I giallorosa appesi agli ex grillini. Litigano su Autostrade e cantieri

Dovrebbero correre e invece galleggiano sul filo dei numeri, dovrebbero unirsi nelle Regioni invece si guardano male, ogni santo giorno. Non va proprio liscia per i giallorosa, se il capodelegazione del M5S, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, lo ha dovuto ricordare nella riunione di governo di martedì sera: “Va bene le riunioni tecniche, ma sulla concessione ad Autostrade bisognerà passare dal tavolo politico di maggioranza”.

Bonafede, mediatore per indole e ruolo, non ha alzato la voce. Ma per il governo che non ha più la maggioranza assoluta in Senato, causa emorragia nei 5Stelle, il dossier Aspi sta (ri)diventando un guaio. Almeno per il Movimento, irritato perché il presidente del Consiglio Giuseppe Conte due giorni fa si è riunito a Palazzo Chigi con due dem, il ministro dell’Economia Gualtieri e quella alle Infrastrutture De Micheli, per fare il punto sul tema Autostrade. Senza grillini. “Riunione tecnica” è stato detto. “Ma se chiudi dal punto di vista tecnico poi è facile mettere i partiti di fronte al fatto compiuto” ringhia un 5Stelle di governo. E l’accusa è sottesa, Conte sta virando verso la posizione del Pd, che punta soprattutto a ottenere da Autostrade un robusta riduzione delle tariffe. “Ma non può certo bastarci, Aspi deve cedere le sue quote, quello è il punto” insistono dal M5S. Mentre il blog delle Stelle rilancia le parole del senatore Andrea Cioffi: “Per la Corte dei Conti la convenzione ad Autostrade è illegittima”. Per questo stasera dovrebbe esserci una nuova riunione dei capidelegazione. Dove avranno molto da dirsi, anche sul resto. Per esempio sul decreto Semplificazioni che doveva essere fatto di corsa, e invece no, perché c’è ancora molto da discutere.

Lo ricorda a Radio Anch’io il capogruppo dem alla Camera, Graziano Delrio: “I dati dell’Anac dimostrano che il Codice degli appalti sta funzionando molto bene, quindi sono assolutamente contrario alla sua sospensione per tre anni proposta da Luigi Di Maio”. Ergo, i giallorosa sono ancora lontani tra loro anche su come sbloccare i cantieri. Mentre dal ministero dell’Economia trapela che Gualtieri ha in mente una manovra da 20 miliardi da approvare entro metà luglio. Ma senza il taglio dell’Iva, che Conte vorrebbe almeno come misura temporanea. E i 5Stelle sono sull’identica linea. Non a caso la vice di Gualtieri al Mef, la dimaiana Laura Castelli, nota: “Anche per la Corte dei Conti è urgente una riforma fiscale per ridurre le tasse”. E parla della riforma anche per insistere sull’Iva. Così entrambe le sponde sperano di rinviare almeno un po’ di grane a settembre. E la prima rogna da far rotolare più in là resta il Mes. “Ultimamente del fondo salva-Stati parliamo pochissimo, si spera di ‘abbassare’ il tema per guadagnare tempo” fa notare una fonte qualificata. Anche perché ormai la maggioranza è fragilissima a Palazzo Madama, dove è scesa a 160 voti certi.

Ovvero, è appesa all’aiuto degli ex grillini che affollano il Misto. “Non abbiamo problemi di numeri, al Senato abbiamo 170 voti” giura a SkyTg24 il ministro per i Rapporti con il Parlamento il grillino Federico D’Incà: ottimista per forza. “Il gruppo Autonomie da un po’ guarda verso destra” sussurra un big. Mentre nel M5S sono in bilico almeno altri quattro senatori, tra restituzioni in ritardo (Marinella Pacifico, Fabio Di Micco) e dissenso politico (Tiziana Drago, Mattia Crucioli). “Ne perderemo altri, ma non verso il centrodestra, un paio si sono offerti ma Lega e Fratelli d’Italia hanno detto no”, sostiene un grillino del Senato. Tradotto: “non dovrebbero votarci contro”. Ma il 30 giugno scade il termine entro cui mettersi in regola con le restituzioni.

E allora i vertici del M5S sono terrorizzati dal contraccolpo di nuove espulsioni. Perché i numeri sono stretti, mentre i problemi non finiscono mai.

No, vanno aboliti

Caro procuratore, concordo sulla diagnosi, ma dissento sulla cura. E, per spiegarmi meglio, le suggerisco il prezioso libriccino di Antonio Padellaro pubblicato da PaperFirst: La strage e il miracolo. 23 gennaio 1994: la mafia all’Olimpico. Racconta quella domenica di 26 anni e mezzo fa, quando Antonio andò con i figli a vedere Roma-Udinese e tornò a casa ignaro di essere sopravvissuto alla più devastante strage politico-mafiosa solo per un guasto all’innesco dell’autobomba piazzata contro carabinieri e tifosi. Il commando dei Graviano restò a Roma per qualche giorno, con l’intenzione di riprovarci una domenica successiva. Ma il 26 gennaio B. annunciò la sua “discesa in campo”: era la notizia che Cosa Nostra attendeva dopo due anni di trattative con pezzi dello Stato, infatti la strage fu annullata, anzi sospesa sine die, e iniziò una lunga pax mafiosa fatta di ricatti di Cosa Nostra e cedimenti dello Stato.

