“Sono solo cinematografo. Contro Allen solo imbecilli”

Vittorio Storaro, professione: “Direttore della fotografia”.

Definizione sbagliata. Doppiamente: c’è un solo direttore al cinema ed è il regista; fotografia, poi, è espressione di una sola immagine, si dovrebbe parlare di cinematografia, fotografia in movimento.

Che fare?

Riconoscerci: siamo co-autori dell’opera cinematografica. Lo sceneggiatore lo è, il compositore pure, noi no.

Come dobbiamo chiamarla?

Cinematografo, all’americana cinematographer. Nei miei film sta scritto: “Cinematografia di Vittorio Storaro”.

Storaro è tra i massimi direttori della fotografia, pardon, cinematografi nella storia della Settima arte. Ha vinto tre Oscar: nel 1980 per Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, nel 1982 per Reds di Warren Beatty, nel 1988 per L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci. Domani compie 80 anni, il Sindacato giornalisti cinematografici ne premia i 50 di carriera, dal 1970 del triplete L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento e Strategia del ragno e Il conformista di Bertolucci. Il Nastro d’Oro gli verrà consegnato il 6 luglio al Maxxi (diretta su Rai Movie dalle 21.10) e Storaro è grato: “È la ciliegina sulla torta”.

Storaro, dei brutti film si dice abbiano una bella fotografia.

Un film è fatto di tre grandi arti: prima è venuta l’immagine, poi la musica, quindi la parola. Quando l’ultima difetta, ci si rifugia nella fotografia.

Ha esordito nel 1968 con Giovinezza, giovinezza: il destino nel titolo?

Allora mi esprimevo con la tecnologia, ma mi mancava la conoscenza. Lo capii entrando in chiesa, San Luigi dei Francesi a Roma: Michelangelo Merisi da Caravaggio, il ciclo di San Matteo, impazzii. Capii quanto fossi ignorante, e mi misi a studiare.

Ne ha fatto trilogia letteraria: Scrivere con la luce.

Lo dice la parola stessa, foto-grafia, ma ora ne sto realizzando un’altra: con Bernardo (Bertolucci) ho girato – il primo da assistente – dieci film in 25 anni. Penso a un libro, una mostra fotografica e il restauro di quei dieci titoli: fissarli nel tempo con un nuovo sistema digitale. Le nostre cineteche, Roma, Bologna e Milano, fanno solo restauro, ristampe dunque fotocopie sempre più sbiadite, manca la conservazione.

Chi era Bertolucci?

La psicanalisi gli facilitò una grande intuizione: sottrarsi all’ombra proiettata dal padre Attilio e, complice l’amico Pasolini e i film d’arte visti al cineclub di Parma, esprimersi nella poesia con la macchina da presa anziché la penna.

E venne Il conformista.

Coppola lo vide a New York e ne rimase scioccato: all’epoca si pensava che il colore fosse solo per commedie, western e musical, noi dimostrammo quanto si confacesse all’oscurità richiesta dal dramma.

Coppola le cambiò la vita.

Volle me, nonostante il mio inglese piccino, per Apocalypse Now. Mi chiese di tenere fede a Conrad e a distanza i telegiornali: un grande spettacolo surrealista.

Ha fatto le luci degli ultimi tre film di Woody Allen, e anche dell’inedito Rifkin’s Festival.

Rifkin’s è il suo Amarcord, Woody è uno dei più grandi scrittori che abbia mai conosciuto, ti fa capire senso e peso di ogni singola parola, un po’ mi ricorda Giuseppe Patroni Griffi.

In più è sotto accusa: anche il Timothée Chalamet del suo A Rainy Day in New York l’ha rinnegato.

Non ha danneggiato solo Allen, ma se stesso: l’hanno consigliato male, temo, mentre avrebbe dovuto dirgli grazie per quanto gli ha insegnato sul set. Per quelle accuse di molestie sessuali Woody è stato assolto due volte, test medici hanno comprovato l’illibatezza della figlia Dylan Farrow, di che stiamo parlando?

Il #MeToo non ha risparmiato nemmeno Bertolucci e Marlon Brando.

Di Ultimo tango a Parigi fui testimone oculare, la seconda macchina era a mezzo metro da Maria Schneider: non fu violentata, Brando non si sbottonò nemmeno. Il cinema non è realtà, altrimenti dovremmo credere che Brando sia morto nel ’72 su un balcone a Parigi. Informatevi, imbecilli.

Sa che per molti italiani a incarnare la sua professione è il Duccio della serie Boris, un cocainomane disilluso che non si fa problemi a “smarmellare” e “aprire tutto”?

Ognuno è libero di fare, dire e pensare ciò che vuole. Io ho iniziato a studiare fotografia a undici anni.

Il film che avrebbe voluto cinematografare?

