Il piano per la Banda Ultra-larga (BUL) ha un suo piccolo record fin d’ora: lanciato nel 2015, avrebbe dovuto concludere la sua prima fase entro il 2020, e invece nei suoi primi tre anni di vita effettiva (2018-2020) è riuscito ad accumulare un ritardo… di tre anni. Non è un refuso e non è una deduzione del Fatto: è quanto messo a verbale da Infratel, la società pubblica che agisce da “soggetto attuatore” per questa operazione, a fine gennaio nell’apposito comitato, che porta il nome esotico di CoBUL. Anche la società che ha vinto tutti i bandi per realizzare l’infrastruttura è peraltro semi-pubblica: si tratta di Open Fiber, partecipata alla pari da Enel e da Cassa Depositi e Prestiti.
I numeri, che vedete anche nell’infografica qui accanto e sono presi dal sito ufficiale, sono impietosi: i cantieri sono previsti in 7.146 Comuni, 98 ad oggi risultano finiti, vale a dire l’1,3%; altri 575 cantieri sono in fase di collaudo, un altro 8% (secondo gli open data dello stesso progetto, però, ci sono poco meno di 300 interventi in altrettanti Comuni con la dicitura “in programmazione” esclusi da questo conteggio). In questo disastro che unisce la nazione, i dati peggiori sono al Sud, dove di quegli investimenti c’è più bisogno: Calabria, Puglia e Sardegna ad oggi registrano “zero” cantieri conclusi o in collaudo e la miseria di otto cantieri “in esecuzione” in tutto. Infratel il 15 maggio ha applicato a Open Fiber la prima penale per ritardi nella progettazione definitiva: poco meno di un milione di euro.
Per capire tutto, conviene riavvolgere il nastro. La banda ultra larga dovrebbe far viaggiare la connessione Internet velocissima: è parte dell’Agenda digitale europea, che pianifica per il 2025 la cosiddetta “Gigabyte society”, basata su una rete talmente veloce da poter ospitare anche le tecnologie 5G, il cosiddetto “Internet delle cose” che solletica gli appetiti di Stati e grandi imprese di Tlc. Al di là delle legittime opinioni su quanto questo sia necessario e/o positivo, è un fatto che la connessione velocissima procede lentissima. Il piano BUL è stato lanciato 5 anni fa. Si trattava di aiutare con fondi statali ed europei la creazione dell’infrastruttura materiale nelle cosiddette “aree bianche”, quelle “a fallimento di mercato”. Per capirci, quei comuni (ad esempio montani) in cui nessun operatore privato avrebbe mai portato la rete veloce perché non sarebbe conveniente.
Si è scelto di procedere mettendo a gara vari lotti e affidando poi al vincitore la concessione per 20 anni sull’utilizzo dell’infrastruttura, stanziando contemporaneamente i fondi per “invogliare” famiglie, Pmi e Pubblica amministrazione (scuole, università, aziende sanitarie, etc.) a scegliere la BUL rispetto alla rete “normale”. Dell’attuazione di questo progetto – nel senso di stabilire il fabbisogno infrastrutturale, predisporre le gare e controllare i concessionari – è stata incaricata appunto Infratel, società in house del ministero dello Sviluppo economico da gennaio guidata da Marco Bellezza, fino ad allora consigliere di Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli proprio al Mise.
A partire dal 2015, Infratel ha fatto quel che doveva e predisposto le gare: i primi due bandi sono stati aggiudicati nel corso del 2017; l’ultimo per Calabria, Puglia e Sardegna s’è invece chiuso a inizio 2019. Tutti e tre se li è aggiudicati Open Fiber: il cronoprogramma presentato dall’azienda – e accettato da Infratel – prevedeva la conclusione dei lavori in 36 mesi, entro il 2020 insomma, anche se era chiaro che l’ultimo lotto sarebbe andato più in là. Il valore delle opere si aggira sui 2 miliardi e mezzo: circa un miliardo lo mette Open Fiber, che poi “venderà” per 20 anni l’accesso alla BUL (incentivato) agli operatori di mercato. Come detto, nelle riunioni del CoBUL di dicembre 2019 e gennaio 2020 Infratel ha spiegato ai ministri coinvolti – a partire da quella all’Innovazione, Paola Pisano – che per finire tutti i lavori si arriverà al 2023, scatenando una notevole incazzatura tra i presenti anche (ma non solo) perché in questo modo si rischia di perdere i relativi fondi Ue: quei soldi, infatti, sono parte della programmazione 2014-2020 e vanno rendicontati al massimo entro il 2022. Insomma, anche ammesso che si riesca a dirottarli su altro in tempo utile, bisognerà recuperare i soldi per la rete veloce nella nuova programmazione settennale, su cui – com’è noto – è in corso un feroce negoziato connesso anche al cosiddetto Recovery Fund. Oper Fiber a fine marzo la metteva così: “È stato identificato un piano che ci consente di poter dire che entro il 2022 tutte le Regioni, a esclusione di quattro, saranno completate”. Niente paura, insomma.
Uno potrebbe chiedersi: ma perché questi ritardi? Una scuola di pensiero diffusa nel governo è che Open Fiber non si impegna perché il progetto le interessa poco: ha capito che non è remunerativo. Secondo la società di Enel e Cdp – sfortuna a parte (in Veneto sostenevano di non trovare lavoratori) – invece è colpa della burocrazia. L’allora ad di Infratel, Domenico Tudini, a dicembre aveva elencato i seguenti ostacoli: gli ovvi ricorsi giudiziari (risolti), alcune difficoltà progettuali (s’è voluto riusare molte infrastrutture esistenti, che però spesso non erano nello stato descritto sulle carte), l’interazione con la rete Enel che rallenta i collaudi e una drammatica lentezza nell’ottenere i permessi. “Noi abbiamo 883 cantieri aperti e in qualche modo sospesi perché mancano i permessi: oltre 200 per colpa di Anas, oltre cento di Rfi”, a non dire di Soprintendenze e di “molte società regionali”.
Il lockdown ovviamente non ha aiutato e Open Fiber ora chiede procedure d’urgenza, semplificazioni, magari un commissario ad hoc. Il governo si appresta ad accontentare in qualche modo l’azienda nel prossimo decreto, anche se le sue responsabilità sono chiare a molti. Così, ad esempio, il ministro per il Sud, Peppe Provenzano, nel CoBUL di fine marzo ha gelato l’ad di Open Fiber, Elisabetta Ripa, che si lamentava delle prescrizioni del Cura Italia: “C’è un grande costo economico, politico e sociale che stiamo pagando per i ritardi accumulati fin qui: è paradossale parlare dell’ultimo decreto”. Un po’ paradossale se – come da apposito report – si scopre che “a fronte di 928 nuove attivazioni previste per il 2020, a metà aprile le nuove attivazioni sono state soltanto 39”. Tra poco, poi, si parte coi bandi per le “aree grigie”, quelle “a parziale fallimento di mercato”: l’obiettivo è il 2025, quindi meglio prepararsi per il 2028, se va bene.