Chiomonte, il cantiere avanza. I NoTav pronti all’estate calda

Marce nei boschi, flash-mob nelle piazze dei paesi di montagna, presidi fissi nei vecchi mulini a fianco del cantiere e proteste in cima agli alberi. Con la ripresa dei lavori a Chiomonte – mirati ad allargare il cantiere per costruire opere collaterali al tunnel della Maddalena – si riaccende la lotta dei No Tav, che da trent’anni si oppongono alla grande opera. “Mobilitazione permanente” è la parola d’ordine e la spiegazione di cosa sta avvenendo in Val di Susa da domenica scorsa. Un gruppo di No Tav, prevedendo che nel giro di poche ore sarebbero arrivate le ruspe, lo scorso weekend si è piazzato negli ex mulini dei boschi della Clarea, a cento metri dai cancelli del cantiere. La zona è stata interdetta dal prefetto di Torino con un’ordinanza, ma i No Tav sono rimasti lì, barricati e “circondati” dalle forze dell’ordine. I fabbricati sono stati concessi tempo fa in comodato d’uso a un militante No Tav. “È il nostro presidio permanente del movimento”, spiega Guido Fissore, di Villar Focchiardo, ex consigliere comunale e anima storica dei No Tav della val di Susa. “Ogni sera – racconta – ci troviamo e camminiamo insieme da Giaglione ai mulini per portare viveri, acqua e dare il cambio alle persone che resistono. Continueremo così”.

Il presidio serve ai No Tav sia per dimostrare la contrarietà all’opera, sia come punto d’osservazione. Non è l’unico strumento della protesta No Tav. “Ci siamo immaginati – spiega Francesco Richetto, di Bussoleno – un’estate con una forte mobilitazione in cui cercheremo di dare la possibilità a tutti i No Tav di essere presenti, in valle e non solo. Venerdì sera faremo una grande assemblea e metteremo giù un calendario a misura di Covid, con appuntamenti all’aperto, nel rispetto delle misure di sicurezza. Pensiamo a eventi culturali, musicali e di lotta”. La voglia di dire “no” all’estensione di un cantiere percepito come “inutile” e “dannoso”, viene ribadita ogni sera. Da lunedì dopo le 18 un corteo parte da Giaglione per raggiungere il presidio dei Mulini. Qualche sera fa i No Tav sono arrivati fino alle reti. Le forze dell’ordine hanno sparato lacrimogeni nei boschi. La prosecuzione dei lavori in questo momento, dopo la pandemia, “è un’aggressione criminale”, precisa Richetto. “Non solo dal punto di vista materiale – sottolinea – ma dal punto di vista politico e progettuale. Ripartire, con il Covid, con gli stessi errori di prima non ha senso. Non c’è una visione di rispetto per l’ambiente e per l’uomo, in una fase che dovrebbe essere invece non di spese folli e di sprechi, ma di armonia tra l’uomo e la natura. Dovremmo seminare cose utili, mentre la Corte dei conti francese ci dice che le ricadute del Tav arriveranno forse nel 2080”. “Protestiamo – spiega Guido Fissore, nel movimento dal 1990, quando iniziarono le prime proteste – anche perché per allargare il cantiere di un solo ettaro, hanno dispiegato hanno militarizzato un’area e bloccato tre chilometri di valle. Per noi è una follia”.

’Ndrangheta a Milano: Giorgino “Malefix”, la fidanzata vip e la movida mafiosa in città