2001: Odissea nello spazio, sconvolgente. Lo vidi con mia moglie incinta, l’indomani sul set di Giovinezza, giovinezza mi dimenticai dei giornalieri: parlavo solo di quello.

Colleghi che stima?

Luciano Tovoli e Daniele Nannuzzi. Tra i giovani, Paolo Ferrari.

Attori.

Marlon Brando, il più grande. Il magnetismo di Liz Taylor lo sentivi a cento metri, la più brava Vanessa Redgrave. Volonté, ci feci Giordano Bruno, oggi dico Kate Winslet, Giancarlo Giannini e Alessio Boni. Sa qual è il segreto?

Mi dica.

Lo stesso mio: il carattere, più che l’immagine. Chi sei, non come vuoi apparire: solo i mediocri hanno un profilo migliore.

Polli yankee? No, grazie. La Cina ora si vendica

Punture di spillo commerciali fra Cina e Usa, mentre l’Amministrazione di Washington continua a sparare bordate politiche e accuse sanitarie contro il regime di Pechino. L’epidemia di coronavirus fa da contesto, e offre una giustificazione, alle crescenti tensioni fra le superpotenze economiche del XXI Secolo. Preoccupato di evitare l’accusa di essere l’ ‘amico del giaguaro’, il presidente Donald Trump fa, ora, il duro: contraddicendo i suoi ministri, dice che “tagliare i ponti con la Cina” resta un’opzione e chiama l’epidemia di coronavirus ‘Kung flu’: un modo per attribuirne surrettiziamente la paternità alla Cina. Ma, in realtà, l’obiettivo del magnate è che Pechino rispetti l’impegno a comperare più prodotti Usa, agricoli e manifatturieri, come previsto dagli accordi conclusi nel novembre scorso. Sono in genere prodotti provenienti dagli Stati in bilico nelle presidenziali del 3 novembre, quelli che s’affacciano sui Grandi Laghi, Wisconsin, Ohio, soprattutto Michigan e Pennsylvania, e quelli del MidWest e delle Grandi Pianure cerealicole.

Facendo la voce grossa, Trump intende confutare le illazioni di John Bolton, suo ex consigliere per la Sicurezza nazionale, che, in un libro da oggi in vendita, lo accusa di mescolare spesso interesse nazionale e tornaconto politico personale e di avere chiesto al presidente cinese Xi Jinping di favorire la sua rielezione. La Cina, che s’era impegnata ad acquistare, nel 2020, 250 miliardi di dollari in più di prodotti ‘made in Usa’, ha ora sospeso le importazioni di pollame proveniente da impianti Usa dove ci sono stati focolai del virus. Provvedimenti analoghi sono stati presi anche nei confronti di impianti europei. Ma il clima tra Ue e Cina è diverso che tra Usa e Cina. Proprie ieri, Bruxelles e Pechino cercavano di rinsaldare, con un vertice in videoconferenza, la reciproca cooperazione, nonostante diffidenze sul coronavirus e riluttanze su alcuni dossier. Gli europei dicono: “Siamo pronti a lavorare insieme, ma ci aspettiamo che i cinesi si assumano le responsabilità adeguate a una grande economia”. Pechino è più positiva: “Insieme, vogliamo iniettare maggiore fiducia nell’economia mondiale… La reciproca collaborazione fra Ue e Cina è stata un esempio nella battaglia globale anti-pandemia”; una critica indiretta ma esplicita a Washington. Il giro di vite sull’import di pollame trattato in un impianto di Springdale, nell’Arkansas, di proprietà della Tyson Inc, è, commercialmente ed economicamente, quasi insignificante; giunge mentre le autorità di Pechino cercano di tenere sotto controllo un focolaio di contagio nella capitale e mentre quelle di Washington sono preoccupate perché, dopo la riapertura, il ritmo dei contagi sta aumentando in una ventina di Stati. Un portavoce della Tyson, citato da The Guardian, dice che l’azienda è conscia del problema e che lavora a stretto contatto con le autorità federali per fare il modo che i prodotti alimentari trattati rispettino gli standard governativi. L’azienda fa anche notare che le autorità sanitarie non hanno finora confermato la trasmissione del virus dagli alimenti all’uomo. Le esportazioni di pollame dagli Usa verso la Cina erano notevolmente aumentate, dopo che Pechino, otto mesi or sono, nel quadro degli accordi per sospendere l’applicazione dei dazi Usa sull’export cinese, aveva posto termine a un bando durato quasi cinque anni. Ma le autorità cittadine della capitale cinese hanno ora incrementato i controlli sull’import alimentare, dopo l’esplosione d’un nuovo focolaio in un mercato alimentare, dove è stato messo sotto accusa, e poi scagionato, il salmone norvegese.

