Terremotati fuori dall’hotel. E le case non ci sono ancora

“Perché a distanza di 48 ore nessuno è arrivato? Qui non c’entra la politica, ma la solidarietà. Il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi”. Il 25 novembre 1980 l’allora presidente della Repubblica Pertini, scuro in volto, si lascia andare a uno sfogo in diretta tv sui ritardi dell’emergenza per il terremoto dell’Irpinia. Altri tempi. Per il sisma del Centro-Italia, colpito dalle scosse del 24 agosto e del 30 ottobre 2016, l’emergenza ha tempi tutti suoi. Il Commissario straordinario per il sisma Giovanni Legnini, nominato a febbraio, ammette e promette: “Siamo in ritardo, ma dobbiamo recuperare. Dobbiamo accelerare e trasformare lil sisma in una leva per il rilancio del Paese”.

Difficile pensare a un rilancio valutando la situazione. In testa c’è il “caso Tolentino”. Il più grande centro del cratere delle Marche dopo Macerata, 19 mila abitanti e ancora circa 3.500 sfollati. All’indomani delle scosse il vulcanico sindaco della città, l’assicuratore Giuseppe Pezzanesi, Dc di formazione e poi fervente berlusconiano, a capo di una giunta di ispirazione civica, ha preso una decisione importante: no alle Sae, soluzioni abitative di emergenza (le casette) ma residenze definitive, qualcosa di simile al “Progetto case” a L’Aquila nel 2019, da realizzare in tempi rapidi. A oggi dei 198 alloggi previsti ne sono stati consegnati appena una dozzina: “La mia scommessa era vincente, la colpa è della burocrazia e delle istituzioni – attacca Pezzanesi, rieletto a primo turno nel 2017 –, una macchina indegna. Se qualcuno me ne chiederà conto porterò la Protezione civile a testimoniare. Ora andremo più veloci. A novembre saranno pronti altri appartamenti all’ex Capannone della Rancia, degli altri li consegneremo entro l’estate 2021, ma a differenza delle Sae dureranno 100 anni e occuperanno aree già urbanizzate. L’ex Capannone era una casa di fantasmi, diventerà un vanto per tutti”.

L’area industriale della Rancia, a 10 km dal centro di Tolentino davanti all’omonimo castello, doveva diventare un centro commerciale. Abbandonato da 12 anni, è rimasto lo scheletro. Il Comune l’ha comprato per 1,6 milioni di euro e ha ricevuto fondi dalla Regione per 6 milioni, oltre a 850 mila euro per opere di urbanizzazione. I lavori per realizzare 48 unità abitative dovevano terminare ad agosto 2019. Più o meno gli stessi tempi per la parte maggiore del progetto case in emergenza, 134 appartamenti finanziati dalla Protezione civile per quasi 21milioni di euro. In tre siti – via VIII Marzo, Contrada Pace e Piazzale Battaglia – non ci sono altro che campi incolti: “Ci vuole una legge sull’emergenza, altrimenti non ne usciamo – è il commento del capo dipartimento della Protezione civile, Angelo Borrelli –. Il motto deve essere ‘Fare presto’, ma c’è qualcuno che si prende i suoi tempi, rivede pareri, invade campi altrui, certificati che si perdono. Troppi ostacoli. La colpa dei ritardi non è mia o del sindaco, la sua scelta io l’ho avallata. Bertolaso me lo diceva ‘Angelo quando ci sono i morti si deve passare col rosso’. Cas e hotel? Qualcuno ci marcia, perché non ci sono domande per la piccola ricostruzione”. In Contrada Pace un cartellone mostra fiero il progetto de “Le nostre Sae”, scimmiottando la scelta di tutti gli altri Comuni del cratere di puntare sulle casette, ma ad oggi resta solo una transenna: “A inizio 2019 il Mef chiede ragguagli al direttore, Angelo Borrelli – attacca Flavia Giombetti, battagliera leader del Comitato 30 Ottobre – sulla tempistica. Un anno e mezzo dopo non c’è poco o nulla. Come si fa a parlare di progetto case in emergenza a quasi quattro anni dalle scosse? Assistiamo a rimpalli di responsabilità, ma intanto la gente vive nei container o presto sarà buttata fuori dagli alberghi”.

Lo impone una circolare del 28 aprile della Protezione civile che ordina a 120 terremotati delle Marche di lasciare i loro domicili. Di questi 78 sono a Tolentino: “Nessuno ci ha avvisato, lo abbiamo saputo dai social – racconta Eduard Ago, moglie e tre figli –. Non sappiamo dove andare, case non ce ne sono, né a Tolentino né nei comuni limitrofi, le uniche libere hanno affitti irraggiungibili. Noi nei container non ci andiamo, è un inferno laggiù”.

