L’Ilva in ginocchio: Draghi si muove (e scavalca il Mise)

La mossa è passata quasi inosservata e invece segnala che la situazione all’ex Ilva di Taranto è al limite se il premier ha deciso di vederci chiaro di persona. Martedì Mario Draghi ha convocato Franco Bernabè, il presidente di Acciaierie d’Italia, la joint venture tra Arcelor Mittal e Invitalia che gestisce il siderurgico. Draghi ha chiesto chiarimenti all’ex manager dell’Eni su futuro dell’impianto, sullo stato della produzione e sui livelli occupazionali. È stato Palazzo Chigi a far sapere dell’incontro e il sospetto è che si sia voluto dare un segnale in diverse direzioni. Il primo per rispondere all’allarme che arriva dai territori e dal fronte confindustriale. Il secondo è di un certo fastidio del premier per come il ministero dello Sviluppo economico sta gestendo la partita. Draghi, infastidito, ha deciso di scavalcare il ministro Giancarlo Giorgetti e capire direttamente la situazione.

Ilva è in una condizione di estrema difficoltà, viaggia a scartamento ridotto, con ricorso massiccio alla Cassa integrazione e due soli altiforni funzionanti: il ritmo è di 10 mila tonnellate di acciaio al giorno, che sull’anno fermerebbero la produzione perfino sotto le 4 milioni di tonnellate del 2021, record negativo di sempre. Il segnale più preoccupante, però, è che Acciaierie d’Italia avrebbe ricominciato a non pagare o pagare col contagocce i fornitori. L’esposizione cresce a ciclo continuo (si parla di un passivo che viaggia verso il miliardo). Insomma, con le banche non più disposte a dare credito, la società si sta finanziando attraverso i fornitori.

Lo Stato si trova in una situazione imbarazzante. Bernabè è stato chiamato nel luglio 2021 a svolgere il delicato ruolo di contrappeso ad ArcelorMittal, il colosso franco-indiano che non ha alcun interesse a far sopravvivere Ilva e vuole solo scappare, ma al momento ha la maggioranza della società e il controllo operativo (affidato all’ad Lucia Morselli, scelta due anni fa per fare la guerra al governo Conte-2). Al momento i risultati non sono incoraggianti e a maggio, stando all’accordo siglato con la multinazionale un anno fa, Invitalia dovrebbe salire al 60% spendendo altri 680 milioni dopo i 400 e dispari già messi sul piatto e polverizzati nei primi mesi. Il governo deve decidere cosa fare davvero.

Con Bernabè, Draghi ha voluto capire anche la reale necessità dei 575 milioni che, nel decreto Milleproroghe di fine anno, il governo ha deciso di dirottare dai fondi destinati alle bonifiche per tenere in piedi la fabbrica. La mossa non è piaciuta a mezzo arco parlamentare e ha fatto infuriare i parlamentari pugliesi: emendamenti per sopprimere la norma sono stati presentati alla Camera da deputati di M5S, Pd e Forza Italia (solo la Lega difende la norma).

Sullo sfondo resta il piano di rilancio, presentato due mesi fa in un vertice al Mise, ma che né i sindacati, né le autorità locali e neppure il Parlamento hanno mai visto. Il premier si sarebbe informato con Bernabè soprattutto sulla società Dri Italy che deve produrre il materiale pre-ridotto per colare acciaio senza bruciare carbone e che dovrebbe vedere la luce in questi giorni (sempre presieduta dal manager ex Eni). Il piano prevede 4,7 miliardi di investimenti per decarbonizzare. Chi li metterà?

Gas e atomo “verdi”: Bruxelles così aiuta solo Parigi e Berlino

Gas e nucleare sono ufficialmente fonti energetiche utili alla transizione ecologica e possono avere l’etichetta Ue per gli investimenti “verdi”: la Commissione europea ieri ha approvato l’adozione dell’atto delegato della cosiddetta “tassonomia” europea che le comprende e le ha così riconosciute come possibili fonti destinatarie di investimenti green, seppure a determinate condizioni. Un esito annunciato che aveva spaccato il fronte della Commissione. Da un lato i Paesi contrari sia al gas che al nucleare, dall’altro quelli favorevoli all’una o all’altra fonte. In mezzo, chi, come l’Italia, chiedeva per lo più modifiche a proprio vantaggio. Consiglio e Parlamento Ue ora avranno due mesi ciascuno (più due eventuali) per discutere il testo e votare a favore o contro, senza possibilità di cambiamento. E se il favore del Consiglio è già dato per assodato, meno certo è l’esito a Strasburgo.