Hidalgo, l’unica donna che fa sorridere la gauche

La capitale resterà a gauche? L’ultimo sondaggio BVA lo conferma: la socialista e sindaca uscente, Anne Hidalgo (a sinistra nella foto) resta favorita davanti alla rivale della droite, l’ex ministra di Sarkozy, Rachida Dati (a destra), nel ballottaggio di domenica 28 giugno. La Hidalgo raccoglierebbe il 45% dei voti contro il 34% per la sfidante. I francesi si preparano dunque a tornare al voto, a Parigi e in poco meno di cinquemila comuni. In realtà il voto si sarebbe dovuto tenere tre mesi fa, il 22 marzo, ma, con l’epidemia di Covid-19 la vita politica era stata congelata. Malgrado il virus, il primo turno del 15 marzo era stato invece mantenuto e la socialista, alla guida della città dal 2014, aveva ottenuto il 29,3% dei voti, contro il 22,7% per la rivale di Les Républicains. La rielezione sembra ora a portata di mano per lei anche grazie all’alleanza con l’ecologista David Belliard che le garantisce un apporto di voti di più del 10%. Era stato un primo turno surreale. Macron aveva appena ordinato la chiusura di bar, ristoranti e negozi e si preparava a due mesi di lockdown (che sarebbe scattato il 17 marzo), ma aveva lo stesso invitato i francesi a recarsi alle urne. Molti pensano ancora che mantenere quel voto sia stato un errore. Il risultato era stato un’astensione record del 55,3%. All’epoca la Francia contava poco più di cento morti di Covid, ma chi era andato ai seggi non era attrezzato contro il virus, mascherine e gel per le mani erano rari.

Tre mesi dopo, con un bilancio di circa 30 mila morti, i messaggi sul piano sanitario sono incoraggianti e nei seggi la mascherina sarà obbligatoria. Ma non è detto che i francesi andranno a votare: per l’Ifop solo il 38% avrebbe intenzione di farlo. Per Parigi, anche se ora il risultato appare quasi assodato, si era capito da tempo che la battaglia si sarebbe combattuta a due. Nella lotta tra donne, la terza sfidante, Agnès Buzyn, candidata del partito di Macron LaRem, era partita male e in ritardo sin dall’inizio. L’ex ministra della Salute si era lanciata nella corsa per la capitale malgrado l’epidemia alle porte e solo per sostituire il primo candidato di Macron, Benjamin Grivaux, implicato in uno scandalo a sfondo sessuale. Al primo turno Buzyn ha raccolto il 17,3% dei voti. Sospettata di non aver saputo gestire l’emergenza della crisi (per questo sarà anche convocata dalla commissione d’inchiesta parlamentare), Buzyn sembra ormai in cattiva luce e fuori gioco: al ballottaggio, da sondaggio BVA, potrebbe restare ferma al 18%. Va male dunque per il presidente che esce dalla crisi sanitaria sempre più impopolare (da Ifop solo il 38% dei francesi lo appoggia) e deve mettere da parte il sogno di strappare la capitale ai socialisti, alla guida dalla città dal 2001, cioè dal primo mandato di Bertrand Delanoë. Oltre a Parigi Macron ha già perso anche Lione, dopo che il sindaco uscente Gérard Collomb, suo (ex) fedelissimo, ha stretto un’insospettabile alleanza con la destra e ritirato la sua candidatura. Domenica resta però una data cardine per Macron. Il presidente ha promesso che dopo le municipali darà “una svolta” alla sua politica per rilanciare il paese colpito dall’epidemia. Il rimpasto di governo è imminente. Da questo punto di vista, gli occhi si rivolgono alla città di Le Havre, grande porto della Normandia, dove il premier Edouard Philippe, candidato alla poltrona di sindaco, ha buone probabilità di essere eletto: già primo cittadino di Le Havre dal 2010 al 2017, Philippe è al contrario di Macron sempre più popolare (è apprezzato dal 50% dei francesi, secondo l’Ifop). Tra i due uomini sono emersi diversi screzi durante la crisi. Se Philippe resterà o no alla testa del governo molto dipenderà anche da questo scrutinio.

Il flop di Trump tra virus, TikTok e pop coreano

Una donna in Iowa e dei cantanti pop coreani: ecco cosa c’è dietro il flop del comizio di Trump. Il mezzo? Il social network cinese che spopola tra i giovanissimi grazie ai suoi micro-video, Tik Tok.

Prima, c’era Instagram. Qui, il business degli influencer era sponsorizzare prodotti. Zero impegno politico (che non fa bene agli affari) e poca protesta. Poi è arrivato Tik Tok, gli adolescenti vi ci sono spostati in massa. Per ora privo di un eccessivo inquinamento da marketing, è ancora una zona franca per la creatività. Balli, canzoni, sketch, ironia e satira. Fa tendenza anche l’attivismo. Certo, dire che a svuotare il palasport del primo comizio post-Covid di Donald Trump siano stati i tik toker è riduttivo per due motivi: il primo è che non si è trattato di semplici tik toker, il secondo è che non è stato l’unico movente.