Questa storia, in un altro Paese, sarebbe nota a tutti perché produttori e registi ci avrebbero fatto film e fiction tutte basate su fatti veri, senza bisogno di romanzare o inventare: Romanzo criminale, al confronto, è roba da rubagalline. Invece, essendo accaduta in Italia, non l’ha raccontata per intero quasi nessuno, a parte i pentiti e le Corti d’Assise di Firenze e Palermo (sentenze stragi e Trattativa). E oggi la conoscono solo pochi pm, giornalisti e lettori informati. Lei mi dirà: che c’entra col caso Csm? C’entra perché la trattativa è anche un Romanzo Quirinale. Cioè quel potere che lei considera talmente neutrale e super partes da volergli affidare la nomina dei membri laici del Csm, in condominio con il Parlamento e la Consulta.

Nel ’93 Scalfaro si attivò per rimpiazzare al Dap il “duro” Niccolò Amato col “molle” Alberto Capriotti, che insieme al suo vice Di Maggio e al ministro Conso revocò il 41-bis a 334 mafiosi detenuti. L’allora premier Ciampi, la notte delle stragi a Milano e Roma e del black out telefonico (27 luglio ’93), pensò a un colpo di Stato, ma lo confidò solo al suo diario, tant’è che la cosa venne fuori in parte solo anni dopo in un libro-intervista. Nel 2012 Napolitano tentò di interferire nell’inchiesta su pressione di Nicola Mancino; e, quando i pm riuscirono a sentirlo come teste, ricordò di molti particolari della stagione stragista mai detti prima. Quindi tremo alla sola idea che, ai tempi di Napolitano e della sua corte di giudici costituzionali (da Cassese ad Amato&C.), il Colle e la Consulta potessero piazzare i loro uomini al Csm: avremmo rimpianto i laici di partito, le correnti, fors’anche Palamara. Una delle cause della degenerazione dei magistrati è proprio la più alta istituzione della Repubblica che, di presidente in presidente, s’è assunta l’onere di rappresentare non i cittadini, ma una malintesa “ragion di Stato” che tende a coprire le deviazioni di pezzi delle istituzioni e ad allontanare i pm “cani sciolti” in grado di scoprirle. Non solo a Palermo. Napolitano difese il procuratore di Milano (Bruti Liberati) che aveva scippato l’inchiesta su Expo al titolare (l’aggiunto Robledo); poi Renzi ringraziò la Procura per la “sensibilità istituzionale”, cioè per non aver disturbato i manovratori di Expo. La stessa ragion di Stato deve aver indotto Mattarella a garantire la successione morbida a Roma fra Pignatone e il fido Prestipino, sabotando i “discontinui” Viola e Creazzo.

La verità è che l’autogoverno della magistratura non è mai esistito, se non per due terzi, visto che un terzo del Csm lo lottizzano i partiti. Ma, se l’alternativa è ampliare quel terzo e affidarlo a Quirinale e Consulta, è meno peggio la lottizzazione, più simile al pluralismo del pensiero unico del Partito del Colle e dei suoi derivati. Io credo che la cura sia tutt’altra: abolire la quota laica (idea di Montanelli); sorteggiare la quota togata, almeno per scegliere i candidati da sottoporre al voto dei 9mila magistrati in servizio (limitando il correntismo); e riformare l’Ordinamento giudiziario per abrogare la scadenza di 8 anni ai capi e agli aggiunti delle Procure (limitando così il carrierismo) e restituire ai singoli pm la titolarità dell’azione penale, oggi affidata in esclusiva ai capi, padri-padroni delle indagini (e soprattutto delle non indagini). Così non basterà più controllare un pugno di procuratori per mettersi in tasca le principali Procure. Vale la pena tentare: peggio di così non può andare.

Il virus ha preso a pallettate Djokovic (e quelli con lui)

In campo, se sta bene, è capace di non sbagliare mai. Per ore e ore. Muro di gomma infaticabile, mentalità da dominatore, approccio da tiranno. Un robot senza pietà. Fuori dal campo Novak Djokovic sa essere simpatico, soprattutto a favor di telecamera: le imitazioni, le gag, le belle parole. Efferato con gli avversari, guascone quando c’è da esserlo.

Campione tra i più grandi di sempre della storia del tennis, Nole soffre il fatto di avere pochi tifosi in relazione al suo prodigioso palmares. Accadeva anche a Lendl, il diversamente simpatico per antonomasia, a cui per certi versi somiglia. Di sicuro, dopo il disastro che è riuscito a combinare con l’Adria Tour, i detrattori cresceranno. Djokovic aveva avuto l’idea, in sé lodevole, di organizzare un torneo itinerante a scopo benefico, che la scorsa settimana ha fatto tappa a Zara. Un modo per ripartire, per dare un segnale, per fare del bene. Bello. E nessuno certo mette in dubbio le intenzioni del fuoriclasse serbo. Solo che lui ha sbagliato tutto. Ma proprio tutto. A partire dall’organizzazione, tutta incentrata sul non prendere precauzione alcuna anti-Covid. Quasi che, nell’impostazione, Djokovic si fosse lasciato dettare la linea dal mitologico conducator Antonio Pappalardo. Tutti gli incontri si sono disputati a porte aperte (complimenti!), tra Serbia e Croazia.

