare che tu abbia visto il video, non che tu sappia di cosa parlava la vignetta o cosa sono continenza, pertinenza e verità per il Testo Unico dei Doveri. Ci si domanda se i grandi giornalisti anglosassoni siano costretti a questa tortura. Si recupera il video e si fa avanti veloce; non si trova il passaggio; si mette in play e si ascoltano le pause, i tempi morti, gli “eccetera eccetera” del relatore. A vederlo tutto, sarebbe mezz’ora sottratta alla vita, alla lettura, allo studio, e ogni modulo consta di tre video: si parla di ore e ore di chiacchiere. È un supplizio. Per fortuna, compare un fermo immagine della vignetta con su scritto “Mafia”. “Mafia”, rispondiamo, ma imperscrutabilmente la risposta giusta era “terremoto”.

Ora il senso di colpa ci impedisce di andare avanti. In fondo, c’è del lavoro dietro. Per curiosità, ascoltiamo 13 secondi della lezione: “Imparate l’articolo 2 a memoria – dice il relatore – e ripetetelo prima di andare a dormire: vi farà molto bene al corpo, allo spirito e alla professione”. Amen. Ma si deve finire l’esame, altrimenti ci radiano. Domanda: “Il termine post verità fu usato per la prima volta nel 1982 da: a) David Mamet b) David Hare c) Steve Tesich”. La risposta giusta è Steve Tesich, ma la domanda è sbagliata: post-truth compare la prima volta nel 1992, non ’82, in un articolo di The Nation. A quanto pare per fare i giornalisti saperlo non nuoce, mentre per fare le domande con cui si giudicano i giornalisti saperlo non serve.

Il dottore Prestipilo intanto sta dicendo: “L’informazione vale meno di un piatto di pasta e lenticchie? Non so, ditemelo voi”. Terrorizzati che ciò si traduca in una domanda del quiz, dal fatto che siamo riusciti a superare il primo corso senza vedere per intero nessuna delle lezioni dobbiamo evincere che: a) siamo molto formati, nel qual caso non ci serve nessun corso per proseguire la carriera; b) le modalità di verifica sono aggirabili, dunque il corso non serve a niente. (Ecco, adesso abbiamo tantissimo paura di essere radiati per insubordinazione. Però abbiamo conseguito metà dei crediti, e c’impegniamo a completare il corso. Non sia mai che continuiamo a scrivere Charlie Hebdo con l’acca).

 

Csm: più laici, ma nominati da Quirinale e Consulta

Caro direttore, giorni fa ho sentito qualcuno dire che, in fin dei conti, Palamara è un “semplice sostituto della Procura di Roma”. E ho subito pensato al Craxi che, nella primavera del 1992, definiva Mario Chiesa un “mariuolo” isolato. Ma noi tutti sappiamo benissimo che le gesta di Palamara sono la punta di un iceberg. Che l’uomo non era isolato. Non solo perché è stato eletto, da ampie maggioranze di magistrati, prima presidente dell’Anm e poi al Csm. Ma soprattutto perché Palamara non parla davanti a uno specchio: parla, tratta, organizza nomine con altri magistrati e politici che parlano la sua stessa lingua.

