Dieci euro in cambio di sdraio, ombrellone e il diritto di prendere il sole sulle spiagge libere di Positano. “Ma se i lidi sono tali perché si deve pagare per accedervi?”, è la domanda che si rincorre sui social dal 4 giugno, giorno in cui la giunta di Michele De Lucia ha varato la delibera che affida i tratti liberi dalle concessioni ai titolari degli stabilimenti attigui. “Lo facciamo dal 2010 – racconta il sindaco leghista – da 11 anni riserviamo l’80% dei posti del tratto libero del Lido Positano ai residenti, il restante 20% viene affittato ai non residenti”. Quest’anno, però, il comune ha applicato il criterio anche alle altre tre spiagge libere nelle località Fornillo, Fiumicello e Arienzo. Ha tutta l’aria di una privatizzazione. “No – prosegue De Lucia – è una decisione dovuta al Covid. Lo abbiamo visto sabato e domenica, le spiagge libere si trasformano in carnai. È impensabile gestirle in sicurezza, come previsto dai Dpcm del premier Conte, senza avere i mezzi. Per questo abbiamo affidato questo compito a chi lo sa fare, i gestori degli stabilimenti, che dovranno garantire le distanze tra i bagnanti e il servizio di salvataggio in mare”.
Mail Box
Gli Stati generali finiranno nell’oblio
Caro Fatto, come si sa gli Stati generali francesi finirono con la presa della Bastiglia. Forse quelli nostrani alle vongole, indetti dal premier, non faranno la stessa tragica fine, magari con l’assalto al gioiello dell’Algardi ma, più semplicemente, saranno accompagnati da un meritato lungo oblio.
Vincenzo Covelli
Caro Vincenzo, vedremo. A me l’idea di ascoltare molti esperti ed esponenti della società civile per stilare un piano di ricostruzione è parsa buona.
M. Trav.
Covid, ogni Paese conta i morti diversamente
Vorrei sapere dalla Dottoressa Gismondo come mai in Italia il rapporto tra deceduti e infetti è circa il 15 per cento, mentre negli Stati Uniti è di poco superiore al 5 per cento. Grazie.
Lettera firmata
La problematica è complessa. Innanzitutto i dati italiani, come sappiamo, sono dovuti per oltre i due terzi alla Lombardia. Per quanto riguarda, in generale, la differenza di percentuali tra Paesi, incide molto la modalità con la quale si registrano i casi. In Germania, non basta essere positivo al Covid per essere un deceduto Covid, bisogna non avere altre patologie gravi. In Italia è il contrario.
Maria Rita Gismondo
Il “Fatto” è il mio faro nell’informazione
Ho 19 anni e apprezzo l’impegno riservato a noi lettori. Lei e la sua cerchia di collaboratori offrite una speranza all’interno di quello che è, oggigiorno, il settore giornalistico, sempre più soggiogato e manipolato dalla classe dirigente. Grazie, perché la lettura e il giornalismo devono essere il nostro contraltare all’ignoranza e alla cecità da parte politico-imprenditoriale verso l’informazione dei concittadini. Il Fatto è un faro attendibile e indispensabile.
Leonardo De Benedetto
Elezioni, coinvolgiamo chi percepisce il Rdc
Cari amici, sono sempre il 100 per cento delle copie vendute a S. Nicola Arcella (Cs) e vi invio un saluto. Vi scrivo per sollecitarvi a lanciare per le prossime elezioni un’idea: impiegare i percettori del civilissimo Reddito di cittadinanza come scrutatori e presidenti di seggio. Non vedo alcun lato negativo in questa proposta: si risparmierebbero un sacco di quattrini, si metterebbero a tacere per un po’ coloro che a pancia piena hanno sempre avversato il Rdc, si darebbe la possibilità di sentirsi utili anche a persone che, loro malgrado, non lavorano. Dal punto di vista organizzativo sarebbe molto facile per ogni Comune “addestrare” in poche ore i prescelti, molti dei quali, a quanto mi risulta, possiedono notevoli titoli di studio.