Durante l’Adria Tour, di fatto, ognuno faceva come la Casa della Libertà in quel vecchio sketch di Corrado Guzzanti: ovvero quello che gli pareva (lo sketch era più esplicito, lo so). I risultati sono stati ovviamente devastanti: si sono contagiati praticamente tutti. Tra domenica e lunedì è toccato a Grigor Dimitrov, Viktor Troicki e Borna Coric. Tutti positivi al Covid-19. Poi è stata la volta di Kristijan Groh, allenatore che fa parte del team di Dimitrov, e Marco Panichi, preparatore atletico italiano di Djokovic. Ieri si sono sottoposti al tampone lo stesso Djokovic e sua moglie Jelena: positivi entrambi. Un successone. “Tutto quello che abbiamo fatto nell’ultimo mese lo abbiamo fatto con intenzioni sincere e con il cuore puro”, ha esalato Nole. Per poi aggiungere: “Abbiamo organizzato questo torneo in un momento in cui la forza del virus stava diminuendo, credendo che ci fossero le condizioni per farlo”. Evidentemente Djokovic è un gilet arancione a sua insaputa. Oppure è l’unico lettore di Libero, il quotidiano che si prende (e ci prende) in giro sin dal nome e che – due giorni fa – esultava in prima pagina per gli italiani al mare senza mascherine, “alla faccia dei menagrami”. Tutti neuroni vilipesi sul selciato.

Djoko è un tipo salutista, ma a modo molto suo. Segue una dieta gluten-free, non tanto perché sia celiaco ma perché il glutine per lui incarna il Male. Ad aprile ha detto che, se scopriranno un vaccino per il Covid-19, probabilmente non lo farà. Certo è fermamente contrario a renderlo obbligatorio. Oltre a seguire Pappalardo e compulsare Senaldi, è presumibile che Djoko sia anche l’unico elettore di Sara Cunial. Essendo rappresentante dei giocatori Atp, molti suoi colleghi hanno lasciato intendere di non essere granché tranquilli all’idea di essere tutelati da uno così. Gli ha fatto la ramanzina perfino Kyrgios, il bad boy del circuito. Quando si tornerà in campo – Coronavirus permettendo – ad agosto, Nole sarà l’uomo da battere. Come quasi sempre. Ma in questi giorni si è sconfitto da solo, e per giunta 6-0 6-0.

“La musica che gira” ascoltata in Senato: adesso Franceschini è in cerca di risposte

Hanno fatto rumore. Dapprima con il silenzio assordante del flash mob milanese, poi con l’appello alle istituzioni. Diodato e Manuel Agnelli erano tra gli artisti che domenica, giorno della Festa della Musica, si erano schierati davanti al Duomo senza regalare una nota, per sottolineare la situazione critica della filiera. Accanto a loro Levante, Lodo Guenzi, Cosmo, Ghemon, Saturnino. Più tardi, a chiusura degli Stati generali, una mezza canzone – Luce, a cappella – era stata strappata a una titubante Elisa da Conte, “conduttore” di un summit da remoto con le star della cultura e dello spettacolo. Lunedì il contatto: Franceschini ha chiamato online Diodato e Agnelli, concordando sulla necessità di convocare un tavolo di esperti. Ieri, infine, udienza in Senato (sempre attraverso il web) dei rappresentanti del comitato “La musica che gira”, che riunisce i professionisti del settore che vivono sulla propria pelle la precarietà dello scenario post-lockdown. Franceschini ha assicurato la disponibilità del Mibact a valutare il sostegno dei lavoratori “a intermittenza” che non possono permettersi di aspettare l’estate 2021 per il ritorno dei concerti e dei festival. E c’è da tutelare l’indotto, che coinvolge il turismo e gli enti locali. Perché questa è la stagione in cui il virus ha costretto tutti ad arrangiarsi: e se il Decreto Rilancio ha stabilito che live fino a mille spettatori (e duecento al chiuso) sono consentiti, di certo non si potevano confermare tour negli stadi o nelle arene, così come risulta complicata l’operatività di piano bar, pub e club. Centinaia di migliaia di persone rimaste senza risorse: chiedono una rimodulazione delle norme post-covid da mettere in agenda subito. E c’era voluto dapprima il siluro di McCartney sul voucher per il suo concerto annullato per far riflettere Franceschini (che però, a caldo, aveva dichiarato che in assenza di rimborso quel “buono” dovesse valere solo per un altro show dell’ex Beatle, in aperta contraddizione con il decreto), e poi le campagne social degli addetti ai lavori, con gli hashtag #senzamusica e #iolavoroconlamusica. Ora un canale di dialogo è aperto. Basterà? Se il calcio è ripartito, seppur a porte chiuse e malgrado i contatti a rischio tra i giocatori, deve farlo al più presto anche quello degli eventi. Una data chiave è il 9 settembre all’Arena di Verona, vuota di pubblico ma con lo spettacolo in radiovisione per Rtl102.5: il “Power Hits Estate” con i big: Ferro, Nannini, Antonacci, Zucchero già confermati. La mobilitazione, di grandi e piccoli, è permanente.