“I mattatoi tedeschi ci dicono che a ottobre tornerà l’incubo”

“Non possiamo aspettarci che SarsCov2 sparisca come la Sars, nel giro di un’estate, perché ci sono milioni di contagiati in tutti e cinque i continenti”. Mascherine portate all’italiana, sotto al mento. Assembramenti di tifosi, aperitivi, manifestanti negazionisti. Tutto sembra tornato alla normalità. Ma il Covid-19 non è scomparso. Il professor Andrea Crisanti, direttore della Microbiologia e virologia dell’Università di Padova, l’uomo dei tamponi che ha salvato il Veneto dal flagello del nuovo coronavirus, non condivide l’entusiasmo di alcuni suoi colleghi per i quali SarsCov2 starebbe scomparendo. “È soltanto diventato meno probabile infettarsi in Italia in questo preciso momento – spiega – ed è un effetto positivo del lockdown, delle mascherine e della distanza. E del caldo secco. Ma il nostro autunno sarà come i mattatoi tedeschi adesso, dove il virus anche ora sta facendo danni seri”.

La Germania per quei mattatoi ha un R0 schizzato sopra l’1.

Ci serva da lezione perché è quello che potrebbe succedere anche da noi in autunno e inverno. Nei mattatoi il clima è paragonabile al nostro inverno, la temperatura è bassa e l’umidità relativa è elevata. E pensare che la Germania era messa meglio dell’Italia: questo ci fa capire quanto in fretta possiamo perdere quello che abbiamo conquistato.

Sapremo gestire i contagi importati dall’estero?

Solo se siamo in grado di aggredire sul nascere ogni singolo cluster. I contagi importati da Paesi in cui l’epidemia è fuori controllo sono molto pericolosi. Ne abbiamo avuto uno anche a Padova, una badante che ha infettato tutta la famiglia. E se non vengono individuati subito, l’Italia rischia di perdere tutto il lavoro fatto con il lockdown.

Che cosa ci sta salvando oggi?

Di certo non le nostre misure o le grandi strategie. Direi il caldo, il sole, le mascherine, il distanziamento, l’eredità di un lockdown durato più di due mesi. In questo momento la probabilità di infettarsi in Italia, specialmente in alcune regioni, è piuttosto bassa. Personalmente evito gli assembramenti ma vado al ristorante, ho smesso di portare la mascherina Ffp2 e sono passato a quella chirurgica. E un giorno spero di potermela levare del tutto.

Per alcuni suoi colleghi i tamponi positivi oggi hanno così poca carica virale da poter essere considerati negativi.

Questi risultati sono ottenuti valutando la capacità del virus di infettare cellule in vitro, un sistema artificiale che non necessariamente riproduce fedelmente la capacità infettiva nell’uomo. Inoltre pazienti con basse cariche virali erano presenti anche durante la fase acuta dell’epidemia.

Il nuovo coronavirus non è mutato in una forma meno aggressiva?

Dovremmo smetterla di considerare il virus come un singolo, il virus è una moltitudine. Sarebbe meglio dire “i virus”. Anche se uno ha subito una mutazione nel segno di una minore infettività o virulenza, non vuol dire che sia così ovunque e che quel pezzo che ho individuato sia il ceppo dominante. Non posso usare un singolo virus per trarre delle conclusioni generali.

Lei non sta partecipando a questo progetto nazionale che cerca dei nuovi criteri per restringere la definizione di tampone positivo al virus?

No. Perché per fare un lavoro serio servirebbe un’analisi sistematica della carica virale nei tamponi effettuata in un momento in cui c’è tanta trasmissione. In questo momento andrebbe fatta in Brasile o negli Stati Uniti. Va prima determinata la dose minima infettante che non conosciamo assolutamente.

Preoccupa la diffusione in Lombardia, dove i “casi” non scendono.

La Lombardia per me è una grande incognita sulla quale rinuncio a esprimermi perché non so quali siano i numeri reali, non so chi stanno testando e secondo quali criteri. Ma sono preoccupato che questi contagi a un certo punto possano far ripartire l’epidemia.

La Procura di Bergamo le ha affidato una consulenza tecnica nell’inchiesta sull’epidemia. Lei gode di grande stima ma c’è chi la attacca dicendo che non è neanche un virologo.

È vero e forse proprio perché non sono un virologo ho potuto vedere l’epidemia in un modo diverso e originale. Sono un microbiologo e per trent’anni mi sono occupato di misure di controllo delle malattie epidemiche nei Paesi in via di sviluppo. L’epidemia è un problema che dipende dalle caratteristiche dell’agente patogeno, ma le misure per bloccare la sua diffusione richiedono conoscenze di matematica, statistica, sociologia. Non sono necessariamente competenze dei virologi.

Palamara: “Dirò la verità sul ‘ricatto’ Woodcock”

È la notte tra il 28 e il 29 maggio 2019. Luca Palamara si sfoga a lungo con l’ormai ex vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. E ha già l’istinto dell’animale ferito che lo accompagnerà fino a questi giorni. Pensa di parlare ai giornalisti, se possibile con Lucia Annunziata, e annuncia a Legnini cosa vorrebbe raccontare in tv: il motivo per cui il processo disciplinare di Henry John Woodcock è slittato alla nuova consiliatura del Csm.