Ma come è stato cambiato il testo? In sintesi, sono stati rimossi i target intermedi per la conversione delle centrali a gas naturale verso i gas decarbonizzati, come chiesto dalla Germania. Gli altri criteri restano uguali sia per il nucleare che per il gas: via libera sul primo, limite di 100 grammi di Co2 per kilowattora per il secondo, salvo deroghe in caso di riconversione dal carbone (cosa che serve soprattutto alla Germania, che sul fossile ha puntato molto in questi anni). “L’atto – ha detto la commissaria alle Finanze Mairead McGuinness – è stato approvato con un’ampia maggioranza”. Questo significa che soli tre commissari hanno votato contro il provvedimento. Non solo Johannes Hahn, l’austriaco che aveva già annunciato il suo voto contrario ma anche la socialista portoghese con portafoglio alla politica regionale Lisa Ferreira e l’alto rappresentante Ue per gli affari esteri, lo spagnolo Josep Borrell. Altri quattro commissari pare abbiano solo espresso riserve senza però arrivare a votare contro: il vicepresidente olandese Frans Timmermans (Green deal), la danese Margrethe Vestager (Concorrenza), il belga Didier Reynders (Giustizia) e infine l’italiano Paolo Gentiloni (Affari economici) che ha sconfessato l’indirizzo del Pd, suo partito, esplicitato sia dalle dichiarazioni del segretario Enrico Letta che dalla lettera firmata con gli europarlamentari di S&D che suggeriva di non assimilare le due fonti a quelle già previste nella tassonomia. Di fatto, Bruxelles ha respinto le richieste dell’Italia che aveva proposto di innalzare la soglia di emissione di Co2/kWh fino a 340 grammi. “Nella transizione verso la neutralità climatica fissata al 2050, potrebbero esserci soluzioni imperfette” ha ammesso comunque McGuinness prima di ribadire “la necessità di allontanarci da fonti energetiche particolarmente dannose come il carbone, che ancora oggi rappresenta il 15% della produzione di elettricità nell’Ue”. La dichiarazione è in parte una risposta alle accuse di aver inserito criteri favorevoli al phase out dal carbone tedesco (e dell’est Europa) rispetto al percorso di chi è già molto legato al gas, come l’Italia, o ha investito di più sulle rinnovabili. La versione precedente prevedeva che nel 2026 le centrali elettriche a gas mixassero il 30% di gas a basse emissioni di carbonio, salendo al 55% nel 2030 prima di diventare completamente a basse emissioni di carbonio entro il 2035. Berlino aveva definito questi piani “irrealistici” e infatti è rimasta solo la scadenza del 2035. “La rimozione di obiettivi non realistici per l’idrogeno entro il 2026/30 è un importante successo di Ampel”, ha twittato Lukas Köhler, vicepresidente dei liberali tedeschi. Fuori di dubbio, invece, il favore alla Francia e alle sue centrali nucleari che producono i due terzi dell’energia del Paese. Intanto, il Lussemburgo ha ribadito di essere pronto ad azioni legali insieme all’Austria e sono arrivate le reazioni degli ambientalisti e dei partiti. Legambiente ha parlato di un “colpo al green deal europeo”, il Wwf di un “trucco finanziario”, Greenpeace di “finzione ecologica e tentata rapina”. E se la Lega, con la sottosegretaria del ministero della Transizione ecologica Vannia Gava esulta, il M5S parla di “inversione a U” con il capogruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera, Davide Crippa, e di “spalle voltate ai cittadini ignorando il parere degli esperti” in un comunicato degli europarlamentari a Bruxelles. Silenzioso il Pd italiano, mentre Brando Benifei, capogruppo Pd al Parlamento europeo, ha annunciato la contrarietà all’atto delegato della Commissione da parte dei dem, orientati a votare contro, in coerenza con il Gruppo S&D di cui fanno parte.

Il blogger? Istiga “all’eversione antigovernativa dei No Vax”

Ha riportato su Telegram “false notizie in merito a presunte precarie condizioni di salute” di Mario Draghi. Per questo motivo il blogger Cesare Sacchetti il 27 gennaio scorso si è visto piombare in casa, alle 6.40 del mattino, la Digos di Roma e la Polizia postale. Sacchetti ha postato sul suo blog “La cruna dell’ago” la prima pagina del decreto di perquisizione, che motiva l’irruzione del poliziotti in quanto “sul canale (…) avente vanity name ‘Cesare Sacchetti’ divulgava un messaggio con notizie false notizie in merito a presunte precarie condizioni di salute dell’attuale presidente del Consiglio Mario Draghi, con conseguente prevedibile istigazione a una reazione nel contesto eversivo antigovernativo ‘No Vax’”. Su Telegram, il 24 gennaio, il blogger ha scritto: “Le voci che danno le condizioni di salute di Draghi in netto aggravamento sembrano confermate. Fonti vicine agli ambienti istituzionali riferiscono che la patologia di Draghi è piuttosto seria. Qualsiasi sarà quindi l’esito della partita del Quirinale, il liquidatore del Britannia sembra comunque intenzionato a lasciare Palazzo Chigi (…)”. Ma lui, sul suo blog, attacca: “Come si può vedere, non contiene nessun ‘vilipendio’ contro Draghi come mi viene contestato nel decreto emesso dalla Procura di Roma. Da quando riportare notizie sullo stato di salute di una carica pubblica costituirebbe una violazione dell’ordine pubblico?”. Sacchetti è indagato per diffusione di false notizie per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico (art. 656 del codice penale). Contattato via email, non rilascia dichiarazioni. Al Fatto risulta che Sacchetti, seguito peraltro da migliaia di follower, sia da tempo monitorato dalla Digos per la diffusione di alcuni contenuti, come quando scrisse di un presunto (a suo dire) contributo di Matteo Renzi alla sconfitta di Trump e di Barack Obama nella “destituzione” di Benedetto XVI.