Il comizio è stato un flop. Il palazzetto da 19mila posti scelto per la kermesse era semi vuoto, c’erano solo 6.200 persone. Nei giorni precedenti gli organizzatori avevano parlato con orgoglio di oltre un milione di prenotazioni: c’erano davvero, ma non erano reali. Gli utenti di Tik Tok per giorni hanno prenotato tantissimi biglietti (anche con numeri di telefono fasulli e diffondendo istruzioni precise su come ottenerli) per poi dare buca. A dar voce alla beffa, tra tutti, è stata l’esponente del Partito Democratico Alexandria Ocasio-Cortez su Twitter. Ma non si è trattato di un semplice passaparola tra i “teens di Tik Tok” bensì di un sistema più complesso e sorprendente che unisce i (finti?) fan di alcune band coreane, una donna in Iowa e gli algoritmi che rendono virali i contenuti sui social. In pratica, dopo che l’account ufficiale della campagna di Trump ha twittato chiedendo ai sostenitori di registrarsi per biglietti gratuiti utilizzando i loro telefoni, gli account dei fan dei cosiddetti gruppi K-pop hanno iniziato a condividere le informazioni con i follower, incoraggiandoli a registrarsi. La tendenza si è rapidamente diffusa, insieme a video con milioni di visualizzazioni in cui si chiedeva di fare lo stesso. Una cascata su migliaia di utenti. “Si è diffuso principalmente attraverso Alt TikTok – ha spiegato al New York Times lo Youtuber 26enne Elijah Daniel – lo abbiamo tenuto in una zona tranquilla dove le persone fanno scherzi e molto attivismo. K-pop Twitter e Alt TikTok hanno una buona alleanza, diffondono rapidamente le informazioni tra loro. Conoscono tutti gli algoritmi e come possono aumentare i video per arrivare dove vogliono”.

L’aspetto divertente è che quando si parla di “Alt Tik Tok” e “K-Pop Twitter” ci si riferisce soprattutto ad un modo di stare sul social (non a un gruppo definito) che unisce coloro che usano i social in modo scherzoso e dissacrante (“Alt” sta per “alternativo”) fino a trasformarsi in attivisti, anche loro malgrado. I fan dei cantanti coreani (ancora non è chiaro se siano veri ammiratori o solo troll) lo fanno spesso: hanno inquinato la campagna di auguri per il compleanno di Trump inondandola di messaggi di scherno e spingendo gli altri a fare lo stesso oppure hanno intasato con immagini delle band coreane il sistema attraverso cui, a inizio giugno, la polizia di Dallas aveva chiesto ai cittadini di inviare video di attività sospette o illegali. Hanno anche rivendicato l’hashtag #WhiteLivesMatter a maggio, spammandolo con infiniti video del gruppo pop, nella speranza di rendere più difficile per i suprematisti bianchi trovare e condividere i propri messaggi durante le proteste del movimento Black Lives Matter. Ma non solo. Mary Jo Laupp, una 51enne di Fort Dodge in Iowa, ha registrato un video invitando all’azione contro il comizio: ha avuto 2 milioni di visualizzazioni e in 12 ore 700mila “Mi piace” ed è diventato sorprendentemente virale grazie agli algoritmi che “armonizzano” e collegano i tiktoker affini.

Certo, il fallimento del comizio è stato dovuto anche ad altro: i biglietti a disposizione erano infatti illimitati, dunque c’era posto per chiunque e la prenotazione serviva solo a tastare il polso degli elettori e raccogliere dati. L’Oklahoma, poi, è uno stato in cui la vittoria dei Repubblicani è quasi certa. Secondo i media, al timore di trovarsi in mezzo ad un milione di persone si è aggiunta la paura per il coronavirus e il fatto che le autorità locali avessero espresso perplessità sul comizio organizzato senza imporre mascherine o distanziamento.

Sagre sì, salotti tv zero. Ecco Zaia, il leghista che risolve problemi

Non ha la panza del peronista bevitore di Peroni. Non si traveste da poliziotto o da pompiere. Non sventola il rosario ai comizi. Non chiude i porti per vantarsene in tv. Non dice ai poveracci che è finita la pacchia. Non mangia ciliegie sputando l’osso, mentre si parla di bambini morti. Non citofona chiedendo se sei uno spacciatore. Non dice a Bruxelles ‘siete un branco di burocrati e ubriaconi’, per poi chiedere l’ombrello all’Europa appena piove. Non si fa i selfie in spiaggia con le cubiste leopardate che ballano l’Inno di Mameli. Non annega un intero governo in un mojito per poi dire scherzavo. E nemmeno si sognerebbe di dire: “Ma potrò togliermi la mascherina davanti a una signora, o no?”, che resterà una tra le migliori idiozie generate dall’emergenza cerebrale scoppiata tra i titolari dell’opposizione.