Lo hanno arrestato ieri all’alba nella sua nuova casa in via Sala sui Navigli a Milano. Vita tranquilla con i vicini, nessun sospetto. Eppure quel ragazzo robusto non ancora quarantenne è Giorgio De Stefano, l’erede di una delle cosche di ’ndrangheta più potenti. Sovrana assoluta del quartiere Archi di Reggio Calabria e presente sulla piazza milanese. De Stefano junior, figlio del superboss Paolino ucciso nel 1985, è indagato con altre 26 persone. Il nome dell’operazione conclusa ieri e coordinata dalla Squadra Mobile di Reggio e dallo Sco di Roma, si chiama Malefix. Esattamente il soprannome di Giorgino De Stefano. Il nomignolo è merito della sua compagna, Silvia Provvedi, già ex di Fabrizio Corona e concorrente di una delle ultime edizioni del Grande fratello Vip. Per lui l’accusa è di associazione mafiosa. La Procura lo descrive come l’erede del potere economico del clan. Potere gestito a Milano attraverso investimenti nei locali della movida. Tra questi il ristorante Oro Milano del quale il giovane boss è stato socio. Lo stesso locale prima si chiamava Gente di Mare e nel 2009 ospitò un incontro tra politici e personaggi vicini ai clan, tra questi Paolo Martino, uomo dei De Stefano e figura di riferimento per il giovane Giorgio. In più occasioni “la stampa rosa” si è occupata di lui per via della sua relazione con la Provvedi dalla quale ha avuto recentemente un figlio. In quegli articoli, l’erede del clan era definito “un famoso imprenditore calabrese che viene da una importante famiglia e si divide fra la Calabria, Milano e Ibiza ed è tra i soci proprietari del ristorante Oro di Milano”. Su Instagram sono rare le sue foto. Investimenti e bella vita, dunque. Dal progetto di aprire un bar all’interno di una delle università di Milano alle spese folli. Di lui dice il pentito Enrico De Rosa: “Aveva mazzette da 500 euro, non finiva mai. Gli ho detto: ‘Giorgio ma dove li prendi? Le stampi forse?’. Ne aveva una marea. Mi è rimasto impresso il fatto che avesse sempre fogli da 500 euro in tasca”. Sotto la Madonnina, De Stefano si muoveva “come fosse a casa”. Prima in un appartamento in via Boscovich, oggi in riva ai Navigli. Eppure ogni volta che bisognava risolvere qualche problema, Giorgino scendeva a Reggio. Come nel caso di una faida solo sfiorata con una famiglia alleata dei De Stefano. In quel caso “Malefix” spiega a Gino Molinetti: “È un casino scendere in modo che non lo sanno. Bisogna fare ogni volta un manicomio, dobbiamo arrivare a Roma o a Napoli, lasci i telefoni, prendi la macchina”. A Milano invece si fanno affari. Spiega De Stefano: “Io gliel’ho detto, venitevene lì sopra. Io uno sono! Abbiamo un sacco di cose da fare! Uno si cura un paese all’estero, uno si cura i rapporti con altri cristiani”. Insomma soldi, clan, movida.

Per un condono bastava pagare: 4 arresti a Roma

Bastava pagare una mazzetta per avere “un ricamino” e veder sistemata la propria pratica per il condono edilizio. Quattro dipendenti della Risorse per Roma spa, società a cui è affidato il servizio capitolino per la gestione dell’Ufficio Condono, che in accordo a un funzionario comunale e un geometra avrebbero sistemato i documenti per assicurare ai loro clienti la sanatoria edilizia, sono stati arrestati dai carabinieri e dalla Procura di Roma con l’accusa di corruzione, truffa e falso. A loro si sarebbero rivolti imprenditori, costruttori e professionisti, che con la promessa di poter aggirare la trafila burocratica, pagavano per sanare le violazioni edilizie. Un giro d’affari che avrebbe provocato per le casse comunali una mancata riscossione di 56 milioni di euro. Per accelerare la pratica sarebbero bastati 600 euro: 500 per la cartella e 100 euro per la copia consegnata fuori dall’ufficio. Sequestrati 455 mila euro dai conti degli indagati.

Tra i casi finite sotto esame, c’è il “condono di abusi edilizi” al “ristorante Checco dello Scapicollo, di proprietà di Francesco Testa”, un locale molto frequentato dai giocatori della Roma. Mentre il funzionario comunale arrestato Marco Ursini avrebbe ricevuto 18 mila euro, parte di un compenso di 37 mila, che sarebbero serviti a favorire un condono curato da Fabrizio Amore, già beneficiario di contratti pubblici ai tempi in cui Raffaele Marra era un fedelissimo di Gianni Alemanno, per conto del Centro Geriatrico Romano.

Il Fmi vede il Pil a -12,8%. Gualtieri: “Nuovo decreto”

Il Fondo monetario internazionale ha reso note ieri delle brutte previsioni per l’Italia. Il Pi è dato in contrazione quest’anno del 12,8%, rispetto al -9,1% stimato dal governo. La notizia è giunta proprio mentre il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, entrava in commissione Bilancio per l’audizione sul decreto Rilancio: “Le nostre valutazioni non sono altrettanto pessimistiche”, ha detto Gualtieri provocando la reazione furiosa della Lega che ha costretto il presidente Borghi, leghista anch’egli, a sospendere la seduta: “Aggiorneremo a breve la nostra previsione ufficiale” ha poi precisato il ministro.

Le stime del Fmi significherebbero che il debito salirebbe al 166,1% del Pil nel 2020, con un deficit in peggioramento al 12,7% (la stima era all’8,3% in aprile). E questo mentre il ministro annunciava “una nuova richiesta di scostamento al bilancio” anche con l’obiettivo di varare entro “il prossimo mese un ulteriore decreto per interventi aggiuntivi per lavoratori e imprese”.

Ma sullo scostamento bisognerà sudarsi i voti, visti i numeri incerti del Senato dove però la misura avrà bisogno della maggioranza assoluta. Forza Italia ha dichiarato ieri la propria disponibilità ma stavolta vorrà qualcosa di concreto in cambio mentre Giancarlo Padoan, del Pd, in un intervento paludato ha però evocato il solito spettro del ricorso al Mes che, in forza dei numeri circolati ieri, tornerà a occupare il dibattito politico.

