Tutte le proposte del Piano: treni, green e meno contanti

Il Piano di rilancio con le cifre ancora non c’è, ma gli obiettivi per rimettere in piedi l’Italia sono già tracciati dal governo: Alta velocità, pagamenti digitali, investimenti in ricerca e scuola, taglio del cuneo fiscale e l’addio al combustibile fossile. Il premier Giuseppe Conte ora avrà una settimana di tempo per tradurre le proposte raccolte durante gli Stati generali dell’economia in misure concrete per riuscire a “reinventare il Paese, affinché sia moderno, sostenibile e inclusivo”. Un piano che verrà poi presentato a settembre per ottenere le risorse del Recovery plan europeo. Ecco, in sintesi, le linee di intervento.

Iva Ieri il premier Conte intervistato dal direttore de ilfatto.it Peter Gomez ha ribadito che si sta valutando l’eventualità che l’Iva possa essere abbassata per un breve periodo di tempo seguendo l’esempio della Germania che ha scelto di tagliarla dal 19 al 16% per 6 mesi. Il problema è il costo: ogni punto di aliquota vale 4,3 miliardi nel caso di un taglio dal 22% al 21% e 2,9 miliardi dal 10% al 9%. Sarebbe da finanziare con risorse in deficit. Per il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, la riduzione andrebbe inserita in una riforma fiscale di ben più ampio respiro.

Cashless È uno dei cavalli di battaglia del premier: il piano per i pagamenti digitali, e quindi tracciabili, che consentirà il contrasto al nero. E che in futuro potrebbe anche essere legato alla riduzione dell’Iva. Per ora la proposta, presentata in passato ma mai attuata, prevede di far pagare meno soltanto se si utilizza il bancomat o la carta di credito. Intanto restano su carta le due misure previste dalla legge di Bilancio 2020: il fondo da 3 miliardi del bonus Befana è finito tra le risorse del dl Rilancio e la lotteria degli scontrini è stata rinviata al 2021.

Cuneo fiscale Un’altra ipotesi per rilanciare l’economia è quella di proseguire sulla linea del taglio del cuneo fiscale e, quindi, del costo del lavoro attraverso una riduzione del prelievo su certi scaglioni dell’Irpef. “Già a luglio avevamo predisposto una misura. È una direzione giusta che va perseguita”, ha detto Conte. La viceministra dell’Economia Laura Castelli ha promesso che nella prossima legge di Bilancio ci sarà un intervento più organico di riforma per la riduzione delle tasse, Irpef compresa.

Alta velocità È uno dei progetti sui quali governo e maggioranza hanno siglato la tregua: le infrastrutture al Sud. Il primo traguardo potrebbe essere il via alla realizzazione di una linea di Alta velocità da Brindisi a Napoli. L’obiettivo che interessa a Conte è “quello pratico” che consente di accorciare i tempi di percorrenza e che permetta anche al Sud di avere “treni buoni, efficienti e funzionanti”.

Donne manager C’è la proposta di un voucher per 500 donne per un master in Business administration executives dal valore di 35 mila euro, visto che tra i primi 100 manager più pagati in Italia le donne sono solo 4. La ministra dell’Innovazione tecnologica, Paola Pisano, ha spiegato che “è anche importante che la società aiuti le donne lavoratrici che sono anche madri”.

Green e Digitale L’impianto del progetto prevede una spinta per la definitiva transizione energetica ed ecologica che punta ad abbandonare i combustibili fossili a favore delle energie rinnovabili anche grazie ai progetti che verranno realizzati nei distretti dell’economia circolare. Vanno resi strutturali gli incentivi fin qui erogati che, nelle intenzioni del governo, porteranno l’Italia ad “avere l’energia blu e l’idrogeno integrati”. Il governo punta anche colmare il divario digitale esploso con la didattica a distanza e lo smart working. Per farlo va resa Internet accessibile a tutti.

Abuso d’ufficio Il premier Conte ieri è tornato sulla riforma che già aveva annunciato a maggio: “La immagino per il fatto che i reati debbano essere legati alla certezza. Dobbiamo collegare l’abuso d’ufficio alle deviazioni delle condotte e non ai principi costituzionali”.

Povertà educativa Reinventare il Paese passa anche per gli investimenti nell’università e nella scuola. C’è bisogno di risorse: per ora il governo ha stanziato 1,4 miliardi per fare ripartire la scuola, ma comunque non bastano.

Taglio Iva e sicurezza. Conte e l’incognita dei congressi Pd e 5S

Non può respirare, Giuseppe Conte, e figurarsi se può stare sereno. Perché il presidente del Consiglio incontra, smussa, promette. Ma mentre si discute dell’utilità degli Stati generali, i due partiti di maggioranza sono scossi dai rispettivi congressi: i Cinque Stelle dagli Stati generali che ci saranno tra ottobre e novembre, il Pd dall’assemblea tutt’altro che certa ma già fonte di guai.

E se ai dem un possibile avvento di Alessandro Di Battista alla guida dei grillini fa paura, nel M5S sospettano: “Nel Pd sono pronti a presentare il conto a Nicola Zingaretti se le alleanze con noi non funzioneranno a livello locale”. Anche se non si sa neppure dove, visto che ieri ballava anche l’accordo che pareva chiuso in Liguria. Ma conta il (cattivo) pensiero: l’ennesimo, dentro una maggioranza che non riesce a trasformarsi in coalizione. E Conte ovviamente sa tutto. Non a caso ha elogiato Zingaretti, consapevole che se il segretario venisse dimezzato, per lui sarebbe una pessima notizia. Nel contempo cerca provvedimenti da rivendicare, e il primo resta il taglio dell’Iva. “Costa moltissimo, e allora pensiamo a un lieve intervento momentaneo”, ha spiegato ieri a il fattoquotidiano.it. Una misura a tempo con cui togliere argomenti agli avversari evidenti (Confindustria) e a quelli meno rumorosi, anche nel governo. Conte pensa di inserire il taglio dell’imposta già nel prossimo decreto semplificazioni, con entrata in vigore a luglio. Un taglio selettivo, spiegano, che varrà per “alcuni prodotti dell’indotto”, a partire da quelli per il turismo. Magari da abbinare a incentivi al pagamento digitale, come ha ventilato sempre ieri il premier. E il meccanismo sarebbe quello del cashback (si restituisce parte della somma a chi paga in via elettronica). Di certo per la riduzione dell’Iva spingono Luigi Di Maio e quindi il M5S, convinti che debba entrare in vigore già dal 1° luglio. E infatti ieri su Repubblica una dimaiana di ferro come la viceministro all’Economia, Laura Castelli, ha rilanciato sul taglio dell’imposta e anche su uno scostamento di bilancio da 10 miliardi, aprendo inoltre all’abolizione dello split payment, la misura anti-evasione che consente allo Stato di trattenere l’Iva quando acquista un bene. Un passaggio, quest’ultimo, che è un segnale ai renziani di Italia Viva, perplessi sul taglio dell’Iva (“meglio ridurre l’Irpef”).