Il chi non è si chiama Luca Zaia, 52 anni, plenipotenziario del Veneto, l’aria di uno che si sente a cavallo anche quando va piedi, giacca, cravatta, pantaloni a sigaretta. Leghista di conio veneto, con radici agricole e fronde impomatate con il gel. Uno che nella salita di questi mesi ha distaccato così tanto il suo segretario di partito, da averlo trasformato in una maschera al tramonto. Un gregario lasciato ad arrancare nel tunnel della Lombardia con i due compari più spompati, Attilio Fontana e Giulio Gallera, che ancora non hanno capito dove sono, cosa è accaduto e se qualcuno – a parte Bertolaso – li ha cercati.

Zaia, quando ha visto arrivare le nuvole della pandemia, ha puntato la sveglia alle 4.30 di tutte le mattine a seguire, è sceso in trincea con la dottoressa Francesca Russo, capo del suo Servizio prevenzione, ha arruolato i medici di base, messo le tende riscaldate fuori dagli ospedali, ingaggiato il virologo migliore, Andrea Crisanti, quello che ha isolato il focolaio di Vo’ e fatto tamponi a tappeto. Risultato: un decimo dei contagiati e un decimo dei morti rispetto alla Lombardia, sorella di autonomia, di reddito, ma non della stessa lega, metallurgicamente parlando.

Il consuntivo Luca Zaia lo indossa nello sguardo, ma non lo commenta. Dice: “Basta paragoni, non è bello e non mi interessa”. E poi: “Sono solo un buon amministratore, uno che risolve problemi e gli piace”.

Dice che conosce tre cose al mondo: i cavalli, il vino e un po’ anche gli uomini. La passione per i cavalli l’ha ereditata dal nonno. I vini li ha studiati all’Istituto di Enologia Cerletti di Conegliano, dove si è diplomato. In quanto agli uomini, cioè al serenissimo popolo della Nazione Veneta, ci è nato dentro, visto che nella sua infanzia tra le colline del prosecco e gli orti di radicchio, viveva in fattoria, col le galline in cortile e il tavolo da pranzo lungo otto metri “dove mangiavamo con nonni, zii e diciassette bambini”. Il resto glielo hanno insegnato i mestieri fatti in gioventù (“ho aperto la mia partita Iva a 18 anni”) il contadino, il cameriere, il muratore, ma specialmente il pr e i mille chilometri al mese masticati sulla Citroën 2 Cavalli, per organizzare le serate nelle discoteche della provincia di Treviso che avevano nomi da fumetto, il Diamantik, il Desiree, il Kolossal, e intrecci sentimentali da feuilleton. In una puntata ci è finito anche lui, quando ha incontrato Raffaella, segretaria d’azienda, con la quale ha messo su casa in un paesello trevigiano che sembra uno scioglilingua Bibano di Godega di Sant’Urbano più lungo dei suoi 6 mila abitanti.

Dopo due figli, il terzo nato è la politica, incrociata sul pratone di Pontida, anno 1993, quando ha visto per la prima volta l’Umberto Bossi da vicino, anzi “gli ho dato la mano ed ero emozionato”. E siccome Bossi gli disse sei dei nostri, ma senza il punto di domanda, un paio di anni dopo si ritrova nel suo primo consiglio comunale e a 30 presidente della Provincia di Treviso, il più giovane d’Italia.

Nei cinque anni successivi, invece di gridare Roma ladrona, inaugura 18 scuole, 400 rotatorie, capannoni e fabbriche riconvertite in spazi pubblici. Parla con tutti, imprenditori, sindacati, allevatori. E ascolta tutti. Non fa proclami, ma progetti. A forza di andare a Roma a chiedere soldi per i suoi contadini, Berlusconi nel 2008 lo chiama al ministero dell’Agricoltura. Dove affina le sue doti di massaggiatore democristiano, protegge le nostre eccellenze agricole, tra le quali anche quella di truffare sulle quote latte e sulle multe europee che il fior fiore dei secessionisti faranno pagare allo Stato centralista, cioè a noi.

Il Veneto ringrazia, lo acclama governatore con il 60 per cento dei voti nell’anno 2010. E lì si accomoda per i dieci anni successivi. Ereditando il disastro, anche criminale, dell’indimenticato Giancarlo Galan, nidiata Publitalia, quindi Dell’Utri, che ruba il rubabile, finisce in carcere, condanna patteggiata, disonore a vita.

Popolare più che populista, Zaia non si perde una fiera, una sagra: “Mi piace la mia gente, sono uno che parla italiano, ma ancora pensa in veneto”. Niente salotti, niente cene, niente mondanità, a parte le serate alla Biennale Cinema, dove compare con moglie e pettinatura adeguata.

Siccome non cerca rogne sta distante dalla politica nazionale. E dentro la Lega sta vicino a tutti i segretari in transito, prima Bossi, poi Maroni, poi Salvini, almeno fino alla svolta iper sovranista e alla frontiera del Covid-19. Un doroteo vecchio stampo. Un moderato che avvita la politica un giorno alla volta, come suo padre faceva con i ricambi in officina.