Insomma, la discussione sulle misure economiche, già complessa come dimostra la divergenza sull’Iva, sarà resa più complicata. Da segnalare, infine, che ieri Giuseppe Conte ha voluto vedere a palazzo Chigi il presidente dell’Insp, Pasquale Tridico. Il premier, secondo quanto riferito dallo stesso Tridico, “ha voluto sapere come eliminare le criticità”. Un modo per ammettere che le criticità dell’Inps ci sono state e che lo stesso Conte se n’è preoccupato in prima persona.

“Il riciclaggio si batte con certezza della pena e nessuna prescrizione”

Gian Gaetano Bellavia è un noto commercialista milanese, esperto di diritto penale dell’economia. Ha seguito negli anni molte vicende di riciclaggio e criminalità economica e finanziaria.

Serve la riduzione del contante in circolazione?

L’eliminazione delle monete di grosso taglio sì, riduce la possibilità di movimentare grandi quantità di denaro. Ma avendo in Italia una normativa antiriciclaggio poderosa e gestita in maniera egregia dalle banche, non c’è possibilità di movimentare grosse quantità di denaro contante senza essere segnalati dalle banche alle autorità antiriciclaggio. Diciamo la verità, io in Italia non vedo girare valigie di contanti e se girano non girano tramite banca. Ci sono i russi, o altri stranieri, che girano con i rotoli di banconote in tasca, ma gli italiani io non li vedo così, sarà forse perché opero a Milano e ho l’osservatorio di Milano.

Ma la riduzione della quantità di contante in circolazione può favorire la riduzione dell’evasione fiscale?

Sì, certo ma non è risolutiva perché potrà intervenire su situazioni marginali, con protagonisti artigiani, commercianti. Io non la vedo una mossa che possa risolvere il problema, certo può aiutare nel caso di evasioni marginali. La soluzione più efficace per l’evasione fiscale è la certezza della pena e l’eliminazione della prescrizione.

Può mettere in difficoltà le operazioni illegali dei gruppi criminali e della criminalità organizzata?

La criminalità organizzata certamente raccoglie grandi quantità di denaro contante e poi lo utilizza per corrompere, per comprare beni eccetera. Però non credo che la limitazione del contante ai 3 mila o ai mille euro possa davvero incidere sulle grandi attività criminali. I boss tengono 15 milioni di euro nel muro, come abbiamo scoperto in una recente operazione antimafia. Poi li movimentano nell’Est Europa, non in Italia né nelle banche italiane. Ridurre da 3 mila a mille euro la possibilità di spendere contante non incide sulle loro attività, la loro movimentazione di denaro contante continuerà come prima. Raccolgono denaro in Italia, lo utilizzano in Italia e poi lo mandano in Romania, nei Paesi dell’Est Europa comunitaria. Lì versano, riciclano e poi fanno transitare i fondi per i soliti Paesi offshore, come il Lussemburgo, infine reinvestono in Italia. Lei non si chiede da dove arriva la massa di denaro che torna in Italia sui fondi esteri basati in Delaware, Stati Uniti o in Lussemburgo? Non è possibile sapere che cosa c’è dentro, da dove vengono, di chi sono tutti quei soldi, chi può escludere che possano provenire da attività illecite?

Il gruppo di Colao ha proposto una sorta di sanatoria sul contante detenuto in nero.

La voluntary disclosure sul contante è un’ottima idea. Ma è irrealizzabile. La dichiarazione volontaria di denaro in nero detenuto in contanti presuppone la confessione totale della genesi e di tutta la movimentazione di questo denaro, con l’indicazione di tutti quelli che l’hanno toccato. E a mio parere nessuno in Italia è disposto a fare questa confessione. Potrebbero farla, in casi limitati, per esempio il panettiere che ha messo via 20 mila euro o cifre sotto la soglia di punibilità penale. Se non scatta alcun reato, il panettiere può dichiararli e regolarizzarli. Ma non possiamo pensare che possa succedere quello che è successo con la vecchia voluntary disclosure dei patrimoni detenuti all’estero. È impossibile che qualcuno accetti di regolarizzare grandi quantità di denaro, perchè dovrebbe autodenunciarsi per le condotte illecite che hanno generato questo denaro. E non reputo possibile che uno sano di mente si possa autodenunciare per reati gravi di corruzione, o false fatturazioni, o anche reati tributari sopra la soglia. Le autodenunce sono ipotizzabili in casi di piccole cifre, dunque l’idea è buona ma non realizzabile. A meno di aggiungerci una amnistia per quei reati, e ritengo la proposta né giusta né possibile. Non l’ha fatta, ai suoi tempi, neppure Silvio Berlusconi.