“È una cosa che vorrei di’, questa, cioè che il processo Woodcock non è stato fatto per ‘sto motivo…”, dice Palamara a Legnini. Non si tratta di una frase senza peso. Soprattutto, come vedremo, per il seguito del discorso.

E quindi: qual è il vero motivo per cui è stato rinviato il disciplinare su Woodcock?

Il sospetto è che Palamara stia inviando “messaggi” e “pizzini”. Se vuole raccontare tutto quel che sa, se davvero ha delle verità da rivelare, potrebbe spiegare perché, in più di un’occasione – parlando per esempio con il parlamentare del Pd Luca Lotti – lega la parola “ricatto” al procedimento disciplinare su Woodocock: “Cioè Luca… è un ricatto da febbraio duemila… cioè anzi.. da pre-Woodcock… cioè questo è uno dei motivi per cui non ci fanno chiudere Woodcock…”. Qual è il ricatto? E qual è il motivo per cui non gli fanno “chiudere” Woodcock?

Il Fatto ha chiesto a Palamara di spiegare il senso delle sue parole. “Non avrò difficoltà a riferire nelle sedi istituzionalmente competenti il significato della mia conversazione con Giovanni Legnini” risponde Palamara. Palamara dice di essere pronto a spiegare. Vedremo se davvero Palamara si muove per amore di verità o se sta invece inviando messaggi ai naviganti. E vedremo se qualcuno, a livello istituzionale, ha interesse ad ascoltarlo. Intanto, per comprendere il livello della vicenda in questione, ricostruiamo il suo dialogo con Legnini.

“È una cosa che vorrei dì, questa, cioè che il processo Woodcock non è stato fatto per ’sto motivo…” esordisce Palamara. E Legnini lo interrompe: “No, non lo puoi dì”. Ecco: cos’è che Palamara non può dire?

“Lo so” risponde Palamara, “però Giovà, ho capito, non to vo (sembra dire “non ti voglio”, ndr)…”. Legnini lo interrompe ancora: “Dentro pure me”. Perché “pure” Legnini finirebbe “dentro” questa storia? Palamara gli risponde: “No, ma senza mettere in mezzo te, senza mettere in mezzo te, che questa cosa già girava quando (inc.)… e ma io lo devo dì…”.

Legnini – mentre Palamara gli dice di temere che, rivelando questa storia, avrebbe problemi con il Fatto Quotidiano – torna a dargli un consiglio: “Io la vicenda Woodcock non la sfruculerei, mentre invece sulle incertezze investigative, su Scafarto, vicende della Procura cioè, la parte Csm, mo’ non mi riferisco solo, ma io non la toccherei, anche perché noi abbiamo fatto esattamente il nostro dovere, alla fine abbiamo rinviato, e abbiamo fatto bene a farlo, certo per quel motivo, però (…) alla fine era anche una decisione ragionevole quella un (inc.) scadenza ehhh era giusto”.

In quest’ultima frase, non solo Legnini conferma che i due stanno parlando dei rinvii del disciplinare su Woodcock, ma dimostra che – accanto alla “decisione ragionevole” dovuta al Csm in “scadenza” – c’era dell’altro: “abbiamo fatto bene a farlo… certo, per quel motivo”. Di quale motivo sta parlando?

Lungi dal creare problemi con il Fatto Quotidiano, la domanda è stata formulata sia a Palamara, sia a Legnini. Ecco la sua risposta: “Gli sconsigliai – dice Legnini – di parlare con la stampa di presunti complotti riguardanti il procedimento Consip, che era stato condotto in modo del tutto trasparente, come può ricavarsi dai verbali delle numerose udienze. Non ci fu alcun condizionamento né su di me né sugli altri componenti del collegio, che decisero in assoluta autonomia”. E ancora: “Ignoro il presunto ‘ricatto’ di cui si parla in altre intercettazioni. Ripeto: ho presieduto il collegio disciplinare sul caso Woodcock libero da qualunque condizionamento. Il procedimento non si concluse poiché ne fu deciso il rinvio al nuovo Consiglio, deliberato in Camera di consiglio in assoluta libertà e autonomia di tutti i suoi componenti, su richiesta della difesa del magistrato incolpato. Eravamo a settembre 2018, prima della scadenza della consiliatura fissata per il 24 di quel mese, e i nuovi consiglieri erano stati già eletti tra giugno e luglio”.

Procura di Roma, gli sconfitti fanno ricorso

Da un lato non c’è pace per la nomina del procuratore di Roma. Dall’altro il “caso Palamara”, con le migliaia di chat scambiate tra colleghi, potrebbe presto sfociare in decine di istruttorie per incompatibilità ambientale che incombono così su altrettanti uffici giudiziari. Un terremoto dietro l’angolo. Iniziamo dalla questione romana.

L’anno scorso di questi tempi, prima che il plenum scegliesse il successore di Giuseppe Pignatone, il totonomine ha squassato il Csm per il cosiddetto caso Palamara. Adesso il posto di Michele Prestipino traballa per i ricorsi di altri candidati. Secondo quanto ci risulta c’è già un ricorso depositato al Tar del Lazio, quello del procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. A giorni potrebbe arrivare anche quello di Marcello Viola, pg di Firenze.

