Chi ricorda cosa è stato il Tg4 nel ventennio 1992-2012 sa quante volte si sarebbe dovuto arrestare Emilio Fede – arrestare la sua conduzione –. Ogni giorno alle 19, quando un uomo solo alla direzione – Emilio Fede – incarnava il più intellettualmente disonesto dei notiziari. Quando si rivolse a Montanelli invocandone in diretta l’arresto e la partenza dal Giornale, i berlusocones plaudirono: Fede è il più pulito dei giornalisti, si diceva, perché ammette di avere la rogna dell’appartenenza al padrone, anzi, la rivendica con orgoglio. Tutto questo fu possibile grazie a un non comune talento teatrale, paragonabile solo a quello di De Luca, e a una totale protezione politica negli anni del berlusconismo imperante. Quel Tg4 in quotidiana flagranza di faziosità non lo si arrestò mai. Né Agcom, né garanti, né buoncostume di fatto mossero un dito. Lo si è arrestato ora, Emilio Fede. Solo, anziano e acciaccato guitto disconosciuto fin dagli affetti più cari (B. e Lele Mora), nel giorno del suo ottantanovesimo compleanno, sul lungomare di Napoli, ben guardato dai lanciafiamme del rivale (a teatro) De Luca. Così va l’Italia: fortissima coi forti, quando sono diventati deboli.
La Chiesa e i cliché sui diritti dei gay
Decidere se fare una legge contro l’omofobia è un affare della politica, cioè del Parlamento e del governo di un Paese, che si spiega e giustifica in base a una esigenza specifica. Per esempio quando vi fosse un’ondata di aggressioni o altri delitti omofobici. Oggi in Italia qualcosa del genere c’è, ci sono ancora bullismo spicciolo (persecuzione del compagno effeminato, aggressioni stradali di copie gay, ecc.) che fanno anche notizia sui giornali: Occorre o no intervenire con una legge? È questa, appunto, una valutazione che spetta al legislatore, cioè al Parlamento.
In questi giorni sentiamo che rispetto a questa legge ancora in discussione (con vari progetti diversi in Parlamento) la Conferenza Episcopale Italiana ha emanato una nota di messa in guardia preventiva, affermando che non c’è alcuna necessità di un simile provvedimento legislativo, giacché le leggi esistenti bastano e che, d’altra parte, la legge progettata rischierebbe di violare la libertà di opinione esponendo chiunque voglia difendere pubblicamente la famiglia tradizionale a essere perseguito penalmente per omofobia.
Per chi segue con simpatia la politica di Papa Francesco, questo può essere un osso duro da digerire. Il Papa è stato finora molto cauto ogni volta che è stato interpellato a proposito dell’omosessualità: si ricordino ad esempio di sue risposte come “Chi sono io per giudicare …?”, ma è certo che la posizione tradizionale della Chiesa è pur sempre ancora quella espressa – da ultimo – da un vescovo italiano secondo cui la condotta omosessuale è oggettivamente disordinata. Se gli si domandasse perché, la risposta sarebbe molto probabilmente che si tratta di comportamenti “contro natura”.
Certo l’omosessualità appare molto spesso come disordine sociale e morale e negli anni recenti, con i vari Pride, lo ha spesso fatto provocatoriamente per dar voce al proprio disagio scandalizzando i benpensanti. Ma anche il Papa sa che ci sono omosessuali che vivono “civilmente” e con equilibrio la loro esperienza né più né meno dei tanti eterosessuali che non sono puttanieri, corruttori di minori, stupratori seriali o maniaci sessuali.
E non sarà inutile ricordare, o forse si, che molto spesso il “disordine” della vita omosessuale è direttamente legato allo stigma sociale che la colpisce. Ci sono per esempio ragazzi scacciati di casa perché scoperti gay che per vivere a volte finiscono nella prostituzione; ricatti fondati sulla paura di rivelazioni imbarazzanti, suicidi di persone che non reggono più la loro condizione in una società che non li accetta… ecc.
Lo stigma sociale è forse segno della oggettiva immoralità e anti-naturalità dell’omofilia?
Il punto è probabilmente che la morale tradizionale della Chiesa non può più seriamente ritenersi fondata sulla natura, che troppo a lungo è stata usata come il paravento della difesa di ogni ordine costituito, e che in tanti sensi non è più neanche filosoficamente la base dell’etica cristiana. O non può più esserlo.