Pasquale Liguori
Lerner e Luttazzi: due nnuovi spiriti liberi
Leggo, grazie alla mia lungimirante compagna, il Fatto quasi dalla nascita; col tempo, come il buon vino, siete migliorati! Sempre liberi di scrivere pestando i piedi, se necessario, a chicchessia! Devo apprezzare con forza l’entrata in squadra di Daniele Luttazzi, anche lui persona eccezionalmente incontenibile. Finisco con elogiare l’arrivo dell’ultimo spirito libero: Gad Lerner.
Andrea Begali
Servirebbe un vero Reddito universale
I rappresentanti delle Partite Iva continuano a reclamare contributi a fondo perduto in contrapposizione al Reddito di cittadinanza perché sono contrari ai sussidi alle persone senza lavoro. A mio avviso invece è ora di finirla di sovvenzionare le imprese perché sono stanco di sentire parlare chi vuole fare l’imprenditore con i soldi degli altri. In vista delle nuove risorse in arrivo dall’Europa, la misura economica che potrebbe fare cambiare lo stile di vita dei cittadini è l’istituzione di un vero Reddito universale. Per i lavoratori autonomi ci sarebbero solo vantaggi perché, oltre a essere l’unica àncora di salvezza in caso di nuova emergenza, più cittadini hanno capacità di acquisto maggiore sarà il volume d’affari delle imprese.
Wakan Tanka
Violenza. “Leosini inopportuna”. “La responsabilità non è una colpa”
Gentile Direttore, Selvaggia Lucarelli ci accusa di aver decontestualizzato alcune frasi pronunciate da Franca Leosini a Storie Maledette durante l’intervista a Sonia Bracciale condannata a oltre 20 anni di reclusione per essere stata la mandante dell’assassinio del marito. L’intervista ha suscitato forti critiche da parte delle donne che hanno subito violenza, dalle giornaliste di “Giulia”, promotrici del Manifesto di Venezia che richiama a una corretta informazione sul fenomeno della violenza contro le donne. L’intervista condotta da Leosini è stata stigmatizzata sia dalla Cpo dell’Usigrai sia dalla Cpo della Fnsi. La stessa Convenzione di Istanbul, all’articolo 17, richiama i media a una responsabilità nel superamento di stereotipi e da tempo l’Ordine dei giornalisti organizza corsi di formazione sul linguaggio della stampa nei casi di violenza contro le donne per superare i pregiudizi che ri-vittimizzano le donne ritenendole responsabili o corresponsabili della violenza. Questo pregiudizio, che nasce da una mancanza di conoscenza del fenomeno della violenza nelle relazioni di intimità, ricade sulle donne vittime e alimenta i pregiudizi che ostacolano il riconoscimento del maltrattamento nei tribunali. Le parole hanno un peso e vanno ponderate. Nessun uomo violento, concorderà Lucarelli, “chiede il permesso” per commettere violenze. Leosini con le sue dichiarazioni ha spostato la responsabilità dagli autori di violenza alle vittime. Invitiamo Selvaggia Lucarelli e Franca Leosini nei centri antiviolenza “Dire-Donne in rete contro la violenza” per ascoltare la testimonianza delle operatrici che toccano con mano ciò che accade nei tribunali. Le nostre osservazioni si riferiscono a questi contenuti e in nessun modo “Dire” vuole giustificare un omicidio o attenuare le responsabilità di Sonia Bracciale per il crimine che ha commesso e per il quale è stata condannata a oltre 20 anni di reclusione.