Creazzo, dopo aver perso in plenum, così come il procuratore di Palermo Franco Lo Voi, ha deciso di ricorrere sulla base del cosiddetto “testo unico della dirigenza”. Con la nomina di Prestipino sarebbe stata violata la normativa perché è stato scelto un candidato con meno titoli. Prestipino era procuratore aggiunto, sia pure reggente della Procura di Roma, dopo il pensionamento di Pignatone. Creazzo, invece, è procuratore dal 2009, prima a Palmi e da sei anni a Firenze.

Dunque, il Consiglio che doveva dare un segnale forte e chiaro di svolta, come chiesto dal presidente Sergio Mattarella, si ritrova con un ricorso già depositato e un altro imminente anche se Prestipino, si intende, è completamente estraneo al “casus belli” scoppiato a fine maggio 2019 con l’arcinoto dopo cena del 9 maggio all’hotel Champagne di Roma in cui si provò a pilotare la nomina. Protagonista Luca Palamara. Con lui 5 togati, Gianluigi Morlini e Luigi Spina, Unicost, la corrente centrista di Palamara; Antonio Lepre, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli, di MI, la corrente conservatrice di Cosimo Ferri, toga in aspettativa, deputato renziano, presente, e Luca Lotti, indagato a Roma per Consip. Si disse che Creazzo non doveva andare a Roma né restare a Firenze e il posto doveva essere di Marcello Viola, di Mi, distante da Pignatone, ormai inviso a Palamara, dopo anni di idillio. Viola, che nulla sapeva della trama, ne fa però le spese “politicamente”: la Quinta commissione, che azzera il voto del 23 maggio 2019 a lui favorevole, lo esclude dalla corsa al secondo voto a pratica fatta ripartire da zero.

In plenum si arriva il 4 marzo scorso . Prestipino viene scelto a maggioranza dopo un ballottaggio con Lo Voi. Al primo turno, infatti, Prestipino non raggiunge il quorum. Per Creazzo, al primo turno, si schierano i 3 togati di Unicost, 2 togati di AeI (Ardita e Di Matteo) e il laico M5S Donati.

E ora incombono i ricorsi. L’unico che, pare, non voglia presentarlo, è Lo Voi. Il procuratore di Palermo starebbe puntando alla Procura nazionale antimafia che Federico Cafiero de Raho lascerà per la pensione tra un anno e mezzo. Lasciamo Roma e spostiamoci negli altri epicentri che il caso Palamara ha lasciato in eredità. Va premesso che, per il momento, non esistono pratiche aperte per incompatibilità ambientale e non siamo neanche in una fase pre istruttoria. Il numero delle posizioni che Procura generale della Cassazione e Csm stanno vagliando è molto alto – le chat sono migliaia – e i tempi si preannunciano piuttosto lunghi. Ma circolano già alcune indiscrezione su chat o intercettazioni che potrebbero portare alla necessità di una pre-istruttoria.

Il magistrato Fulvio Baldi, per esempio, mentre è capo di gabinetto del ministro di Giustizia Alfonso Bonafede discute con Palamara di una collega che aspira a un incarico ministeriale. In uno dei dialoghi Baldi fa riferimento a Maria Casola, che nei giorni successivi sarebbe stata nominata capo del dipartimento degli affari di giustizia (Dag), quando Palamara gli chiede: “Se la prende lei o no?”. Baldi replica: “Eh, be’, ma la Casola è nostra ragazzi, gliela indichiamo noi che cazzo, e allora che cazzo piazziamo a fare i nostri?”. “Alla Casola non l’ho mai segnalata” ha spiegato Baldi al Fatto che, dopo la pubblicazione di questi dialoghi s’è dimesso dal ministero. Ora è sostituto procuratore generale della Cassazione. Il consigliere del Csm Nino Di Matteo aveva chiesto durante il plenum il rinvio della pratica del suo rientro in ruolo per una questione di opportunità, poiché la Procura generale della Cassazione si occupa delle questioni disciplinari. Quella di Baldi è una delle posizioni al vaglio di chi sta analizzando chat e intercettazioni.