Il braccio di ferro su contanti e condoni

Una parte dell’economia italiana resta sommersa. Per capirne le dimensioni ci si può solo affidare alle stime. Le migliori arrivano dalla relazione del ministero dell’Economia (edizione 2019), secondo cui l’evasione fiscale e contributiva è quantificata in 110 miliardi di euro. Divora ogni anno almeno un quinto delle entrate erariali, con livelli rimasti nel corso degli anni particolarmente elevati rispetto agli altri Paesi europei. “Più contante c’è, più si favorisce l’illegalità, su questo non c’è dubbio. Se io vivo di stipendio, il contante non mi serve. E non mi serve se io sono imprenditore e fatturo tutto il mio lavoro”, ha detto il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, intervistato da ilfattoquotidiano.it. Il mantra resta lo stesso: puntare la barra verso il contrasto al nero attraverso una modalità di pagamento cashless, senza denaro, che passa anche per il ritocco del tetto dei pagamenti consentiti in contanti. Un’altalena di interventi (ben 9 dal 2002) che hanno modificato la soglia oltre la quale non è consentito l’utilizzo del cash: dal 1° luglio ritorna il limite a 1.999,99 euro introdotto dal governo Monti e portato a 3.000 euro da Renzi. Soglia che lunedì scorso la Lega ha cercato di bloccare presentando un emendamento al dl Rilancio che è stato bocciato. Intanto il già ristretto gruppo di esperti in politiche fiscali si è diviso in due fazioni. La prima concepisce la scomparsa dalle transazioni del circolante come l’arma finale per riportare l’evasione fiscale monstre registrata in Italia nei limiti considerati fisiologici in un’economia avanzata di mercato. L’altra, più scettica, ne riconosce l’efficacia nella lotta al riciclaggio dei proventi della criminalità organizzata. Entrambe concordano su un punto: meno banconote circolano, meglio è. Il governo ci crede e ha messo in atto il piano Italia cashless.

Da mercoledì prossimo per i professionisti scatterà un credito d’imposta del 30% per ammortizzare le commissioni addebitate dalle banche sul noleggio dei Pos. Mai, però, sono entrate in vigore le multe per gli esercenti che si rifiutano di accettare carte di credito e bancomat. Mentre l’altro incentivo al tracciamento dei pagamenti, la lotteria degli scontrini, che dovrebbe potenziare la stretta anti-evasione già messa in campo con la fatturazione elettronica, è stato rimandato al 2021 a causa del coronavirus. Così come è stata rinviata sine die la previsione di un bonus sotto forma di cashback per acquisti fatti con la moneta elettronica.

Il direttore dell’Agenzia delle Entrate, il renziano Ernesto Maria Ruffini, non sembra crederci molto e, anzi, auspica sanatorie. Tornato al vertice dell’Agenzia a inizio anno, Ruffini ha spiegato che il contante di chi ha “solo” evaso il Fisco “potrebbe anche essere oggetto di una sanatoria, purché non al ridicolo tasso del 15%. Non è però comunque accettabile rischiare di sdoganare, con l’alibi di queste somme, anche le altre di origine criminale che dovrebbero essere invece confiscate al 100%”.

Ma l’apertura di una nuova stagione dei condoni per il premier Giuseppe Conte si è esaurita lo scorso anno, perché “le definizioni agevolate sono una tantum per natura e non possono diventare parte integrante della disciplina fiscale”. Mentre la Lega continua a sponsorizzarli come un disco rotto. “L’unico modo per ripartire è azzerare la burocrazia e condoni”, ha ribadito poche settimana fa Matteo Salvini. Ma il tema della regolarizzazione dei capitali illecitamente detenuti in Italia e all’estero, la voluntary disclosure, è una posizione che ritorna anche nelle schede elaborate dal Comitato degli esperti guidato da Vittorio Colao, che ipotizza di introdurla sul contante e altri valori derivanti da redditi non dichiarati, a fronte del “pagamento di un’imposta sostitutiva e dell’impiego per un periodo minimo di tempo, di una parte significativa dell’importo in attività funzionali alla ripresa”. Il Comitato auspica inoltre un’iniziativa presso le istituzioni europee per mettere fuori corso le banconote di maggior taglio, 500 e 200 euro. Del resto l’ultimo rapporto della Banca d’Italia sull’uso del contante (2016) certifica che nel Paese resta lo strumento più utilizzato. In negozi e supermercati l’85,9% delle transazioni è stato regolato in contanti.

“L’effetto di una contrazione del tetto del contante dovrebbe ridurre tendenzialmente i livelli di economia sommersa”, osserva l’ex ministro del Tesoro Vincenzo Visco: “Questa è una misura utilissima per il riciclaggio e non a caso ci sono pressioni per fare una sanatoria anche per i soldi liquidi della criminalità, ma non è risolutiva per l’evasione fiscale”. Il tracciamento dei corrispettivi e l’utilizzi delle banche dati finanziarie per accertamenti è sicuramente più efficace. “Quel che mi guarderei bene dal fare – avverte Visco – è dare incentivi all’utilizzo di carte di pagamento: è solo uno spreco di denaro pubblico”.

