Il teorema Scalfarotto: i soliti nemici

Da che mondo è mondo essere di sinistra significa guardarsi soprattutto dai propri amici piuttosto che dai propri nemici. Senza arrivare al primato dello stalinista Stalin, che fece fuori il maggior numero di comunisti della storia, qui vorremmo ritornare, più modestamente sullo strano caso di Ivan Scalfarotto. Già trattato compiutamente su queste pagine da Andrea Scanzi, il quale non riusciva a capacitarsi di come un sottosegretario renziano potesse candidarsi alla presidenza della Regione Puglia contro il candidato del Pd, Michele Emiliano. Con zero chance

di essere eletto e concrete possibilità di agevolare la vittoria dell’esponente del centrodestra, Raffaele Fitto. Comprendo lo sconcerto di Andrea e di quanti non vedono alcun senso logico nella mossa dell’Ivan. E neppure mi sento di applicare al soggetto in questione la definizione classica del cretino, come di colui che mentre danneggia gli altri reca nocumento a se stesso. No, Scalfarotto è uomo intelligente e dunque nel tentativo di trovare spiegazioni meno banali ci siamo ricordati di illustri esempi di odio vigilante (e militante) nella sinistra, che hanno condotto regolarmente la sinistra al disastro. Dalla caduta del governo Prodi nel 1998, grazie al fattivo contributo del compagno Fausto Bertinotti. Alle congiure piuttosto sinistre che disarcionarono Massimo D’Alema da palazzo Chigi, o Walter Veltroni dalla segreteria del Pd. Fino al celeberrimo “Enrico stai sereno”, con cui Matteo Renzi giustiziò Letta. Mi rendo conto però che sono esempi che non calzano in quanto complotti interni alla sinistra messi in atto da cospiratori assetati di potere. Scalfarotto, al contrario, pur sapendo perfettamente che “non lo vota neanche il gatto” (Scanzi), come mai si adopera per condurre alla rovina il suo alleato avvantaggiando il suo nemico? E perché mai, allora, Bruto accoltella Cesare da cui pure era amato come un figlio? Invidia? Gelosia? Coglionaggine? Il nemico del mio amico è mio amico, è il teorema di Scalfarotto. Infatti a tarda sera il suo mentore Renzi chiede a Emiliano di farsi da parte. C’è del metodo in quella pugnalata.

Dal contagio ai cantieri, la mala Milano non finisce mai

La costruzione della metropolitana per oltre un decennio è stata una vera e propria mangiatoia della politica milanese, quasi nessuno escluso, finché le inchieste di Mani Pulite vi posero fine. Scoprire, a quasi trent’anni di distanza, che tangenti e turbative d’asta sono tornate da lungo tempo a riguardare decine di gare d’appalto Atm, è una brutta tegola per la città. Tanto più oggi che la pestilenza Covid e l’impatto con le nuove povertà che ne sono derivate – per non parlare del disastro del sistema sanitario lombardo – ha interrotto bruscamente l’ascesa di Milano fra le metropoli europee più attrattive.

Hai un bel dire che in manette sono finiti solo due funzionari pubblici di grado inferiore, assieme ai manager delle grandi aziende beneficiarie di illecite corsie preferenziali. Ma è mai possibile che abbiano potuto agire indisturbati per anni, mettendo a punto un vero e proprio “sistema di gare truccate” (parola del procuratore Francesco Greco) senza che ai vertici chi di dovere se ne accorgesse?

C’è puzza di bruciato, anche se le cifre del malaffare paiono minime rispetto alle ruberie dell’epoca di Antonio Natali. Né giova apprendere che gli appalti in questione riguardassero proprio quegli impianti di segnalamento che dovrebbero scongiurare il ricorrente, pericoloso fenomeno delle frenate improvvise, già causa di numerosi infortuni tra gli utenti della metropolitana.

È un momentaccio, quello che sta vivendo Milano. C’è chi l’ha paragonata a un attaccante lanciato verso rete che un attimo prima del tiro decisivo viene atterrato da un fallaccio del difensore. Di sicuro, mentre s’interroga sulla persistenza dei focolai di contagio, la città ha visto svuotarsi di colpo i suoi quartieri commerciali. Il ritorno degli stranieri disposti a spendere per moda e design non è affatto garantito. Ci mancavano solo i ladri annidati nella macchina comunale.