Ma nutrono dubbi anche gli altri partiti di maggioranza. Quindi LeU, che con il capogruppo alla Camera Federico Fornaro avverte: “Serve una riforma del fisco, non misure spot”. E soprattutto il Pd, che ha vissuto gli annunci di Conte sul Fisco come un’altra fuga in avanti del premier. “Si tratta di un’operazione decisamente complessa, che richiede risorse ingenti” ha precisato sul Messaggero Antonio Misiani, il viceministro all’Economia dem. In sostanza quanto avrebbe voluto dire il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri: preoccupato dal reperimento delle risorse come dal rischio di reiterata “annuncite” per il governo. Ma i 5Stelle insistono. “Per il taglio dell’Iva serve una cifra tra un miliardo e mezzo e quattro miliardi” sostengono. E puntano i piedi anche sullo scostamento di bilancio subito “perché dopo l’estate sarà già il tempo di legge di stabilità e non potremo più muoverci”. In questo scenario, ieri al Viminale c’è stato un nuovo vertice di maggioranza sui decreti sicurezza. Una priorità per il Pd, che vuole cambiare i provvedimenti di Matteo Salvini ripristinando lo Spar (il sistema di protezione per i richiedenti asilo) e riducendo i tempi per la concessione della cittadinanza. Mentre Italia Viva si è presentata con richieste in 15 punti, tra cui lo ius culturae. Troppo per il M5S, alla riunione con il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, Giuseppe Brescia, vicino a Roberto Fico (assente per motivi personali il reggente e viceministro all’Interno Vito Crimi).

Perché i 5Stelle hanno un’altra linea: chiedono interventi non troppo ampi sui dl Salvini e soprattutto di aspettare settembre per il nuovo decreto. Un rinvio che il resto della maggioranza, dem in testa, non è propensa a concedere. Ed è un altro problema per Conte.

Il Tomba

Non vorremmo che, a furia di sentirsi chiamare Innominabile, lo Statista di Rignano si fosse convinto che qualche legge proibisca di nominarlo. Lo fa pensare l’esilarante motivazione della causa civile che ci ha recapitato ieri, la tredicesima in sei mesi: “Il 1° maggio 2020 il Fatto Quotidiano pubblicava una prima pagina con immagini e titoli gravemente ed oggettivamente offensivi dell’onore, della reputazione del Sen. Matteo Renzi. In particolare al centro della pagina ‘campeggiava’ la seguente frase: ‘Renzi sciacallo lascia in pace i nostri morti’. Trattasti (sic, ndr)

di affermazioni diffamatorie perché violano i limiti della continenza e sono dirette a denigrare la persona del Senatore Renzi che, attraverso la voluta strumentalizzazione e distorsione del senso e significato delle parole da quest’ultimo pronunciate, viene additato come ‘sciacallo’”, subendo un danno “indeterminabile”. In effetti siamo usi nominare il suo nome invano senza chiedergli il permesso e impostare la prima pagina e le successive senza il suo imprimatur. Il 1° maggio la notizia del giorno era il suo intervento in Senato del 30 aprile, quando aveva sparato a zero contro i presunti “pieni poteri” di Conte e la sua decisione di non abolire subito il lockdown, e aveva leggiadramente aggiunto: “Pensiamo di onorare la gente di Bergamo e di Brescia che non c’è più e che, se avesse potuto parlare, ci avrebbe detto: ‘Ripartite anche per noi’”. Frase definita “a dir poco infelice” persino dal sindaco renziano di Bergamo Giorgio Gori.

Siccome il genio incompreso aveva tirato in ballo i loro morti per farne i suoi ventriloqui (e i giornaloni facevano i salti mortali per nascondere la tragica figuraccia del loro beniamino), telefonammo ai comitati delle vittime di Bergamo e Brescia per raccogliere i loro commenti. Molti erano “indignati e offesi” e gli suggerivano di “vergognarsi” per le sue “parole scandalose”. I più ribattevano che i loro parenti defunti, se avessero potuto parlare, avrebbero chiesto la zona rossa subito, cioè avrebbero voluto chiudere di più, non di meno. I più gentili lo chiamavano “sciacallo”. Uno, meno diplomatico, direttamente “testa di c.”. Riportammo il tutto a pagina 3 e lo sintetizzammo nel titolo di prima, fra virgolette. Ora il tombarolo (lo chiamavano il Bomba, ora è il Tomba) denuncia noi: forse si vergogna di trascinare in tribunale i parenti delle vittime; o non sa che le virgolette indicano una frase altrui (peraltro sacrosanta); o, non conoscendo vergogna, chiederà i danni anche a loro. Se noi, oltretutto, avessimo voluto infierire, gli avremmo ritorto contro le sue parole del 30 aprile: “Se qualcuno dicesse di riaprire tutto, andrebbe ricoverato”.

