Vittorio Storaro, professione: “Direttore della fotografia”.
Definizione sbagliata. Doppiamente: c’è un solo direttore al cinema ed è il regista; fotografia, poi, è espressione di una sola immagine, si dovrebbe parlare di cinematografia, fotografia in movimento.
Che fare?
Riconoscerci: siamo co-autori dell’opera cinematografica. Lo sceneggiatore lo è, il compositore pure, noi no.
Come dobbiamo chiamarla?
Cinematografo, all’americana cinematographer. Nei miei film sta scritto: “Cinematografia di Vittorio Storaro”.
Storaro è tra i massimi direttori della fotografia, pardon, cinematografi nella storia della Settima arte. Ha vinto tre Oscar: nel 1980 per Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, nel 1982 per Reds di Warren Beatty, nel 1988 per L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci. Domani compie 80 anni, il Sindacato giornalisti cinematografici ne premia i 50 di carriera, dal 1970 del triplete L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento e Strategia del ragno e Il conformista di Bertolucci. Il Nastro d’Oro gli verrà consegnato il 6 luglio al Maxxi (diretta su Rai Movie dalle 21.10) e Storaro è grato: “È la ciliegina sulla torta”.
Storaro, dei brutti film si dice abbiano una bella fotografia.
Un film è fatto di tre grandi arti: prima è venuta l’immagine, poi la musica, quindi la parola. Quando l’ultima difetta, ci si rifugia nella fotografia.
Ha esordito nel 1968 con Giovinezza, giovinezza: il destino nel titolo?
Allora mi esprimevo con la tecnologia, ma mi mancava la conoscenza. Lo capii entrando in chiesa, San Luigi dei Francesi a Roma: Michelangelo Merisi da Caravaggio, il ciclo di San Matteo, impazzii. Capii quanto fossi ignorante, e mi misi a studiare.
Ne ha fatto trilogia letteraria: Scrivere con la luce.
Lo dice la parola stessa, foto-grafia, ma ora ne sto realizzando un’altra: con Bernardo (Bertolucci) ho girato – il primo da assistente – dieci film in 25 anni. Penso a un libro, una mostra fotografica e il restauro di quei dieci titoli: fissarli nel tempo con un nuovo sistema digitale. Le nostre cineteche, Roma, Bologna e Milano, fanno solo restauro, ristampe dunque fotocopie sempre più sbiadite, manca la conservazione.
Chi era Bertolucci?
La psicanalisi gli facilitò una grande intuizione: sottrarsi all’ombra proiettata dal padre Attilio e, complice l’amico Pasolini e i film d’arte visti al cineclub di Parma, esprimersi nella poesia con la macchina da presa anziché la penna.
E venne Il conformista.
Coppola lo vide a New York e ne rimase scioccato: all’epoca si pensava che il colore fosse solo per commedie, western e musical, noi dimostrammo quanto si confacesse all’oscurità richiesta dal dramma.
Coppola le cambiò la vita.
Volle me, nonostante il mio inglese piccino, per Apocalypse Now. Mi chiese di tenere fede a Conrad e a distanza i telegiornali: un grande spettacolo surrealista.
Ha fatto le luci degli ultimi tre film di Woody Allen, e anche dell’inedito Rifkin’s Festival.
Rifkin’s è il suo Amarcord, Woody è uno dei più grandi scrittori che abbia mai conosciuto, ti fa capire senso e peso di ogni singola parola, un po’ mi ricorda Giuseppe Patroni Griffi.
In più è sotto accusa: anche il Timothée Chalamet del suo A Rainy Day in New York l’ha rinnegato.
Non ha danneggiato solo Allen, ma se stesso: l’hanno consigliato male, temo, mentre avrebbe dovuto dirgli grazie per quanto gli ha insegnato sul set. Per quelle accuse di molestie sessuali Woody è stato assolto due volte, test medici hanno comprovato l’illibatezza della figlia Dylan Farrow, di che stiamo parlando?
Il #MeToo non ha risparmiato nemmeno Bertolucci e Marlon Brando.
Di Ultimo tango a Parigi fui testimone oculare, la seconda macchina era a mezzo metro da Maria Schneider: non fu violentata, Brando non si sbottonò nemmeno. Il cinema non è realtà, altrimenti dovremmo credere che Brando sia morto nel ’72 su un balcone a Parigi. Informatevi, imbecilli.
Sa che per molti italiani a incarnare la sua professione è il Duccio della serie Boris, un cocainomane disilluso che non si fa problemi a “smarmellare” e “aprire tutto”?
Ognuno è libero di fare, dire e pensare ciò che vuole. Io ho iniziato a studiare fotografia a undici anni.
Il film che avrebbe voluto cinematografare?
2001: Odissea nello spazio, sconvolgente. Lo vidi con mia moglie incinta, l’indomani sul set di Giovinezza, giovinezza mi dimenticai dei giornalieri: parlavo solo di quello.
Colleghi che stima?
Luciano Tovoli e Daniele Nannuzzi. Tra i giovani, Paolo Ferrari.
Attori.
Marlon Brando, il più grande. Il magnetismo di Liz Taylor lo sentivi a cento metri, la più brava Vanessa Redgrave. Volonté, ci feci Giordano Bruno, oggi dico Kate Winslet, Giancarlo Giannini e Alessio Boni. Sa qual è il segreto?
Mi dica.
Lo stesso mio: il carattere, più che l’immagine. Chi sei, non come vuoi apparire: solo i mediocri hanno un profilo migliore.