Questa e tante altre spinose materie, pensiamo all’aborto, al divorzio, alla maternità surrogata ecc., possono essere ancora , di competenza – quasi – esclusiva della Chiesa?
La stessa legge sul divorzio dapprima era sembrata un attentato alla sacralità della famiglia, e come tale fu combattuta da molti partiti cattolici, ma alla fine ha avuto effetti positivi per molti.
Di larga parte della morale tradizionale, sempre difesa dalla Chiesa, sentiamo assai poco rimpianto in vero. Nella morale sessuale e familiare è probabilmente inevitabile che ci si attenga in genere alla cosiddetta natura: senza un certo legame con la famiglia e la trasmissione della vita sembra infatti difficile evitare che la sessualità diventi un far west abbandonato al consumismo più sfrenato, come del resto è de facto ormai nella nostra società. La Chiesa, ma anche del resto la legge civile, fa bene a resistere a questa deriva.
Ma tutto ciò giustifica l’ostilità della Cei a un progetto di legge che punisca l’omofobia? Nella Dichiarazione di Abu Dhabi, Sulla Fratellanza Umana firmata dal Papa e dalla massima autorità dottrinale musulmana nel 2019, si parla della diversità umana – persino di quella tra le religioni – come di un fatto provvidenziale che va rispettato riconoscendo le diverse forme di cultura, di vita e di comunità.
Solo così si può pensare a un’etica cristiana “liberale” che metta da parte i paletti della “natura” (che in certa filosofia tradizionale giustificava financo la schiavitù) che faccia riferimento alla, certo “naturale” riduzione della violenza, della sopraffazione e del dominio sulle persone. E che valuti anche le leggi della società civile in base al criterio della libertà e della fratellanza fra le persone.
Firenze. Lo stadio è solo un esempio della pessima amministrazione
Leggo con molto interesse e trasporto gli articoli di Tomaso Montanari, persona intelligente e competente che stimo moltissimo pur non condividendo al 100 per cento tutte le sue idee. A lui vorrei chiedere come mai a Firenze sia possibile deturpare il paesaggio con teleferiche di cristallo nel giardino di Boboli, costruire parcheggi interrati nonché svendere a miliardari stranieri palazzi storici, al servizio di limitati facoltosi turisti, e non sia possibile rifare uno stadio (il Franchi) che cade letteralmente a pezzi e che, anche se di proprietà di una società privata (la Fiorentina), rimarrebbe per sempre a servizio dell’intera comunità locale e non di turisti mordi e fuggi. Grazie e complimenti per lo splendido giornale.
Duccio Casavecchi
Caro Casavecchi, la risposta alla sua sacrosanta domanda è una sola: Dario Nardella. A mettere Firenze alla mercé di capitali internazionali che la considerano alla stregua di un limone da spremere sono l’inettitudine e l’estrema debolezza dei suoi amministratori. Firenze è stata governata senza un’idea che non fosse vivere di rendita alle spalle di un meraviglioso passato. Una via di mezzo tra lo sciacallaggio e la prostituzione: lo dico da fiorentino ferito e furibondo per ciò che è stato fatto alla mia, alla nostra, città.
Tutti sappiamo cosa sarebbe giusto fare allo stadio: restaurarlo e dotarlo di strutture moderne che mettano in grado il capolavoro architettonico di Nervi di rimanere, con perfetta efficienza, il campo della Fiorentina. È possibile? “La possibilità di fare del Franchi uno stadio dove le curve sono più vicine al campo di gioco c’è, di fare la copertura anche”: lo ha detto il soprintendente di Firenze Andrea Pessina pochi giorni fa. Certo, se poi Commisso ha comprato la squadra per costruire un mega centro commerciale, questo è un altro discorso. A cui, però, la città dovrebbe rispondere con fermezza. E invece l’amministrazione ondeggia tra possibilità opposte: dalle folli proposte di legge del Pd fiorentino per demolire lo Stadio di Nervi (una vera offesa a Firenze), alle insensate varianti urbanistiche approvate sull’area Mercafir senza però riuscire a convincere la proprietà della squadra. Insomma, Firenze (e il suo Stadio) entrano nel futuro se i fiorentini hanno un’idea di futuro e la difendono. Se invece si affidano agli squali esterni e agli inetti interni, la città finirà inevitabilmente divorata. Come è avvenuto finora.