Che bella l’eco della stampa. Le citazioni colte nei giornali

Tenere in esercizio la propria memoria letteraria leggendo i giornalisti?

Sì. Mai come di questi tempi si può fare. Quando Roberto Saviano, in veste di critico, ha scritto non so più di quale romanzo che “è un libro che ti legge”, mi è venuto subito in mente Auden: “A real book is not one that we read, but one that reads us”, un libro vero non è quello che si legge, ma quello che ci legge; e mi è venuto in mente anche Proust: “Ogni lettore, quando legge, è il lettore di se stesso” e “Il libro ci munisce del mezzo per leggere in noi stessi”.

Ma lo leggo eccezionalmente Saviano, perché la sua lingua mi fa orrore; è un mistero per me che sia considerato uno scrittore chi usa “realizzare” al posto di “capire”, “evidenze” al posto di “prove”, chi scrive che “la miccia innesca ricordi”, che un “carburante alimentava la relazione” (tra Falcone e sua moglie), “uniti dalla malta” di uno “smisurato sogno”… Più che dalla camorra mi sarei quasi aspettata delle minacce di morte da un linguista o da un filologo. “La miccia”, la “malta” che sembrano ficcate a forza nella frase per “fare stile”, a me fanno l’effetto di gaffe o di goffaggini. Ma che è uno scrittore lo dicono perlopiù i giornalisti, e se lo dice anche Saviano in persona, quasi dovesse convincersene lui stesso: “Sono uno scrittore. Temo che purtroppo quando arrivi a tante persone comunque il tuo plusvalore inquieti”. Ma va’ là! Se qualcosa qui può inquietarsi è semmai il vocabolario, e il buon gusto.

“Sono uno scrittore”, l’ho sentito dire anche a Michele Serra, ma almeno lui il senso della lingua ce l’ha, lui almeno sa come si scrive; i classici li ha letti davvero, e trabocca di reminiscenze. Per esempio: “Un’opera d’arte è un istante che, invece di volare via e svanire, si cristallizza e rimane”; e mi torna alla mente Goethe che, nei suoi Scritti sull’arte e sulla letteratura, guardando il Laooconte dei Musei Vaticani, parla di “rappresentazione dell’attimo”, di “lampo fissato nel suo bagliore”, di “lampo immobilizzato”… Oppure: “Il dossier (…) è penoso nella forma e nella sostanza. Fossi dipendente o consulente pubblico (…) chiederei alla ministra Grillo e ai suoi omologhi, come ultimo desiderio del condannato, di essere epurato in buon italiano”. Caspita! Serra ha letto anche Aline e Valcour di Sade, dove troviamo: “Osservate lo stile dei decreti, dei monitori, delle citazioni, degli ordini di esilio; per nostra fortuna, è impossibile uccidere o imprigionare un uomo in buon francese”. E mi fa incontrare Nietzsche travestito da calciatore: “Nella paura, nella malattia, nel dolore, ‘ognuno diventa quello che è’, dice Gianluca Vialli a Maurizio Crosetti”. Un notissimo libro di Nietzsche si intitola Ecce homo. Wie man wird, was man ist, cioè: Ecce Homo. Come si diventa quello che si è. Che abbia qualche parentela con le Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij? “Una persona intelligente non può diventare sul serio qualcosa, giacché a diventare qualcosa ci riesce solamente l’imbecille”. In altre traduzioni: “Un uomo intelligente non può in verità diventar nulla e solo gli sciocchi diventano qualcosa”, “gli uomini intelligenti non possono diventare nessuno, solo gli stupidi diventano qualcuno”.

Ma certo che ce l’ha una parentela: basta pensare alla lettera che Nietzsche scrive a Overbeck il 23 febbraio 1887: “Una scoperta fortuita in una libreria: le Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij… È stato un caso del tutto simile a quello che mi è capitato a 21 anni per Schopenhauer, e a 35 per Stendhal. La voce del sangue (come chiamarla altrimenti?) si fece subito sentire, e la mia gioia fu immensa”.

E immensa è anche la mia gioia a citarla oggi, questa “voce del sangue”, oggi che gli scrittori, trovatelli anemici, non sanno che rivolgersi alle scuole di scrittura. A Serra sono grata anche perché, intitolando Sull’acqua un suo volume per Aboca, ha reso un bell’omaggio a Giovanni Raboni che ha dato questo stesso titolo al libro fatto con Enrico Baj uscito presso Colophon nel 2003. A meno che Serra, lettore più colto di me, non l’abbia preso direttamente da Guy de Maupassant, che Sur l’eau l’ha usato ben due volte, per una novella e per un resoconto di viaggio.

A 70 anni dall’invasione Pyongyang prepara i botti

Altro che cyber war. L’escalation di provocazioni tra le due Coree ci riporta indietro di un secolo o giù di lì: ai messaggi propagandistici affidati ai palloncini, che evocano i volantini su Vienna di D’Annunzio, e agli slogan urlati in territorio nemico da potenti altoparlanti lungo il confine, che ricordano le goliardate di M.A.S.H. (Guerra di Corea, 1950-53). Meglio, comunque, così, che i test nucleari e i lanci di missili cui Pyongyang ci aveva abituato o che ulteriori invii di rinforzi sul 38° parallelo, la frontiera già più militarizzata al mondo.