Chi non sottovaluta le potenzialità criminogene della movimentazione del contante è la Guardia di Finanza. Il Nucleo speciale di polizia valutaria ha analizzato nel 2019 ben 82.810 segnalazioni di operazioni sospette, di cui 25.806 sono state sottoposte ad indagini più approfondite. Il valore del riciclaggio accertato si è attestato intorno a 1,8 miliardi di euro, mentre sono stati effettuati sequestri su ordine della magistratura per altri 838 milioni.

“I legami dell’uso del contante con alcuni dei mali nazionali quali l’evasione, la corruzione e il crimine organizzato sono innegabili”, spiega Fabio Di Vizio, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, esperto di indagini finanziarie. Lo dimostra, secondo Di Vizio, anche l’accertata correlazione diretta tra circolazione del contante e densità criminale su base territoriale: “L’abbassamento delle soglie del contante può contrastare sicuramente le forme di evasione meno strutturate e contribuire ad ostacolare quelle più rudimentali di un’economia criminale”.

La sola lotta all’evasione ha da sempre un ostacolo: la mancanza di una cultura dei pagamenti elettronici che ogni anno fa perdere terreno all’Italia. Secondo quanto risulta dalla quinta edizione del report Cashless Revolution, elaborato da The European House-Ambrosetti, se in Italia aumentassero i pagamenti digitali e diminuissero le transazioni regolate in contanti si recupererebbero quasi 30 miliardi di euro garantendo 12,5 miliardi di maggiori introiti per lo Stato nell’ipotesi in cui il Paese si allineasse alla media europea dei pagamenti elettronici. Ma il traguardo resta lontano: per The European House-Ambrosetti, l’Italia è tra le 35 peggiori economie al mondo per incidenza del contante sul valore del Pil.

L’ultima di Gallera: “Privato lussuoso ai pazienti ordinari”

Ci mancava. Era un po’ che Giulio Gallera non ne sparava una delle sue e non so voi, ma io ero inquieta. Sono rassicuranti le boiate di Gallera. Sono come dormire col rumore del phon acceso. Se non le senti, all’inizio stai bene, poi ti assale una strana ansia, un po’ come quando hai un neonato in casa che non smette di urlare e se una notte sta zitto per due ore di seguito ti alzi per vedere se è vivo. Ecco, Gallera è vivo. E il suo ultimo vagito è di quelli che ti svoltano la nottata. E anche la giornata.

Ieri, durante un talk online su Rcs Academy, ha dichiarato: “Gli ospedali sono stati sommersi da pazienti Covid e il privato ha aperto le sale di terapie intensive e le loro stanze lussuose a pazienti ordinari che venivano trasferiti dal pubblico”.

Ora, a parte che vorrei sottolineare il coraggio nell’essersi sottoposto al terribile fuoco di domande e al durissimo contraddittorio di Rcs Academy, giuro che ho dovuto rileggere almeno cinque volte la frase, anche al contrario, per convincermi che l’avesse pronunciata davvero. Pensavo occorressero almeno due sprovveduti come Gallera per sparare una perla del genere, ma di Gallera ne basta perfino uno solo. Quindi dovremmo essere grati ai privati lombardi perché durante una pandemia mondiale, pagati, anziché respingere sulla porta pazienti ORDINARI, con milze ordinarie, con cistifellee qualunque, con prostate consuete, magari anche un po’ pezzenti, i privati li hanno fatti entrare e accolti nelle loro stanze, tra arazzi d’epoca e mezzibusti bronzei di Formigoni. Il Covid a 5 stelle in pratica.

Ha ragione Gallera a sottolineare la generosità di questi privati lombardi. Perfino le terapie intensive ai pezzenti hanno aperto. Li avranno intubati con tubi in platino e iridio, intarsiati di pietre preziose, in cui soffiava ossigeno puro Gallera stesso, dandosi il turno con Fontana (che ovviamente dopo due soffiate si assottigliava di 50 cm e finiva sottovuoto, come i maglioni nel cambio stagione).

In pratica, sotto Covid, in Lombardia essere trasferiti dal pubblico al privato era una specie di upgrade. Un po’ come quando hai prenotato una doppia standard in un 3 stelle, ma ti fanno l’upgrade e ti danno la suite.

In effetti ho un amico che a marzo è stato tre settimane in una struttura privata in sub-intensiva col Covid e il casco Cpap e ora ha chiesto se hanno la stessa camera libera ad agosto che ci porta anche la moglie e i bambini. È un peccato che Gallera, già che c’era, non abbia ringraziato anche il Trivulzio e altre strutture che per eccesso di generosità, per dimostrare di non avere pregiudizi e di non escludere davvero nessuno nell’altruista, caritatevole Lombardia non hanno esitato a spalancare le porte perfino al Covid!