Tomaso Montanari
Mail box
Regionali, la brutta figuraccia dei dem liguri
Il Pd ligure sembra sempre più in stato confusionale: l’unica certezza che hanno alcuni dirigenti è il veto su Ferruccio Sansa. Ci dicano una volta per tutte chi è l’innominabile che ha posto il veto perché vuole la poltrona di presidente del porto di Genova. Che aspetta il Pd nazionale a commissariare la segreteria regionale? Dopo che la coalizione ha trovato l’accordo a Roma sul nome di Sansa sono cominciate le danze sui nomi più disparati: il Pd regionale sarebbe stato pronto a sostenere persino Massardo… poi è toccato al sindaco di Sanremo, sempre più a destra, ma adesso è rispuntato il dottor Cremonesi, che di certo non può essere catalogato né di sinistra, né di centro… Non sarà forse che il candidato debba accontentare le aspettative di Scajola, con cui Claudio Burlando va d’accordo, perché “parlano lo stesso linguaggio”? Non è bastata al Pd la lezione ricevuta, candidando 5 anni fa la Paita? Si rende conto che non può decidere con arroganza per tutta la coalizione?
Aleandro Longhi
Io, 85enne, cacciato dagli ospedali lombardi
Ecco che Furio Colombo lo dice chiaro e tondo, oggi che in Lombardia hanno “curato” solo i vecchi… Io, che ho 85 anni e il virus non l’ho preso, ma avevo problemi di salute, sono pressoché stato mandato via dagli ospedali nel seguente modo: a) non mi hanno fatto fare neanche un passo avanti; b) mi hanno dato come sola possibilità quella di prenotare online; c) la procedura online si bloccava spesso, senza alcuna risposta… Meno male che a me non è capitato di morire ed essere annoverato tra quelli del Covid-19.
Franco Paone
Tanti auguri ai 10 anni del “Fattoquotidiano.it”
Dieci anni: un arrivo o una ripartenza? Auguri enormi e affettuosi! Siete commoventi, appassionanti, riempite il cuore! Grazie per il vostro impegno, la vostra simpatia, i vostri risultati. Che sono di tutti! Bravi!!!
Ambrogio Lualdi
Ho riletto il Manzoni: che potenza espressiva
Rileggendo per la prima volta dai tempi del liceo I promessi sposi, spinto dal fatto che mio nipote lo sta studiando, mi sono reso conto del suo splendore cristallino. Bella scoperta direte: ma quante volte ci capita di dimenticare romanzi studiati per obbligo foderandoli di una patina di obsolescenza? Quanta potenza emana il colloquio tra Don Rodrigo e Fra Cristoforo recatosi dal prepotente signorotto a chiedere giustizia per la povera Lucia… Pochi sapienti ritocchi per tratteggiare mirabilmente un carattere… Davvero magistrale la capacità del Manzoni di raccontare la natura degli uomini facendo emergere l’autentica disposizione d’animo del più nobile e del più negletto.
Pino Ezio Beccaria
I marchi del lusso sfruttano i dipendenti
Spettabile redazione, segnalo che i grandi marchi del lusso hanno iniziato durante il lockdown a fare contattare i loro clienti da parte dei commessi, cercando di vendere via internet. Ora, dopo non aver rinnovato il contratto al 40 per cento del personale a contratto a tempo, obbligano i rimanenti dipendenti a lavorare anche fuori orario di lavoro, da casa o in ferie. Anche nello scintillante mondo del lusso ciò che luccica sono le perle di sudore dei lavoratori, i primi a pagare le conseguenze della crisi delle vendite. Da parte loro questi marchi, per recuperare i minor introiti, hanno già aumentato i prezzi e introdotto nuovi metodi di sfruttamento del personale.
Paolo Toniolo
Grazie per il dibattito sulle statue controverse
Ho seguito con interesse il dibattito sugli abbattimenti delle statue “non desiderate”: rendo merito al nostro giornale di aver voluto seguire e sviluppare questo argomento, importantissimo perché coinvolge, in un sol colpo, un principio fondamentale della libertà di espressione e di pensiero, una visione della Storia (nonché della Storia dell’arte) e l’interpretazione del suo ruolo di guida e indirizzo. Se le statue non vanno abbattute, come suggerisce il Prof. Barbero, allora perché abbiamo gioito nel vedere decapitate quelle di Saddam Hussein o di Gheddafi mentre siamo rimasti inorriditi di fronte alla distruzione dei monumenti millenari operate dai Talebani e dalle milizie dell’Isis? Forse perché queste ultime erano bellissime, mentre le altre erano brutte e volgari? Non si tratta di una questione di qualità artistica, ma di storia contrapposta all’attualità. Come rimarcava magistralmente il Prof. Montanari, “solo gli schiavi distruggono i monumenti, gli uomini liberi li conservano”, e in questo dualismo sta tutta la questione. Siamo schiavi o uomini liberi? O meglio : siamo ancora nell’attualità o siamo già nella storia?… Credo che dovremmo ragionare come ci suggerisce Montanari: non distruggere ma musealizzare i monumenti “controversi”, relegandoli così in ambiti non più raggiungibili dall’attualità e dalle battaglie del presente.
Marco Messori
Smart working, servizi garantiti e nuovi diritti
Il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha rilanciato la richiesta di porre fine allo smart working massivo. Le ragioni politiche sono facilmente intuibili: Milano – tra le metropoli la più colpita dal virus e dal lockdown – è un enorme centro di servizi e ancora oggi le grandi aree che raccolgono società e uffici sono deserte. Basta farsi un giro nei pressi dei grattacieli attorno al palazzo della Regione o a City life per vedere un numero impressionante di saracinesche abbassate. Sala chiede che dopo il virus “non si contribuisca anche con scelte sbagliate ad aggravare la situazione di diversi comparti economici, non di certo per perpetrare una società troppo basata sui consumi, ma per aiutare chi oggi rischia di perdere il proprio lavoro a riorganizzarsi, a provare a reinvestire nella propria attività e adeguarla a un nuovo modello, che andrà esplicitato, condiviso, costruito. In una sola parola governato”.
Ieri su queste colonne, il professor De Masi ha, d’altro canto e non senza ragioni, notato che durante i mesi di lockdown “lo smart working ha salvato l’economia e la scuola contribuendo a salvare la salute”. A margine di queste riflessioni ha anche risposto al professor Ichino e alle sue dichiarazioni sui dipendenti pubblici per i quali, nella maggior parte dei casi, il lavoro da casa sarebbe stato “una lunga vacanza”, leggendole come pregiudizio nei confronti dei “lavoratori pubblici (per definizione tutti furbetti del cartellino), quelli contro il lavoro agile (per definizione tutto anarcoide e fannulloide)”. Ci associamo, sottoscrivendo in toto.
Però ci sono, a latere, altre urgentissime questioni da mettere sul tavolo. Soprattutto se in autunno ci troveremo a fronteggiare una seconda ondata pandemica. Oppure se le grandi aziende decideranno che la modalità da remoto, con gli enormi risparmi che comporta (affitti, benefit, pulizie), sia comunque preferibile perché più vantaggiosa. Le questioni urgenti riguardano l’organizzazione sociale e i servizi come nidi e materne, storicamente non in grado di soddisfare le necessità delle famiglie già prima. Oggi, volendo iscrivere un figlio ai centri estivi, c’è un punteggio che per i genitori in smart working si abbassa. Come se si potesse lavorare tranquillamente con un figlio di tre anni, che notoriamente si può lasciare solo per ore a leggere un libro. È soltanto un esempio di come la politica non sia ancora in grado di rispondere ai nuovi bisogni. Sala, con un intervento sul Corriere, chiede un nuovo statuto dei lavoratori. Diffidiamo sempre delle formule della politica, non solo perché sono pompose, ma perché spesso confidano sulla smemoratezza dei cittadini (chi ha smantellato, pezzo per pezzo, il precedente Statuto?). Però servono tutele nei contratti, e subito: nuove forme di organizzazione chiedono nuovi diritti, soprattutto in un tempo di precarizzazione selvaggia e proletarizzazione del lavoro intellettuale. Una questione riguarda la durata della giornata lavorativa: il tempo di casa non può coincidere con il tempo di lavoro, in una reperibilità indeterminata (quindi assoluta). Vista la retorica che accompagna da decenni il lavoro, non più fondamento del nostro patto sociale, ma cortesia che viene concessa in cambio di salari sempre più bassi, non è il caso di affidarsi al buon cuore o all’umanità di quelli che un tempo si chiamavano padroni (ma che, pur con nomi diversi, non hanno smesso di comportarsi come tali). Bisogna che adesso, subito, si proceda a regolamentare quello che sembra un modello ormai scontato. Anche se non è una bella società quella popolata da una moltitudine di individui che, chiusi in una stanza solitaria, contribuiscono al profitto di pochi con l’unica prospettiva di guadagnare per consumare qualche briciola.