In cima alla Regione – dove ha vietato ai dirigenti l’auto blu – predica l’autonomia fiscale, guai a chi tocca gli schei, libertà d’impresa per i suoi capannoni, i suoi campi, rispetto per gli immigrati regolari che ci lavorano, strade per far correre le merci, scuole per il futuro dei ragazzi, tutela del passato. Nel titolo del suo primo libro Con le scarpe sporche di terra, c’è tutta la filosofia di Zaia, retorica compresa. Se darà frutti nazionali lo vedremo. Il migliore sarebbe diventare quello che non è ancora, archiviando il Capitano.

“Amato fu lasciato solo: i Nar protetti da Servizi e Arma”

Lunedì 23 giugno 1980. È una mattina in cui le nuvole che si addensano nel cielo di Roma annunciano un temporale. Un uomo, solo, sta aspettando l’autobus per andare in ufficio, al Palazzo di giustizia. Un giovane si avvicina e gli spara un colpo alla nuca. Muore così Mario Amato, il sostituto procuratore che aveva ricevuto dal suo capo, Giovanni De Matteo, tutti i procedimenti sull’eversione di destra a Roma. Giuliano Turone – che da giudice istruttore scoprì nel 1981 le liste della P2 – ha raccontato quella mattina di giugno in uno dei capitoli del suo ultimo libro, Italia occulta (Chiarelettere).

Chi uccide Amato?

A sparare è Gilberto Cavallini, condannato in via definitiva insieme ai suoi complici dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari): Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, all’epoca minorenne, che accompagnò in moto Cavallini sul luogo del delitto. Durante il processo, rivendicano spavaldamente l’omicidio: “Il giudice Amato era particolarmente odiato nell’ambiente di destra”, dice Cavallini. Fioravanti: “Confermo… Io sono stato uno di coloro che hanno pensato e deciso l’uccisione di Amato”. Mambro: “Rivendico l’omicidio Amato”.

Perché viene ucciso?

Amato, quando nel luglio 1977 prende servizio presso la Procura della Repubblica di Roma, non ha ancora quarant’anni. Ben presto si trova a essere l’unico magistrato della Procura a doversi occupare di eversione di destra, per la decisione irresponsabile del procuratore De Matteo, che gli affida tutti i procedimenti sui “neri” rimasti aperti dopo che era stato ucciso il giudice Vittorio Occorsio. Dopo la morte di Amato, De Matteo sarà indagato a Perugia per omissione d’atti d’ufficio, ma con un’indagine scandalosamente lacunosa da cui uscirà senza neanche un rimbrotto.

Amato viene lasciato solo.

Si rende conto che, essendo l’unico a conoscere i risultati delle investigazioni sulla destra eversiva romana, la sua eliminazione rappresenterebbe un enorme vantaggio per i neofascisti indagati. Chiede ripetutamente per iscritto al procuratore di essere affiancato da altri colleghi. Invano. Chiede di essere protetto. Invano. Si rivolge due volte anche al Consiglio superiore della magistratura. Il suo ultimo appello al Csm è una commovente orazione civile. Non viene ascoltato.

Poco più di un mese dopo l’uccisione di Amato, il 2 agosto 1980 esplode la bomba nella stazione di Bologna. I responsabili sono gli stessi. Avevano progettato di uccidere, oltre ad Amato, anche il giudice di Treviso Giancarlo Stiz, il primo che nei primi anni Settanta aveva indagato sulla “pista nera” per la strage di piazza Fontana. Nel 1980 la scena eversiva era occupata dalla loggia P2 di Licio Gelli. Che rapporti ci sono tra i Nar e la P2?

I Nar erano legati ai servizi segreti (Sismi e Sisde), che all’epoca erano diretti da uomini affiliati alla P2, rispettivamente i generali Giuseppe Santovito e Giulio Grassini. Inoltre, godevano della protezione di settori dei carabinieri fedeli alla loggia e al sua sistema di potere occulto. Tanto per fare qualche esempio, in un covo dei Nar scoperto a Torino nel 1982 sono stati sequestrati tesserini di riconoscimento dell’Arma già predisposti per fungere da documenti falsi, con il timbro tondo “Legione Carabinieri Brescia” e con già apposta la firma del relativo comandante, il colonnello Giuseppe Montanaro, iscritto alla loggia P2, tessera numero 906. Dopo qualche mese, il latitante Gilberto Cavallini viene arrestato e viene trovato in possesso di uno di quei tesserini, con la sua foto e intestato a un ipotetico carabiniere fasullo e con tanto di firma del colonnello piduista. Quanto a Valerio Fioravanti, è stato ammesso alla Scuola allievi ufficiale, pur risultando già implicato in gravissimi reati che continuò a commettere anche durante il servizio: con il grado di sottotenente di complemento ha comandato un plotone fucilieri a Vacile di Spilimbergo dall’8 febbraio al 18 luglio 1978, ma il 28 febbraio era a Roma, a uccidere l’operaio Roberto Scialabba. E nel mese di maggio 1978 si è reso responsabile del furto di una settantina di bombe a mano Srcm, poi utilizzate in parte per attentati. Fioravanti non ha mai subito conseguenze penali per quel furto, pur essendo documentato che i servizi segreti fossero perfettamente al corrente che autore del furto era lui. E non fu fatto nulla neanche per recuperare le bombe.