Una sanità davvero inclusiva. Forse anche troppo inclusiva. Poi dice che questo sistema misto pubblico/privato non funziona. Eccome se ha funzionato. Ha funzionato almeno quanto il talento comunicativo di Giulio Gallera. Un talento ordinario finito nelle stanze lussuose della notorietà durante il Covid e tutt’oggi in condizioni disperate, in una situazione che ormai è un palese accanimento terapeutico, mentre perfino Salvini è dell’idea che sia ora di staccargli la spina. Non mollano, Giulio e il suo talento comunicativo. Ogni tanto, nel suo letto lussuoso nella stanza lussuosa del lussuoso palazzo della Regione alza la testa con lo sguardo vitreo e il fiato corto e balbetta: “Il sistema ha tenuto!”. Dopo poco ripiomba in uno stato di semi-incoscienza per poi rialzare la testa all’improvviso e “le abbiamo azzeccate tutte!”, poi sembra non essere più lucido e all’improvviso: “Se ti dimettono vuol dire che sei guarito!”. Insomma, il paziente è grave ma stabile.

L’ultima uscita, è vero, sembra un debole segnale di peggioramento, ma a questo punto, se è ancora lì anche dopo questa, vuol dire che in Regione Lombardia stanno solo decidendo in quale stanza lussuosa metterlo per toglierselo di torno.

Qualcuno sostiene che Gallera covi ancora la segreta speranza di diventare sindaco, per cui ci aspettiamo da un momento all’altro una dichiarazione felice delle sue. Magari un definitivo: “Sì, mi piacerebbe fare il sindaco, ma a Milano mi dicono mi sia fatto troppi nemici. Pensavo di candidarmi ad Alzano Lombardo”.

Banda larga, pochi cantieri e Oper Fiber vuol fermarli

Ieri vi abbiamo raccontato dei ritardi nella realizzazione del piano per portare la Banda ultra-larga (BUL) negli oltre 7mila Comuni italiani considerati “a fallimento di mercato”, cioè dove i privati non investirebbero perché non conviene: tre anni di ritardi su tre anni di lavori previsti (2018- 2020) nel cronoprogramma che Open Fiber – la società di Enel e Cdp che ha vinto tutti e tre i bandi – aveva presentato al soggetto attuatore pubblico Infratel, ente in house del ministero dello Sviluppo.

Ieri, però, alla riunione del Comitato governativo sulla BUL i ministri competenti – a partire da quella dell’Innovazione Paola Pisano, che lo presiede – hanno capito che la situazione è peggiore del previsto: le prime ispezioni nei cantieri fatte da Infratel hanno dato pessimi risultati e la stessa Open Fiber ha chiesto la sospensione di circa 1.500 progetti sui 2076 in esecuzione.

Andiamo con ordine. Quest’anno, secondo il suo stesso piano, Open Fiber avrebbe dovuto procedere al ritmo di 77-78 cantieri al mese messi a disposizione degli operatori di mercato: al momento la media dell’anno è inferiore a venti e quella di gennaio e febbraio – quando non c’era neanche la scusa del coronavirus – era di 24. Difficile anche arrivare ai 649 cantieri completati promessi nel 2020 se a metà giugno i collaudi totali portati a casa erano 85, 84 dei quali peraltro finiti non con esito positivo, ma con “prescrizioni”. Di questo passo il piano rinnovato presentato in queste settimane al governo dall’azienda rischia di essere scritto sull’acqua.

E dire che il nuovo cronoprogramma già incorpora i ritardi dichiarati a fine 2019: quello inizialmente proposto da Open Fiber – e accettato da Infratel – prevedeva la fine dei lavori in 36 mesi, quindi per la maggior parte dei Comuni entro il 2020 o l’inizio del 2021, mentre secondo il nuovo calendario consegnato dalla stessa società di Enel e Cdp l’86,5% dei Comuni sarà terminato tra il 2021 e il 2023, anno in cui dovrebbero essere ultimati i lavoro nelle ultime 810 cittadine (il 15,8% dei cantieri programmati ad oggi). Questo peraltro, come Il Fatto ha già scritto, crea un problema coi fondi europei dedicati al progetto: quei soldi, infatti, sono inseriti nella programmazione 2014-2020 e vanno rendicontati al massimo entro il 2022.

Solo che il governo è ora convinto che delle promesse di Open Fiber non ci si possa fidare: il CoBUL ha chiesto alla società una copia del nuovo piano industriale e a Infratel un’analisi del contratto di concessione (forse per capire se e come è possibile rivalersi per i ritardi: finora ad Open Fiber è stata applicata solo una penale da meno di un milione di euro). Una scelta quasi necessaria dopo l’annuncio fatto ieri da Infratel: i mille problemi riscontrati sui cantieri (da ultimi quelli su progettazione e ditte per le operazioni di scavo) hanno spinto il concessionario a chiedere la sospensione temporanea di circa 1.500 cantieri sui 2.076 totali cosiddetti “in esecuzione”.