Ubi, il fondo delle Cayman e gli affari offshore dei soci

Chi ha detto che la finanza è noiosa? Il matrimonio tra Intesa e Ubi, per esempio, è appassionante quanto una serie tv: riuscirà o non riuscirà? Perché vi si oppongono con forza molti degli azionisti storici di Ubi, all’ombra del loro padre nobile, Giovanni Bazoli? E ancora: chi c’è dietro (e dentro) il primo azionista di Ubi, il misterioso fondo Parvus di Edoardo Mercadante, basato a Londra ma controllato da una società delle Cayman? Sono domande che stanno incuriosendo anche la Consob e la Procura di Milano, a cui piacerebbe tanto sapere chi ha affidato a Mercadante le sue azioni. Per provare a capirlo, bisogna forse tornare ai Panama Papers, in cui sono state trovate tracce di società offshore, basate a Panama e alle Seychelles, che apparivano legate a Ubi International, la società lussemburghese del gruppo Ubi. Lo denunciano, nell’aprile 2016, Elio Lannutti (Adusbef) e Giorgio Iannone (Associazione piccoli azionisti Ubi). Dopo venti giorni, la banca annuncia di voler vendere Ubi International, guscio estero diventato imbarazzante, che sarà ceduto a Efg International nel novembre 2017. Pochi giorni dopo la cessione, compare sulla scena per la prima volta Parvus, citata nella “Relazione sul governo societario Ubi 2018”: “Si precisa che Mercadante Edoardo, in data 16 novembre 2017, ha comunicato di detenere indirettamente per il tramite della società di gestione controllata Parvus Asset Management Europe Ltd una posizione lunga complessiva con regolamento in contanti pari al 5,091% del capitale sociale”. A oggi, Parvus è arrivata a controllare oltre l’8% della banca, dopo aver investito il 46,6% delle sue risorse tutte in Ubi: troppo, per un fondo “neutrale”; poco accorto, per un investitore di mercato.

Ora la Procura milanese vuole capire se sono trasmigrate in Parvus le grandi famiglie bresciane e bergamasche legate a Ubi fin dalla sua fondazione e che tenevano i loro soldini in Ubi International, all’ombra esotica delle palme.

Istruttivo è rileggere una paginetta del diario segreto di Italo Lucchini, membro del consiglio di gestione di Ubi, uomo fedele al gruppo di comando della banca, che annotava diligentemente ciò che accadeva nelle riunioni, anche riservate, dei vertici. Nel 2014, chiede notizie sui quaranta trust di Ubi Trustees controllati all’estero da Ubi International, chiamata anche Ubi Lux: “Sono intervenuto per richiedere informazioni sia sul numero dei Trust che fanno attualmente capo a Ubi Trustees (40), sia sui ricavi rivenienti da tale attività (in un primo tempo Massiah ha stimato 50.000, poi rettificato in 300.000), sia sulla legittimità dei trusts amministrati in rapporto alla normativa italiana, sempre più restrittiva nei campi fiscale, antiriciclaggio ecc. Ho ammonito in merito alla delicatezza delle pratiche gestite da Ubi Trustee, ritenendo che qualunque accordo con Ubi vada subordinato al ruolo da assegnare alla struttura Ubi Lux nella sua globalità. Vi è stata una vera e propria levata di scudi da parte di Polotti, Pizzini, Fidanza e dello stesso Massiah che hanno tessuto le ‘lodi’ del dr. Massimo Lodi, che soprattutto in quel di Brescia ha raccolto ampi consensi sia presso clienti che presso professionisti per la sua competenza. È stato precisato che nel corso del 2013 ha fatto 36 visite, raccogliendo il consenso anche dello studio Erede, oltre che del notaio Camadini. È apparso evidente che Ubi Trustee è stata creata e funziona in virtù della copertura dei patrimoni delle grandi famiglie bresciane”. Il Massimo Lodi citato è il direttore generale di Ubi Trustee. Victor Massiah è l’amministratore delegato di Ubi. Franco Polotti è stato presidente del consiglio di gestione Ubi, Flavio Pizzini suo vicepresidente, Silvia Fidanza consigliera. Quanto alle “grandi famiglie bresciane” (e bergamasche), sappiamo che nell’autunno 2019 cinque grandi azionisti di Ubi, le famiglie Bombassei (Brembo), Bosatelli (Gewiss), Pilenga (Fonderie Pilenga), Radici (Radici group) e Andreoletti (Cospa) hanno costituito il Car (Comitato azionisti di riferimento) a cui si è unita anche la famiglia bresciana Gussalli Beretta (quella delle armi), giungendo a controllare circa il 20% di Ubi. Proprio Pietro Gussalli Beretta è stato il presidente di Ubi International dal 2013 al 2016. Forse c’è chi si oppone alla fusione anche perché teme che un estraneo come Carlo Messina, l’ad di Intesa, possa mettere il naso nei vecchi affari offshore dei suoi nuovi soci.