Salvini & C. s’appropriano del nuovo ponte di Genova

Salvini e il centrodestra si appropriano del nuovo ponte di Genova. Ieri sul viadotto, ancora in fase di ultimazione, è passata la prima auto. E subito dopo a percorrere la struttura sono piombati i vertici locali e nazionali della Lega e del centrodestra: ecco il segretario Matteo Salvini. Accanto a lui in cantiere è arrivato anche Edoardo Rixi, che l’anno scorso si era dovuto dimettere dalla carica di vice-ministro dopo una condanna in primo grado a tre anni e cinque mesi per l’inchiesta spese pazze della Regione Liguria. Oggi è il responsabile Infrastrutture della Lega. Con loro c’erano il governatore della Liguria, Giovanni Toti, e il sindaco di Genova Marco Bucci. Presente anche Pietro Salini, amministratore delegato di Webuild, la società impegnata nella realizzazione del ponte. Una sfilata che ha suscitato critiche, non soltanto a Genova.

Ormai non passa giorno che i vertici del centrodestra locale non facciano la loro apparizione sull’opera: sabato gli stessi Toti e Bucci erano già passati, stavolta a piedi.

I cantieri del ponte, nell’anno delle elezioni regionali in cui Toti corre per la conferma, stanno assumendo un significato sempre più politico. Dall’inizio dei lavori le cerimonie non si contano più: quattro soltanto nei primi otto mesi di cantiere. Prima l’inizio dei lavori, poi la prima pietra, quindi il grande show della demolizione del Morandi e la posa del primo impalcato. Da allora quasi ogni tappa dell’opera è stata salutata con una cerimonia. Non senza polemiche, come quando le istituzioni genovesi avevano chiesto l’invio delle Frecce Tricolori a fine maggio (proprio nei giorni in cui erano previste le elezioni, poi rinviate causa Covid). Per non dire della festa con concerto prevista per fine luglio. In molti l’hanno criticata perché poco rispettosa delle vittime. Ora da pochi giorni la soletta è percorribile e in 48 ore politici e tv sono arrivati due volte.

Teschi e lettere intimidatorie, il lockdown non ferma le minacce ai sindaci: già 149 casi

Lettere con minacce di morte, e poi intimidazioni sui social network, scritte sui muri e perfino un teschio indirizzato al sindaco di Monte Sant’Angelo, un comune di 11 mila abitanti in provincia di Foggia. Nel corso del 2019, ogni 15 ore si è registrata una minaccia ad amministratori e politici locali, per un totale di 559 atti di intimidazione. E i primi mesi del 2020 non sono stati da meno: calcolando le fasi di lockdown quando ovviamente il fenomeno ha subito una decrescita, tra gennaio e metà marzo gli “amministratori sotto tiro” sono stati ben 149. Sono i dati raccolti dall’associazione Avviso Pubblico che raccontano un fenomeno che lo scorso anno non ha risparmiato neanche una regione. Sono numeri preoccupanti, che restano comunque incompleti se si pensa a quanti siano i casi “sommersi”, quelli che non vengono denunciati o non finiscono sulla stampa.

“Sono state 83 le Province coinvolte – oltre il 75% del territorio nazionale – e 336 i Comuni colpiti, il dato più alto mai registrato”, riportano i report dell’associazione. Nel 2019, per il terzo anno consecutivo, la Campania si conferma la regione in cui si è registrato il maggior numero di intimidazioni a livello nazionale. Ma anche al Centro-Nord i casi non sono stati pochi. “Il 61% del totale dei casi censiti – riporta Avviso Pubblico – si è registrato nel Mezzogiorno, in particolare il 42,6% dei casi nel Sud e il 18,6% nelle Isole. Il restante 39% del totale si è verificato nel Centro-Nord, dove si riscontra un aumento del 5.5% delle minacce e intimidazioni rispetto al 2018”. Lo scorso anno infatti ci sono stati 46 atti di intimidazione in Lombardia, “un nuovo record per le regioni del Centro-Nord Italia”.

