La mossa è passata quasi inosservata e invece segnala che la situazione all’ex Ilva di Taranto è al limite se il premier ha deciso di vederci chiaro di persona. Martedì Mario Draghi ha convocato Franco Bernabè, il presidente di Acciaierie d’Italia, la joint venture tra Arcelor Mittal e Invitalia che gestisce il siderurgico. Draghi ha chiesto chiarimenti all’ex manager dell’Eni su futuro dell’impianto, sullo stato della produzione e sui livelli occupazionali. È stato Palazzo Chigi a far sapere dell’incontro e il sospetto è che si sia voluto dare un segnale in diverse direzioni. Il primo per rispondere all’allarme che arriva dai territori e dal fronte confindustriale. Il secondo è di un certo fastidio del premier per come il ministero dello Sviluppo economico sta gestendo la partita. Draghi, infastidito, ha deciso di scavalcare il ministro Giancarlo Giorgetti e capire direttamente la situazione.
Ilva è in una condizione di estrema difficoltà, viaggia a scartamento ridotto, con ricorso massiccio alla Cassa integrazione e due soli altiforni funzionanti: il ritmo è di 10 mila tonnellate di acciaio al giorno, che sull’anno fermerebbero la produzione perfino sotto le 4 milioni di tonnellate del 2021, record negativo di sempre. Il segnale più preoccupante, però, è che Acciaierie d’Italia avrebbe ricominciato a non pagare o pagare col contagocce i fornitori. L’esposizione cresce a ciclo continuo (si parla di un passivo che viaggia verso il miliardo). Insomma, con le banche non più disposte a dare credito, la società si sta finanziando attraverso i fornitori.
Lo Stato si trova in una situazione imbarazzante. Bernabè è stato chiamato nel luglio 2021 a svolgere il delicato ruolo di contrappeso ad ArcelorMittal, il colosso franco-indiano che non ha alcun interesse a far sopravvivere Ilva e vuole solo scappare, ma al momento ha la maggioranza della società e il controllo operativo (affidato all’ad Lucia Morselli, scelta due anni fa per fare la guerra al governo Conte-2). Al momento i risultati non sono incoraggianti e a maggio, stando all’accordo siglato con la multinazionale un anno fa, Invitalia dovrebbe salire al 60% spendendo altri 680 milioni dopo i 400 e dispari già messi sul piatto e polverizzati nei primi mesi. Il governo deve decidere cosa fare davvero.
Con Bernabè, Draghi ha voluto capire anche la reale necessità dei 575 milioni che, nel decreto Milleproroghe di fine anno, il governo ha deciso di dirottare dai fondi destinati alle bonifiche per tenere in piedi la fabbrica. La mossa non è piaciuta a mezzo arco parlamentare e ha fatto infuriare i parlamentari pugliesi: emendamenti per sopprimere la norma sono stati presentati alla Camera da deputati di M5S, Pd e Forza Italia (solo la Lega difende la norma).
Sullo sfondo resta il piano di rilancio, presentato due mesi fa in un vertice al Mise, ma che né i sindacati, né le autorità locali e neppure il Parlamento hanno mai visto. Il premier si sarebbe informato con Bernabè soprattutto sulla società Dri Italy che deve produrre il materiale pre-ridotto per colare acciaio senza bruciare carbone e che dovrebbe vedere la luce in questi giorni (sempre presieduta dal manager ex Eni). Il piano prevede 4,7 miliardi di investimenti per decarbonizzare. Chi li metterà?