Parole pronunciate un mese dopo l’intervista ad Avvenire del 28 marzo, in piena pandemia, in cui intimava di “riaprire le fabbriche prima di Pasqua, poi i negozi, le librerie, le messe e le scuole dal 4 maggio”. Cioè avremmo chiesto un Tso per farlo visitare da uno bravo. Invece ci limitammo, in un commento di Daniela Ranieri, a osservare che la sua parola vale zero: “Il merito per costui è irrilevante. È tutto cinismo d’accatto, giocoleria della tensione, esibizionismo da torero”, roba da “caratterista di Fellini”, da

“Nando Orfei del 2%”. Parole, se possibile, vieppiù confermate dalla lettura della sgrammaticata richiesta di mediazione appena recapitata. Chiarito che il titolo riassumeva il pensiero dei parenti delle vittime da lui e macabramente richiamate dalle tombe per farle parlare come se stesso, ci resta una curiosità: quali sarebbero le “immagini gravemente ed oggettivamente offensive dell’onore, della reputazione del Sen. Matteo Renzi”? L’immagine in prima pagina era una sua foto: dobbiamo forse ritenere che l’Innominabile si pretende pure ineffigiabile, come Battisti e Mina, ma soprattutto considera diffamatoria la sua faccia? Noi, sul punto, potremmo anche concordare con lui (lo diceva già Dostoevskij: “Dopo i 40 anni ciascuno è responsabile della faccia che ha”). E impegnarci a nascondere per sempre le sue offensive sembianze. Ma prima ci vorrebbe una legge che lo renda ineffabile e invisibile, come il Dio ebraico: siccome non sembra, ma fa parte della maggioranza, potrebbe pure ottenerla, magari in cambio del ritiro della candidatura di Scalfarotto a presidente della Puglia (resa vieppiù improbabile dalla faccia dello Scalfarotto, che dunque andrebbe proficuamente aggiunto con apposito emendamento).

Ultimo punto: se chi dice sciacallo “viola i limiti della continenza e denigra la persona del Senatore Renzi”, che ci dice costui di quel premier che diceva “basta sciacalli nei talk show” (22.4.2015); chiamava Grillo “sciacallo” (5.5.2014 e 30.3.2015), anzi “squallido sciacallo” (5.3.2017); dava degli “sciacalli per lucrare due voti” a chi criticava il suo governo dopo gli scontri fra ultrà all’Olimpico (5.5.2014); paragonava a “Tabaqui” (lo sciacallo di Kipling) gli oppositori interni al Pd (15.4.2015); tacciava di “sciacallo” Salvini (20.4.2015, 14.11.2017, 29.11.2018 e 6.12.2018); diceva “bugiardo o sciacallo” a Di Maio che aveva ricordato i finanziamenti dei Benetton al centrosinistra (16.8.2018)? Bene: quel premier era lui. Ricapitolando: se lui dà dello sciacallo a mezzo mondo, è un complimento; se i parenti delle vittime del Covid gli danno dello sciacallo, è un’offesa e lui chiede i danni a noi. Ma un Tso, ogni tanto?

Infinita adolescenza. L’età dello tsunami

Sembra un participio presente ma è un infinito. Parlo di “adolescente”: dovrebbe indicare l’ultima fase dell’età evolutiva ma, spesso, finisce con l’identificare una stagione senza fine. Tema estremamente attuale. Forse perché i maître à penser latitano, i genitori arrancano, la scuola è stata messa all’angolo, i social impazzano e il mondo sembra incapace di trovare un senso al suo vorticoso orbitare. Ci vengono incontro tre interessanti novità editoriali: Mio figlio è normale? Capire gli adolescenti, senza che loro debbano capire noi (Stefania Andreoli, BUR), Falli parlare: come affrontare i silenzi degli adolescenti (Matteo Rampin, Mondadori) e Figli che tacciono, gesti che parlano: come capire ciò che gli adolescenti dicono senza parole (Susana Fuster, Salani). Psicologa, terapeuta e analista, la Andreoli è, tra l’altro, Giudice Onorario per il Tribunale dei minorenni di Milano; Rampin – psichiatra e psicoterapeuta – ha all’attivo più di trenta libri, tradotti in diverse lingue; la Fuster – terapeuta, esperta di comportamento non verbale – insegna in varie università. Autori autorevoli, dunque. Qua e là, è vero, può sembrare di trovarsi di fronte a riflessioni da manuali tipo Teens For Dummies, dove tutto si riduce al semplice buon senso. Tentazione da respingere. Non solo perché il buon senso è merce sempre più rara – soprattutto tra gli adulti – ma anche per la ragione opposta: non sempre rappresenta l’opzione migliore. Fondamentale, dunque, capire quando seguirlo e quando fuggirlo.

Il testo della Andreoli sembra offrire uno sguardo più alto e più ampio. “Adolescere”, spiega, deriva da “alere”: nutrire. L’adolescente, dunque, è “colui che si sta ancora nutrendo”; l’adulto, “colui che si è già nutrito”. Un invito a riflettere sul fatto che dovremmo favorire questo nutrirsi. E, soprattutto, evitare di mangiarci tutto. Se gli adolescenti di oggi crescono più lentamente, non sarà perché “gli adulti lasciano loro meno risorse”? Il fatto poi che si parli di età dello tsunami, la dice lunga su cosa ragazzi e genitori (che sopravvalutano la loro esperienza personale) sono chiamati a vivere. Ma se l’“adolescenza scandalosa e arrogante” sta lasciando il posto ad un’“adolescenza latente”, “larvata, silente, addomesticata”, davanti a certi segnali è bene drizzare le orecchie. Se, ad esempio, entro i 15 anni non cambiano modo di presentarsi al mondo, se l’attenzione per la salute del corpo è eccessiva, se il corpo diventa “campo di battaglia” o, al contrario, “campagna elettorale dell’infanzia”. Niente paura delle emozioni. Semmai della loro “assenza apparente” o del fatto che vengano cercate “in modo spasmodico, malsano, azzardato”. Un adolescente è normale se è adolescente: se il rapporto con lui è ottimo, o ce la sta facendo sotto il naso oppure dobbiamo preoccuparci. Che fare? Fidarsi, mettersi da parte, cercando di evolvere insieme a loro, senza annullare conflitto e dissenso, ma cercando di (ri)acquistare più equilibrio possibile.