Salvini Confonde la popolarità (da macchietta) con la politica
Alla fine, il primo a farsi la foto sul ponte di Genova redivivo è stato lui, Salvini Matteo, cioè lo stesso che nemmeno alla cerimonia di lutto e dolore per i morti nel crollo aveva resistito alla tentazione dei selfie sorridenti con i fan.
Non conosco la borsa valori delle photo opportunity, quindi non so dire in quale percentuale una foto sul ponte di Genova possa riparare i danni dello show veronese delle ciliegie, compulsivamente ingurgitate ascoltando un discorso su neonati deceduti all’ospedale. Boh, gli strateghi dell’immagine salviniana avranno fatto i loro conti. Una cosa è certa: esiste, al posto della politica, una rappresentazione mediatica, un calcolo semantico (spesso sbagliato), un gioco molto simile alla guerra delle copertine che si fanno i giornali di gossip. Insomma, divertente, ma ormai è noto che quando la gente chiede “Ahah! Hai visto Salvini?”, non si aspetta un discorso politico, ma la mattana del giorno, il numero, lo sketch, la battuta, il balletto. Cosa ci dirà Salvini lo sappiamo già, e sappiamo pure che si tratta di ricette variabili a seconda del momento e dell’opportunità. Chiudiamo tutto, apriamo tutto, meno tasse, più soldi, più debito, meno debito, tutto facile e immediato. Inutile insistere oltre, sono cose che si sanno.
Più interessante è invece il meccanismo per cui un leader politico, o in generale una figura pubblica, tende a impersonare, e addirittura a superare, la sua caricatura, esasperando proprio i tratti grotteschi che gli si rimprovera. Salvini, dal Papeete in poi, ha deciso di creare una specie di iper-Salvini, cioè di diventare una macchietta di se stesso pensando che questo pagasse in termini di popolarità, che lui confonde con la politica. Si dirà che la colpa è dei media: se si pubblicassero foto di Salvini quando Salvini parla di politica lo vedremmo una volta al mese, mentre ormai la notizia è la foto di Salvini che si fa una foto da solo. E vabbè, non è certo una cosa nuova questa di confondere popolarità e politica, ma la differenza con l’oggi è che un tempo si cercava di coniugare popolarità e credibilità, cosa oggi considerata facoltativa. Per cui abbiamo paginate intere su un ex generale dei carabinieri vestito di arancione che abbina al ribellismo reazionario dichiarate frequentazioni con gli alieni, per esempio. E gli si dà spazio lo stesso, in lungo e in largo, invece di chiamare l’ambulanza.
Oppure abbiamo l’autocaricatura per eccellenza, il modello imprenditoriale che consiglia e indirizza, quando non si mette a sbraitare: “Questi qui sono gente matti”, all’indirizzo del governo. Flavio Briatore, ascoltato spesso come un guru dell’economia con la sublime motivazione che sa far funzionare un bar, lascia stupefatti per la sua aderenza alla propria stessa macchietta. È uno che dice “tachipinha”, confondendo medicine e long drink, che si lamenta delle piste ciclabili perché gli rallentano il macchinone da milionario, insomma, è un cinepanettone ambulante, periodicamente convocato a discettare delle sorti del Paese, una specie di Sgarbi dei privé. Questo potrebbe spiegare la crisi della commedia all’italiana, che fu una delle nostre enormi ricchezze passate. Quegli arcitaliani, quei magnifici caratteristi, sono tra noi. La realtà che si fa farsa è assai difficile da rappresentare se già esiste in natura in così perfetta forma. La cosa strabiliante è che si confonda – e che lo facciano i media assetati di clic e di ascolti – tutto ciò con la politica, come fare mediocre cabaret oratoriale e credersi Shakespeare.