I ragazzi picchiati

 

 

Lo scrittore È una vigliaccheria colpire i più fragili: si accertino le responsabilità

Quello che è successo in diverse piazze italiane negli ultimi giorni è una vigliaccheria e ha responsabilità precise, perché quando ci sono manifestazioni o cortei c’è una catena di comando a cui gli agenti in divisa obbediscono. I poliziotti si sono accaniti contro le persone più fragili e indifese, mi pare si sia verificato un chiaro abuso dell’esercizio della forza.

E non dimentichiamo il motivo per cui quei ragazzi erano scesi in piazza. Uno studente è morto sul posto di lavoro e come lui ne sono morti più di 1.200 nel 2021, con un numero crescente rispetto agli anni precedenti. Sempre più persone affrontano un rischio di morte andando al lavoro, per non parlare delle decine di migliaia di feriti. Questo ci dice che la protesta dei giovani, anche al di là della singola drammatica circostanza, sia un atto di coscienza di questa parte di società civile. A dimostrazione di come non siano altro che stupidaggini i discorsi da bar secondo cui i ragazzi non si interessano della cosa pubblica o vanno in piazza soltanto per perdere tempo. Sciocchezze che per la verità gli anziani hanno sempre sostenuto, disturbati dalla vivacità dei giovani. È vero il contrario: i ragazzi nati nel nuovo millennio sono una generazione assolutamente cosciente del proprio ruolo.

Erri De Luca

 

L’ex magistrato Fatti gravi e dolorosi, ma attenzione al gioco facile delle colpe

Non per buttarla nella solita caciara Covid, ma c’è una realtà evidente che i sociologi più qualificati stanno documentando: per effetto della pandemia e delle restrizioni che ne sono derivate, la società è in crisi, a tutti i livelli e le tensioni che la attraversano possono purtroppo esplodere in qualsiasi momento. Passando al caso specifico, è chiaro che il tema delle morti sul lavoro è una piaga terribile. Per di più in questo caso la vittima è un ragazzo morto durante il progetto di alternanza scuola/lavoro, che avrebbe avuto diritto a una tutela, per così dire, anche doppia. Quindi la rabbia e le proteste in piazza degli studenti sono sacrosante. Tuttavia non possiamo ignorare che in questo momento una norma di carattere generale, per tutelare la salute pubblica, vieta i cortei. Da qui è nato un cortocircuito, il diritto di manifestare si è scontrato con il dovere della polizia di di far rispettare la legge. I fatti che ne sono seguiti, a Torino e non solo, sono gravi e dolorosi, ma la gara ad attribuire responsabilità a priori è un esercizio che non mi appartiene. Il problema riguarda la composizione soggettiva della protesta e l’eventuale presenza di provocatori da un lato e le modalità di comportamento della polizia dall’altra. Serve una ricostruzione minuziosa dei fatti ed è ovviamente ciò che farà magistratura. Comunque sia tutti debbono fare quanto più possibile per disinnescare il cortocircuito.

Gian Carlo Caselli

 

La filosofa Il ministro non se la prenda con gli “infiltrati”, ma con gli agenti

La violenza contro i ragazzi in piazza mi è sembrata non soltanto stonata, ma anche ingiustificabile. Parliamo di giovani che vivono ai margini dello spazio pubblico, inteso sia come politico che come mediatico. Uno spazio pubblico occupato sempre dagli stessi, i quali esercitano il proprio potere a scapito degli invisibili.
Le forze dell’ordine hanno mantenuto questo spazio pubblico così com’è, con le sue discriminazioni intatte. Tutto ciò è qualcosa di profondo, riguarda il volto poliziesco di una politica che non dà risposte a questa generazione. Tanto più che quei ragazzi si sono giustamente identificati in un diciottenne morto in maniera raccapricciante mentre stava lavorando. Parliamo di una generazione senza voce, di cui si discute di continuo senza mai che la si ascolti davvero, come successo durante tutta la pandemia. Quando poi li troviamo a manifestare, vengono pure picchiati. In piazza si sono viste scene da regime autoritario, non è pensabile che la polizia prenda a manganellate in quella maniera gli studenti. E mi è molto dispiaciuto ascoltare la ministra dell’Interno Lamorgese prendersela con presunti “infiltrati” anziché riconoscere le responsabilità delle forze dell’ordine.

Donatella Di Cesare

Piazze e cortei la linea della polizia “a raggi x”

Gli studenti malmenati dalla polizia hanno pagato, in un certo senso, il conto di Forza Nuova e dei no vax che assaltarono la Cgil a Roma e poi assediarono Palazzo Chigi il 9 ottobre scorso. Quel giorno infatti venne consentito il corteo non preavvisato da piazza del Popolo, come era anche ragionevole per abbassare la pressione della piazza. Poi però i poliziotti erano pochi, il rischio fu sottovalutato e successe quello che non doveva succedere. “E adesso chi se la prende la responsabilità di far partire un corteo non autorizzato in quelle condizioni, quando anche le norme anti-Covid prevedono solo manifestazioni statiche? E se poi arrivano alla sede degli industriali e sfasciano un vetro, o a Montecitorio, se la prenderanno con me? Questo pensano molti colleghi”, ragiona un dirigente della polizia. Altri sottolineano come sia complicato “dialogare” con le piazze in cui “oggi non ci sono organizzazioni e capi riconoscibili”. Eh già, il Paese è cambiato.