Violenze e minacce aumentano in vista delle elezioni. Lo scorso anno infatti proprio ad aprile “si è riscontrato il maggior numero di intimidazioni: 58 casi”. “Una conferma di come il periodo della campagna elettorale – nel maggio 2019 sono stati chiamati al voto il 48% dei Comuni italiani – sia in assoluto il più difficile”, è scritto nel report. “Preoccupa – si aggiunge – il raddoppio della percentuale di minacce rivolte ai candidati alle elezioni amministrative. In più di un’occasione le intimidazioni hanno indotto le vittime a decidere di rinunciare alla candidatura”. Non sempre dietro le minacce ci sono gruppi criminali: “Un terzo – spiega Avviso Pubblico – trae origine dal malcontento suscitato da una scelta amministrativa sgradita. Un altro 18% è riferibile a un vero e proprio disagio sociale, come la richiesta di un sussidio economico”. Per oggi il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha annunciato un vertice sulle minacce ai sindaci.

Critiche a Bonomi, Il Sole censura De Benedetti

Prenderla male quando si toccano i propri interessi e censurare una intervista: accade in casa Confindustria e a raccontarlo è stato, ieri sera in collegamento a Otto e Mezzo su La7, Carlo De Benedetti. Si parlava di Confindustria, dei toni del presidente Bonomi ritenuti “sbagliati” fino a sfiorare l’“eversività”. Poi la chicca: “Mercoledì un giornalista del Sole 24 Ore ha contattato l’addetta alle relazioni con la stampa per una intervista – ha detto De Benedetti –. L’intervista è stata fatta, io ero contento lo era il giornalista. Poi mi è arrivata una telefonata, il giornalista mi spiegava che il direttore era su tutte le furie perché Stefano Feltri (ex vicedirettore del Fatto Quotidiano e direttore di Domani, il nuovo quotidiano di De Benedetti che arriverà in autunno, ndr) nella sua newsletter destinata ai lettori aveva criticato Bonomi. E che l’intervista non sarebbe uscita”. De Benedetti ha spiegato di aver inviato un messaggio al direttore del giornale di Confindustria, ma senza ricevere risposta e che l’intervista parlava della nuova impresa editoriale senza alcun riferimento a Confindustria. Tutto questo, ha detto, è “poco rispettoso della libertà di stampa”. “È molto grave quello che di cui parliamo – ha detto Antonio Padellaro, presidente del Fatto Quotidiano che invece era in studio – Il Sole 24 Ore è il giornale della Confindustria: un evento senza precedenti che denota lo stato di sottomissione di alcuni giornali rispetto a chi non segue la linea. Immagino che se Feltri avesse criticato Conte anziché Bonomi, l’intervista sarebbe uscita. Significa che la linea è dare addosso a chi non fa il gioco di Confindustria”. I giornali, ha sottolineato De Benedetti (escludendo Cairo e il Fatto ) hanno interessi economici prevalenti. “Non credo sia stata una scelta dettata dalla paura della concorrenza – ha concluso – è una semplice censura su una intervista che non parlava di Confindustria, ma solo del giornale. Se vorrà pubblicarla, la leggerete”.

L’ILO: “Il virus taglierà 305 milioni di posti”

La catastrofe economica dovuta al Covid-19 farà perdere 305 milioni di posti di lavoro a livello globale. Ecco quanta occupazione sarà travolta nel secondo trimestre 2020, dice l’Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo). Una cifra pari a cinque volte l’intera popolazione italiana, ma in realtà le persone colpite saranno anche di più, perché quel numero si riferisce alle unità full-time, mentre molti impieghi scomparsi sono part-time.

I più danneggiati saranno quelli che lavorano irregolarmente, per i quali la povertà relativa salirà del 34%. Ma anche le donne, visto che metà delle lavoratrici mondiali farà i conti con questa crisi, e i giovani, poiché sono in 178 milioni, quattro su dieci, quelli occupati nei settori più a rischio di subire l’impatto del blocco. Questo, combinato con l’interruzione dei percorsi di formazione e tirocinio imposti dal distanziamento sociale, farà nascere quella che l’Ilo chiama “generazione lockdown”. Le restrizioni alla produzione hanno riguardato il 94% dei lavoratori. I settori più colpiti sono le strutture ricettive e la ristorazione, il commercio, la manifattura e i servizi amministrativi e immobiliari.

Ma le cose peggioreranno con il tempo pure per chi finora si era salvato: l’agricoltura, che dà lavoro a quasi 900 milioni di persone, subirà una contrazione per il calo degli scambi commerciali. Persino gli aspetti positivi nascondono insidie: lo sviluppo del lavoro da remoto potrebbe accelerare l’utilizzo di tecnologie ma creare nuove disparità.

La situazione del lavoro a livello mondiale era già problematica prima della pandemia. Solo il 57% della popolazione in età lavorativa (3,3 miliardi) era occupata, in maggioranza irregolarmente. I disoccupati erano 188 milioni, ai quali si aggiungevano 165 milioni di sotto-occupati. Con uno scenario simile, erano tanti i passi in avanti da compiere. Ora però stiamo compiendo un gigante passo indietro.