Sotto esame anche le conversazioni dei magistrati Massimo Forciniti e Antonella Salvadori, compagna a sua volta di un altro giudice, Dodero Onelio. E proprio di Onelio discute Forciniti con Palamara: “Non c’è marito della Salvadori?” chiede Forciniti. “Cuneo” risponde Palamara. E Forciniti : “Dodero Onelio. Ci terrebbe anche Tarditi (Luciano, all’epoca pm ad Asti, ndr), meno bravo e non nostro. Solo anziano. MI porta Pianta. Questo mi scrive Tassone (Stefania, Presidente Sezione di Tribunale di Torino, ndr)”. E Salvadori lo stesso 23 aprile 2018 scrive a Palamara di aver parlato con Tassone: “Ciao Luca, mi ha appena scritto Stefania Tassone dicendomi che Procura Vercelli è imminente e che lei ha espresso il suo parere. Ma ha parlato con te?”. “No”, risponde Palamara, “oggi è venuta solamente in discussione la Procura di Vercelli, ma siamo rimasti di rinviare la trattazione in prossimità dei posti di Cuneo e di Alessandria”. Il 7 giugno 2018 Palamara scrive a Salvadori: “A breve votiamo Cuneo. Tutto ok!!”. Pochi minuti dopo le scrive: “5 a 1. Solo Morgigni ha votato Tarditi”. La Salvadori gli risponde: “Mi sembra ottimo. Luca caro, ancora grazie di tutto”. Dodero Onelio si insedia a capo della Procura di Cuneo il 22 giugno 2018. Imbarazzanti anche i messaggi tra Palamara e Francesco Cananzi, anch’egli all’epoca dei fatti componente del Csm. Nella loro corrispondenza anche un bigliettino con un elenco di nomi che Cananzi suggerisce a Palamara. C’è poi il caso del magistrato torinese Angelo Renna che il 16 ottobre 2017 scrive a Palamara: “Se riuscite a fottere la Savoia sarebbe un gran colpo”. Parla del giudice milanese Luisa Savoia.

Grillo e l’assist a Tim sulla fibra

Come da prassi su tanti altri temi, il governo indugia da mesi, allora Beppe Grillo è intervenuto per dettare la linea sulla rete unica nella telefonia per portare l’Internet veloce (in fibra ottica) ovunque in Italia. Con un intervento sul blog, il fondatore dei 5Stelle suggerisce (intima?) all’esecutivo di fondere le infrastrutture di Open Fiber e Telecom e di aumentare la presenza statale con Cassa Depositi e Prestiti nella stessa Telecom. Non è un caso che la sola replica di governo arrivi dal premier Conte, che si è detto disponibile a valutare l’ipotesi di Grillo, mentre i 5Stelle che un tempo lo seguivano come un messia, tacciono imbarazzati.

Il fondatore ha sviluppato una lunga intemerata contro Open Fiber, controllata al 50 per cento da Enel e da Cdp. Per il comico, Open Fiber ha fallito il suo compito pensato dal governo Renzi: creare una rete alternativa a quella dell’ex monopolista. Nonostante i contributi pubblici per oltre 2,5 miliardi di euro ottenuti da Infratel con un notevole ribasso in bandi di gara pubblici, ha ricordato Grillo, l’azienda non è riuscita a ridurre il divario digitale nelle zone interne dell’Italia e meno appetibili per il mercato, le cosiddette aeree bianche e grigie, ma anzi si è spinta a rivaleggiare con Tim, a sua volta partecipata da Cdp con il 9,9% del capitale. Open Fiber ha reagito con un comunicato assai duro: Grillo è informato male, propala fake news. Con scarsa delicatezza per il comune azionista Cdp, ha precisato di “non fare concorrenza a tutti gli operatori, ma solo a Tim”. I ritardi di almeno tre anni nei lavori per la posa della fibra di Open Fiber sono ormai noti e oltremodo consolidati (poche centinaia di comuni connessi).

Francesco Starace ha ottenuto il terzo mandato di amministratore delegato di Enel, ma sul dossier Open Fiber è stato commissariato dai 5Stelle con la presidenza all’avvocato Michele Crisostomo. Alla vigilia delle nomine, Starace era rigido sull’argomento e non voleva vendere la quota di Enel in Open Fiber (non ammettendo il flop), adesso dovrà abbassare le sue pretese (per Grillo si compota da “padre padrone”). E poi c’è la Telecom dell’ad Luigi Gubitosi – che pare abbia buoni rapporti con Grillo – che non può rinviare le decisioni sulla rete unica e da mesi si propone per un accordo con Open Fiber per garantirsi un futuro più sereno. È tutto apparecchiato per la rete unica, pure il governo ne è convinto, ma non sa come farlo. Nuova società tra Tim e Open Fiber? Cdp diventa primo azionista (oggi lo è la francese Vivendi con il 23,9%) di Telecom? Gubitosi vuole che Tim abbia il comando della nuova società. Aspettando un assetto plausibile – per esempio il Tesoro non intende agevolare una scalata di Cdp in Telecom – la conseguenza dell’uscita di Grillo è politica: chi si occupa del dossier è rimasto perplesso, i parlamentari lo ignorano, il premier Conte lo asseconda. Più che rete unica, per ora si vedono doppi Cinque Stelle.

Atlantia ride, De Micheli vuol ampliare Fiumicino

Pareva una storia morta e sepolta e invece, a sorpresa, torna alla ribalta la costruzione della quarta pista all’aeroporto di Fiumicino con l’inevitabile invasione dei terreni della Riserva naturale statale del litorale romano addirittura in “Zona 1”, quella su cui non può essere costruito alcunché in quanto tutelata con il massimo rigore dalla legge. La pista risorge dalle sue ceneri come se il Covid-19 avesse avuto anche l’effetto miracolosamente perverso di trasformare in infrastrutture necessarie opere già bocciate perché inutili o dannose.