Al Viminale negano siano state emanate particolari direttive, forse non ce n’era bisogno. È un fatto però che dopo il 9 ottobre la linea sull’ordine pubblico si è irrigidita, fin dallo sgombero assai sbrigativo dei no vax che bloccavano il porto di Trieste il 18 ottobre. Una piazza diversa da quella romana, lavoratori e segmenti della sinistra più o meno antagonista e dei sindacati di base. Il porto è un’infrastruttura strategica ed è stato “liberato”. Insomma, la linea da allora è stata: fermare le manifestazioni non preavvisate, vietate, non concordate (l’autorizzazione non è prevista: “Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica” dice l’articolo 17 della Costituzione italiana); con particolare attenzione delle Digos ai no vax, ai movimenti studenteschi e in generale alle tensioni sociali che attraversano il Paese. E se i manifestanti attaccano o tentano di sfondare, la polizia reagisce. “Perché sia chiaro, noi siamo stati attaccati, in quelle piazze non c’erano solo studenti pacifici”, ripetono i responsabili della polizia che parlano di “calci sotto gli scudi che non si vedono nei video, lanci e bombe carta”. Ci saranno anche stati, per carità. Certo non erano assalti con i bastoni. Nulla che le forze dell’ordine non sappiano gestire senza rompere le teste dei giovanissimi che abbiamo visto sanguinare e finire in ospedale. Ci sono pure delle denunce.

Così è accaduto la sera di domenica 23 gennaio a Roma, al Pantheon, alla prima manifestazione spontanea contro l’alternanza scuola-lavoro dopo la morte del 18enne Lorenzo Parelli, colpito da una putrella nell’ultimo giorno del suo stage in un’azienda friulana, di cui ieri si sono svolti i funerali. A Roma, rimarcano dal Viminale, “non c’era stato il preavviso, nemmeno per la manifestazione statica. Erano a due passi da Montecitorio e dal Senato e volevano fare il corteo fino al ministero dell’Istruzione”. Giù botte. Nuove manifestazioni studentesche e ancora botte venerdì 28 a Torino in piazza Arbarello, a Milano dove peraltro il corteo non preavvisato è stato fatto partire ma poi “hanno cercato di sfondare davanti alla sede di Assolombarda” e a Napoli. Le immagini che documentano eccessi di manganellate.

La polizia è finita sotto accusa e fino a ieri la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha taciuto. La difesa d’ufficio dei responsabili dell’ordine pubblico l’ha fatta il sottosegretario leghista Nicola Molteni ieri su La Stampa, uno che attacca la ministra un giorno sì e un giorno no e flirta con i sindacati di polizia più o meno autonomi e più o meno vicini alle destre. Ieri un intervento del segretario del sindacato di polizia Silp Cgil Daniele Tissone, che sul sito www.collettiva.it con prudenza invitava a riflettere “sul delicato momento che attraversiamo come anche sulla professionalità che attiene al nostro delicato lavoro”, ha fatto arrabbiare tanto i funzionari che chiedevano una difesa piena, magari un po’ corporativa, quanto coloro che nella stessa Cgil volevano una netta condanna dei manganelli. L’aria è pesante, i poliziotti si sentono sbattuti in prima linea e abbandonati, i sindacati di destra ci sguazzano.

In questi giorni Lamorgese si è confrontata più volte con il capo della polizia Lamberto Giannini, uno che alla Digos di Roma vent’anni fa gestiva senza danni emergenze di ordine pubblico ben più difficili e pericolose di quelle delle ultime settimane. Come del resto ha esperienza da vendere Enzo Ciarambino, questore di Torino, che oggi incontrerà gli studenti. Non è escluso che qualche funzionario locale rischi il posto. Finalmente, però, ieri la ministra ha parlato, la prossima settimana riferirà alle Camere. Lamorgese ha fatto sapere di aver richiamato i prefetti, suoi colleghi, alla linea “del confronto e dell’ascolto, nella prospettiva di un patto destinato alle nuove generazioni che sappia coinvolgere tutte le istituzioni e l’intera società civile”. In una nota la ministra ha ricordato che “deve essere sempre garantito il diritto di manifestare e di esprimere il disagio sociale, compreso quello dei tanti giovani e degli studenti che legittimamente intendono far sentire la loro voce”, stigmatizzando che “alcune manifestazioni sono state infiltrate da gruppi che hanno cercato gli incidenti”. In realtà, come al Viminale sanno benissimo, nei movimento studentesco ci sono componenti radicali per nulla “infiltrate”, anzi spesso alla testa delle manifestazioni, con le quali – fermo restando il codice penale – conviene confrontarsi. Ora però la linea sembra cambiare di nuovo: è dialogo. Il banco di prova sarà domani, con le nuove manifestazioni studentesche contro l’alternanza scuola-lavoro. L’auspicato allentamento delle norme anti-Covid dovrebbe consentire maggiori spazi, ma la preoccupazione per i prossimi mesi c’è, gli studenti si mobiliteranno anche sul tema delle prove scritte di fine anno, tutti a parole vogliono evitare che le tensioni di due anni di pandemia e lockdown deflagrino nelle piazze.