Dietro la strategia nordcoreana anti-Seul, finora minacciosa a parole ma innocua nei fatti, a parte la distruzione di un edificio sul confine, ci sarebbe, più che il dittatore Kim Jong-un, di cui da mesi si sa relativamente poco, la sorella minore Kim Yo-Jong, che ha acquisito in parallelo con l’eclissi del fratello, maggiore influenza. Da lei sono venuti nelle ultime settimane i messaggi più aspri verso Seul. L’atteggiamento di Kim Yo-jong, che non pare avere una giustificazione razionale, potrebbe essere motivato dal tentativo di legittimarsi agli occhi dei militari, essendo donna e poco più che trentenne. Il fratello, per rafforzarsi al momento di succedere al padre Kim Jong-il, mostrò determinazione, nel novembre 2010, facendo bombardare con 200 colpi di artiglieria l’isola sudcoreana di Yeonpyeong, causando la morte di almeno due soldati. La Corea del Nord ha appena completato l’installazione sulla frontiera di almeno 20 megafoni per la trasmissione di propaganda radiofonica e ha pure predisposto 12 milioni di volantini da lanciare sulla Corea del Sud, in risposta al lancio di volantini ostili sul proprio territorio da parte di dissidenti nord-coreani esuli al Sud. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale Kcna, i volantini saranno trasportati da migliaia di palloncini aerostatici. L’avvio della rappresaglia di Pyongyang segue ripetute proteste contro le provocazioni attuate da quelli che il regime nordcoreano considera disertori e cui vorrebbe che Seul mettesse il bavaglio. “I preparativi per la più grande distribuzione di volantini di sempre contro il nemico – scriveva lunedì la Kcna – sono in fase di completamento. Le case editrici e tipografiche di tutti i livelli della capitale hanno prodotto 12 milioni di volantini per esprimere la rabbia delle persone e sono pronti oltre 3.000 palloncini di vario tipo in grado di disseminarli sul territorio sud-coreano”.

Le relazioni tra le due Coree si sono fatte più tese negli ultimi mesi, forse anche come conseguenza di mancati sviluppi positivi dei tre incontri fra il dittatore Kim e il presidente Usa Donald Trump, di cui si era fatto mallevadore il presidente sud-coreano Moon Jae-In. Nelle ultime due settimane, la Corea del Nord ha fatto esplodere l’ufficio di collegamento inter-coreano a Kaesong; e ha comunicato il riposizionamento di sue truppe in aree smilitarizzate concordate con Seul nel 2018. Pyongyang vuole pure ripristinare i posti di guardia lungo il confine terrestre demilitarizzato (Dmz).

 

Macelli infetti, nuovo lockdown. Il governo vieta i subappalti

Dopo giorni di attesa è arrivato. Il lockdown più annunciato atteso dall’inizio della pandemia in Germania è stato proclamato ieri nel distretto industriale della carne di Guetersloh e di Warendorf, in Nordreno-Westfalia, quando i contagi da coronavirus hanno raggiunto quota 1535. Si tratta dei dipendenti delle aziende che lavorano direttamente o in subappalto per il colosso della carne Toennis. Per questo si è atteso tanto: il contagio era localizzato e sotto controllo, hanno risposto per giorni i portavoce dei vari ministeri ai giornalisti che li incalzavano. Ma era più una speranza che una realtà e ora, per la prima volta, la Germania torna a chiudere e riparte dal via, cioè dalle misure di marzo. Fino al 31 giugno divieto di contatti oltre le due persone, bar e locali pubblici chiusi, così come cinema, teatri, manifestazioni culturali ma anche piscine pubbliche e palestre. Stop a pic-nic e grigliate all’aperto e le scuole saranno chiuse a tappeto. Poi si vedrà. Sullo sfondo c’è il rispetto di quel criterio indicato dalla cancelliera Angela Merkel all’indomani delle riaperture: se i nuovi contagi risalgono sopra i 50 in 7 giorni su una popolazione di 100.000 abitanti, allora le saracinesche tornano a scendere.

Intanto l’industria della carne si riprende il centro della scena. Ma stavolta, dopo quattro settimane di malumori, di manifestazioni di mamme inferocite per la chiusura anticipata delle scuole davanti ai cancelli della villa del magnate della carne, dopo lo sdegno collettivo, i vertici di Toennis rendono le armi. Basta contratti in subappalto, ha annunciato ieri l’azienda. Quei contratti che rendevano possibili condizioni di lavoro inumane, a stipendi indegni di un paese civile saranno sospesi. L’industria della carne in Germania dipende dai lavoratori stranieri, basta pensare che dei 130 mila dipendenti almeno 40 mila provengono dall’Europa dell’Est. “In tutti i settori chiave della produzione di carne” questi contratti saranno aboliti entro la fine dell’anno, ha annunciato un portavoce di Toennis. “Vogliamo produrre carne anche in futuro in Germania. E per questo abbiamo bisogno di accettazione sociale” ha detto Clemens Toennis in persona, patron discusso della squadra di calcio Schalke 04. Che sia spirito umanitario o piuttosto istinto di sopravvivenza è presto spiegato. Il governo tedesco ha messo in cantiere per luglio un disegno di legge sull’industria che prevede proprio l’abolizione dei contratti di subappalto a partire dal 2021.