Davanti a questo scandalo la magistratura è timida e impaurita: “China su se stessa”, ha detto il presidente Mattarella. Una magistratura – penso io – ormai incapace di “autoriformarsi”. Per questo il problema non è più, come pensavo 20 anni fa, “il sistema delle correnti dei magistrati”. Il problema sono i magistrati: sono loro, non i politici, ad aver eletto al Csm gli autori di queste distorsioni del governo delle carriere dei magistrati. Se una magistratura di alto livello professionale e tecnico, come la nostra, genera, con l’elezione dei propri rappresentanti, un sistema come questo, vuol dire che il principio è sbagliato: sul banco dell’accusa va messo l’autogoverno. L’idea di risolvere tutto con un nuovo sistema di elezione dei membri togati del Csm è fumo negli occhi. Negli ultimi 30 anni il sistema elettorale è cambiato tre volte: sempre con l’intento di “diminuire il peso delle correnti”. Questi sono i risultati. E tu sai bene che il sistema elettorale vigente non prevede, sulla scheda, simboli o nomi delle correnti. Formalmente, ogni magistrato può essere eletto dai suoi colleghi. Ma le correnti (e gli accordi tra loro) impongono i candidati. Quando gli elettori sono poche migliaia di persone (com’è per l’elezione del Csm) le cordate di gruppi organizzati possono controllare il voto anche senza compilare delle liste. Un esempio: nel Csm ci sono quattro seggi riservati ai pubblici ministeri. Ebbene, sai quanti erano, alle ultime elezioni, i candidati per questi seggi? Quattro!

Dobbiamo difendere l’indipendenza dei magistrati. Questa è la nostra comune preoccupazione. Che sempre ci assilla. Perché sappiamo che un magistrato non indipendente non è un vero magistrato. Abbiamo sempre pensato che l’autogoverno fosse un avamposto di tutela dell’indipendenza. Ho scritto tre libri per sostenere questa tesi (dicendo anche, però, che essere indipendenti non può significare essere completamente irresponsabili). Ma i fatti hanno la testa dura. E i fatti di questi ultimi decenni ci hanno fatto capire che oggi l’autogoverno è il nemico principale dell’indipendenza. Oggi i magistrati italiani sono indipendenti da tutto e da tutti tranne che dai capi delle loro correnti. I valori cambiano con la verifica della Storia. E possono degenerare. È sempre accaduto. L’amor di patria risorgimentale degenerò nel nazionalismo che umiliava le altre patrie. Così, il volto limpido dell’autogoverno dei magistrati, voluto dai Costituenti, si è trasformato nel viso sfigurato di una arrogante irresponsabilità corporativa. La Storia ci ha insegnato che una corporazione che non conosce mai verifiche (sulla deontologia, sulla professionalità, sulle competenze) da parte di soggetti esterni alla corporazione medesima, è destinata a degenerare. Penso che se i Costituenti oggi potessero parlare, ci direbbero: “scusate, ci siamo sbagliati; non avevamo capito che la Giustizia è cosa troppo preziosa per lasciarla in mano soltanto ai magistrati”.

L’unico modo per rafforzare l’indipendenza dei magistrati è una modifica costituzionale che riequilibri il rapporto tra membri togati e laici del Csm: non 2/3 e 1/3, com’è ora. Il rapporto potrebbe essere ribaltato. O, se si vuole essere più cauti, si potrebbe recuperare una vecchia proposta del professor Glauco Giostra: metà laici e metà togati. Con l’aggiunta che i laici (professori e avvocati di chiara fama) dovrebbero essere eletti solo in parte dal Parlamento, ma anche dal presidente della Repubblica e, magari, dalla Corte costituzionale. Chi dice che questo sistema minerebbe l’indipendenza dei magistrati, mi deve spiegare perché un membro del Csm eletto da Mattarella darebbe meno garanzia di imparzialità e correttezza di uno eletto dal sistema correntizio raccontato da Palamara.

Quando sento i leader delle attuali correnti invocare pulizia e una “rifondazione morale” mi viene in mente la storiella dell’ambasciatore tedesco in Francia che, all’Expo di Parigi del ’37 in cui era esposta Guernica, incontra Picasso. L’ambasciatore, guardando il quadro, chiede: “Questo l’avete fatto voi?”. E Picasso risponde: “No. L’avete fatto voi”.