Il Pd non ha mai fatto i conti con i suoi renziani
A freddo, Giorgio Gori ha sollevato la questione della linea politica e della leadership del Pd. Si possono discutere tempi e modi dell’uscita del sindaco di Bergamo, ma il problema esiste. Mi spiego. Sono innegabili i meriti della segreteria Zingaretti. Egli ha scongiurato la dissoluzione del Pd, perfettamente possibile dopo la disfatta elettorale del marzo 2018; lo ha rimesso in partita; lo ha portato al governo cacciando all’opposizione Salvini che si accingeva ad assurgere a dominus del Paese; scettico sulle prime, si poi rivelato il più leale e convinto sostenitore del Conte 2, cui va ascritto il merito sia della gestione della drammatica emergenza Covid, sia del ripristino di un positivo rapporto con le istituzioni Ue, mai come oggi per noi vitale. Una collaborazione di governo grazie alla quale il principale partner, ovvero il M5S, ha fatto registrare un processo di maturazione utile alla democrazia del paese e, in prospettiva, un alleato strategico essenziale per sfidare una destra altrimenti senza competitor.
Ciò detto, il nodo tutto politico sotteso alle parole di Gori e a chi gli ha fatto eco non va esorcizzato. Zingaretti fu eletto a larga maggioranza nelle cosiddette primarie di partito soprattutto a motivo della sua relativa estraneità al gruppo dirigente pressoché interamente allineato con Renzi e dunque corresponsabile della bruciante debacle elettorale. Ma la sua ascesa scontava due limiti: l’essere stata favorita da un gioco di riposizionamenti delle correnti interne, ripeto, in precedenza schierate con Renzi e l’omissione di una discussione pubblica sulla linea politica a cominciare dal giudizio sul renzismo. Una stagione non breve che ha rappresentato un deragliamento, una torsione identitaria (in parte anticipata da Veltroni) rispetto alla radice ulivista del Pd. Dunque, primarie come “plebiscito di un giorno”, senza ciò che un tempo erano i congressi, e cioè un confronto pubblico partecipato e disteso nel quale impegnare tutti e ciascuno nel giudizio sul passato, sul presente e sul futuro del partito, fissando una riconoscibile linea politica sulla quale si formassero maggioranze e minoranze. Non a caso vi fu chi, proprio tra i sostenitori di Zingaretti, propugnava un congresso. Dopo la disfatta, giustamente ci si chiese: se non ora quando? Ma non se ne fece nulla. Ripeto: ci si limitò a riposizionamenti tattici interni che oggi potrebbero riproporsi a danno di Zingaretti. Che la dinamica interna al Pd sia poco decifrabile politicamente e che il convitato di pietra sia ancora il renzismo (più che Renzi) è testimoniato da vari indizi. Penso alla circostanza che ex (?) turborenziani abbiano ancora responsabilità di primo piano nel partito, a cominciare dai due capigruppo parlamentari; che la più sollecita nel fare da sponda a Gori sia stata la correntina di Orfini, il poliziotto cattivo di Renzi, che ora recita l’implausibile parte della opposizione da sinistra a Zingaretti; che a capeggiare la corrente dichiaratamente ex renziana sia Luca Lotti (l’associazione dei magistrati ha espulso Palamara, quale la sanzione comminata a Lotti dall’ “associazione politica” Pd?); che Bonaccini, il quale, d’un tratto, passò da braccio destro di Bersani a Renzi, appena confermato presidente dell’Emilia, ora lasci intendere di non escludere una sua disponibilità alla guida del Pd. Si conferma l’impressione che, dentro il Pd, vi è chi la pensa come Renzi e forse qualcuno che ancora a lui risponde. Problema più serio di quello rappresentato da Italia Viva, minipartito personale. Molti sono dunque gli indizi di due problemi di fondo. Il primo, che affligge da sempre il Pd: un ceto politico professionale troppo compreso dal problema della propria sopravvivenza e dunque piuttosto incline a prassi trasformistiche a discapito di una coerenza strategica della linea politica. Secondo: il fantasma del renzismo dopo Renzi, che brandisce la parola magica ma sommamente equivoca “riformismo”, interpretata come appiattimento sull’establishment, acritica fiducia nelle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione che oggi suona anacronistica. Una posizione che ha aperto un’autostrada alle destre populiste accreditatesi come più sensibili alle “attese della povera gente” (copiright di La Pira) di una sinistra senza popolo. Ciò che impressiona dell’uscita di Gori – a sua volta doppiato da Fontana (sic) alle Regionali lombarde – sono la distrazione e la smemoratezza: come non fosse successo niente, come se si potesse riprendere tal quale la retorica dei “tardoblairiani de’ noantri”, esorcizzando la cocente sconfitta del renzismo e la sfida della nuova fase dischiusa dal dramma che ha investito il mondo. La quale – è imbarazzante notarlo, tanto è evidente – meriterebbe una qualche nuova elaborazione. Non gli slogan consunti, sconfitti e fuori corso, dei rottamatori che si sono spinti a un palmo dal rottamare il Pd.