Mattarella “Il mio è stato un lavoro impegnativo, ma presto potrò riposare”

2013-2022. Nove anni dopo: stessa scena. Giorgio Napolitano prima e Sergio Mattarella poi, accettano un mandato bis. Nel caso di Napolitano, la rielezione arrivò dopo il fallimento della candidatura di Stefano Rodotà, il giurista venuto a mancare nel giugno del 2017. Come il suo predecessore, anche Mattarella più volte, nei mesi scorsi, ha ribadito di non voler accettare un ulteriore mandato. La politica poi ha preso una strada diversa. “Le condizioni impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati e naturalmente devono prevalere su altre considerazioni e prospettive personali differenti”, ha detto il capo dello Stato dopo aver aperto ai leader di partito, che in una settimana non sono riusciti a trovare un accordo su un nome altro. Inizia così un nuovo settennato, le dichiarazioni del passato restano sulle pagine dei giornali e nei ricordi. Di pochi.

 

Il 29 gennaio scorso, Sergio Mattarella è stato rieletto presidente della Repubblica, dopo mesi durante i quali – proprio come il suo predecessore Napolitano – aveva più volte escluso il bis.

2 febbraio 2021. Mattarella cita l’ex capo di Stato Antonio Segni e la sua convinzione che “fosse opportuno introdurre in Costituzione il principio della ‘non immediata rieleggibilità’” del Presidente della Repubblica. Segni, aggiunge Mattarella, definiva “il periodo di sette anni sufficiente a garantire una continuità nell’azione dello Stato”.

19 maggio 2021. Durante la visita all’Istituto Comprensivo Geronimo Stilton di Roma, Mattarella dice: “Il mio è un lavoro impegnativo, ma tra otto mesi il mio incarico termina. Tra qualche mese potrò riposarmi”.

11 novembre 2021. Mattarella usa le parole dell’ex presidente della Repubblica Giovanni Leone per raffreddare i rumours parlamentari e le indiscrezioni giornalistiche su un mandato bis. Dalla sala del Bronzino del Quirinale ripesca un’affermazione di Antonio Leone che chiese “la non rieleggibilità del presidente della Repubblica con la conseguente eliminazione del semestre bianco”.

12 novembre 2021. Alcune testate pubblicano la notizia del nuovo appartamento scelto da Mattarella: il contratto di affitto è già firmato.

4 dicembre 2021. Concetto Vecchio su Repubblica pubblica un articolo dal titolo: “Il ddl e le voci sul bis. L’irritazione di Mattarella: ‘Fantasie, io non ci sto’”. Il ddl al quale si fa riferimento è quello presentato da due senatori del Pd, Luigi Zanda e Dario Parrini, che prevedeva di introdurre il divieto di rielezione del presidente della Repubblica. Scrive il quotidiano: il ddl viene letto “come una sorta di lasciapassare per un secondo mandato di Mattarella (…)”. Da qui l’irritazione del Colle. “A chi lo ha cercato in queste ore – scrive Repubblica – ha espresso tutta la sua irritazione per questa lettura machiavellica. Se è così, a maggior ragione io mi chiamo fuori, ha detto (…)”.

31 dicembre 2021. Nel tradizionale discorso di fine anno Mattarella ribadisce: “Oggi questi sentimenti di coinvolgimento ed emozione sono accresciuti dal fatto che, tra pochi giorni, come dispone la Costituzione, si concluderà il mio ruolo di Presidente”.

20 gennaio 2021. L’addio al Csm: “Colgo l’occasione – dice Mattarella alla seduta del Plenum del Csm, l’ultimo che in teoria avrebbe dovuto presiedere – per ripetere a distanza di pochi giorni gli auguri più intensi al Consiglio e a ciascuno dei suoi membri per l’attività che il Consiglio svolgerà con la presidenza di un nuovo Capo dello Stato”.

22 gennaio 2021. Giovanni Grasso, direttore dell’ufficio stampa del Quirinale dal 2015, pubblica un tweet che non lascia spazio ad interpretazioni: è la foto degli scatoloni. Titolo: “Fine settimana di lavori pesanti…”

29 gennaio 2021. “Se serve ci sono”: l’intesa tra i leader di maggioranza per una seconda elezione di Sergio Mattarella è raggiunta.

Napolitano “Escludo di ricandidarmi, seguirò la volontà dei Costituenti”

2013-2022. Nove anni dopo: stessa scena. Giorgio Napolitano prima e Sergio Mattarella poi, accettano un mandato bis. Nel caso di Napolitano, la rielezione arrivò dopo il fallimento della candidatura di Stefano Rodotà, il giurista venuto a mancare nel giugno del 2017. Come il suo predecessore, anche Mattarella più volte, nei mesi scorsi, ha ribadito di non voler accettare un ulteriore mandato. La politica poi ha preso una strada diversa. “Le condizioni impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati e naturalmente devono prevalere su altre considerazioni e prospettive personali differenti”, ha detto il capo dello Stato dopo aver aperto ai leader di partito, che in una settimana non sono riusciti a trovare un accordo su un nome altro. Inizia così un nuovo settennato, le dichiarazioni del passato restano sulle pagine dei giornali e nei ricordi. Di pochi.