Sento in giro, tra i magistrati, la paura delle conseguenze dello scandalo Palamara. Io penso invece che dovremmo essere grati per questo scandalo che ha disvelato il marciume esistente. E trarne le conseguenze. Non bastano i pannicelli caldi. Tu, caro Direttore, che amavi citare L’elogio della ghigliottina di Gobetti, non dovresti lasciarti incantare dalle stanche litanie su un’autoriforma della magistratura promessa da quarant’anni. Penso che anche il tuo Montanelli (che pure amava più Longanesi che Gobetti) sarebbe oggi d’accordo sul fatto che mai come ora abbiamo proprio bisogno di un’intransigenza gobettiana: “Chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, perché si possa veder chiaro”.

 

Non è tutto “share” quel che luccica, il successo può risultare relativo

La proposta dell’ad Rai Fabrizio Salini, approvata dal Cda (taglio ai compensi; taglio alle produzioni esterne; limite allo strapotere degli agenti, che non potranno avere più del 30% di artisti in un singolo programma; stop alla sovrapposizione dei ruoli di conduttore, agente e produttore), è tardiva, ma sacrosanta: il predominio dei super-agenti distorce il mercato, favorendo i puledri delle loro scuderie a scapito dei purosangue bradi; ed è pericoloso per i puledri stessi, che in caso di contenzioso col produttore si ritrovano come controparte l’agente che invece dovrebbe tutelarli.

Fabiofazio l’ha presa come una decisione contro di lui, poiché il suo programma lo conduce e lo produce; e ha dato un’intervista al FQ dove si difende. Quando si parla del suo caso, però, andrebbe sempre fatta una premessa: ai giornalisti che chiedono alla Rai perché non abbia mai pubblicato ufficialmente i costi del programma di Fabiofazio, la Rai (2018) replica che “non può infrangere quel margine di riserbo industriale che le consente di poter operare su un mercato fortemente concorrenziale”. Finché non si risponde con dati ufficiali, pertanto, ogni discussione è campata in aria; ma anche ogni difesa. Al di là di questo, i lai interessati di Fabiofazio mi lasciano perplesso, perché non battono pari. Per esempio, si sa che il suo programma, Che Tempo Che Fa, costa 400mila euro a puntata. Fabiofazio replica: “Sì, ma di solito in quella fascia va una fiction di due ore, a una media di 750mila euro l’ora”. Nessun giornalista, finora, ha ribattuto a questo argomento come si deve: è vero che le fiction costano di più (la Rai afferma che i costi a puntata per intrattenimenti come le fiction arrivano a 1,1 milioni per i top di gamma), ma fanno guadagnare molto di più, sia perché fanno più ascolti (nel 2017, la fiction Scomparsa, con Vanessa Incontrada, in prime time su Rai1, faceva il 27% di share, e quindi gli spazi pubblicitari fruttavano di più), sia perché le fiction vengono vendute all’estero più volte (Il Commissario Montalbano è venduto in 20 Paesi, un talk-show di Fabiofazio non puoi rivenderlo). Il paragone, quindi, è sbagliato. Procediamo. Il successo di un programma è indicato da due resti. Il primo è la differenza fra lo share ottenuto e lo share della rete in quella fascia oraria (chiamiamolo “indice OR”). Dice Fabiofazio: “Prima del mio arrivo (2017), Rai1 faceva in media il 15,19%: con me il 16,3 il primo anno e il 15,49 il secondo.” L’errore qui è riferirsi al dato medio: ci si deve riferire alla stessa fascia oraria, il prime time. Se infatti la media di Rai1 nel 2016 fu 16,7%, nel prime time fu 18,9% (dati Studio Frasi su base Auditel). L’altro indice importante per valutare i risultati di un programma è la differenza fra share atteso (quello venduto ai pubblicitari) e share ottenuto (“indice AO”). I giornali si limitano di solito a confrontare gli share dei programmi, ma in questo modo i vincitori di una serata sono spesso fasulli. Mi spiego: per i giornali, uno show che fa il 5% vince su un altro show nella stessa fascia oraria che fa il 3%. Ma se il primo aveva uno share atteso del 10%, e il secondo invece del 2%, è il secondo, col suo 3%, ad avere avuto successo. Bene: lo share atteso dalla Rai per il programma di Fabiofazio su Rai1 era del 18% (FQ, 17 mag 2018).