“Merkel riscopre lo Stato”. Salvataggi e taglio dell’Iva

Il whatever it takes di Draghi è una lezione che a Berlino è rimasta scolpita nella memoria ed è con quello spirito che ha agito per affrontare la crisi economica generata in Germania dal Covid-19. Sono state messe in campo risorse “senza precedenti” nella storia della Repubblica federale, ha ricordato il ministro delle Finanze Scholz. Ma non è l’unico intervento, né forse il più significativo: “Riscoprire la politica industriale è la lezione principale di questa crisi in Germania”, sostiene Rainer Kattel, vicedirettore dell’Iipp (Institute for innovation and public purpose) dell’Ucl di Londra, in un colloquio digitale con il Fatto.

“La Germania ha gestito bene la crisi sanitaria se pensiamo al numero dei morti paragonati a quelli dell’Inghilterra. Ma soprattutto è impressionante come ha reagito dal punto di vista economico”. Il 25 marzo, a lockdown appena iniziato, il Bundestag ha votato un pacchetto “di salvataggio” da 750 miliardi di euro a sostegno di grandi, medie e piccole imprese, tra finanziamenti e garanzie. Le aziende piccolissime e gli autonomi hanno ricevuto un sostegno immediato tra i 5.000 e i 15.000 euro. Il 3 giugno a quel pacchetto se ne è aggiunto un altro da 130 miliardi per stimolare la ripresa economica, con un taglio dell’Iva di tre punti (dal 19 al 16%) e un bonus una tantum di 300 euro a bambino. “La Grosse Koalition si è accordata su un piano molto ambizioso sia in termini di spesa, sia di componenti di breve periodo, come l’abbassamento dell’Iva. Ma soprattutto quella del governo tedesco è una manovra orientata al futuro con investimenti in tecnologia e nell’economia green. Rispetto all’intervento durante la crisi di dieci anni fa, quando il governo diede una risposta molto convenzionale, ha agito in modo diverso”.

Per Kattel c’è stato un nuovo impulso nella politica economica. “Il primo passaggio verso una politica industriale è stato fatto già prima della crisi, con il documento del 2019 del ministro dell’Economia Altmaier, che prevedeva una strategia dello Stato nella politica industriale. La crisi ha accelerato il cambiamento. Poi c’è un altro elemento: ora ci sono un certo numero di economisti non ortodossi con più influenza che in passato – come Jens Suedekum e Peter Bofinger – che spingono per un ruolo più attivo dello Stato, da sempre presente in Germania. Ora la crisi ha portato un nuovo consenso”.

Chiediamo al professore se il cambiamento nell’approccio tedesco ha avuto ricadute in Europa. “La proposta Merkel-Macron è stata molto importante per sostenere il piano della Commissione europea. E l’alternativa sarebbe stata molto dura per Paesi come l’Italia o la Spagna che contano tanto sul turismo per il Pil. Il turismo non tornerà ai livelli precedenti per anni e questo è molto doloroso, così penso che Macron e Merkel meritino molto credito per il supporto e il traino della Commissione in questo passaggio”. La Germania, a partire dal 20 marzo, ha violato il pareggio di bilancio, ammesso dalla Costituzione in casi d’eccezione, facendo una parte di investimenti in deficit. È caduto un altro tabù? “Il punto è quanto a lungo rimarrà in sospeso. Al momento non c’era altro modo perché dovevano spendere denaro. In Germania il sistema del Kurzarbeit (equivalente della cassa integrazione) si è rivelato un buono schema contro l’esplosione della disoccupazione ma se il consenso sulla politica di bilancio è davvero cambiato lo vedremo il prossimo anno. Ho i miei dubbi”. Secondo Kattel il rigorismo è “solo in pausa”. Piuttosto c’è un passaggio importante verso una politica industriale.

È un keynesianismo del momento, ma “non una scelta ideologica: tutti i Paesi stanno facendo la stessa cosa spendendo soldi. Riscoprire la politica industriale è la lezione principale di questa crisi in Germania”. La partecipazione dello Stato tedesco in Lufthansa “non è l’unico caso”, a detta del vicepresidente dell’Iipp. “Lo Stato sta prendendo quote di diverse aziende e in Germania è una cosa giusta da fare piuttosto che estendere i crediti, che poi devono essere ripagati. È una buona idea, ma bisogna anche pensare alle condizionalità. Se si partecipa come investitori si deve avere una visione sul perché si investe. Certo, è un altro esempio di riscoperta della politica industriale, di uno Stato più attivo, di un modo di pensare cosa si vuole dall’economia, piuttosto che lasciare al settore privato queste decisioni”.

Quando Bob Marley a San Siro mandò in fumo gli anni 70

Ciò che successe quella notte a San Siro non era mai successo prima e non successe mai più dopo. Ottantamila ragazzi riempirono lo stadio (ancora senza terzo anello) per ballare, cantare, fumare con Bob Marley. Fu la celebrazione di un imponente rito di massa, il concerto più grande – e insieme l’ultimo – dell’era “dell’impegno” prima che arrivassero gli anni “del riflusso”. Quella notte, a San Siro, trionfarono per l’ultima volta le positive vibrations e morirono gli anni Settanta.