Senza “improvvisarci psicologi”, ammonisce Matteo Rampin, che segnala ben dodici miti da sfatare. Tra questi: il “dialogo non è positivo a prescindere” e “non garantisce nulla”, e “il silenzio non è sempre da condannare”; rispetto sì, confidenza no: “l’amicizia non è prevista”. La vita non è un “giardino di delizie”, la felicità non è un diritto, “l’autostima non è la cosa più importante al mondo”, e “la libertà non ha nulla a che fare con l’anarchia”. Tra le soluzioni inefficaci, Rampin segnala metodi polizieschi e spionaggio. Importante non mentire, non fare i furbi, non prendere in giro i ragazzi, non umiliare, minacciare, mercanteggiare e non fare i moralisti. Che fare? Costruire il momento opportuno, tacitare il proprio ego e ascoltare, facendo parlare i ragazzi ma non per carpire informazioni; rappresentare ragioni sensate e comprensibili, evitando slogan e sentenze affrettate. Ma soprattutto, amare. Rampin fa suo il Seneca di “Se vuoi essere amato, ama”: “la chiave di ogni situazione di salute fisica e mentale è amare”.

Susana Fuster – che sottolinea l’importanza del “comportamento non verbale”, soprattutto in fatto di emozioni – avverte che interpretare quel linguaggio non significa “indovinare quello che pensano gli altri”. I gesti non hanno un solo significato: “sempre meglio chiedere”. Gli adolescenti sono “Ferrari con i cavi dei freni non del tutto collegati” e le emozioni possono essere così intense “da portare a comportamenti immaturi o a rischio”.

È importante osservare: fare attenzione ai cambiamenti nei comportamenti; controllare espressioni facciali, gesti, pose e posture, uso di spazio e distanze, contatto fisico, aspetto, voce e sguardo. Cinque, gli indicatori per scoprire quando un adolescente mente: sguardo fisso, microespressioni facciali, scarsa gesticolazione, frequenza del battito delle palpebre, voce che si fa più acuta. Consigliate le “tecniche di interrogatorio casalingo”: cercare il momento giusto, entrare in empatia con conversazioni neutre, mantenere posture non difensive, osservare il modo in cui il ragazzo esprime e, infine, chiedergli di ripetere la storia ma dalla fine all’inizio. Andreoli e Rampin sarebbero d’accordo? Probabilmente no. Evidentemente, però, la Fuster ritiene che, davanti a uno tsunami, valga la pena assumersi qualche rischio in più.

Il Coronavirus, Verdone, un libro e il lavoro serio di chi fa il medico

“La porta che si apre è il sipario della vita dove entra in scena un apparato umano spesso smarrito, disperato, impaurito da ciò che pensavi potesse capitare solo agli altri e che ora è venuto a insidiare te”. Lo ha scritto Carlo Verdone nella prefazione del libro di cui parleremo tra un attimo. Parole che risalgono a poche settimane prima che il Covid-19 sconvolgesse, insieme alle nostre esistenze la vita stessa del pianeta e che oggi ci appartengono di più. Come potrebbe raccontarci Titta Grassi, autore de La porta si apre (Rubbettino editore), “autobiografia di un chirurgo oncologo”, che quelle notti e quei giorni ha vissuto come sempre in prima linea. Accogliendo l’umanità “smarrita, disperata, impaurita” alle prese con il virus, nemico sconosciuto e forse per questo ancora più terrorizzante di quel mostro abituale chiamato tumore.
Anche a me (come a tutti) è capitato di aspettare dietro la porta di uno specialista che quella porta si aprisse, e la domanda che mi facevo spesso era chissà ingiusta ma sincera. I medici, soprattutto i grandi luminari come Titta Grassi che ne hanno viste di tutti colori in che misura possono ancora comprendere, e dunque condividere, il nodo alla gola di noi poveretti tormentati da mille cupi pensieri? Oppure, con l’abitudine finiscono per considerare l’ammalato come il meccanico considera il proprietario di un’auto guasta? Così risponde Verdone (amico, paziente e, in qualche modo, collega dell’autore): “Ricordare appassionatamente, tanti nomi, tanti casi, custodire ancora l’orgoglio e la felicità nell’aver restituito la vita, come anche la rabbia nel non averla potuta trattenere, mostrare quelle delicata premura verso tutti, persone semplici e disorientate o nomi importanti, è il segnale che il tuo delicato lavoro lo ami veramente e lo consideri come una “missione””. C’è un aspetto in più in questa “delicata premura”: averci scritto un libro. Perché di grandi medici che ci hanno raccontato le loro straordinarie esperienze cliniche, sono piene le biblioteche. Quasi sempre saggi autoreferenziali con al centro l’icona dell’illustre prof, provvidenziale salvatore di vite umane. Meno frequente il caso opposto del prof che, mettendosi di lato, si cala nella serenità di chi può tornare a casa rassicurato dal referto. Oppure. Ho messo il segnalibro a pagina 93. All’inizio c’è un dolore fastidioso, sembra la solita discopatia. Poi c’è la scoperta di un tumore. Poi ci sono sette anni “di alti e bassi tra speranze e delusioni”. Poi c’è un giorno freddissimo in cui Grassi ascolta questa frase: “Ti prego, sei stato il mio punto di riferimento in questi anni, ma ora aiutami a morire con dignità”. È solo un fiore appassito in un giardino ricolmo di piante che sono tornate rigogliose ma un camice bianco disposto a confidare che quella volta non ce l’ha fatta, rappresenta una porta. Spalancata sull’umanità, sulla bravura e sulla legge morale di questo dottore speciale.

Contrordine compagni, più del Covid-19 fa paura la crisi

A fine marzo, prima che anche la Russia chiudesse tutto, si poteva udire un po’ dappertutto un oscuro presagio: “Abbiamo più paura della crisi economica che del virus”. Dieci settimane dopo, mentre l’epidemia sembra aver superato il suo picco – ufficialmente sono 6.000 i morti su quasi 600.000 casi positivi accertati – il presagio sembra confermarsi. È così per Elmira, 42 anni, quattro figli, che vive in una modesta casa in affitto ad Astrachan’, città sul delta del Volga nel sud della Russia. “Ho l’impressione che la metà del paese si trovi nella mia stessa situazione”, dice. Divorziata dal primo marito, rimasta vedova dopo la morte del padre dei suoi tre figli più piccoli, Elmira ha vissuto di lavoretti per vent’anni. Ma poi tutto si è fermato. Il piccolo chiosco di alimentari dove lavorava come commessa tuttofare da due anni, uno shawarma, come se ne vedono in tutte le strade delle città russe, ha chiuso i battenti a causa del lockdown. Elmira non solo ha perso il suo magro stipendio di circa 200 euro al mese, ma non può neanche chiedere il sussidio di disoccupazione perché era in nero.