La Procura di Milano cerca di capire se è vero che c’è stata una trasmigrazione da Ubi International a Parvus. Quali cognomi hanno le “grandi famiglie bresciane” (e magari anche bergamasche) citate dallo scrupoloso Lucchini. Se ci sono ipotesi di reati fiscali e se sono azzerati o no dalla prescrizione. Se, oltre a eventuali reati fiscali, possono essere ipotizzati anche reati di market abuse, aggiotaggio, manipolazione di mercato. Nell’ultima puntata della appassionante serie House of Parvus accade che Mercadante partecipi all’ultima assemblea Ubi, quella dell’8 aprile 2020, portando solo il 5%, mentre ha in portafoglio più dell’8%. Come mai? Ha un pacchetto determinante per far celebrare o fallire il matrimonio tra Ubi e la banca Intesa Sanpaolo di Carlo Messina: non tutti i suoi quotisti sono d’accordo pro o contro il matrimonio con Intesa? Oppure sono gli stessi del Car e temono che, sommando l’8% di Parvus al 20% del Car, si superi la soglia del 25% che rende obbligatoria l’Offerta pubblica d’acquisto su tutto il capitale Ubi? I colpi di scena li vedremo nella prossima stagione della serie.

Tim, Enel e Cdp divise alla meta. Servono 5 mld

Riportare in salde mani statali la rete telefonica è cosa buona e giusta, come invoca Beppe Grillo, ma nessuno rivela in che modo reperire più di 5 miliardi di euro per cablare in fibra la nazione e offrire agli italiani, di metropoli e di provincia, connessioni veloci a Internet. Il governo non ha una posizione univoca, i partiti sono a dir poco polifonici, soprattutto i Cinque Stelle fondati dal medesimo Grillo, e le aziende coinvolte – Open Fiber, Enel, Tim – non accettano imposizioni.

IL MURO DI ENEL. Il primo passo è concettuale: non può esistere una rete unica se gli operatori sono due, l’ex monopolista Telecom e l’aspirante concorrente Open Fiber, in sigla OF, controllata con pari quota da Enel e Cassa Depositi e Prestiti. Il secondo passo è logico: la grande Telecom si pappa la piccina Open Fiber? Affinché questo possa accadere, Enel deve cedere il suo 50 per cento. A che prezzo? Telecom valuta OF non più di 3,5 miliardi di euro.

Francesco Starace, l’ad di Enel, si è sempre opposto sia alla vendita (se non ai suoi valori, cioè strapagata) sia alla svendita, poiché considera sinergici gli affari con la corrente elettrica e con la telefonia domestica. La realtà è che si è imbarcato in OF per assecondare il desiderio Matteo Renzi di sfidare Tim sulla fibra. Ricevuto il terzo mandato di fila con qualche tensione con i Cinque Stelle, Starace sembra più dialogante, ma alcune indiscrezioni, senz’altro apprezzate da Enel, hanno svelato l’interesse del fondo Macquarie per il suo 50 per cento in Open Fiber a una cifra più che esorbitante: 3,5 miliardi di euro. Se fosse così semplice, perché Enel non molla OF?

IL PIANO DI TELECOM. Luigi Gubitosi, l’ad di Telecom, avrà letto con piacere l’intervento di Grillo. Il comico ha ammesso di aver rinunciato all’imperativo morale di consegnare la rete solo a un soggetto pubblico, purché Cdp diventi l’azionista principale in Telecom. Oggi Cassa è il secondo con il 9,9 per cento dietro ai francesi di Vivendi al 24,9. Gubitosi non è contrario a un’avanzata di Cdp anche se il titolo in Borsa è ai minimi e Cassa ha intrapreso un buon confronto con Vivendi, dunque non è ostile a Vincent Bolloré. Telecom non è preoccupata dall’assetto finanziario di una futura società di rete, ma dal capitale da investire per illuminare mezza Italia con la rete in fibra ottica (il grosso è già allocato sul 5G per la telefonia mobile, tra costi per servizi e per frequenze): per posare la fibra servono circa 5 miliardi di euro, di cui almeno 3 per le aree nere o grigie (a media e alta concentrazione di mercato) e oltre 1,5 per le aree bianche, le più interne e impervie e meno appetibili (i cui bandi di Infratel furono vinti da OF con super sconti). Quel capitale necessario, a condizioni di successivo profitto, potrebbe arrivare dal fondo Kkr. Gli americani possono sostenere Cassa nel rilevare la quota di Enel in Open Fiber e poi fermarsi a un terzo della società della rete unica assieme a Tim in maggioranza e la stessa Cdp. Gubitosi si dà un orizzonte di un trimestre, la stagione estiva, per avviare e chiudere le trattative con Kkr e Cdp.