L’italia in sacco a pelo. E c’è un certo Pino Daniele

Era il 27 giugno 1980. Mancavano cinque minuti alle 21 quando i 45 mila watt dell’impianto di amplificazione cominciarono a sparare il ritmo in levare che dalla Giamaica aveva contagiato prima Londra, poi il mondo occidentale.

Un boato, tutti in piedi, una moltitudine ondeggiante. Le I-Threes vocalizzano, The Wailers suonano, poi Bob entra in scena e comincia a cantare, con la sua voce acre e dolce. A Jamming è il delirio. Si accendono migliaia di fiammiferi e accendini (niente selfie, l’era dei cellulari non era ancora arrivata). No woman no cry è cantata da tutto lo stadio in piedi. Poi è tutto un dialogo, cantato e gridato e ritmato, tra il profeta del reggae e lo stadio gremito.

Il vero spettacolo sono gli ottantamila che cantano e ballano. Fino a cinque minuti prima delle 23: la luce crudele dei riflettori illumina a giorno, di colpo, gli spalti e il prato e il concerto finisce, dopo due ore esatte di musica. I ragazzi sciamano verso la città, tantissimi arrivati da Salerno, da Trento o dalla Sicilia cercano un prato dove piazzare il sacco a pelo.

Quella lunga giornata era iniziata alle 9 di mattina, quando erano arrivati i ragazzi del servizio d’ordine e gli addetti al palco. Cominciano presto ad arrivare anche gli spettatori. A mezzogiorno è già impossibile contenere la pressione del pubblico, si aprono i cancelli dello stadio e cominciano ad affluire i ragazzi che subito riempiono il prato verdissimo quasi interamente coperto da teli bianchi. Inizia la interminabile attesa sotto il sole, che morde feroce dopo giorni di pioggia.

Con il passare delle ore, il caldo aumenta, le magliette volano sull’erba, poi i jeans e le gonne, le ragazze improvvisano tenute da mare, foulard indiano e mutandine. I più previdenti hanno il costume da bagno.

Si incontrano vecchi amici, se ne trovano di nuovi, ci si abbraccia, si balla, si fuma. Lunghe file ai lavandini per buttarsi un po’ d’acqua fresca addosso. Ma l’attesa non è noia, fa già parte dell’evento. Un panino, la ricerca dell’acqua, nuovi baci, un joint fumato insieme.

L’impazienza cresce piano. Alle 16.30 le prime bordate di fischi. Alle 17 inizia la festa: dal palco (ci pareva immenso, ma era modesto, rispetto a quelli ipertecnologici che vedremo in seguito) parte il blues di Roberto Ciotti. Poi s’esibisce un cantautore napoletano, un certo Pino Daniele, accompagnato da James Senese e Toni Esposito.

Intanto, nel centro di Milano, il re del reggae si presenta a piedi nudi a giornalisti e fotografi all’Hotel Hilton, joint in mano, attorniato da donne splendide, avvolto da una profumata nuvola di ganjia.

Alle 20, a San Siro è la volta della Average White Band, con un funky che scivola nella disco-music ed è salutato da fischi e lattine tirate sul palco. Il pubblico ormai vuole lui, vuole il profeta della Rastafari revolution, che predica il ritorno dall’esilio di Babilonia all’Africa di Hailé Selassié, il Ras Tafari. Religione, misticismo, ribellione politica, astuzia commerciale si mischiano e si confondono, volano da Trenchtown, il ghetto di Kingston in Giamaica, a Brixton, il quartiere giamaicano di Londra. Fino agli studi di registrazione e agli uffici dei discografici londinesi dove il reggae diventa business di successo planetario (cachet di Marley a San Siro: 80 milioni di lire, dice il Tg2).

Chi scrive non riesce questa volta a evitare una malattia mortale del giornalismo, l’utilizzo della prima persona singolare (“Il più lurido di tutti i pronomi”, diceva il Gran Lombardo), perché non solo era presente al rito, ma quel giorno giocava due o tre o quattro ruoli in partita, in uno psichedelico intrico di conflitti d’interessi. Ero uno degli ottantamila spettatori, naturalmente. Ero rimasto magnetizzato da Marley quando il mio amico-nemico Gualtiero aveva messo per la prima volta sul piatto del suo impianto stereo Exodus, il migliore degli album del re del reggae. Ma ero anche giovanissimo collaboratore da Milano del quotidiano Bresciaggi, 5 mila lire a pezzo, per cui ho scritto due lunghi articoli musicali-sociologici-politici sul concerto. Ma avevo anche un lavoro: redattore a Radio Città, nata da poco, a cui il promoter musicale Franco Mamone si era appoggiato per organizzare il concerto a Milano e a Torino. Radio Città era l’emittente nata dall’esperienza del Movimento studentesco di Milano, poi diventato Mls (Movimento lavoratori per il socialismo).

“Non conta la forza, ma la coscienza politica”

Insomma: quel giorno ero insieme spettatore e cronista, ma mi ritrovai anche a far parte delle squadre del servizio d’ordine a San Siro, a dispetto della mia muscolatura (“Non conta la forza, ma la coscienza politica”, mi aveva detto secco il capo qualche anno prima, al mio arruolamento).