Le bollette dell’affitto si accumulano. “Sono in ritardo di due mesi coi pagamenti e il mio padrone di casa vuole metterci alla porta. Sto cercando disperatamente un altro lavoro”. Da dati statistici il 61% dei russi ha perso tutto o parte del proprio reddito. I più non riceveranno neanche un copeco da parte delle autorità perché lavorano nell’economia sommersa del paese, che riguarda la metà degli attivi di Astrachan’. Il numero di disoccupati è triplicato da marzo, salendo al 10%, pari a 13 milioni di persone. Tra 1 e 3 milioni di piccole e medie imprese potrebbero fallire, secondo la Camera di commercio russa. “Il nostro fatturato è crollato a zero – racconta Dimitri Kurianov, 35 anni, fondatore di una piccola società di riparazione di computer -. Un mese fa pensavo di chiudere. Poi mi sono dato da fare e da una settimana abbiamo ripreso l’attività. Il problema è che i clienti sono ancora isolati nelle loro case, mentre le spese bisogna affrontarle comunque. Lo Stato non si preoccupa delle piccole aziende, aiuta solo i giganti delle materie prime”. Il Cremlino è intervenuto in effetti essenzialmente per salvare aziende come Gazprom e Rosneft, motori di un’economia ancora poco diversificata, mentre le piccole e medie imprese rappresentano solo il 20% del Pil russo. Alcune di queste aziende hanno avuto diritto a un aiuto di 12.000 rubli, ovvero 160 euro al mese, altre no. Come mai? Esisterebbe un’oscura lista del governo di settori da aiutare o no, molto vaga, ma in cui figura persino il gigante americano McDonald’s. Secondo un recente sondaggio, solo il 10% delle imprese avrebbe percepito un contributo statale. Anton Davydov, fondatore di una catena di ristoranti vintage sovietici ad Astrachan’, ha ricevuto “due volte 12.000 rubli. Una somma ridicola – dice -. Ma poiché nessuno si aspetta di più dal governo, è meglio di niente”. I lavoratori regolari che hanno perso il posto dopo il primo marzo dovrebbero ricevere a loro volta un assegno di 12.000 rubli. I disoccupati da più lungo tempo hanno ottenuto un aumento del sussidio tra 1.500 e 4.500 rubli al mese. Ma per lungaggini burocratiche o problemi tecnici, capita che queste somme non arrivino mai a destinazione. I russi hanno pochi risparmi e il 40% di loro avrebbe risorse sufficienti per vivere massimo un mese o due. Alcuni si rivolgono al microcredito, in pieno boom. Gli abitanti di Astrachan’ si affidano alla solidarietà. “Non ho mai chiesto aiuto a nessuno – dice Xenia, 40 anni, donna energica con tre figli -. Ma quando ho dovuto chiudere il mio bar, ho ricevuto aiuti spontanei anche da conoscenti e sconosciuti. A mia volta cerco di andare a distribuire generi di prima necessità ai più poveri”. La cosmopolita città di Astrachan’ ha vissuto una grave crisi già nel 2011, con la drastica limitazione della pesca allo storione nel vicino Mar Caspio, che è alla base della produzione del caviale. Da allora la città stenta a vivere e i suoi graziosi palazzi si degradano. Il bilancio regionale dipende in gran parte dai sussidi del gas e del petrolio versati dai colossi Lukoil e Gazprom. Come altrove, anche in Russia, il Covid-19 ha scavato le fratture sociali e amplificato le disuguaglianze. La capitale, Mosca, gode di un budget colossale rispetto alle città di provincia. A mille chilometri a nord di Astrachan’, lungo il Volga, si trova il centro industriale di Togliatti, una tipica mono-città sovietica che prende il nome dal leader del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti. Dagli anni 60 la sua economica ruota attorno alla gigantesca fabbrica di automobili AvtoVAZ, dove si producono le famose auto del marchio Lada, poi acquistata nel 2012 da Renault-Nissan. Qui la crisi del 2008 è stata molto dura. Il numero di dipendenti di AvtoVAZ è passato dai 100.000 del 2007 ai 30.000 di oggi. La crisi del Covid-19 ha peggiorato la situazione. “Lavoravo da due anni con contratti a tempo alla catena di montaggio delle auto, ma a fine marzo non mi hanno rinnovato il contratto”, spiega Maxime, 28 anni, che incontriamo davanti all’ufficio di collocamento.

Ora cerca di cavarsela facendo il tassista di notte. Guidare un taxi in una Russia sempre più uberizzata sembra essere la soluzione di ripiego privilegiata per i tanti lavoratori migranti di Mosca e per gli operai in difficoltà che vivono in regione. Ma con il lockdown anche questa attività è crollata. A Togliatti gli imprenditori stanno cercando bene o male di sopravvivere. Ma come ad Astrachan’ non si sentono sostenuti. Maria gestisce tre negozi di abbigliamento di famiglia e ha sei dipendenti. In pochi giorni ha dovuto riorganizzarsi con la vendite online per non rischiare di chiudere: “Il governo si interessa solo alle tasse. Ma quando paghi le tasse, ti aspetti in cambio un po’ di sostegno, invece niente”. Le associazioni che organizzano la distribuzione dei pasti per i poveri sono state sopraffatte dalle richieste. “Riceviamo circa il doppio delle chiamate – ha detto Roman Tchermakov, uno degli organizzatori -. Ma abbiamo posto solo per 10-12 persone. Allora certe volte portiamo il cibo direttamente a casa delle persone”. Mentre i negozi cominciano a riaprire timidamente in Russia, si stima che l’impatto economico e sociale dell’epidemia si farà sentire fino alla fine del 2020. Il Pil russo si è contratto del 28% ad aprile rispetto all’anno prima. La fiducia dei russi nel loro governo, già intaccata da cinque anni di crescente impoverimento e il contestato aumento dell’età pensionabile nel 2018, è crollata. L’amarezza nei confronti di Mosca è palpabile. “L’altro giorno mio marito, che è sempre stato patriota, mi ha detto: “Non voglio più che i nostri figli continuino a vivere in questo paese”, ha detto Xenia. E Elmira: “Prima, ai tempi dell’URSS, eravamo considerati esseri umani. Oggi non esistiamo neanche. A noi poveri ci lasciamo morire poco alla volta. Non possiamo nemmeno avvicinarci agli edifici amministrativi. Il nostro presidente si prende gioco del suo popolo”. Questa poca solidarietà verso la popolazione potrebbe costare politicamente al presidente russo che spera di far passare i suoi emendamenti alla Costituzione senza problemi il prossimo primo luglio. La popolarità di Putin è scesa ad un livello storicamente basso, al di sotto del 60%. Stando ad un sondaggio, il 28% dei russi si dice pronto a manifestare molto presto. “Le persone qui restano ancora leali alle eredità sociali del passato, all’idea di uguaglianza – spiega Oleg Chéïne, un deputato dell’opposizione alla Duma russa, che milita per i diritti dei lavoratori -. Ma niente è cambiato negli ultimi trent’anni in Russia, viviamo nello stesso neoliberalismo degli anni 90. È inutile aspettarsi da questa gente una qualsiasi forma di empatia nei confronti della popolazione. Le oligarchie sono sempre più potenti. Il cambiamento è un processo lungo, ma dobbiamo crederci. Abbiamo bisogno di una figura che unisca le persone”. Ed è evidente che questa persona non è più di Vladimir Putin.

(traduzione Luana De Micco)

 

Grandi opere e Tav al Sud: per me il governo si sbaglia

Puntare sulle Grandi Opere per far crescere il paese dopo il virus sembrava un’idea di Renzi e Salvini (in continuità con Berlusconi). Ma il nuovo programma del governo agli stati generali ha reso l’idea di nuovo di grande attualità, dopo la celebre svolta di Toninelli nel 2019 (“Si a tutto, a priori, senza più alcuna analisi”). Oggi, per dire, è la posizione del viceministro 5S ai Trasporti Giancarlo Cancelleri.

Ma non tutte le grandi opere, soprattutto quelle ferroviarie che sono tanto ecologiche (tutte tranne la Tav). E soprattutto al Sud, che l’opinione pubblica ritiene ne abbia gran bisogno. E che il governo, a partire dal premier Conte, abbia taciuto sulla questione di farle senza gare, cioè di darle agli amici usando il “modello Genova” che le gare le ha evitate, speriamo sia solo una dimenticanza. Finora per l’Alta velocità le gare sono state evitate e i costi sono raddoppiati, ma forse non tutti hanno pianto, anzi.

Le grandi opere stradali e ferroviarie non faranno crescere il paese, per motivi ovvi.

Vediamoli.

1) Creano poca occupazione per €euro speso (solo il 25% dei soldi va direttamente al lavoro, e usano tecniche “ad alta intensità di capitale”).

2) Ci vuole un sacco di tempo per farle anche accelerando le procedure: minimo 5 anni. (Il ponte di Genova era una piccola opera, costa 200 milioni, meno di un ventesimo di quelle grandi, che viaggiano sui 5 miliardi a botta).

3) Le previsioni di traffico (le poche che sono state fatte, tutte dagli interessati guarda caso) erano già super-ottimistiche. Adesso sono assurde, il traffico dipende dal Pil, e le previsioni più ottimistiche dicono che il Pil ritornerà, speriamo, ai livelli pre-virus, ma lentamente. Quale sviluppo può venire da un’infrastruttura costosa e sottoutilizzata?

4) La tecnologia del cemento non innova niente, è roba di 50 anni fa. Ci serve l’informatizzazione di tutto, e si è visto col covid 19.

5) Generalmente, danneggiano l’ambiente, quelle ferroviarie non meno delle strade nella fase di costruzione (centinaia di camion per molti anni, e ferro e cemento sono “energivori”). Ma anche se, miracolosamente, una ferrovia nuova togliesse molto traffico alla strada, i benefici ambientali sarebbero poi piccoli rispetto ai soldi spesi. Bastano i conti sul retro della busta: se l’Italia raddoppiasse il trasporto merci per ferrovia, la riduzione di gas serra sarebbe meno dell’1% del totale. Poi i trasporti su strada stanno riducendo rapidamente i danni alla qualità dell’aria. Grazie alla tecnologica e senza oneri per lo Stato: un Euro 6 inquina un decimo di un Euro 1.

6) Le ferrovie hanno un problema particolare: se non paga quasi tutto lo Stato (investimenti e spesso anche esercizio), sottraendo risorse ad altri usi sociali, quasi nessuno si sognerebbe di utilizzarle. Oddio, in termini percentuali pochi si sognano di prenderle anche adesso, nonostante le tasse sulla benzina e i sussidi che ricevono. Per quantità di traffico siamo intorno al 10% del totale, ma in termini di fatturato siamo sotto il 5%. Sono poco rilevanti se non per la spesa pubblica: negli ultimi 30 anni hanno ricevuto a vario titolo circa 470 miliardi a valori attuali, il 20% del nostro debito pubblico (i conti precisi appariranno in un libro-inchieste edito da Paper First). La strada rende netti 40 miliardi l’anno alle casse pubbliche, con cui si possono fare molti servizi sociali. E questi non sono “aridi conti economici”: come sempre dietro i conti ci sono contenuti sociali molto vitali da considerare. Lo spreco è immorale.

Una nota poi sulle linee a scarso traffico (6.500 km circa utilizzate per meno della metà della capacità, che è di 80 treni al giorno). Un conto approssimato dice che sostituire i servizi ferroviari con autobus ecologici consentirebbe, a parità di spesa, di offrire servizio più frequente e gratis. Forse molti passeggeri apprezzerebbero.