 

Il 20 aprile 2013, Giorgio Napolitano viene eletto per la seconda volta Capo dello Stato con 738 voti. Una possibilità, quella di ritornare al Quirinale, che l’attuale senatore a vita aveva più volte escluso nei mesi precedenti la rielezione. Ecco quando.

1 marzo 2013. Dopo un intervento all’Università di Humboldt a Berlino, Napolitano dichiara: “Non esiste un mandato a termine per il Quirinale. E, come ho già detto, non mi ricandido per la presidenza della Repubblica”. E aggiunge: “Non esistono proroghe, non esistono rielezioni a tempo, l’ho già detto tante volte. La carta d’identità conta. Non credo che sia onesto dire ‘tranquilli, posso fare il Capo dello Stato fino a 95 anni’”.

21 febbraio 2013. Una nota del Quirinale assicura: “Il Presidente Napolitano ha da tempo pubblicamente indicato le ragioni istituzionali e personali per cui non ritiene sia ipotizzabile una riproposizione del suo nome per la Presidenza della Repubblica. (…) Al Parlamento in seduta comune con i rappresentanti delle Regioni spetterà eleggere un nuovo Presidente della Repubblica (…). Dal canto suo, Napolitano non può che confermare le posizioni già espresse nel modo più limpido e netto”.

7 marzo 2013. Parlando all’Accademia dei Lincei, Napolitano dice: “Alla vigilia della conclusione del mio mandato voglio sottolineare come la conclusione corrisponda pienamente alla concezione che i Padri costituenti ebbero della figura del presidente della Repubblica, alla continuità delle istituzioni, ma anche alle leggi del succedersi delle generazioni”.

14 aprile 2013. Su Repubblica Eugenio Scalfari scrive di una sua visita a Napolitano e anche in questo caso trapela l’intenzione dell’allora capo dello stato a non cedere al bis. “Ero andato a salutarlo un paio di giorni prima. – scrive Scalfari –. (…) Ho ancora una volta tentato di fargli cambiare opinione su una eventuale prorogatio del suo mandato, ma mi ha elencato molte e solide ragioni per le quali riteneva impossibile accettarla”.

14 aprile 2013. Mario Calabresi, allora direttore de La Stampa, pubblica un lungo colloquio con Napolitano. Calabresi parla di “un trasloco definitivo, senza possibilità di ritorni.” E ancora: “In un Paese in cui nessuno vorrebbe lasciare la poltrona Napolitano invece si ritrae”.

21 aprile 2013. Giampaolo Pansa rivela su Libero di aver ricevuto una risposta “riservata” e “personale” da Napolitano dopo un suo articolo del 24 marzo dal titolo: “Napolitano resti sul Colle più alto”. “Onestamente i miei sforzi sono giunti al limite – è dunque la lettera di Napolitano –. Farò ancora per il paese quel che potrò, una volta compiuti gli 88 anni e trasferitomi in Senato. Ma non possiamo proclamare un’altra anomalia italiana. E cioè l’impossibilità, per mancanza di ulteriori ‘riserve della Repubblica’ o di persone idonee al compito, di garantire il fisiologico succedersi di un nuovo Presidente a chi abbia concluso il suo per altro lungo mandato”.

20 aprile 2013. Giorgio Napolitano accetta di proseguire il mandato.

“Sovraesposizioni da evitare”: Belloni però resta in sella

Il post su Facebook, i lanci di agenzia e una foto in un ristorante del centro di Roma. L’incontro del 1° febbraio tra il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) Elisabetta Belloni acuisce le tensioni accumulate attorno al voto per il Quirinale. Belloni era il nome che Giuseppe Conte aveva proposto per succedere a Sergio Mattarella ed è finito tritato nei giochi della politica. Con strascichi e reazioni. “Non bisogna sovraesporre il comparto”, ripetono negli ambienti dei Servizi, abituati a stare alla larga dai riflettori, dopo il post sulla pagina Facebook del ministro Di Maio, che ha pubblicato una foto dei due a tavola e il testo: “‘Con il ministro Di Maio c’è un’amicizia sempre più solida. Di Maio è sempre leale’. Queste le parole di Elisabetta Belloni, alla quale mi legano una profonda stima e una grande amicizia”. Se queste frasi sono state pronunciate davvero, lo sanno solo i protagonisti. Belloni non ha smentito, chi ne conosce l’accortezza però esclude si sia concessa simili giudizi su un politico. Certo quelle parole non compaiono in una nota del Dis ma in un post gestito, si spiega, dall’ufficio stampa di Di Maio.

Che i due si incontrino è normale: Servizi e diplomazia lavorano spesso insieme. E del pranzo, risulta al Fatto, era stata informata anche l’autorità delegata per la sicurezza, il sottosegretario Franco Gabrielli. Quest’ultimo nel pomeriggio del 1° febbraio aveva una riunione già programmata, su questioni internazionali, con Belloni e il direttore dell’Aise, il servizio segreto esterno, il generale Giuseppe Caravelli. Mentre erano riuniti la foto del pranzo e il post sono apparsi in Internet. Bisogna evitare sovraesposizioni, è l’unico messaggio dell’autorità delegata che ha confermato fiducia a Belloni. In questa chiave molti leggevano anche il lancio di agenzia di martedì in cui si dava notizia dell’incontro Gabrielli-Belloni: va tutto bene. Semmai, qualcuno le ha rimproverato una certa ingenuità nel farsi coinvolgere in contese politiche. “Elisabetta si è limitata ad aderire a un invito chiarificatore rispetto alla situazione che si era creata nei giorni precedenti”, confermano in ambienti dell’intelligence. Era stata coinvolta nella corsa al Quirinale da Conte e Di Maio, chiamandola “mia sorella” in una dichiarazione che invitava a non esporla, ha lavorato più per Mario Draghi che per lei. E l’incontro pubblico forse serviva al ministro per smarcarsi da Conte. “Ma tutto ciò che è venuto fuori non è attribuibile a lei, apprezzata e stimata da tutti. Se qualcuno strumentalizza non è colpa sua”, ribadiscono a Palazzo Chigi e nei Servizi.