La parrucchiera di zia ha sgamato il falso documento venezuelano
Quando il quotidiano spagnolo Abc ha pubblicato come scoop un documento esplosivo del 2010 che proverebbe un finanziamento di 3,5 milioni di euro al fondatore del Movimento 5 Stelle Gianroberto Casaleggio dal governo di Hugo Chávez, allora presidente del Venezuela, la parrucchiera di mia zia, il cui nonno collaborava con Federico Umberto D’Amato all’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno, insieme con Stefano Delle Chiaie (il nonno fu il regista della strategia della tensione: strage alla stazione di Bologna, strage di piazza della Loggia a Brescia, copertura dei responsabili delle stragi, depistaggio delle indagini sull’eversione di destra), la sveglissima parrucchiera di zia ci ha messo tre secondi tre a qualificarlo come una bufala: “Innanzitutto, sul documento manca il numero di protocollo”, dice, infilando il casco della permanente sulla testa di una signora fra due età (un tempo si diceva così, quando una donna era già abbondantemente inoltrata nella vecchiaia). “Inoltre, l’intestazione è ‘Ministerio de la Defensa’, ma il Venezuela cambiò i nomi dei ministeri nel 2007, per cui la forma corretta sarebbe ‘Ministerio del Poder Popular para la Defensa’. Poi, il simbolo dello Stato, nel timbro in alto, fu modificato nel 2006: adesso il cavallo corre verso sinistra, non verso destra. Anche la dicitura ‘Director General Inteligencia Militar’ è sbagliata. Infine, la data sul timbro in basso è scritta a mano. Per non parlare dei 3,5 milioni di euro, che potrebbero stare in una valigetta solo se la valigetta fosse di Mary Poppins”.
Il suo atelier è in un vasto immobile che ospita nei fianchi una banca, alcuni negozi di abbigliamento, un bar e una tabaccheria. Fa caldo. Da un pertugio fra due bottoni della sua vestaglia da lavoro intravvedo le sue mutandine candide. “Un documento falso?” “Come i capelli fucsia di quella signora”. “Che senso ha, un fucsia così evidente?” “Proprio perché è evidente ha un senso. Adesso si tratta di decifrare l’informazione vera che ci è nascosta: ha un nuovo amante? È lesbica? La chiamano analisi delle fonti aperte: è dove i servizi segreti trovano certe verità. Sono sempre disperse in un mare di cazzate, ma chi ha occhi per vedere vede. Un altro modo di comunicarle è quello dei due documenti simili che differiscono per un solo particolare: quello che si vuole far notare”. La società poggia su una gran legge di armonia e contrapposti, secondo cui la guerra è permanente, e giustifica lo spionaggio, il controspionaggio, i codici segreti, e le misteriose signore poliglotte dei grandi alberghi: in altri tempi, la parrucchiera di zia sarebbe stata una di queste. “È una costante”, prosegue. “Anche il dossier sull’acquisto di yellowcake dal Niger, con cui si voleva dimostrare che Saddam Hussein aveva armi di distruzione di massa, era un tarocco palese, ma servì a G. W. Bush per fare la guerra in Iraq”. “Il Nigergate. In Italia qualcuno ne scrisse su Rolling Stone nel 2004, un anno prima di Bonini e D’Avanzo: quel dossier provava solo che la parola ‘Iraq’ poteva essere usata in una frase insieme alla parola ‘uranio’. E del caso Palamara che mi dici?” “Una volta mi chiamarono per un decesso. Era morta mia nonna. Arrivai in casa nel momento in cui i parenti sfilavano gli anelli dalle dita del cadavere. Mi sembra quello che sta facendo l’Anm”.