LE ESITAZIONI DI CDP. Cassa di Fabrizio Palermo deve superare la presenza inconciliabile in Open Fiber e in Telecom. Seppure i fallimentari ritardi di OF (che leggete a sinistra), viziati dagli eccessivi ribassi alle gare di Infratel, siano più che evidenti, Cdp difende ancora il progetto Open Fiber. Un atteggiamento che va letto come un’assoluzione di se stessi, ma anche di prudenza in prospettiva di altri esborsi. Cdp gestisce i risparmi postali, con poche centinaia di milioni di euro potrebbe aumentare il suo peso in Telecom, ma con quale obiettivo se mancano le risorse per creare la rete in fibra?

I DILEMMI DELLA POLITICA. Il ministero del Tesoro ricalca la linea di Gubitosi per altri motivi, non ritiene necessaria una “scalata” di Cdp in Telecom come suggerisce Grillo. I Cinque Stelle, lato sottosegretario Riccardo Fraccaro, vorrebbero che Cdp si impegnasse nella nuova società della rete, scorporata da Tim. Altri pentastellati, in scia al premier Giuseppe Conte, avallano l’ipotesi di Grillo. Il dibattito sulla rete unica è quantomai appassionante, resta il solito piccolo problema: chi mette i soldi?

Banda larga: in tre anni ritardi per tre anni

Il piano per la Banda Ultra-larga (BUL) ha un suo piccolo record fin d’ora: lanciato nel 2015, avrebbe dovuto concludere la sua prima fase entro il 2020, e invece nei suoi primi tre anni di vita effettiva (2018-2020) è riuscito ad accumulare un ritardo… di tre anni. Non è un refuso e non è una deduzione del Fatto: è quanto messo a verbale da Infratel, la società pubblica che agisce da “soggetto attuatore” per questa operazione, a fine gennaio nell’apposito comitato, che porta il nome esotico di CoBUL. Anche la società che ha vinto tutti i bandi per realizzare l’infrastruttura è peraltro semi-pubblica: si tratta di Open Fiber, partecipata alla pari da Enel e da Cassa Depositi e Prestiti.

I numeri, che vedete anche nell’infografica qui accanto e sono presi dal sito ufficiale, sono impietosi: i cantieri sono previsti in 7.146 Comuni, 98 ad oggi risultano finiti, vale a dire l’1,3%; altri 575 cantieri sono in fase di collaudo, un altro 8% (secondo gli open data dello stesso progetto, però, ci sono poco meno di 300 interventi in altrettanti Comuni con la dicitura “in programmazione” esclusi da questo conteggio). In questo disastro che unisce la nazione, i dati peggiori sono al Sud, dove di quegli investimenti c’è più bisogno: Calabria, Puglia e Sardegna ad oggi registrano “zero” cantieri conclusi o in collaudo e la miseria di otto cantieri “in esecuzione” in tutto. Infratel il 15 maggio ha applicato a Open Fiber la prima penale per ritardi nella progettazione definitiva: poco meno di un milione di euro.

Per capire tutto, conviene riavvolgere il nastro. La banda ultra larga dovrebbe far viaggiare la connessione Internet velocissima: è parte dell’Agenda digitale europea, che pianifica per il 2025 la cosiddetta “Gigabyte society”, basata su una rete talmente veloce da poter ospitare anche le tecnologie 5G, il cosiddetto “Internet delle cose” che solletica gli appetiti di Stati e grandi imprese di Tlc. Al di là delle legittime opinioni su quanto questo sia necessario e/o positivo, è un fatto che la connessione velocissima procede lentissima. Il piano BUL è stato lanciato 5 anni fa. Si trattava di aiutare con fondi statali ed europei la creazione dell’infrastruttura materiale nelle cosiddette “aree bianche”, quelle “a fallimento di mercato”. Per capirci, quei comuni (ad esempio montani) in cui nessun operatore privato avrebbe mai portato la rete veloce perché non sarebbe conveniente.