Non va meglio con le ispezioni sui cantieri appena avviate da Infratel. Ne risultano ultimate venti tra Abruzzo, Campania, Lazio e Sicilia: ebbene in 5 casi (25%) lo stato di avanzamento dei lavori è “zero”, in altri 8 casi (40%) sono state rilevate “non conformità gravi”, la luce verde senza prescrizioni di sorta è arrivata per soli sei cantieri (30%). Tra le altre cose, gli incaricati segnalano spesso la carenza di personale sul luogo dei lavori.

Se questi dati venissero confermati su più larga scala, insomma, anche i programmi comunicati all’esecutivo da Open Fiber – che ha subappaltato la realizzazione delle opere a oltre 90 imprese – andrebbero trattati con le molle. Se non è così certo che la società sia in grado di rispettare i suoi programmi, va detto che fino a poco tempo fa nessuno la controllava: Infratel ha assegnato l’incarico per le “verifiche in corso d’opera” solo il 26 maggio.

Open Fiber, insomma, rischia di non avere solo il problema Beppe Grillo, che s’è improvvisamente e pubblicamente schierato con Tim nella querelle sulla rete unica, ma pure quello di un pezzo del Pd: in questi mesi i ministri del Sud e degli Affari Regionali, Peppe Provenzano e Francesco Boccia, sono stati i più duri nel Comitato sulla BUL con la società di Enel e Cdp.

Susanna, la Salvini in gonnella ringhia gaffe contro gay e neri

Ve lo ricordate Corrado Guzzanti che canta Antonello Venditti, quel pezzo strepitoso sul Grande Raccordo Anulare? “E se nasce una bambina poi la chiameremo Roma”. Ecco, alla leghista Susanna Ceccardi e al marito Andrea Barabotti (altrettanto leghista) è nata una bambina e l’hanno chiamata Kinzica. Non è una vodka polacca, ma l’eroina che secondo una leggenda medievale avrebbe salvato la città di Pisa dall’invasione dei Saraceni.

Capito? Ceccardi è talmente intrisa di epica leghista e di retorica anti-islamica che sull’altare di queste sue passioni ha sacrificato il nome della figlia. La bimba magari la perdonerà, dopo tanti anni di psicanalisi. Ma Susanna è fatta così. È più salviniana di Salvini. È più donna, madre e cristiana della Meloni.

Sarà per questo che “il capitano” la vuole ovunque: l’ha lanciata in tv, l’ha vista trasformarsi nella prima sindaca leghista della rossa Toscana (a Cascina, provincia pisana), quando era vicepremier se l’è portata a Palazzo Chigi con un ricco incarico da 65mila euro l’anno, l’ha nominata commissaria locale del partito e poi l’ha fatta eleggere al Parlamento europeo (48mila preferenze, la più votata dei suoi in Italia centrale). Ma Ceccardi non finisce mai: sarà la candidata del centrodestra alla presidenza della Regione Toscana.

Forse è l’invidia per questa carriera vertiginosa, ma confessiamo una difficoltà: non si riesce a capire il suo successo. Ceccardi è grintosa, ma non è che brilli. Una Salvini con i capelli lunghi e rossi e una propensione ancora più accentuata alle gaffe. Ne scoprirono il potenziale catodico Michele Santoro e Giulia Innocenzi: la giovane Susanna nel 2014 diventa ospite fissa della trasmissione Announo, su La7. Tra i suoi contributi, una raffinata invettiva sui migranti: “Chi mi accusa di tenere più alla vita di un chihuahua che alla vita di un immigrato, non capisce che i chihuahua non sbarcano a migliaia sulle nostre coste”. Uomini come cani: davvero notevole. Si dirà che ai tempi era una ragazza ingenua, ma la sua retorica non è migliorata.

Quando diventa sindaco il suo primo pensiero è questo: “Non ho messo la foto di Sergio Mattarella nel mio ufficio, è un retaggio dell’ancien régime”. Poi si mette in luce per le battaglie anti gay, anti migranti, anti moschee. E per la spiccata sensibilità femminista. Il Ceccardi-pensiero è incantevole: “Penso che le manifestazioni contro la violenza sulle donne servano a poco. Di violenze ne subiamo tutti, ogni giorno. E magari le compiamo. La violenza è parte dell’uomo e della donna, è parte della natura”. Darwin non avrebbe saputo dire meglio.

L’illuminista di Cascina ha opinioni importanti anche sul divario tra nord e sud: “È normale che i medici calabresi guadagnino meno di quelli dell’Emilia-Romagna. Ci saremmo tutti stupiti negativamente se gli stipendi dei medici calabresi sarebb… fossero stati più alti. Bisogna applicare il principio meritocratico”. È noto che i problemi della sanità meridionale siano colpa di chi si fa il mazzo in corsia.