Piena fiducia dunque le è stata confermata in queste ore da Draghi, forse nei giorni scorsi irritato di non aver appreso da lei della candidatura al Colle, avvenuta sia pure in un momento in cui l’obiettivo Quirinale per il premier era di fatto già sfumato. Inoltre secondo alcune fonti sarebbe stato Draghi a spingere Belloni all’incontro pubblico con Di Maio, ma da Palazzo Chigi smentiscono.

Ora non è escluso che qualche parlamentare del Copasir riapra la questione la prossima settimana quando il comitato sentirà (l’incontro era programmato da tempo) Belloni e Di Maio su Russia e Ucraina. Non sarà Elio Vito, membro del comitato di Forza Italia: “Non ho apprezzato la pubblicazione della foto e delle dichiarazioni di Belloni da parte di Di Maio – spiega – ma non credo saranno oggetto delle audizioni”. Vedremo se lo faranno altri.

Queen Elizabeth è una furia: torna e vuole la testa di Bernini

Si cammina rasente i muri perché Ella è tornata a Palazzo più infuriata di com’era partita quando aveva lasciato Roma per rifugiarsi a casa in quel di Padova: nonostante siano passati giorni, ancora non ha avuto soddisfazione per lo smacco subito nel segreto del catafalco dove l’han fatta secca gli amici, imparando a sue spese, che tali non erano.

Insomma non sono ancora rotolate le teste dei principali indiziati che le hanno impedito di traslocare al Colle, ma Maria Elisabetta Alberti Casellati li ha segnati uno per uno promettendo vendetta: “Me la pagheranno”. Intanto ha pagato Marco Ventura, il portavoce, l’ultimo di una lunga serie: con una lettera Ventura ha dovuto annunciare “immediate dimissioni irrevocabili” e preparare gli scatoloni per tornarsene a casa, altro che seguirla al Quirinale per l’ambito settennato.

E i nemici? Quelli sono ancora tutti lì. Domani per tutto il giorno sfileranno al suo cospetto facendo come nulla fosse: prima alla riunione dei capigruppo del Senato e poi alla cerimonia di Sergio Mattarella di fronte al Parlamento. Li guarderà negli occhi consapevole che in tanti non l’han votata nonostante le promesse. Tra i compari del centrodestra le son mancati ben 20 voti su 32 che le aveva assicurato il tandem centrista Toti-Brugnaro. E soprattutto 41 voti di Forza Italia di cui ha chiesto conto ad Antonio Tajani, Lucia Ronzulli e pure a Maurizio Gasparri, tartassato all’inverosimile. E naturalmente se ne è lamentata con Silvio Berlusconi a cui, narrano voci ben informate di Forza Italia, avrebbe chiesto la testa della capogruppo degli azzurri al Senato, Anna Maria Bernini, ahi lei individuata come prima della lista dei traditori che gliel’hanno fatta grossa preferendo votare persino Mattarella. O annullando la scheda subito dopo aver inviato la foto a chi l’aspettava con su scritto correttamente il nome Casellati. Quando sono state aperte le insalatiere quirinalizie in effetti si è trovato un po’ di tutto compreso un “suca chi legge” per il compiacimento sadico di chi già pregustava lo spettacolo di veder la faccia sua mentre assisteva allo scrutinio al fianco di Roberto Fico.

Ma poteva pure andar peggio a voler ritentare come aveva pur insistito Casellati, una furia dopo la batosta. Ma pretendeva il bis, ritentare e ritentare mentre i suoi alleati, diciamo così, non vedevano l’ora di ammainare la sua bandiera. Pavidi! Lei era certa che il successo prima o dopo sarebbe arrivato se non per convinzione sul suo nome, per sfinimento. “Io il mio pacchetto di voti ce l’ho anche nell’altro campo” aveva detto subito dopo, provata ma ancora fiera. E soprattutto convinta che una volta che i parlamentari di centrosinistra l’avessero smessa con la tattica di non ritirare la scheda sarebbero fioccati voti in suo favore. Forse, ma anche no: quando in segno di astensione sono dovuti sfilare sotto il banco della presidenza hanno incrociato i suoi sguardi feroci. Altri che con lei si erano sbilanciati alla vigilia con la promessa di appoggiarla hanno accelerato il passo cercando di evitare le sue occhiate.