Antonella Veltri, Presidente “Dire”
Gentile presidente, ribadisco la mia posizione: la frase è stata decontestualizzata. E il contesto da lei omesso è una lunghissima intervista in cui il passaggio sulle violenze subìte dalla Bracciale è stato profondamente analizzato senza concedere alcuno sconto all’uomo. Le rammento che non solo la conduttrice ha definito gli atti “violenti e brutali”, non solo la Leosini ha posto l’attenzione sulla futilità dei pretesti con cui la Bracciale veniva picchiata (“non c’era la pasta sul tavolo”), ma ha anche mostrato le foto del corpo martoriato della signora all’epoca. Temo che lei confonda il tema della “responsabilità” (quella di denunciare e salvarsi, salvando magari anche i figli o altre donne) con quella della “colpa”. Colpa che nessuno – figuriamoci non la Leosini – attribuirebbe mai alla vittima. Le donne possono non trovare la forza di reagire perché vittime di dipendenze affettive o altro, ma non sono impotenti a prescindere, soprattutto in un periodo storico in cui hanno a disposizione un’infinità di strumenti a cui aggrapparsi (informazione, centri anti-violenza, codice rosso, una maggiore sensibilità sul tema). Riguardo l’invito a recarmi nei centri anti-violenza, la ringrazio ma ne ho già frequentati diversi. Scrivo da anni di violenza sulle donne, ho scritto con Rula Jebreal il monologo di Sanremo proprio sulla questione della vittimizzazione secondaria, dieci giorni fa “Il Fatto” ospitava un mio articolo su Valentina Pitzalis (l’ennesimo), aggredita prima dal suo ex marito e poi dalla giustizia italiana, che l’ha letteralmente devastata. A proposito, su questa ragazza la sua associazione non ha mai speso una parola. Peccato.
Selvaggia Lucarelli
Lockdown e decessi: quello che i dati dicono
Non è ancora il momento di tirare le somme definitive, ma lo è per cominciare a farci qualche domanda sui risultati ottenuti con le misure di contenimento prese durante la pandemia da SarsCoV2. Si stanno affollando numerosi dati che spesso portano a deduzioni opposte. Nessuno di questi è definitivo e forse non lo sarà mai. Più di tutto resterà impreciso il conto dei morti, calcolati spesso anche con parametri diversi da regione a regione. A volte sovrastimati, a volte sottostimati. Riferendoci esclusivamente a dati ufficiali, credo sia opportuno partire proprio da un primo esame dell’impatto delle misure sui decessi. In concreto, prendiamo in considerazione la letalità, numero di morti percentuali rispetto ai malati. Sin dall’inizio del fenomeno c’è stata molta confusione sulla definizione di “caso”. Spesso in questo termine si sono riconosciuti sia i soggetti positivi al test del tampone ma asintomatici, sia i malati ricoverati. Benché questo sia un “errore” importante nella valutazione dei numeri, dobbiamo ammettere che non è stato solamente italiano e perciò lo accettiamo come una sorta di “tara” del fenomeno condivisa. Per cercare di avere uno spunto di riflessione più obiettivo possibile, è necessario osservare i dati prendendo in considerazione Paesi che hanno adottato modelli diversi di contenimento. L’Italia, che ha seguito la linea più severa con un lungo lockdown, a oggi registra 237.828 casi positivi, dei quali sono deceduti 34.448. La letalità è pari al 14%. La Svezia che non ha avuto lockdown, a oggi registra 54.562 casi positivi, con 5.041 decessi, letalità pari al 9,23 %. L’Olanda, che ha adottato un lockdown morbido, scegliendo una politica con l’obiettivo di ottenere un’immunità di gregge, registra 49.204 casi positivi con 6.074 decessi: letalità pari al 12,3%. L’età media dei deceduti in Italia è stata 80 anni, la mediana per le donne è pari a 85, per gli uomini 79. La speranza di vita per il 2019 è stata calcolata 85,3 anni per le donne e a 81 per gli uomini. Qualsiasi commento personale, oltre a essere inutile, potrebbe provocare critiche, in ogni senso, tutte comprensibili. Mi fermo qui e invito a valutare, facendo lo sforzo, non facile, di essere obiettivi.
Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano
Fontana in fiera: “È colpa del governo”
Non avevamo capito nulla: Attilio Fontana è un genio e la Lombardia un modello internazionale di gestione dell’epidemia. E l’ospedale affidato a Bertolaso, rimasto completamente deserto? “L’ho fatto per obbedire al governo”. Se ci sono responsabilità, ca va sans dire, sono di Conte e dei suoi amici.
È la visionaria Verità di Fontana, in una scomodissima intervista sul giornale di Belpietro. Il presidente della Regione è incalzato da domande insidiosissime: “C’è una campagna contro la Lombardia?”, oppure “Si può dire che avete costruito l’ospedale per obbedire alle richieste del governo?”. Fontana risponde sempre di sì: è un’intervista telecomandata.
Ne emerge, ovviamente, che il governatore salviniano non ha sbagliato nulla, e ci mancherebbe altro. Il passaggio più comico è sulla grande opera in Fiera che ha ospitato la bellezza di 25 pazienti durante tutta l’emergenza, ed è costato una ventina di milioni di euro. Fontana non c’entra nulla, ha solo assecondato Conte. Anche se il giorno dell’inaugurazione il governatore gonfiava il petto: “Abbiamo realizzato un ospedale di altissimo livello, diventerà un punto di riferimento per la Rianimazione di tutto il nostro Paese”.
La nomina di Cantone a Perugia non tiene conto di Mattarella
All’inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 del Tar Sicilia, del quale ero presidente, il saluto del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa fu portato dal professor Sergio Mattarella con un discorso di elevati contenuti dal quale traspariva la fiducia incondizionata nella funzione della Giustizia. Nel ricordo di quella esperienza sono certo che il monito per richiamare la Magistratura al rispetto dei doveri istituzionali e al recupero dei valori di necessaria connotazione è costato molto al presidente Mattarella. L’intervento, nella sua chiarezza e tensione etica, oltre ovviamente per la sua provenienza, esclude qualsiasi nota esplicativa e implica un’indispensabile adesione attraverso contegni e riflessioni dell’intero ordine giudiziario. Al j’accuse del presidente è seguita la rassicurazione del vicepresidente Ermini che gli ha garantito come l’abbrutimento etico dell’ordine giudiziario abbia nell’attuale Csm l’avversario più tenace e inflessibile, aggiungendo che il contrasto di ogni scoria correntizia e il mantenere l’autogoverno nel solco tracciato dalla Carta sia già ora il quotidiano assillo di quell’organo. Proprio l’ultima nomina al vertice della Procura di Perugia mi frena nel dare credito alle parole dell’avvocato Ermini. Non sono in discussione le doti e le qualità del nominato, ma la sua provenienza da lunghi anni di fuori ruolo nei quali le attività svolte, per quanto vicine alla funzione giurisdizionale, non ne hanno la medesima valenza. È pur vero che una norma, introdotta su iniziativa del secondo governo Berlusconi, ha stabilito l’equiparazione del servizio svolto presso importanti uffici ministeriali con quello nell’amministrazione di provenienza, ma si tratta di precetto dal quale non si possono trarre sicuri presagi per favorire sempre e comunque chi rientra in magistratura dopo decenni di incarichi amministrativi. La norma andrebbe abrogata o quanto meno ridimensionata: preordinata a favorire il rientro, soprattutto nei corpi militari, degli agenti dei servizi informativi, è stata generalizzata per soddisfare le aspirazioni di alcuni magistrati allora operanti presso la Presidenza del Consiglio. Nel caso della Procura perugina gli altri candidati vantavano un’intera carriera spesa in trincea tra lavoro investigativo, impegni processuali e lotta al crimine organizzato. Sorge spontanea la domanda. Come si sentiranno e che cosa progetteranno di fare i più giovani magistrati di fronte a questa chiara tendenza a non tenere nel debito e massimo conto l’ordinario compimento delle attività d’ufficio? Saranno portati a cercare incarichi diversi da quelli propri della funzione giurisdizionale perché, è questo il triste messaggio legato alla nomina del dottor Cantone, si fa carriera fuori e non dentro l’istituzione. La verità è che, per le nomine agli uffici giudiziari e anche per una progressione di livello, non si dovrebbe mai prescindere dall’attività d’istituto effettivamente prestata dagli aspiranti. Molto tempo fa le promozioni erano l’esito di una complessa valutazione sull’attività giurisdizionale del magistrato con l’accurato esame delle sentenze e dei provvedimenti adottati. Devono, infatti, concorrere qualità e quantità per dare certezza affidabilità del nominando. Quando mancano questi dati o gli stessi sono relegati più o meno nell’ambito dei pre-requisiti, la designazione finisce per essere ricondotta a criteri incerti e ambigui, come la prassi di nomine gestite dalle correnti insegna. Prassi ancora operante, se la scelta del procuratore di Perugia ha determinato una spaccatura nel Csm. Per rispondere al messaggio del capo dello Stato occorre un soprassalto di dignità e di etica della funzione, in esito ai quali siano ridotti al silenzio i suggerimenti della politica e quelli corporativi, in quanto esposizione di interessi estranei alla funzione del giudice.
La maggioranza gioca con successo a sabotarsi da sola
Nel Pd devono avere provato molta gelosia nei confronti del Movimento 5 Stelle. Hanno sentito Di Battista parlare da Lucia Annunziata, hanno visto il casino che è montato tra i grillini e a quel punto si son detti: “Dai, facciamo così anche noi!”. Ci ha pensato Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, in un’intervista a Repubblica: “Ho simpatia e stima personale nei confronti di Zingaretti, e nessun pregiudizio. Non voglio affatto personalizzare la questione. Osservo però la difficoltà del Pd a essere una forza davvero riformista”. Una bomba in piena regola, lanciata (con encomiabile tempismo masochistico) contro un leader di per sé diversamente carismatico. “Io sono per l’unità, ma la concordia non può essere né un feticcio né un fine ultimo. E non può sequestrare il dibattito interno. Nessuno auspica un voto adesso, ma non possiamo accontentarci. Non credo d’essere il solo a pensare che serve un cambio di marcia e che si debba spingere sul lavoro. È un punto di vista molto diffuso tra i militanti e gli elettori del Nord”. Ne deriva, per Gori, l’esigenza irrinunciabile del mitologico “congresso subito”. Ovviamente con un nuovo segretario. Gori, da ex craxiano ed ex (ex?) renziano, spera che il Pd torni a essere quello del 2014 (auguri). Altri, dentro al partito, sognano Bonaccini o Sala. Senz’altro il Pd di oggi (ma pure di ieri) non è carne né pesce. Senz’altro la difesa del governo non significa immobilismo. E senz’altro Zingaretti ha una propensione all’assenza al cui confronto Mina è una gran presenzialista. Ciò non toglie che l’uscita di Gori sia politicamente suicida e suoni come l’ennesimo assist alla destra. Nonché come l’ennesima coltellata a Conte. Difficile confutare le parole di Andrea Orlando: “È scritto nei manuali. Se dopo una pandemia (forse non ancora conclusa) nel pieno di una crisi economica e dopo due scissioni un partito riesce quasi a raggiungere la principale forza avversaria la cosa migliore da fare è una discussione su un congresso che non c’è. #astuzia”. Bettini e Rossi hanno difeso Zingaretti, ma non è che nel Pd si siano stracciate le vesti per proteggere l’attuale segretario e la sua linea (ove esistente) politica. Dentro questo gran casino c’è una sola certezza: mentre Salvini annaspa come un pugile suonato e sbaglia tutto tra mascherine vilipese e ciliegie trangugiate, la maggioranza gioca con successo (degli altri) a sabotarsi da sola. Il M5S è diviso tra governisti e movimentisti. Il Pd è dilaniato tra zingarettiani e no. E quel che resta dei renziani, cioè meno di niente, pensa bene di calare la pregiatissima carta Scalfarotto come governatore della Puglia (povera Puglia). Scalfarotto ha detto di voler combattere i populismi di destra e grillini, dimenticandosi con ciò almeno quattro cose. 1) Nessuno è più populista di Renzi e renziani. 2) I grillini populisti sono gli stessi con cui Scalfarotto governa e grazie ai quali è (purtroppo) Sottosegretario agli Esteri. 3) Uno come Scalfarotto non lo vota manco il gatto. 4) Con questa mossa, appoggiata dalla regina delle elezioni Bonino e da quel Calenda che parla malissimo di Renzi ma poi ci si accorda, Scalfarotto fa un regalo a Fitto. Indebolendo Emiliano (che Renzi odia) e agevolando il centrodestra (di cui Renzi fa sentimentalmente parte). Il governo gode della fiducia della maggioranza degli italiani e Conte è per distacco il politico più amato, stando almeno ai sondaggi, ma tre partiti governativi su quattro passano il tempo a prendersi a schiaffi da soli. Con viva gioia di una delle peggiori destre d’Europa. Complimenti!
Con lo smart working ci guadagnano tutti
Parliamoci chiaro: durante i mesi di lockdown lo smart working ha salvato l’economia e la scuola contribuendo a salvare la salute. Nonostante la pandemia, milioni di lavoratori pubblici hanno continuato a lavorare come e più di prima benché i loro vertici, negli anni precedenti, non avessero fatto nulla per adottare gradualmente il lavoro agile. Grazie a esso, i lavoratori avrebbero risparmiato tempo, denaro e stress; le aziende avrebbero guadagnato il 15-20% in più di produttività; l’ambiente avrebbe evitato l’inquinamento del traffico.
L’altro giorno il giuslavorista Pietro Ichino ha dichiarato a Libero: “Lo smart working per i dipendenti pubblici? Nella maggior parte dei casi è stato solo una lunga vacanza retribuita al 100%”. I dipendenti pubblici sono circa 3,2 milioni. Durante il lockdown la stragrande maggioranza ha continuato a lavorare regolarmente da casa. Se, come afferma Ichino, milioni di dipendenti pubblici avessero fatto tre mesi di vacanza retribuita, l’Italia si sarebbe fermata. Ma da quale ricerca sociologica Ichino ricava che qualche milione di dipendenti pubblici, con la scusa dello smart working, se ne sta da alcuni mesi in vacanza retribuita? In un’intervista a Radio3 lo stesso Ichino ha precisato che si tratta degli addetti alla motorizzazione civile, alle cancellerie dei tribunali, al personale amministrativo delle scuole e delle università. Ma quanti sono questi addetti? E da quale ricerca si ricava che, fingendo di fare lavoro agile, essi hanno fatto vacanza?
Temo che in questo episodio si sommino i pregiudizi contro i lavoratori pubblici (per definizione tutti furbetti del cartellino), quelli contro il lavoro agile (per definizione tutto anarcoide e fannulloide) e quelli contro il ministro della PA (per definizione ideologizzato e incapace).
Da una indagine condotta il mese scorso dal FPA, il Centro studi sull’innovazione nella Pubblica Amministrazione, risulta che il 40% dei dipendenti statali rimasti a casa per il lockdown ha utilizzato ferie e riposi; il 92% di tutti gli altri ha lavorato in smart working: il 73% full-time e il resto part-time. Poiché prima del coronavirus l’87% non aveva mai fatto lavoro agile, è ovvio che il rapido passaggio dall’ufficio alla casa, per di più in segregazione forzata, non deve essere stato semplice né comodo, tanto più che il 30% ha dovuto servirsi del cellulare non avendo in casa né tablet né computer. Il 74% è riuscito a svolgere tutte le sue normali mansioni e, nel frattempo, il 55% ha seguito corsi di formazione in teledidattica su argomenti che vanno dal diritto al management e alla finanza. La maggioranza degli intervistati ha dichiarato che, con lo smart working il lavoro è stato meglio organizzato, gli obiettivi più definiti, la produttività in nessun caso peggiorata e nel 41% dei casi migliorata. È sotto gli occhi di tutti la competenza e la motivazione dimostrata dalla sanità, dalla scuola e dai servizi dell’ordine in questi mesi ma tanti altri settori, meno in vista, hanno continuato a lavorare come e più di prima. Non credo che con le aziende private sia andata meglio.
Se, dunque, il 93% dei dipendenti pubblici vorrebbe continuare in smart working almeno parziale, non è per proseguire in eterno la vacanza evocata da Ichino ma perché, con il lavoro agile, ci guadagnano tutti.
Nel 1865, agli albori dell’Unificazione, quando gli italiani erano 28 milioni e i dipendenti pubblici erano solo 3.000, Francesco De Sanctis elencò in un rapporto i difetti della Pubblica Amministrazione di quei tempi: lungaggini, resistenza ai cambiamenti, garantismo, interessi consolidati. Centocinquantacinque anni dopo, nel 1979, il ministro Francesco Saverio Giannini fece a sua volta un rapporto ed elencò le carenze della nostra burocrazia: indirizzi contrastanti, arretratezza delle tecniche e dei metodi, cattiva formazione, eccessi di controlli. Passano ancora quarant’anni e l’ex ministro Cassese, in un articolo sulla Rivista trimestrale di Diritto pubblico elenca i difetti attuali della Pubblica Amministrazione: inerzia, assenza di incentivi, scarsa formazione e motivazione, invecchiamento di uomini e strutture.
Se gli stessi difetti persistono da un secolo e mezzo, significa che solo una spallata improvvisa e poderosa può fornire, alla disperata, il rimedio estremo. Forse lo smart working rappresenta questa occasione insperata e determinante. Se la ministra Dadone prende al volo questa occasione, se libera milioni di lavoratori pubblici dal greve contesto polveroso in cui sono ammassati, se li coinvolge in una moderna organizzazione per obiettivi, rischia di passare alla storia per essere riuscita a fare quello che grandi giuristi come Giannini e Cassese, per mancanza di un’occasione così rara, non sono riusciti a fare.
La Paltrow “squirta” creatività: ora produce candele all’orgasmo
Lo scorso gennaio, l’attrice/imprenditrice Gwyneth Paltrow ha messo in commercio una candela che, accesa, effonde un profumo di vagina. Della vagina di Gwyneth, promette il packaging della candela (“This smells like my vagina”); a meno che “my vagina” non sia autoriflessivo, e la candela non voglia insinuare di possedere una vagina (del resto, praticare un pertugio nella cera di un candelone per poi scoparselo era pratica masturbatoria corrente già nel medioevo, ed è il movente – spoiler alert! – per cui – spoiler alert! – il priore del Nome della Rosa – spoiler alert! – uccide il novizio che l’aveva scoperto in atteggiamenti romantici con un cero votivo).
Ovviamente, gli spiriti cartesiani negarono subito, anche di fronte all’evidenza, che una candela al profumo di vagina potesse esistere davvero: sarebbe stata la più grande invenzione dopo lo scratch-’n’-sniff centerfold di Hustler (1977) (se grattavi la passera della modella nuda nel poster centrale, sniffavi l’aroma della sua figa); e la liquidarono sostenendo che il profumo della candela era ottenuto miscelandone la cera con la pasta di acciughe (un’illazione mai documentata); ma chi pensava che la Gwyneth si fermasse a quel primo successo la sottovalutava di mondi, come in tanti si sottovalutò Pasteur. Adesso che ha capito questo trucco di marketing (si chiama “innovazione di significato”, e comprende l’altra idea di Gwyneth, il clistere al caffè) (tutto vero, gente), e si è resa conto di quanti idioti ci siano in circolazione (e tutti votano), Gwyneth è inarrestabile, uno squirting di creatività. Per lasciare al palo Erykah Badu, che l’aveva subito imitata con un incenso profumato della propria vagina, Gwyneth se ne è uscita con un nuovo prodotto: la candela al profumo di orgasmo. Del suo orgasmo, promette il packaging della candela (“This smells like my orgasm”); a meno che “my orgasm” non sia autoriflessivo, e la candela non voglia insinuare che, una volta accesa, avrà un orgasmo (nel caso, me lo immagino ovattato, come quello di un mia ex, che si vergognava di farsi vedere nel momento di totale abbandono, e sul più bello si premeva un cuscino sulla faccia, l’egoista) (come se non avessi avuto una telecamerina nascosta in bagno, per godermi in differita i suoi gemiti solitari nella Jacuzzi, di cui indirizzava il getto contro il punto nevralgico con la maestria di una geisha di Saffo).