E veniamo al gran finale: l’Alta Velocità fino al Sud, così son tutti contenti, e il Meridione si svilupperà magicamente. Qui non ci sono davvero parole: una linea di alta velocità è costosissima, 50 milioni al Km in pianura, tutti pubblici. Si sussidia chi ha molta fretta, ma date le distanze in gioco per il Sud, chi ha davvero molta fretta può scegliere l’aereo, che ci metterebbe meno e non costa niente allo Stato. Una linea AV ha una capacità di 300 treni al giorno, che non si raggiungono nemmeno tra capitali di Stato. Il Sud avrebbe linee AV deserte, mentre ci sono altre cose importanti da fare per i servizi ferroviari al Sud, molto meno costose. Sprecare soldi pubblici è peggio che rubare. Ma i contribuenti derubati non lo sapranno mai, come non lo saprà chi non avrà i servizi che si sarebbero potuti fare con quei soldi.

Pagamenti cash. Da luglio il tetto è di 2 mila euro. Attenti alle multe

Nuovo dietrofront sull’uso del contante. Dal 1° luglio la soglia massima per pagare, ricevere e trasferire denaro cash torna da 2.999,99 a 1.999,99 euro, lo stesso valore che aveva prima dell’intervento del governo Renzi nel 2016. Non saranno ammessi neppure prestiti o regali tra i familiari. Stipendi, salari, collaborazioni e onorari vanno sempre versati attraverso canali tracciabili. Diverso il discorso per i versamenti e i prelievi fatti sul proprio conto corrente: non essendoci trasferimento di denaro nei confronti di un altro soggetto, non ci sono divieti. Il limite a 2 mila euro resterà valido per un anno e mezzo: dal 1° gennaio 2022 scenderà a 999,99 euro come nel 2011. Un continuo rimpallo politico che dal 2002 ha visto per ben nove volte modificare i tetti dei pagamenti in contanti.

Lo scontro è sempre lo stesso: da un lato svettano Forza Italia e Italia Viva di Renzi secondo i quali meno contante non equivale a meno evasione visto che la gran parte del nero avviene attraverso mezzi molto più sofisticati; dall’altro, invece, ci sono i sostenitori della riduzione della circolazione del cash per frenare l’evasione fiscale, come nel caso del governo giallorosa. Una nuova limitazione che per altri, però, rappresenta anche un incentivo alla concorrenza sleale per tutti gli onesti che emettono fattura, risultando così penalizzati da quelli che per evadere si fanno pagare in contanti, proponendo uno sconto sul prezzo. Del resto, è cronaca nota a tutti che l’Italia si conferma uno dei Paesi europei con la minor percentuale di pagamenti “cashless”: solo il 14% del totale. Dato destinato, comunque, a salire visto che nei primi mesi dell’anno, complice la pandemia, gli italiani hanno fatto schizzare i pagamenti online attraverso l’uso di bancomat e carte di credito (rispettivamente aumentate del 10,5% e 17,3%). La nuova soglia è una novità che non ci si può permettere di sottovalutare: chi non rispetterà i nuovi limiti va, infatti, incontro a pesanti sanzioni da 2mila a 50mila euro se si usano somme in contanti superiori a 250mila.

Restano intanto su carta le due misure prevista dalla legge di Bilancio 2020 per incentivare i pagamenti elettronici: il fondo da 3 miliardi del bonus Befana è finito tra le risorse del decreto Rilancio, mentre la lotteria degli scontrini è stata rinviata al 2021.

 

Autostrade scarica il ponte Morandi su Spea 1 e fa Spea2

Morta una Spea se ne fa un’altra. Spea è la società di ingegneria di Autostrade per l’Italia (Aspi) della famiglia Benetton che avrebbe dovuto controllare lo stato dei circa 3 mila chilometri della rete, in modo particolare ponti, viadotti e gallerie. Dopo di che avrebbe dovuto segnalare i punti critici, programmare gli interventi e gli investimenti necessari e eventualmente sollecitare la casa madre nel caso in cui quest’ultima avesse ritardato i lavori. Spea avrebbe dovuto essere, in sostanza, l’occhio vigile sulle autostrade e il braccio armato della società concessionaria se solo quest’ultima avesse voluto onorare il contratto con lo Stato e per questa via con i clienti-automobilisti.

La tragedia del ponte Morandi di Genova (14 agosto 2018, 43 morti) e le inchieste successive dimostrano che Spea ha fatto esattamente il contrario. Una sentenza recente della Cassazione riguardante tra gli altri la posizione dell’ex amministratore delegato, Antonino Galatà, ha chiarito in modo esemplare la faccenda: “Non fare i controlli, da parte di Spea era una scelta strategica”. Con quale scopo? Fare soldi.

Il compito vero di Spea era chiudere gli occhi per assecondare la volontà dei manager di Aspi, tutti protesi a massimizzare i profitti dei padroni di Autostrade, a cominciare dai Benetton. Tradendo il suo mandato, Spea faceva ispezioni all’acqua di rose, camuffando i dati sensibili, occultando le criticità, chiudendo gli occhi sui pericoli per evitare che i “signori padroni” dovessero tirar fuori i quattrini necessari per i lavori.

Caduto il ponte di Genova e crollato con esso un sistema sconsiderato di potere e di gestione autostradale, i vertici di Aspi hanno provato a rifarsi una verginità addossando proprio a Spea tutte le colpe. Spea è diventata la vittima sacrificale da offrire in pasto a giornali e magistratura nella speranza di occultare il più possibile le responsabilità che coinvolgono il management di Autostrade, la holding Atlantia e infine la proprietà Benetton: Spea è stata prima svergognata e poi garrotata sulla pubblica piazza dagli stessi che fino a un attimo prima se ne erano serviti.

A novembre 2019 le ricchissime commesse per le ispezioni autostradali sono state sottratte da Autostrade a Spea e passate ad altri: l’italiana Proger, società di ingegneria in espansione guidata da Marco Lombardi, zeppa di nomi famosi. Come il presidente Chicco Testa: ex dirigente di Verdi, Pci e Pds, deputato, ex presidente di Enel, ex amministratore di Rotschild. O come l’ex colonnello dei carabinieri Giuseppe De Donno e la società di sicurezza e intelligence G-Risk. O come il consigliere Roberto De Santis, salentino ed ex del cerchio magico di Massimo D’Alema, ex vicepresidente della influente London Court, sede al numero 49 di Piazza Navona, ex consigliere della Avelar Energy, società dell’oligarca russo del gas Viktor Vekselberg.