San Siro fu l’ultimo strano impegno dei “Katanga”, ormai orfani della politica militante degli anni Settanta. Prima di aprire tutto, subimmo qualche attacco ai cancelli da parte dei collettivi di Autonomia operaia – o forse erano soltanto gruppi di ragazzi decisi a entrare gratis. L’“impegno” finì, simbolicamente, quel giorno e lasciò il campo al “riflusso”. La maggioranza dei ragazzi del “movimento” imboccò la strada del “ripiegamento nel privato”, una consistente minoranza aveva già scelto cupamente la lotta armata.

“Vendemmo soltanto 29 mila biglietti”, dice oggi Mario Giusti, uno degli inventori di Radio Città, “dal punto di vista economico fu un disastro”. Fare i conti oggi è ormai impossibile. Certo molti entrarono gratis. Per tutti fu un concerto indimenticabile. Bob Marley morì in un ospedale di Miami undici mesi dopo, l’11 maggio 1981. Gli anni Settanta furono sepolti con lui. Nel mondo vinceva la Thatcher, in Italia nasceva l’“edonismo reaganiano”.

L’attentato fallito allo stadio: così poteva cambiare il Paese

La mafia delle stragi del 1992 e del 1993 voleva colpire i carabinieri allo Stadio Olimpico con un’autobomba, mentre la folla usciva dopo Roma-Udinese. L’attentato fallì. Poco dopo Silvio Berlusconi sarebbe sceso in campo. Antonio Padellaro, giornalista, fondatore del “Fatto” e tifoso romanista che come sempre era allo stadio, racconta quella giornata che avrebbe potuto cambiare l’Italia. “La strage e il miracolo” sarà da domani in edicola e in libreria.

23 gennaio 1994, ore 16.30 circa. Spettatori paganti: 9.994. Abbonati: 34.333. Totale: 44.327 persone che a Roma più o meno verso le 16.30 di domenica 23 gennaio 1994 cominciarono lentamente a uscire dallo stadio Olimpico. Sappiamo che non pioveva, che la temperatura era di circa dieci gradi (nella media invernale) e che come sempre il deflusso avveniva principalmente su tre direttrici. Dalla Curva Nord e dai settori confinanti della Tribuna Tevere verso i parcheggi in direzione Farnesina, Ponte Milvio. Dalla Tribuna Tevere lato Distinti Sud e dai Distinti Sud verso l’Obelisco del Foro Italico, il ponte Duca d’Aosta e i capolinea di bus e tram di piazza Antonio Mancini. Dalla Tribuna Monte Mario verso via Edmondo De Amicis (il K2) e in direzione Camilluccia. Infine, dalla Curva Sud e da qualche spicchio della tribuna Monte Mario verso viale dei Gladiatori e i parcheggi di piazza Maresciallo Giardino. È su questa porzione del quadrante che dobbiamo concentrarci per tre motivi soprattutto. È da quella parte che stazionano la maggior parte delle camionette e dei blindati di Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza. Proprio all’uscita di viale dei Gladiatori si trova la caserma dell’Arma prospiciente l’Aula Bunker. Nel tratto dall’Olimpico a piazza Maresciallo Giardino si concentra la maggior parte del pubblico in uscita che quella domenica, da quel lato dell’Olimpico, si poteva calcolare intorno alle ventimila persone.

Proviamo a immaginare la possibile scena. Al passaggio dei pullman dei carabinieri, dall’alto della collina di Monte Mario, viene dato l’impulso al telecomando. Contatto. Azionato dalla sorgente il detonatore attiva l’esplosivo e la Lancia Thema imbottita da trecento, quattrocento chili di tritolo esplode spargendo una tempesta infernale di chiodi e tondini di ferro: migliaia e migliaia di schegge infuocate proiettate con immane violenza a trecentosessanta gradi. Non occorre uno studio specifico degli artificieri per stabilire le conseguenze della deflagrazione. Che nella zona più immediata all’autobomba investe in pieno i mezzi dei cc causando tra le cento e le duecento vittime. E con un numero incalcolabile di persone che se sopravvissute porteranno per sempre i segni di amputazioni gravissime. Perché alla ferraglia assassina compressa nei “parmigiani” si sommano gli infiniti frammenti di asfalto e di terreno sottostante proiettati dal cratere largo circa tre volte la Lancia Thema. Nello spazio di almeno cinquecento metri, fino quasi ai cancelli brulicanti della Curva Sud, le conseguenze dello spostamento d’aria sono inimmaginabili: migliaia di persone impazzite dal terrore che cercano di scappare senza sapere dove, travolgendosi e calpestandosi. Famiglie cancellate, bambini fatti a pezzi. Senza contare gli effetti del panico nelle aree più lontane dalla strage, ma pur sempre affollatissime. Migliaia tra morti e feriti. La strage più sanguinosa ed efferata della nostra storia. Certamente, tra quelle provocate da un solo ordigno, la più devastante in assoluto. Un buco nero, immenso, profondo, colmo di morte e di dolore scavato nel cuore del Paese. Un trauma irrecuperabile. L’Italia che stramazza.