La quarta pista torna in auge non da una porticina laterale, ma dal portone del palazzo di Porta Pia a Roma sede del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. È la ministra Paola De Micheli del Pd a volerla, anche a costo di sfidare tutte le decisioni istituzionali contrarie succedutesi fino a oggi e aprire polemiche con molti esponenti del suo partito e dei 5 Stelle. Tra i politici Pd con cui la De Micheli rischia di scontrarsi c’è addirittura il segretario Nicola Zingaretti il quale nella campagna elettorale per la presidenza della Regione Lazio aveva chiarito nel suo programma che la Riserva naturale del litorale non andava toccata e lo sviluppo dell’aeroporto sarebbe stato possibile anche senza la Quarta pista. Sulla stessa lunghezza d’onda si è sempre mosso l’amico di una vita e compagno di partito Esterino Montino, sindaco di Fiumicino, il comune dell’aeroporto: anche lui non è affatto contento dell’inopinato ripescaggio della quarta pista e l’ha già dichiarato pubblicamente.

Non è affatto entusiasta del ritorno di fiamma della pista neppure il ministro dell’Ambiente dei 5 Stelle, il generale della Forestale Sergio Costa. Furono proprio gli uffici del suo ministero il 26 ottobre 2019 a dare quello che allora era sembrato il colpo di grazia al raddoppio di Fiumicino con annessa quarta pista. Dopo 31 mesi di studi e approfondimenti la Commissione Tecnica di Valutazione impatto ambientale-Valutazione ambientale strategica del ministero espresse un inequivocabile “parere negativo circa la compatibilità ambientale” del progetto. Nel frattempo, e in circostanze diverse, contro raddoppio e quarta pista si erano espresse la Regione Lazio, il comune di Fiumicino, la Commissione Riserva, associazioni e comitati nazionali e locali tra cui ha sempre primeggiato il Comitato Fuoripista.

Di fronte a queste reiterate bocciature, qualche tempo dopo c’era stata qualche reazione contraria, che era però sembrata più di circostanza che di sostanza. In un’intervista al Sole 24 Ore l’amministratore della società Aeroporti di Roma della galassia Atlantia (cioè Benetton), Ugo De Carolis – poi silurato – aveva fatto capire con una certa burbanza che bocciatura o no la quarta pista si sarebbe fatta, come se, al pari delle autostrade, lo scalo romano fosse roba loro e non dello Stato. Anche l’Enac, Ente nazionale dell’aviazione civile, si era risentito: dopo aver sposato senza riserve il progetto per Fiumicino in versione Benetton ai tempi della presidenza di Vito Riggio, durata un quindicennio fino all’autunno 2018, l’ente dell’aviazione aveva deciso di tenere il punto facendo ricorso al Tar contro il parere del ministero dell’Ambiente.

Tutto, però, sembrava finito lì: un innocuo petardo. La ministra De Micheli, invece, fa ora risorgere la quarta pista con il programma di interventi chiamato ItaliaVeloce: a pagina 22, al paragrafo “Sviluppo aeroporto di Fiumicino” tra gli interventi prioritari c’è “Costruzione di una nuova pista di volo (quarta) e adeguamento della capacità dei terminal coerentemente con le previsioni di crescita dei passeggeri”.

Qualche sponda a palazzo Chigi nel frattempo la ministra deve averla trovata perché nei giorni più terribili della pandemia anche il Dipe (Dipartimento per la politica economica del governo) in una relazione sullo sviluppo degli aeroporti inserisce la quarta pista tra le opere urgenti con relativi interventi: il raccordo autostradale con la Roma-Civitavecchia a nord e il raddoppio da 2 a 4 del numero di binari che arrivano all’aeroporto.

Anche i Benetton nel frattempo si danno da fare per Fiumicino e approfittando della liquidazione di Spea stanno spostando la bellezza di 100 ingegneri sull’aeroporto romano.

Schiaffo della Meloni a Salvini

Dopo settimane di incontri, tensioni, veti e controveti, arriva l’accordo nel centrodestra sulle Regionali. Si tratta dell’intesa sottoscritta da Salvini, Meloni e Berlusconi lo scorso autunno, che molti davano per morta e invece ha tenuto. Con un inconsueto asse tra Berlusconi e Meloni. A proposito di Berlusconi: l’ex Cavaliere è ancora in Provenza, nella villa della figlia Marina, dove si è rifugiato prima del lockdown. E dove, visti i numeri della pandemia ancora presente in Lombardia, pare abbia intenzione di restare. Secondo altri, invece, rientrerà presto in Italia, ma direttamente in Sardegna, a Villa Certosa, senza mettere piede ad Arcore.