La candela al profumo di orgasmo è andata a ruba, le scorte di magazzino esaurite in due ore nonostante il costo proibitivo ($ 400), appena si è sparsa la voce che ogni candela profuma dell’orgasmo di Gwyneth perché Gwyneth, prima di inscatolarla, ci si masturba fino all’orgasmo di Gwyneth. Avvertenza: non lasciate la candela da sola con il vostro cagnolino, o il profumo sexy lo indurrà a infilarsela su per il culo. (Ci sono stati alcuni casi, se no non ve lo direi). Nasato l’affare, a Hollywood gira voce che Kim Kardashian abbia già pronta la contromossa: una candela al profumo del suo mestruo (“Carrie”) e delle sue emorroidi (“Strawberry Fields”). Anche i divi veri si sono messi all’opera: Brad Pitt commercializzerà una candela al profumo di sperma (“This smells like my cum”), Leonardo DiCaprio quella al profumo di un suo 69 con la top model Camila Morrone (“69”), e Quentin Tarantino quella al profumo della sua eiaculazione precoce (“Boom!”).
Gori sindaco: dal dramma alla Fiction
Giorgio Gori è il sindaco pd di Bergamo, la città martire del coronavirus con più di tremila morti e un numero incalcolabile di contagiati. Chi si trova schiacciato da un peso del genere, pensiamo, non lo dimentica più. Immaginiamo lui, come i suoi tanti colleghi lombardi travolti da una immane catastrofe, continuare a vivere nell’ossessione di quanto è accaduto. Non riuscire a togliersi dalla mente il film terrificante di quei giorni, di quei mesi, riflettere, interrogarsi su quanto fatto e si poteva fare, rimproverarsi eventualmente qualche errore (ma diamo per scontato che il sindaco Gori abbia fatto tutto quello che era umanamente possibile fare). Ci sembra di vederlo, infine, concentratissimo a organizzare un piano minuzioso di prevenzione nell’eventualità (speriamo di no) il mostro dovesse ripresentarsi nel prossimo autunno.
Poi, trascorre qualche settimana e il nome di Giorgio Gori torna con evidenza sui giornali. Per mettere in guardia sul preoccupante calo dei livelli di cautela nella sua regione dove si rischia la seconda ondata? Oppure, vuole aggiornarci su qualche iniziativa per accrescere i livelli della profilassi?
Niente di tutto ciò: il sindaco di Bergamo “invoca il congresso del Partito democratico” per eleggere un nuovo segretario. Il prima possibile, aggiunge “perché in autunno potrebbe essere tardi per salvare il Paese”. Dal ritorno del flagello Covid-19? No, dalla segreteria Zingaretti, che “non può sequestrare il dibattito interno”.
A questo punto arriva la rispostaccia del vicesegretario pidino Andrea Orlando, con l’hashtag #astuzia (“dopo una pandemia la cosa migliore da fare è una discussione su un congresso che non c’è”). Ma il primo cittadino di Bergamo non demorde e snocciola sondaggi e percentuali come neanche Pagnoncelli. A Gori, che prima di darsi alla politica è stato un importante manager televisivo, proponiamo una fiction nella quale un sindaco per rimuovere lo choc di un terribile evento comincia a parlare come un sottosegretario doroteo. Titolo: “A proposito di niente”.