Proger è entrata in associazione temporanea di impresa con la potente Bureau Veritas francese, da cui ha ottenuto molte di quelle importanti referenze tecniche che per una società di ingegneria sono tutto. In più, per la parte riguardante in particolare le gallerie, alcune ispezioni sono state affidate da Autostrade alla Rocksoil di Pietro Lunardi, ex ministro delle Infrastrutture all’inizio degli anni Duemila con Silvio Berlusconi.

Privata della sua principale ragione sociale, oggi Spea è un guscio vuoto. Un centinaio dei circa 700 dipendenti, soprattutto ingegneri, sarà trasferito ad Aeroporti di Roma, alcune centinaia passeranno ad Aspi, altri sono stati pre-pensionati o indotti a farsi da parte, mentre i più coinvolti nelle malefatte passate sono stati congelati ai loro posti in attesa delle inchieste.

Eppure dopo aver ucciso Spea, Autostrade la fa rivivere. L’amministratore e direttore Roberto Tomasi sta assumendo ingegneri, circa un migliaio da ora al 2023, “per il progetto di costituzione della Newco di Ingegneria e Realizzazione nell’ambito di Autostrade per l’Italia”. In pratica Autostrade sta facendo una Spea 2 senza la parte riguardante le ispezioni e la sorveglianza della rete.

Si possono fare solo ipotesi sulla vera natura della Spea nuovo modello. Prima ipotesi: Autostrade sa per certo che, nonostante il crollo di Genova, di riffa o di raffa resterà in partita e si prepara al dopo con una sua nuova società di progettazione e direzione lavori. Seconda ipotesi: Spea 2 potrebbe allearsi o fondersi con Proger e, magari con l’intervento della Cassa depositi e prestiti, potrebbero far nascere un supercampione nazionale di ingegneria. Ultima ipotesi: Aspi potrebbe cedere al miglior offerente Spea 2 dopo averla fatta rinascere dalle ceneri di quella vecchia di cui sta vampirizzando le preziose referenze tecniche acquisite nel corso di decenni.

Diritti tv: è finita l’era Sky, il pallone sarà on demand

Fondi d’investimento, canale della Lega, lotte intestine fra bande. Di tutto ciò al tifoso interessa una cosa sola: dove potrà vedere le partite della Serie A? Oggi sulla poco premiata coppia Sky-Dazn, che con la sua strana alleanza mascherata da rivalità ha costretto il tifoso al doppio abbonamento e ha fatto crollare l’audience del campionato. Domani chissà, sempre più su internet e sempre meno nella tv tradizionale.

La questione sta per tornare d’attualità, perché dalla stagione 2021/2022 i diritti tv della Serie A sono liberi. Presto sarà di nuovo tempo di aste. L’ultima fu una tragedia. Tre anni passano in fretta e i presidenti della Serie A, con la loro straordinaria abilità di non imparare mai dagli errori del passato, stanno riuscendo nell’impresa di farsi trovare di nuovo impreparati. L’amministratore delegato Luigi De Siervo ha lavorato per mesi al canale della Lega (un polo editoriale nuovo, di proprietà della Serie A, attraverso cui produrre e distribuire tutte le partite), col supporto degli spagnoli di MediaPro, ma il piano non ha convinto i patron ed è finito in un cassetto. Poi è arrivato il Coronavirus, che ha fatto il resto.

Al momento il bando di gara, pur essendo più o meno pronto, è completamente fermo. Per una semplice ragione: se fosse pubblicato oggi Sky, che resta il principale player sul mercato, non potrebbe partecipare. La pay-tv (non Dazn e Img, che invece hanno firmato l’accordo per il piano di rientro: pagheranno tutto entro fine luglio) è infatti attualmente in causa con la Serie A per l’ultima tranche non saldata durante l’epidemia, e chi ha contenziosi aperti è escluso dalla gara. Prima di procedere, andrà risolta pure questa grana.

Il vero problema però non sono le beghe legali, ma il mercato, che non è più quello di una volta: Mediaset già da tempo è uscita dai giochi, adesso anche Sky sta mutando pelle, con il nuovo piano industriale orientato alla telefonia che non prevede più follie per il calcio. Se mai ci fossero ancora dubbi, a spazzarli via ci ha pensato la recente sentenza del Consiglio di Stato che vieta a Sky l’acquisto di nuove esclusive online. Significa che in futuro, se anche dovesse comprare tutte le partite, queste potranno comunque essere trasmesse da qualcun altro su internet. È la pietra tombale definitiva sul vecchio modello del monopolio delle pay-tv: Sky potrà magari continuare a essere un modo per guardare la Serie A, non l’unico.

Che cosa succederà dunque? Non lo sanno bene nemmeno in Serie A, anche per questo si è pensato al “paracadute” dei fondi d’investimento. Appena possibile la Lega procederà col bando, che prevede quattro tipi di offerte: per prodotto (ma col divieto d’esclusiva online per Sky questa pare morta in partenza), per piattaforma, per un intermediario indipendente che rivenda a sua volta i diritti, per un partner con cui realizzare il canale della Lega. La grande novità potrebbe essere la partecipazione per la prima volta di Amazon, che è già sbarcata in Inghilterra (trasmette 30 gare l’anno della Premier League) e con cui sono cominciati i primi contatti anche in Italia.

Le incognite restano tante, così complice il Coronavirus c’è anche l’idea di prolungare di una stagione (al 2022) il contratto attuale. Farebbe guadagnare tempo sia a Sky che alla Serie A, ma serve un intervento del governo. Questa è l’altra variabile, visto che il ministro Spadafora (a cui piace molto l’idea delle partite in chiaro) sta lavorando alla riforma dello sport che potrebbe toccare anche i diritti tv. L’unica certezza è che per il pallone sta finendo un’epoca, forse è già finita. Con o senza canale della Lega, che sia Amazon, Netflix o qualcun altro, il futuro della Serie A è in rete: tante offerte su misura, un calcio quasi on demand, come una serie tv. I tifosi nonostante tutto sono pronti, il calcio italiano è come sempre in ritardo.