Si è scelto di procedere mettendo a gara vari lotti e affidando poi al vincitore la concessione per 20 anni sull’utilizzo dell’infrastruttura, stanziando contemporaneamente i fondi per “invogliare” famiglie, Pmi e Pubblica amministrazione (scuole, università, aziende sanitarie, etc.) a scegliere la BUL rispetto alla rete “normale”. Dell’attuazione di questo progetto – nel senso di stabilire il fabbisogno infrastrutturale, predisporre le gare e controllare i concessionari – è stata incaricata appunto Infratel, società in house del ministero dello Sviluppo economico da gennaio guidata da Marco Bellezza, fino ad allora consigliere di Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli proprio al Mise.

A partire dal 2015, Infratel ha fatto quel che doveva e predisposto le gare: i primi due bandi sono stati aggiudicati nel corso del 2017; l’ultimo per Calabria, Puglia e Sardegna s’è invece chiuso a inizio 2019. Tutti e tre se li è aggiudicati Open Fiber: il cronoprogramma presentato dall’azienda – e accettato da Infratel – prevedeva la conclusione dei lavori in 36 mesi, entro il 2020 insomma, anche se era chiaro che l’ultimo lotto sarebbe andato più in là. Il valore delle opere si aggira sui 2 miliardi e mezzo: circa un miliardo lo mette Open Fiber, che poi “venderà” per 20 anni l’accesso alla BUL (incentivato) agli operatori di mercato. Come detto, nelle riunioni del CoBUL di dicembre 2019 e gennaio 2020 Infratel ha spiegato ai ministri coinvolti – a partire da quella all’Innovazione, Paola Pisano – che per finire tutti i lavori si arriverà al 2023, scatenando una notevole incazzatura tra i presenti anche (ma non solo) perché in questo modo si rischia di perdere i relativi fondi Ue: quei soldi, infatti, sono parte della programmazione 2014-2020 e vanno rendicontati al massimo entro il 2022. Insomma, anche ammesso che si riesca a dirottarli su altro in tempo utile, bisognerà recuperare i soldi per la rete veloce nella nuova programmazione settennale, su cui – com’è noto – è in corso un feroce negoziato connesso anche al cosiddetto Recovery Fund. Oper Fiber a fine marzo la metteva così: “È stato identificato un piano che ci consente di poter dire che entro il 2022 tutte le Regioni, a esclusione di quattro, saranno completate”. Niente paura, insomma.

Uno potrebbe chiedersi: ma perché questi ritardi? Una scuola di pensiero diffusa nel governo è che Open Fiber non si impegna perché il progetto le interessa poco: ha capito che non è remunerativo. Secondo la società di Enel e Cdp – sfortuna a parte (in Veneto sostenevano di non trovare lavoratori) – invece è colpa della burocrazia. L’allora ad di Infratel, Domenico Tudini, a dicembre aveva elencato i seguenti ostacoli: gli ovvi ricorsi giudiziari (risolti), alcune difficoltà progettuali (s’è voluto riusare molte infrastrutture esistenti, che però spesso non erano nello stato descritto sulle carte), l’interazione con la rete Enel che rallenta i collaudi e una drammatica lentezza nell’ottenere i permessi. “Noi abbiamo 883 cantieri aperti e in qualche modo sospesi perché mancano i permessi: oltre 200 per colpa di Anas, oltre cento di Rfi”, a non dire di Soprintendenze e di “molte società regionali”.

Il lockdown ovviamente non ha aiutato e Open Fiber ora chiede procedure d’urgenza, semplificazioni, magari un commissario ad hoc. Il governo si appresta ad accontentare in qualche modo l’azienda nel prossimo decreto, anche se le sue responsabilità sono chiare a molti. Così, ad esempio, il ministro per il Sud, Peppe Provenzano, nel CoBUL di fine marzo ha gelato l’ad di Open Fiber, Elisabetta Ripa, che si lamentava delle prescrizioni del Cura Italia: “C’è un grande costo economico, politico e sociale che stiamo pagando per i ritardi accumulati fin qui: è paradossale parlare dell’ultimo decreto”. Un po’ paradossale se – come da apposito report – si scopre che “a fronte di 928 nuove attivazioni previste per il 2020, a metà aprile le nuove attivazioni sono state soltanto 39”. Tra poco, poi, si parte coi bandi per le “aree grigie”, quelle “a parziale fallimento di mercato”: l’obiettivo è il 2025, quindi meglio prepararsi per il 2028, se va bene.