Lombardia-Russia chiude il sito (per 250 euro)
Sognava in grande, pensando di spostare l’Asse Atlantico verso la Russia di Putin. Anche con una pioggia di rubli per la Lega di Matteo Salvini su cui ancora indaga la magistratura. Ma Lombardia-Russia non se la passa molto bene. Col fondatore Gianluca Savoini ancora indagato per corruzione internazionale, l’associazione ha chiuso il sito ufficiale e messo addirittura in vendita il dominio. “Costava 250 euro, troppo”, spiega il vicepresidente e segretario Gianmatteo Ferrari, in viaggio negli Usa. “Era su un hosting americano, lo avremmo voluto spostare su Aruba ma costava 250 euro. Troppo”. Insomma, l’associazione al centro della tela che porta ai leggendari divanetti del Metropol non è in smobilitazione, ma poco ci manca. A ottobre 2018 era in pista per la presunta trattativa su una compravendita di petrolio che avrebbe dovuto rimpinguare con 65 milioni le casse della Lega. Un anno e mezzo dopo, deve centellinare sulle spese. “Il sito era fermo da un anno, oggi usiamo solo i social network e con questa storia del Covid non si potevano certo fare convegni e incontri. Ma andiamo avanti”. Resistono la pagina Facebook e l’account Twitter, ma si limitano a tributare trionfi a Putin. La missione dichiarata, insomma, resta la stessa.
Grillo, ovvero la paura nera dello stato in economia
Che paura, la proposta di Beppe Grillo. L’ex comico, lo sappiamo, si presta agli insulti e agli sberleffi o, addirittura, ai ribaltamenti di significato. Ma lo scandalo provocato dalla proposta di “una rete unica” va al di là del dileggio. Se sul Corriere della Sera
la notizia è tradotta in un “Grillo lancia l’assalto alle telecomunicazioni”, sul Foglio si dilettano a scrivere di un’idea “ispirata dal Venezuela”: “Addio a Rousseau e alla democrazia diretta, entrano Putin e Chávez”. Chissà perché si esclude una propensione statalista di Rousseau, ma fa niente. La verità non sta nelle battute di Stefano Cingolani riportate sopra, ma nell’annotazione che nell’articolo sotto fa il liberista Carlo Stagnaro: “ Grillo evoca l’istinto statalista più belluino del M5S”. Belluino significa “bestiale” e non c’è sorpresa nel constatare che chi affiderebbe la propria vita al libero mercato possa considerare con orrore uno Stato che si occupa dei gangli nevralgici. E siccome la prospettiva fa paura, si devono evocare Putin e Chávez (che però è morto, oggi c’è Maduro), salutare Rousseau, invocare la giungla.
Poi c’è la stravaganza de la Verità che paragona la proposta – belluinamente statalista – a quella di Massimo D’Alema del 1999, che però fece il contrario. Prese un’azienda già privatizzata – anche con il suo contributo da leader del Pds nel governo Prodi – e quando arrivò a Palazzo Chigi diede il via libera all’assalto degli allora “capitani coraggiosi” che riempirono di debiti la Telecom proprio attraverso una scalata fatta senza un soldo in tasca.
Oggi, invece, si propone un ruolo attivo dello Stato che, tra l’altro, al di là delle ipocrisie e delle finzioni, quel ruolo, sia pure indiretto e limitato solo al giro elitario delle nomine, lo ha già essendo il vero controllore di Open Fiber (tramite Enel e Cassa Depositi e Prestiti) che non a caso ha come presidente Franco Bassanini, abbonato a vita agli incarichi di nomina politica.
Il punto è che lo Stato, in realtà, non farà che accrescere il proprio ruolo nei prossimi anni, perché la crisi mostrerà che il libero mercato non ce la farà, come non ce l’ha mai fatta (né nel 1929 né nel 2008) e spingerà le imprese a battere cassa. Solo che, per i liberisti all’italiana, lo Stato è buono solo quando lo chiedono loro. Altrimenti puzza di socialismo. Ecco, Grillo socialista ancora manca alla lista degli insulti.