Ma torniamo all’accordo. Che è il seguente: Stefano Caldoro (FI) sarà il candidato in Campania, Raffaele Fitto (FdI) in Puglia, Francesco Acquaroli (FdI) nelle Marche e Susanna Ceccardi (Lega) in Toscana. Più i due governatori uscenti: Giovanni Toti in Liguria e Luca Zaia in Veneto. Dunque il leader leghista, che fino all’ultimo aveva lottato per avere almeno la Puglia, con l’ex braccio destro di Fitto, Nuccio Altieri, esce sconfitto. Ciò che il Capitano riesce a ottenere sono i candidati in una serie di città del Sud prossime al voto: Reggio Calabria, Nuoro, Chieti, Matera, Avezzano, Benevento e Caserta. E a Reggio Salvini punta a far eleggere “il sindaco del ponte”. Altro risultato raggiunto è il divieto di candidature “impresentabili”. “In Campania voglio liste pulite”, ha detto, stoppando Cesaro & C.

La domanda, però, è la seguente: perché Salvini ha ceduto? È stato colpito da sindrome gandhiana verso gli alleati? Niente affatto. Molto, dicono, è dipeso dai sondaggi. Secondo alcune fonti, l’unica regione che la Lega considera contendibile è la Puglia, ma qui Meloni è stata irremovibile su Fitto. Così Salvini ha deciso di non andare alla guerra con Giorgia e tenersi stretta la Toscana, dove però con Susanna Ceccardi rischia di replicare la performance in Emilia.

L’insoddisfazione, però, nella Lega è palpabile. Perché conquistare una regione al Sud avrebbe messo il sigillo definitivo alla Lega per Salvini premier, che invece così resta confinata nel centro-nord. Ma insoddisfazione c’è pure tra i berluscones. “Tutti i candidati sono frutto di logiche interne ai partiti. Caldoro, per esempio, è il nome dell’asse Ghedini-Ronzulli in funzione anti-Carfagna. Tra l’altro, una candidatura che sa di vecchio, come quella di Fitto in Puglia, visto che entrambi sono stati già governatori”, si sfoga un senatore forzista. E pure le Marche ribollono: Francesco Acquaroli, già candidato e sconfitto nel 2015, viene considerato “debole”. In molti avrebbero preferito l’ex sindaco di Ascoli Guido Castelli, che proprio un anno fa lasciò FI per la Meloni.

Renzi schiera i sabotatori. Duello Orlando-Bonaccini

“Fuori sincrono”: la definizione, correntemente, viene usata per indicare una stonatura nel ritmo tra immagine e video. Ma è efficace anche per descrivere l’uscita con la quale Giorgio Gori ha messo in discussione la leadership di Nicola Zingaretti. Almeno per come l’hanno valutata praticamente tutti nel Pd.

Non a caso, il copyright è di Gianni Cuperlo, che va oltre: “Più avanti ci sarebbe stato tutto il tempo di avanzare candidature, e anche di contarsi”. Fuori sincrono e pure guastafeste, per chi si stava organizzando per un segretario diverso.

L’alzata di scudi contro il sindaco di Bergamo è stata generale. Non solo da parte della maggioranza del partito. Neanche nella sua corrente, Base Riformista, ha trovato particolari consensi. Gori è in pessimi rapporti con molti. Soprattutto con il coordinatore, Alessandro Alfieri, che è anche il fedelissimo del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Sempre più il vero leader di Br, mentre Luca Lotti è costretto a stare defilato.

Dunque, Gori appare soprattutto un sabotatore. Non il solo emerso in questi giorni. L’altro è Ivan Scalfarotto, che si è candidato, per Iv, in Puglia contro Michele Emiliano. Come comun denominatore i due hanno la matrice renziana. Gori, tra i primi a salire sul carro renziano dei tempi d’oro, e l’ex premier hanno avuto una rottura plateale anni fa. Ma sono seguiti riavvicinamenti e allontanamenti continui. La mano di Matteo Renzi in questa partita magari non è la sola determinante: ha giocato l’ambizione personale dello stesso Gori, che da tempo accarezzava l’idea di poter sfidare Zingaretti. Il congresso, però, per ora non c’è. Ma questo non vuol dire che la pax democratica (che al Nazareno sponsorizzano come un evento inedito nella storia del partito) sia reale. Perché in era pre-Covid, il vicesegretario Andrea Orlando e il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, erano già pronti a scendere in campo. E non hanno mai smesso di lavorare su questa possibilità. E alcuni parlamentari di maggioranza vedono un filo che unisce le parole di Gori e la discesa in campo di Bonaccini: la regia di Renzi, che con quest’ultimo resta in buoni rapporti e lo vede come una possibilità per continuare a pesare nel Pd. Ma tutto era spostato a dopo le Regionali. Il Pd oggi governa in 4 delle 6 al voto (Marche, Toscana, Puglia, Campania). Rischia di perdere almeno la Puglia. A quel punto, i giochi si riaprono.

Nel frattempo il Pd riprende a fibrillare. Azioni di disturbo che Renzi vede di buon occhio, mentre i suoi sondaggi continuano ad essere giù e il rischio di una legge proporzionale che lo metta definitivamente fuori dai giochi avanza. Quindi, con i diversamente renziani rimasti nel Pd (da Andrea Marcucci in giù), prova a condizionare il suo ex partito. Sulla legge elettorale, poi, gioca insieme a Giuseppe Conte. E qui, si arriva al disturbatore numero due. Ovvero Scalfarotto. Che Renzi non avrebbe mai appoggiato Emiliano era chiaro dall’inizio.