E sui vitalizi i 5S restano a piedi

Uno non vale uno e lo hanno capito anche nel Movimento 5 Stelle. Il passaggio di Alessandra Riccardi dai banchi pentastellati a quelli della Lega al Senato è un guaio grosso. E non solo perché destinato ad assottigliare i numeri già esigui della maggioranza a Palazzo Madama dove ogni voto è già un’incognita. Ma il trasloco avviene anche a un altro prezzo: il Movimento perde ogni presidio negli organi di giustizia interna, quelli per intenderci che sono chiamati a decidere sui ricorsi contro il taglio dei vitalizi.

La Commissione contenziosa, l’organo di primo grado che è giusto convocato domani e dopo domani per decidere sulla legittimità del ridimensionamento degli assegni per gli ex senatori varato due anni fa, ora è composto dal presidente, Giacomo Caliendo di Forza Italia e due rappresentanti della Lega: Simone Pillon e appunto Riccardi che ha appena cambiato casacca. In secondo grado dove le decisioni divengono definitive, la presidenza del Consiglio di Garanzia tocca a un altro azzurro, Luigi Vitali: nel collegio vi sono poi un rappresentante del Pd (Valeria Valente), uno di Fratelli d’Italia (Alberto Balboni) e almeno in origine un solo leghista (Pasquale Pepe). I Cinque Stelle che esprimevano il vicepresidente sono rimasti anche qui a bocca asciutta dopo il trasloco, a dicembre scorso, di Ugo Grassi tra i banchi di Matteo Salvini.

L’esclusione del M5S dalla partita su vitalizi è definitiva. A differenza delle altre commissioni parlamentari che vengono rinnovate dopo il primo biennio della legislatura, i membri dei due organismi in questione infatti durano in carica cinque anni a prescindere dal gruppo a cui scelgono nel frattempo di aderire: è previsto che siano inamovibili, proprio come i magistrati.

Una regola simile vale anche per la Giunta per le autorizzazioni a procedere: in questo caso i membri non possono rifiutare l’incarico, né dare le dimissioni e neppure essere sostituiti dal presidente del Senato a meno che non siano impossibilitati a partecipare alle sedute per gravissimi motivi e per un periodo prolungato. Qui i 5 Stelle che a inizio legislatura potevano contare su ben 7 rappresentanti, oggi sono scesi a 4 dopo la fuoriuscita di Riccardi. E prima ancora di Mario Giarrusso e Gregorio De Falco approdati al gruppo Misto.

Al Senato si balla: addio maggioranza assoluta

Il M5S perde altri parlamentari, Nicola Zingaretti perde le staffe, ma Giuseppe Conte rischia di perdere più di tutti, la sua poltrona di presidente del Consiglio. Perché ha una maggioranza lacerata su tutto, anche sul decreto Semplificazioni, che slitta ancora. “C’è un clima strano” sussurrano i 5Stelle in Senato dove ieri Alessandra Riccardi ha lasciato il Movimento per approdare alla Lega di Matteo Salvini, l’ex ministro a cui aveva regalato un sorriso meno di un mese fa votando nella Giunta per le immunità contro il suo rinvio a processo per il caso della nave Open Arms. “Un mio passaggio alla Lega? Sono nel M5S”, rispondeva a voto ancora caldo Riccardi a chi le chiedeva di un suo passaggio al Carroccio. Ora nel M5S non c’è più, e il grillino Emanuele Dessì non nasconde i suoi sentimenti: “È una notizia per cui bisognerebbe stappare una bottiglia”.

Però, adesso, i giallorosa scendono a 160 voti certi a Palazzo Madama, uno in meno della maggioranza assoluta. E presto potrebbe andare peggio, perché ci sono almeno altri tre senatori in bilico nel Movimento. Senza dimenticare che altri rischiano l’espulsione per le mancate restituzioni. Di certo la prima da recuperare è la catanese Tiziana Drago, che qualche settimana fa si era astenuta nel voto sulla mozione di sfiducia per il Guardasigilli del M5S, Alfonso Bonafede. “Con questi numeri non reggiamo, diventerà indispensabile appoggiarci a Forza Italia”, ammettono dai 5Stelle. D’altronde la maggioranza non è serena neppure alla Camera, dove ieri il M5S ha perso l’ennesima deputata, Alessandra Ermellino, eletta nella Taranto dove i 5Stelle una volta erano la speranza.

È in questo scenario che esce allo scoperto il segretario dem Nicola Zingaretti. “Tra le forze politiche che sostengono il governo – scrive su Facebook – prevalgono i no, i ma, i se, i forse, le divisioni. Il motivo è ridicolo: si può governare insieme l’Italia, ma non una Regione o un Comune perché significherebbe alleanza strategica”. È un siluro a Italia Viva, ma soprattutto ai grillini, con cui sta saltando l’accordo in Liguria. “Tafazzi non è stato inventato per caso”, sostiene citando il personaggio che si martellava le parti basse. Ma non ha voglia di scherzare, Zingaretti. “Così si rischia di regalare mezza Italia a Salvini”, si sfoga sull’Huffington Post, dove fa trapelare sospetti su “un’intesa oggettiva” tra Salvini, Renzi e Di Maio per preparare una botola per Conte. Perché gli incontri tra l’ex capo del M5S e il leader di Italia Viva, confermati al Fatto dallo stesso Di Maio, hanno alimentato i timori sul Renzi deciso a tutto pur di abbattere il premier e assieme a lui il segretario dem. Da qui le candidature di renziani in tutte le Regioni, a partire dalla Puglia. Ma Zingaretti punge anche Conte: “Le tasse le abbiamo abbassate”, fa sapere, come a dire che è meglio lasciar stare con il taglio dell’Iva. Piuttosto, “la maggioranza dovrebbe chiudere capitoli aperti da troppo tempo: Alitalia, Autostrade e l’ex Ilva di Taranto”. Conte prova ad ascoltarlo, discutendo della concessione ad Aspi con due dem, il ministro dell’Economia Gualtieri e quello alle Infrastrutture De Micheli.

E da Palazzo Chigi rilanciano: “Il presidente non ha mai annunciato il taglio dell’Iva come una decisione già presa dal governo, ma la riduzione servirebbe come spinta ai consumi”. E il muro dell’Europa? “Il taglio dell’Iva non c’entra con il Recovery Fund, perché si farebbe con lo scostamento di bilancio”. Farebbe, condizionale di governo.

Angeli e demoni, chiesto rinvio a giudizio per 24 persone

Ci sono Federica Anghinolfi e Francesco Monopoli, i due ex responsabili dei servizi sociali della Val d’Enza, c’è Claudio Foti con la moglie Nadia Bolognini, i terapeuti “domini” del gruppo, e c’è Andrea Carletti, sindaco di Bibbiano, il paese al centro dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Il prossimo 30 ottobre si svolgerà la loro udienza preliminare: la Procura di Reggio Emilia infatti ha chiesto il rinvio a giudizio per 24 persone per la presunta mala gestio degli affidi di minori.

Oltre cento capi di imputazione, 155 testimoni citati, 48 parti offese tra cui anche la Regione Emilia-Romagna e il ministero della Giustizia, per il reato di frode processuale. Nel maggio del 2019 l’inchiesta, coordinata dalla pm Valentina Salvi con i carabinieri, porta a una serie di misure cautelari ipotizzando un vero business degli allontanamenti: i bambini sarebbero stati manipolati con ore e ore di psicoterapia per dire cose non vere, denunciare finti abusi e violenze mai subite da parte dei loro genitori. Documenti sulla base dei quali poi il tribunale dei minori era chiamato a decidere o meno l’affidamento. L’indagine accompagnò tutta la campagna elettorale per le Regionali, coinvolgendo aspramente anche il sindaco Pd Carletti che risponde oggi di reati legati al suo ruolo di amministratore e non di fatti che coinvolgono i minori direttamente.

Numerosi i reati contestati, a vario titolo, ai 24 tra cui truffa aggravata, depistaggio, falsa perizia, violenza o minaccia a pubblico ufficiale. Agli atti, oltre a un disegno di una bambina falsificato per testimoniare gli abusi, anche una serie di chat tra gli assistenti sociali di Reggio Emilia. “Anghinolfi non mi porterà a fondo insieme a lei, io quei cazzo di disegni glieli faccio ingoiare” scrive ad esempio Cinzia Magnarelli che ha ammesso di aver falsificato le relazioni per le pressioni dei superiori e ha patteggiato lo scorso febbraio una pena di un anno e otto mesi (pena sospesa).

Bankitalia, 8 milioni per rifare i giardini. E 4 per la “formazione comportamentale”

AAA cercansi facchini, giardinieri ma anche motivatori esperti in psiche umana. Firmato: Vincenzo Visco. Il governatore della Banca d’Italia non intende stare con le mani in mano quando il Pil precipita e la ripresa arranca. E così, mentre fosche previsioni economiche incombono come una sciagura, è già all’opera per fermare il declino. Almeno nell’Istituto di via Nazionale dove a luglio verranno affidati una serie di appalti a molti zeri che senza la pretesa di imprimere una scossa all’economia italiana, serviranno almeno a migliorare le perfomance dei suoi dipendenti e pure l’estetica del loro ambiente di lavoro.

Con un impegno di spesa di 8 milioni di euro si potrà rifare il look a giardini e aiuole e, per non lasciare nulla al caso, anche per il nolo di piante ornamentali che hanno sempre il loro perché tanto nella sede rappresentanza di Roma sia nella cittadella ipertecnologica di Frascati. Ma fermare il declino delle aree verdi con un massiccio ricorso all’attività di manutenzione si associa anche ad altri investimenti: altri 4 milioni e spicci serviranno dunque a garantire ai dipendenti dell’Istituto corsi di “formazione comportamentale e manageriale”: un’attività di coaching affidata tutor e docenti esterni incaricati, par di capire, di promuovere un cambio di mentalità e stimolare il lavoro di squadra, lo spirito di iniziativa e l’immaginazione ai piani alti di Palazzo Koch. Che, pare di capire, intende in ogni modo investire il massimo nel suo capitale umano: e così per 3 milioni verrà assicurato anche un servizio di valutazione dei comportamenti del management con l’obiettivo “di accrescere la consapevolezza gestionale dei capi e di favorire comportamenti improntati al rispetto e alla collaborazione fra tutto il personale della Banca d’Italia”. Ma pure ai piani bassi di Bankitalia, diciamo così, sono in arrivo novità: per i dipendenti inquadrati come operai, capi-officina e addetti alla sicurezza, Visco ha in programma almeno il rinnovo del guardaroba in modo che siano sempre e comunque impeccabili. Il budget, in questo caso, è certo più modesto: 139 mila euro più Iva per acquistare uno stock di cravatte “in pura seta jacquard”, ma anche, pullover, cappotti, e camicie bianche o azzurre per l’estate e per l’inverno. E poi uniformi (pantaloni per lui, gonna per lei da abbinare a giacche a tre bottoni, è di rigore il grigio per gli autisti) da modellare alla bisogna con eventuali interventi di piccola sartoria. E chi va via? 3,3 milioni di euro serviranno a pagare i traslochi dei dipendenti trasferiti di sede ma anche degli ex alle prese con gli scatoloni perché cessati dal servizio. Del resto, come insegna il vecchio Keynes, ogni volta che risparmi 5 scellini togli a un uomo un giorno di lavoro. Giammai.

L’Olanda si beve Milano, nuova sede legale per Campari

Dopo solo tre mesi dall’annuncio di fine marzo, Campari comunica ufficialmente che entro luglio la sede legale sarà trasferita in Olanda mentre le imposte continueranno a essere versate al fisco italiano. È l’ennesimo gruppo italiano che decide di spostarsi nei Paesi Bassi. È stata, quindi, revocata l’assemblea straordinaria del 26 giugno per fare marcia indietro, che i recessi in massa di una seria di soci (intorno a circa il 4% del capitale sociale) avevano messo in forse dopo il forte calo del titolo in borsa per l’emergenza coronavirus. A permettere il perfezionamento dell’operazione, togliendo di mezzo il rischio che il trasferimento venisse annullato per l’eccessiva onerosità, è stato l’intervento massiccio da 250 milioni di euro (pari al 2,6% del capitale sociale) della lussemburghese Lagfin, società di proprietà della famiglia Garavoglia e azionista di maggioranza del colosso degli alcolici. “Siamo molto felici di annunciare l’esito positivo dell’offerta iniziale”, ha commentato il ceo di Campari Bob Kunze-Concewitz, il quale ha spiegato che con “il trasferimento della sola sede legale non ci sarà nessun cambiamento organizzativo, di gestione e operatività aziendale”, ribadendo che la residenza fiscale del gruppo sarà mantenuta in Italia, a Milano. Si allunga così l’elenco dei nomi della meglio imprenditoria italiana che hanno portato aziende e holding all’estero: da Fca (sede legale in Olanda e fiscale in Inghilterra) alla holding di famiglia degli Agnelli, Exor (Olanda), alla Tenaris dei Fratelli Rocca (holding in Lussemburgo) alla Ferrero (Lussemburgo).