(1. Continua)

 

Non possiamo vivere “Aspettando Godot”

Dovremmo, tutti noi esperti, avere rispetto della gente che ormai, da più di cinque mesi, viene rimbalzata come una pallina da ping pong tra uno scenario e l’altro sul nostro futuro. Dovremmo avere la modestia di ammettere che non siamo in grado di fare previsioni, come il virus ci ha ampiamente dimostrato. A questo punto dovrebbero essere evitate dichiarazioni fondate su ipotesi personali, seppur dedotte da modelli matematici o da esperienze scientifiche pregresse. Dopo che la scena (mediatica) è stata affollata da virologi, epidemiologi, infettivologi, dovremmo “bonificarla” per usare un termine tecnico divenuto familiare. Limitiamoci eventualmente alle notizie, ai fatti, non commentiamoli rovinando la serenità di questa bella stagione che, almeno in Italia, pare ci sia concessa. Ancora oggi, leggiamo dichiarazioni di catastrofisti che annunciano nuove zone rosse e una “sicura” seconda ondata di contagi con migliaia di ricoveri, intasamenti delle terapie intensive e decessi; e quelle degli ottimisti che annunciano la fine della pandemia con data altrettanto certa. Chi sostiene che il numero dei positivi non si stia abbassando tanto da limitare il serbatoio da cui in autunno potrebbero ripartire i contagi. Chi afferma che la pandemia si sta esaurendo, come è avvenuto per molte altre nella storia. C’è anche chi asserisce che questo virus, come è accaduto per i suoi parenti stretti (Coronavirus HCoV-OC43 e HCoV-HKU1), una volta diffusosi nella specie umana, vi rimanga, provocando sindromi influenzali di diversa entità. La verità è una sola. Nessuna delle due ipotesi ha oggi la possibilità di essere confermata più del lancio di una monetina. L’unica risposta ci sarà data dai fatti e, certamente, condizionata dai nostri comportamenti, che debbono essere responsabili, ma non parossistici. Basta con le comunicazioni dei numeri dei positivi: spesso includono risultati dei tamponi e dei test sierologici e ciò li priva di senso. Il controllo epidemiologico va fatto, ma non può essere comunicato con tale superficialità, lasciando spazio a significati erronei. L’unica certezza che incombe sull’esistenza umana è l’incertezza del futuro. Non possiamo vivere come Estragone e Vladimiro nella commedia di Samuel Beckett, Aspettando Godot. Raccomandiamo un comportamento consapevole, ma viviamo. Oggi, fortunatamente, almeno in Italia non si muore quasi più di Covid. Ma il Covid sta ancora mietendo vittime, a cominciare dalla psiche di ciascuno di noi, dalla nostra vita privata e sociale. Ricordate cosa leggevamo a scuola sul libro di scienze? L’uomo è un animale sociale. Non lasciamo che questa frase venga cancellata.

 

Aveva ragione Davigo: oggi rubano senza più vergogna

Nella capitale arrestano quattro funzionari di “Risorse per Roma”, accusati di incassare tangenti per agevolare le pratiche di condono e uno, intercettato, espone la tecnica dei “ricami” e degli “impicci”. Per poi concludere con malcelato orgoglio che “bisogna essere, come si dice dal punto di vista del procuratore di Roma, esperti del male per concepire una cosa di questo tipo… una mente perversa”. A Milano, il dirigente Atm Paolo Bellini, preso con le mani nel sacco, così spiegava a qualche sodale la natura profonda del suo lavoro: “L’altro mio compito è fare la puttana”. Vagheggiava anche progetti di vita: “Mi mancano sette, otto anni per la pensione, apro un conto Gabbietta (tangente Enimont ai tempi di Mani Pulite, ndr), c’ho in testa un agriturismo, i cavalli, la caccia… e mi sistemo”.

Anni fa per avere detto la pura verità, che cioè politici e amministratori pubblici non solo “continuano a rubare” ma “non si vergognano più”, Piercamillo Davigo fu crocifisso come incallito manettaro dalla pletora dei garantisti un tanto al chilo. Gli stessi che oggi invocano semplificazioni à gogo, straconvinti che ridimensionare il codice degli appalti e abolire una paccata di reati (a cominciare dall’abuso d’ufficio) sia la panacea per rimettere in moto l’Italia. Eppure, sul FQ di ieri, Valeria Pacelli ha scritto che ancora choccati dalla pandemia non ci siamo accorti che “nei primi 23 giorni di giugno sono finite sui giornali almeno 14 inchieste per corruzione, per lo più con misure cautelari”. Se (a parte le solite banalità sulle “passerelle”) un appunto di sostanza si può muovere agli Stati generali governativi di villa Pamphilj è che non risulta sia stato dato adeguato spazio al sistema dei controlli preventivi (per quelli successivi opera la magistratura) sui 172 miliardi che l’Europa si appresta a far planare sullo stivale. Allentando le regole sulla corruzione, più di quanto già non lo siano, lasciamo immaginare la proliferazione di “puttane” ed “esperti del male”. Che da certi garantisti di cui sopra saranno applauditi come dei facilitatori finalmente degni di una democrazia liberale.

La ‘trama zero’ fu a Palermo pro Lo Voi contro Lo Forte

Luca Palamara faccia i nomi e i cognomi. Ormai è un ritornello quotidiano. Non c’è dubbio che su più di un argomento dovrebbe dire tutto ciò che sa. Anche della vicenda Lo Voi-Lo Forte. Dovrebbe spiegare perché, per esempio, nel maggio 2019, parlando con il consigliere del Csm Luigi Spina del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, gli dice queste parole: “Lo Voi lo fa fa Pignatone il ricorso de Lo Forte… c’è pure Pignatone in mezzo… sono dei matti…”. Vediamo a cosa fa riferimento.

Nel gennaio 2016 il Consiglio di Stato, con i giudici Riccardo Virgilio presidente e Nicola Russo relatore, chiude la partita sulla procura di Palermo: boccia il ricorso di Guido Lo Forte, che aveva vinto al Tar, e conferma Francesco Lo Voi a capo della Procura.

La nomina di Lo Voi è del dicembre 2014. Una delle prime di cui si occupa il Csm in cui s’è appena insediato Palamara. Quest’ultimo, ufficialmente, si schiera con Lo Forte. Interrogato dalla Procura di Perugia – spiegando di averne parlato con il procuratore aggiunto di Roma Giuseppe Cascini – racconta: “Cascini mi chiese pure se sapevo di qualcosa tra Pignatone e Lo Voi ed in particolar modo delle vicende inerenti il ricorso al Consiglio di

Stato. Mi riferisco alla nomina del Procuratore di Palermo che (…) mi aveva visto fortemente impegnato a sostenere Franco Lo Voi fortemente voluto da Pignatone”.

Una nomina che vantava un precedente importante: nell’agosto 2014, con la precedente consiliatura del Csm, quando Lo Forte è a un soffio dalla vittoria, il presidente della Repubblica Giulio Napolitano invia una lettera al Csm chiedendo di rispettare i criteri cronologici per gli uffici giudiziari. La procura di Palermo è in fondo alla lista e la pratica passa al Csm successivo che nomina Lo Voi.

Il ricorso di Lo Forte, che vince al Tar, rimette però tutto in discussione. Ma tutto resta invece come prima: il Consiglio di Stato dà ragione a Lo Voi. Sia Lo Forte sia Lo Voi hanno ovviamente soltanto esercitato i loro diritti. E il seguito della storia non riguarda loro ma i due giudici che si occupano del contenzioso. Sia Virgilio sia Russo saranno poi indagati per corruzione in atti giudiziari dalla procura di Roma guidata da Pignatone. I loro nomi finiscono anche negli atti della procura di Perugia – non da indagati – che indaga su Palamara. Un testimone sostiene che il pm si sia interessato del ricorso in questione e di averlo saputo da Russo. È certo che Russo conosca Palamara. Ma Palamara da questo sospetto ampiamente scagionato. Durante il suo interrogatorio, peraltro, l’argomento viene affrontato solo di sfuggita. A sua volta Russo, interrogato dai pm romani, dice di aver ricevuto segnalazioni sui suoi procedimenti da magistrati e ufficiali della Finanza. Quando gli chiedono i nomi però non fiata. Sottolinea di aver sempre agito correttamente. Leggendo gli atti di Perugia si scopre che, se da un lato Russo frequentava Palamara, il presidente del Consiglio di Stato Virgilio frequentava invece Pignatone. E con questo non abbiamo ovviamente intenzione di sostenere che l’ex procuratore di Roma sia mai intervenuto sulla vicenda in questione. Il punto è un altro. E riguarda un altro fronte del caso Palamara: lo scontro con il pm Stefano Fava, che presenta un esposto al Csm perché ritiene che il suo capo non si sia astenuto da alcuni fascicoli che riguardavano gli indagati Giuseppe Centofanti e Piero Amara. Il primo è un semplice conoscente di Pignatone, il secondo ha avuto rapporti di lavoro con il fratello del magistrato, Domenico Pignatone (Amara sostiene però di non averlo mai retribuito, ndr). E in effetti Pignatone nel maggio 2017 – alcuni mesi dopo l’avvio dell’indagine – scriverà all’allora procuratore generale della corte d’Appello, Giovanni Salvi, chiedendogli se debba astenersi, ricevendo l’autorizzazione a occuparsi dei fascicoli. Negli atti di Perugia si legge però una lettera in cui Fava, il 5 marzo 2019, scrive a Pignatone per ricordargli che, nel 2016, gli ha “comunicato di conoscere” Virgilio “da trenta anni”. E che quando Fava gli ha comunicato “le

risultanze investigative” Pignatone ne era rimasto “ molto sorpreso” perché lo “aveva conosciuto come persona integerrima”. Della conoscenza di Virgilio, però, in base agli atti che abbiamo potuto consultare, Pignatone non scrive nulla a Salvi quando gli chiede se debba astenersi. Eppure – se quanto Fava sostiene è vero – si tratterebbe di una frequentazione di 30 anni, superiore alla conoscenza con Centofanti, che invece menziona. “Non credo sia questa la sede per fare valere le mie ragioni e i miei diritti” ci ha risposto Pignatone quando gli abbiamo chiesto di commentare le parole di Fava e Palamara. “In questa vicenda – aggiunge – io sono parte lesa di condotte altrui, come già risulta da provvedimenti adottati dalle Autorità competenti. Se poi ci sono cose da chiarire in sede istituzionale, le chiarirò in quella sede”.

Errori e varianti: è il costruttore Telt la causa dei mega-ritardi dell’opera

La scorsa settimana la Corte dei Conti europea ha pubblicato una relazione su alcune mega infrastrutture di trasporto. Il rapporto esprime un giudizio severo per la grande opera della Val di Susa: i ritardi, l’insostenibilità economica, gli irrecuperabili danni ambientali, l’inefficacia del progetto. Non è una novità. Le Corti dei Conti hanno sempre segnalato le criticità della Torino-Lione. Quella francese nel 2012 ne stimò la spesa totale in 26 miliardi, giudicandola insopportabile (9,6 costa solo il tunnel di base). Quella italiana denunciò il debito generazionale provocato dall’intera rete ferroviaria AV quando i ragazzi del Fridays for Future erano ancora bambini.

Non è nulla di nuovo per chi è abituato a studiare i documenti ufficiali e non i comunicati stampa di Telt. La quale spesso nei suoi annunci implicitamente ammette di progredire molto lentamente: da dicembre 2018 ad aprile 2020, ad esempio, 3,5% di avanzamento in 15 mesi (0,23% al mese, 2,8% all’anno). Le testimonianze si sprecano. L’architetto Mario Virano, al timone prima come Commissario di Governo e poi come Direttore generale della stessa Telt, nel 2009 al Senato aveva annunciato l’avvio dei cantieri principali per l’autunno 2013. A ottobre 2013 in Commissione Trasporti della Provincia di Torino li posticipò tra il 2015 e il 2016. La Gazzetta Ufficiale del 24 gennaio 2018 nella Delibera Cipe n. 67 rese pubblico un cronoprogramma ottimistico: inizio degli scavi del tunnel a ottobre 2017 e dei lavori di attrezzaggio e impiantistica a gennaio 2026. Inimmaginabile. Non è una novità nemmeno che Telt perda i finanziamenti europei. È già successo a Chiomonte, dove non è riuscita a spendere 400 milioni. L’Ue glieli ha riassegnati nel bilancio seguente, ma non è detto che il giochino riesca sempre.

Telt attribuisce i ritardi al Movimento No Tav. Da un lato, nessuno dei documenti ufficiali citati lo indica tra le cause; dall’altro, perché amministratori, tecnici e cittadini non dovrebbero opporsi a un’opera che è certificata essere inutile e devastante per l’ambiente? Un’altra scusa invocata da Telt riguarda le autorizzazioni ministeriali e la burocrazia, troppo lente. Nemmeno queste reggono. La Torino-Lione è incardinata dentro la Legge Obiettivo del governo Berlusconi che le garantisce iter privilegiati, tanto è vero che, al contrario di qualsiasi infrastruttura normale, al gestore – prima Ltf oggi Telt – è concesso di approvare da sé le varianti in corso d’opera. Questo è uno dei punti caldi. La superficialità nella progettazione e la contraddittorietà di molti indirizzi fanno sì che le modifiche siano frequenti, dopo l’approvazione definitiva. Il cantiere di Chiomonte, modesto, ne ha viste ben 6 in 6 anni. Alcune erano di poco conto ma altre, come la modifica del deposito dello smarino, piuttosto rilevanti. Cambiare un’opera autorizzata comporta rinvii, nuove valutazioni e insofferenza nei funzionari.

Il cantiere di Chiomonte è un buon esempio anche per altri fenomeni. L’area venne sgomberata a luglio del 2011 ma i lavori veri e propri, secondo Telt, sono iniziati solo l’anno dopo. Quando il progetto venne approvato nel 2010 era descritto come un cantiere provvisorio di 5 anni, da rinaturalizzare e restituire alla comunità. Anche per questo aveva ottenuto una valutazione di impatto ambientale positiva, pur con decine di prescrizioni e critiche. Se, passati 5/6 anni, come è accaduto, il progetto viene cambiato e diventa senza fine, è evidente che le valutazioni e le autorizzazioni dovranno essere ripresentate e riapprovate, dilatando tempi e costi.

Il progetto della Torino-Lione ha visto la sua prima analisi costi-benefici nel 2012, oltre vent’anni dopo la sua ideazione. Produceva un risultato di poco positivo – nonostante le critiche metodologiche riportate persino al suo interno – solo a condizione che l’intera nuova ferrovia fosse in esercizio nei tempi stabiliti. La Francia ha deciso di valutare solo dopo il 2030 se fare la sua tratta nazionale, e l’Italia non ha ancora licenziato un vero progetto per la porzione Bussoleno-Torino. La Torino-Lione è vecchia e climaticida. Prima verrà accantonata, meglio sarà per tutti.