Oggi li rivedrà tutti, poveretti loro, prima al Senato per la capigruppo, poi alla Camera e infine al Colle per l’insediamento di Mattarella. Dove sarà proprio lei a pronunciare chissà con quale umore il saluto al nuovamente capo dello Stato che l’ha surclassata nell’urna. E già c’è chi ha iniziato a dileggiarla pure per questo. “Tale incombenza nel 2015 era toccata a Piero Grasso ma solo perché Napolitano si era dimesso anzitempo e l’allora presidente del Senato era il reggente. Ancora prima nel passaggio di consegne dal Napolitano I al Napolitano II nel 2013 il saluto non c’era stato proprio. Questa volta invece il cerimoniale ha affidato il compito proprio a lei che così tanto ambiva al ruolo”. Uno sfregio? Ma no, giurano dal Quirinale: “Abbiamo individuato questa soluzione perché siamo di fronte a un unicum dal momento che Mattarella si reinsedia lo stesso giorno della sua scadenza e quindi non c’è un reggente. Quindi la soluzione più naturale era affidare il saluto alla seconda carica dello Stato che lo fa per prassi nelle altre cerimonie ufficiali”. E allora, che Ciaone sia.

Guerra a Di Maio sui posti. E Grillo appoggia Conte

L’avvocato non può cacciare il ministro, lo Statuto parla chiaro. Così Giuseppe Conte e i suoi meditano di fare il vuoto intorno a Luigi Di Maio. Togliendo i dimaiani dai comitati del M5S. Escludendo i candidati dell’ex capo dalle liste per le prossime Amministrative. E tenendolo fuori dalle riunioni operative, dove si decide la rotta. Ma molto prima dovrà arrivare un confronto “nelle sedi opportune, perché la nostra base merita chiarezza e trasparenza” fa trapelare il presidente del M5S Conte. E quando parla di chiarimenti sempre a lui si rivolge, a Di Maio: l’avversario, con cui vorrebbe fare i conti pubblici in un’assemblea, forse la prossima settimana, “o comunque con qualcosa che coinvolga tutti gli iscritti” traducono dal M5S. Proprio ciò che provano a scongiurare, o almeno a sminare, mediatori vari: dal capogruppo alla Camera, Davide Crippa, al Garante, Beppe Grillo. Per arrivare a un gruppo di senatori che ieri ha invocato un’assemblea congiunta con Conte e il ministro.

Perché magari la guerra a 5Stelle non sarà lampo, forse neppure frontale. Però si dilata, nel mercoledì in cui Conte recapita altri dardi a Di Maio: “Non dimentico chi ha sabotato un’occasione unica per portare una donna al Quirinale, le condotte che non sono in linea con i nostri principi e i nostri valori non sono accettabili”. Così avverte l’avvocato, che ieri sembra aver incassato anche il sostegno di Grillo, tramite un post dai toni misticheggianti: “Non dissolvete il dono del padre nella vanità personale, il necessario è saper rinunciare a sé per il bene di tutti, che è anche poter parlare con la forza di una sola voce”. La voce del leader, si affannano a tradurre i contiani, mentre lui, Conte, sotto il post piazza un like.

D’altronde dai piani alti del M5S mettono in luce un altro passaggio del testo: “Se non accettate ruoli e regole restano solo voci di vanità che si (e ci) dissolvono nel nulla”. Insomma, sillabe che proverebbero l’appoggio del fondatore a Conte, confermano anche non meglio precisate “fonti” vicine a Grillo: il quale però, giurano, “lavora anche a una mediazione”. Ma i dimaiani fanno spallucce: “Luigi con Grillo parla continuamente”. E comunque il tema è un altro, cioè “il chiarimento politico che non arriva, che non si vede”. Considerazioni fuori taccuino, in un diffuso silenzio. Perché ora ogni dichiarazione nel M5S può essere presa come un segno di affiliazione a una delle due parti. Ma tanti eletti prima di scegliere vogliono capire chi vincerà. Di certo Di Maio può giocare di guerriglia politica, anche a lungo. Grazie proprio a Grillo, è uno dei tre membri del Comitato di garanzia, il luogo dove si deve passare per norme e regolamenti, quindi anche per la probabilissima revisione del totem dei due mandati: la partita delle partite, quella in cui si deciderà chi sarà fuori o dentro le liste per le prossime Politiche. Ergo, un Comitato come le possibili Termopili per quel Conte che ha più truppe ma meno esperienza sul campo. Anche perché tra i tre garanti c’è anche Virginia Raggi, ex sindaca tutt’altro che contiana, che gli ha già fatto muro sull’approvazione di vari regolamenti. E poi ha tanti amici in tanti partiti, Di Maio. I centristi di vario ordine e grado, che gli tendono le braccia. E quel Giancarlo Giorgetti con cui ieri ha avuto un lungo incontro al Mise: ovvero il leghista con cui ha fatto asse per portare Mario Draghi al Quirinale, e con cui mangia regolarmente la pizza.

L’ennesimo incontro delle ultime ore, per il Di Maio che vuole ostentare la sua rete. “Molti ci corteggiano, è evidente” confermano dal giro del ministro. Ma Di Maio non parla di strappo o uscita del M5S. Per lo meno non ora. Adesso chiede altro. Una revisione dell’assetto del Movimento, innanzitutto, partendo dai cinque vicepresidenti. E garanzie. Perché il sospetto dei dimaiani, da tempo, è che l’avvocato voglia ridurli a riserva indiana nel M5S. Figurarsi ora, in tempi di guerra.