Il segreto di Susanna resta un mistero. L’abilità sui social? Crediamo di no. Quando Oliviero Toscani pronuncia la sua orrenda frase sul disastro di Genova (“A chi interessa che caschi un ponte?”), Ceccardi replica con un selfie in cui mostra un foglio bianco e la scritta: #anointeressa. Si perde una “i” per strada: il risultato è imbarazzante. Ancora più imbarazzante il maldestro sciacallaggio su Silvia Romano. Dopo la liberazione della ragazza milanese, Ceccardi pubblica su Twitter la notizia di un attentato di al Shabaab, il gruppo di terroristi somali che l’aveva rapita. “Vedo che i 4 milioni di euro pagati per il riscatto di Silvia Romano (una cifra ufficiosa e non confermata, ndr) sono stati subito messi a frutto”. Ma la notizia era vecchia di mesi, molto tempo prima che Silvia tornasse in libertà. Ceccardi tardivamente rimuove il tweet. È una fake news. Ha imparato la lezione della Bestia: se sei capace a ringhiare, con quella bocca puoi dire ciò che vuoi.

Regionali col rischio. “Processo” a Zinga e timori sul governo

Sono le Regionali la prossima data da “fine mondo” per il Pd. E dunque anche per il governo. Il risultato è in bilico. E la gestione politica è deludente, almeno per il Nazareno.

L’accordo sul candidato in Liguria non è ancora chiuso. Il nome del giornalista del Fatto Quotidiano, Ferruccio Sansa, è ancora in ballo. Se alla fine dovesse essere confermato, la cosa avrebbe un valore quasi simbolico: potrebbe essere l’unica Regione nella quale corre un esponente della maggioranza di governo unita. Perché, a ormai quasi 10 mesi dalla nascita del governo giallorosa, un dato salta agli occhi: l’amalgama, l’alleanza organica tra Pd e M5S, teorizzata da Goffredo Bettini e sponsorizzata da Dario Franceschini, non si è realizzata. Divisi in Campania e in Puglia, ma anche in Toscana e in Veneto. Si aspetta una eventuale convergenza nelle Marche, sul candidato del centrosinistra, Maurizio Mangialardi. Mentre la Bellanova sfida Emiliano a ritirarsi, in nome di un candidato unico del governo. Ma comunque, quel progetto politico non si è realizzato. “Per ora”, ci tengono a dire al Nazareno. Eppure, per Nicola Zingaretti proprio le alleanze alle Regionali erano state uno dei motivi per dire sì al governo con M5S. E ora? Ora ufficialmente si va avanti. Ma basta un giro in Senato per capire che la sfiducia aumenta. “I Cinque Stelle non tengono il gruppo, non gestiscono”, commenta così l’uscita della Riccardi, il vicecapogruppo, Franco Mirabelli, uomo di Franceschini a Palazzo Madama. Che pure sdrammatizza: “Andiamo avanti, continuiamo. I processi in politica sono lenti”.

E dunque? Al Nazareno sono preoccupati: Conte non decide, ci sono troppi dossier aperti da troppo tempo. E allora, ancora una volta, la richiesta è di chiudere. Su Autostrade, su Alitalia, su Ilva. E poi, sulla modifica dei decreti Sicurezza: che almeno vengano recepiti i rilievi del Colle, se non si riesce a fare altro. E poi sul Mes. Il Pd non intende rinunciarci. Anzi. Vorrebbe che il voto sulla richiesta della linea di credito sanitaria fosse inserito in una risoluzione che contenesse l’intero pacchetto delle misure messe in campo dall’Europa, prima del prossimo Consiglio europeo a luglio. Conte, però, deve portare a casa il Recovery Fund, prima di chiedere il sì sul Mes a M5S.

Insomma, si va avanti a fatica. E nei Palazzi della politica, insieme a un senso di sfinimento nell’arrivare in fondo ai provvedimenti, si fa strada il ricordo della crisi dell’agosto scorso. Nessuno ci crede, ma nessuno esclude davvero la possibilità. Quel che potrebbe davvero succedere, invece, è che il quadro salti dopo le Regionali. Magari con un Pd che si trova a vincere in sole due Regioni (Campania e Toscana). A quel punto, partirebbe il processo al segretario, finora latente. Ma anche la slavina che potrebbe travolgere il governo: “A noi così non conviene continuare questa esperienza. Non riusciamo a fare le cose”, sono i commenti tra i dem. Che si nutrono dei sondaggi: quello di ieri di Ixè dà il Pd al 22,2%. Mentre qualcuno ricorda le reticenze iniziali di Zingaretti. Che potrebbe in realtà avere a quel punto un motivo per far precipitare le cose: se il governo continua, la sua segreteria sarà inevitabilmente messa in discussione. Troppe le ambizioni personali e troppe le perplessità su una leadership poco incisiva. Ma se si va alle elezioni, tutto viene rimandato.

Scenari. Con le Amministrative si vota per il referendum sul taglio dei parlamentari. A quel punto c’è chi è pronto a far notare che le Camere sono delegittimate.