In origine, la sua sembrava una scelta dettata dalla voglia di far perdere il Pd, magari facendo contemporaneamente un piacere a Matteo Salvini. Però la Lega non è riuscita a imporre il suo candidato e ha dovuto accettare quello di FdI, Raffaele Fitto.

La strategia è cambiata: oggi l’ex premier punta a cavalcare le divisioni dem rispetto al governatore uscente. E a cercare di spingerlo al ritiro. A quel punto, anche Scalfarotto si chiamerebbe fuori, con l’idea di convincere la candidata M5S, Antonella Laricchia, a fare lo stesso. A favore di un candidato unico del governo. Due piccioni con una fava: destabilizzare il Pd e offrirsi a Conte come un alleato utile.

Per lo spettacolo. Adesso linee guida per gli eventi e aiuti alle maestranze

Invitare personalità tra le più disparate con l’obiettivo di mettere sul tavolo le proprie idee può essere interessante e in questo senso gli Stati generali possono essere stati un luogo di condivisione importante. Il primo impatto, però, è stato più quello di un circolino elitario e iper-chic, l’effetto è stato respingente. Se devo dare un giudizio su Giuseppe Conte, ritengo che ci sia andata di lusso ad avere lui come presidente del Consiglio in questa fase piuttosto che qualcun altro con cui ci sarebbero stati scenari distopici e disastrosi.

Fossi andato io agli Stati generali, avrei proposto un paio di idee percorribili e molto pragmatiche per il mio settore. Il grande problema del mercato discografico è l’eventistica – non solo i concerti – perché c’è un intero settore che muove un’economia importante e che rimarrà fermo sei mesi se non di più. Parliamo di operai che montano le strutture, tecnici, fonici, gente che avrà un serio problema di reddito per mesi. Nel mio piccolo, con la mia società, ho cercato di portare avanti idee di eventi drive-in che potessero permettere un distanziamento. Il problema è che mancano del tutto le linee guida. Mi rendo conto che le priorità in questo momento possano essere altre ed evidentemente questa non è ritenuta tale, ma io ho provato a muovermi e non c’era proprio modo di farlo. Ho pensato a un evento iconico, importante, che potesse funzionare un po’ da paradigma per raccontare questo periodo storico in sicurezza, ma senza quelle linee guida il rischio è quello di fare un disastro completo e creare assembramenti. C’è poi un’altra questione e riguarda anche molti miei colleghi che in questi giorni stanno protestando. Se noi artisti, “primo mondo” di questo settore, vogliamo aiutare le maestranze della musica, allora decurtiamoci gli anticipi minimi garantiti da parte delle società di booking, che a loro volta potrebbero rinunciare a qualcosa dei loro guadagni e creare con noi un fondo da mettere a disposizione di chi lavora agli eventi.

*Cantante e produttore. Il testo è un estratto dell’intervista rilasciata ieri a Peter Gomez su ilfattoquotidiano.it

Per l’economia. La rivoluzione è muovere in fretta gli investimenti

Se la crisi è senza precedenti, occorre darsi da fare in una maniera senza precedenti. Ma la prima reazione istintiva è che di questi Stati generali resterà impressa solo la cornice di fondo di Villa Pamphilj con la presenza di troppe auto blu. Quegli stessi incontri si sarebbero potuti svolgere anche a Palazzo Chigi ed evitare le polemiche. Risultati nuovi? Resta tutto da vedere. Solo tra una settimana si potrà leggere il Piano di rilancio e capire se il premier Conte avesse realmente bisogno di uno strumento catalitico per prendere delle decisioni. Gli interventi che dovrà proporre il governo dovranno avere priorità temporali: l’Italia non ha bisogno di 70 misure. Se si vuole fare bene serve un impegno politico, bisogna puntare su poche e realizzabili. Ora al Paese ne basterebbero tre: la riforma della giustizia civile con un nuovo codice degli appalti; una riduzione effettiva della burocrazia in tutto il suo apparato; una spesa per investimenti pubblici. Ma non parlo di grandi opere. Ora è tornato di moda il ponte sullo Stretto di Messina. Sarebbe un errore: quei finanziamenti potrebbero andare alla manutenzione di altri ponti e strade e alla messa in sicurezza delle scuole. C’è, poi, la necessità di investire nell’impianto del sistema sanitario non perché si debba fare solo per necessità a causa di una pandemia, ma per aumentare la qualità dei servizi.

Sono proposte che certamente attirano meno la politica: inaugurare una linea ferroviaria per i pendolari, come la Mantova-Cremona, non è così attraente come una grande opera. Eppure per l’Italia mille interventi piccoli sarebbero meglio di poche opere faraoniche. C’è un problema di concretezza che va sempre valutato. Il gergo militare può aiutare a capire meglio: non si può attaccare su tutti i fronti, perché puntare su troppi obiettivi non porta da nessuna parte. La vera rivoluzione è un’altra: muovere più velocemente gli investimenti.

* Direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani