Ecco i fondi esteri: così il calcio diverrà un prodotto finanziario

Come da bambini nei cortili, quando il padrone del pallone decideva le squadre, a volte persino le regole del gioco, tutto. Così rischia di diventare la Serie A. Nelle mani non più dei soliti patron, gli Agnelli, i Lotito, i Cairo, litigiosi su tutto, avidi, egoisti, ma pur sempre legati alla loro squadra, e nemmeno dei colossi stranieri, da Suning in giù. Il dibattito sulla proprietà dei club appartiene al passato: adesso il calcio italiano sta pensando di vendersi proprio il campionato. La Lega è pronta a cedere un pezzo della Serie A a grandi fondi di investimento: Cvc, Bain Capital, promettono miliardi, due, forse addirittura tre, per entrare in società con la Lega calcio e buttarsi nell’affare del pallone, che poi è sempre quello dei diritti tv. Soldi freschi, soldi che fanno gola: l’emergenza Coronavirus, lo stop delle attività sono stati un duro colpo per i conti già traballanti di diversi club.

A fine maggio il n.1 della Figc Gravina aveva annunciato una perdita di 500 milioni causa Covid: forse un’esagerazione per forzare la ripresa, di sicuro mancano all’appello i 130 milioni che Sky non ha ancora pagato per i diritti tv, che da soli valgono in media il 50% del fatturato dei club, senza dimenticare i mancati ricavi da stadio con le porte chiuse. Un disastro, per un campionato che già affonda nei debiti (superiori ai due miliardi e mezzo di euro).

I presidenti hanno bisogno di liquidità, un paio di club sono alla canna del gas (meglio non fare nomi…),queste risorse potrebbero ridare slancio al nostro calcio. Una volta accettate, però, rischiano di cambiare il suo volto: il pallone non sarà più dei tifosi, figuriamoci, non lo è da decenni, ma nemmeno dei presidenti, diventerà un prodotto finanziario da far crescere di valore, economico, non necessariamente sportivo. Sarà un po’ come stringere un patto col diavolo.

I soliti noti dietro l’affare (che non piace a tutti)

L’idea nasce dai diritti tv, perché in fondo tutto nasce da lì. Il piano per il famoso canale della Lega si è arenato, il bando per il prossimo triennio procede a rilento. Certezze su come incassare il miliardo l’anno che manda avanti il carrozzone proprio non ce ne sono. Così i vertici della Confindustria del pallone, in particolare il presidente Paolo Dal Pino, hanno lavorato all’alternativa dell’ingresso dei fondi d’investimento. Non uno qualsiasi, Cvc Capital Partners, società finanziaria britannica specializzata in private equity, che gestisce oltre 52 miliardi di euro tra Europa e Asia, con già diverse esperienze nel settore sportivo.

Come raccontato dal Sole 24 ore, lo schema prevede la costituzione di una nuova società, in cui far confluire tutti i diritti televisivi per i prossimi dieci anni. Questa newco verrebbe valutata circa 10 miliardi di euro, che poi è la somma del miliardo l’anno che i presidenti vogliono per la trasmissione delle partite. Il fondo vi entrerebbe con una quota di minoranza, ancora da stabilire, si parla di 2,2 miliardi di euro per il 20%. La proposta è tanto seria che Cvc vanta un diritto di esclusiva per trattare con la Lega fino al 30 giugno, e a via Rosellini hanno costituito una commissione apposita: ne fanno parte Lotito, Agnelli, il n.1 dell’Atalanta Percassi e De Laurentiis (che però è contrario). Non è il solo.

Ad alimentare gli equivoci c’è la circostanza che l’advisor di Cvc è la banca d’affari Rotschild, della cui filiale italiana è vicepresidente Paolo Scaroni, che però è anche presidente del Cda del Milan, primo a proporre per la guida della Lega il nome del manager Paolo Dal Pino (salvo poi votargli contro al momento dell’elezione, in assemblea succede anche questo).

Non è nemmeno l’unico nome noto che ricorre nella vicenda, visto che la parte legale sarebbe curata dallo studio Gattai, già attivo nella non proprio fortunatissima cessione del club rossonero al cinese Yonghong Li. Le conoscenze personali, le corsie preferenziali in Lega calcio sono sempre quelle che funzionano meglio, anche se ogni tanto prestano il fianco a facili dietrologie di chi vuole vederci un conflitto d’interessi. Ad ogni modo Cvc ha solo sdoganato un tabù: una volta capito che i presidenti sono con l’acqua alla gola e che la Serie A potrebbe essere sul mercato, piovono offerte da ogni parte del mondo. C’è stato un abboccamento, ancora informale, con Fsi, il Fondo strategico italiano, che servirebbe a dare una verniciata tricolore all’operazione, piuttosto indigesta mediaticamente. Molto più concreta la controproposta degli americani di Bain Capital, che di miliardi ne metterebbero addirittura tre, per una quota ovviamente più alta (intorno al 30 per cento). Altre offerte potrebbero arrivare nei prossimi giorni.

Come la Formula 1 e anche il rugby

La trattativa avanza ma non decolla. I contrari sostengono che non si possa proprio fare, perché i diritti tv non appartengono alla Lega ma ai singoli club, e dunque ci vorrebbe l’unanimità di tutte e 20 le società (col rischio poi che in futuro le neopromosse abbiano qualcosa da ridire). Quelli a favore, ribattono che ad essere ceduto sarebbe solo il diritto di commercializzazione, assegnato alla Lega dalla Legge Melandri. E per convincere gli scettici puntano a inserire nel contratto un tetto massimo per i ricavi che potrebbe incassare in futuro il fondo, così da rendere ancora più vantaggiosa l’operazione. Il problema, però, non è tanto normativo, e nemmeno economico, quanto proprio filosofico.

In una logica virtuosa, questi soldi dovrebbero servire a migliorare il calcio italiano: essere vincolati a progetti sani, come stadi e strutture giovanili, dilazionati nel tempo, e poi finanziare il progetto del famoso canale della Lega. È l’idea anche del presidente Dal Pino, invece il rischio concreto è che quasi tutta la torta finisca subito nelle casse dei club, che potranno farci ciò che vogliono. Un tesoretto una tantum, per dare una boccata d’ossigeno ai conti tenuti in piedi con cerotti e plusvalenze, senza un lascito duraturo. E poi a che prezzo. Il calcio perderà la sovranità su stesso. Cvc, o chiunque altro arrivi, sarà il socio di minoranza della Serie A, ma sarà il socio che paga, e chi paga vuole decidere; ad esempio, esprimerebbe il Ceo della nuova società, che formalmente avrebbe competenza solo sulla parte commerciale, ma inevitabilmente finirebbe per incidere anche su quella sportiva. Lo scopo di questi fondi, però, non è fare sport, ma fare soldi: aumentare il valore finanziario del prodotto, che non sempre coincide con quello sportivo. Spesso segue altre logiche. Basta guardare alle discipline dove è già successo. La Formula 1, ad esempio, dal 2006 al 2016 è stata in mano proprio a Cvc: durante quel decennio il suo giro d’affari è cresciuto, ma non si può dire che sia stato un bene per l’automobilismo. Nuova frontiera è il rugby, sempre Cvc è già entrata nel Pro 14 e punta anche al mitico Sei Nazioni: presto per fare bilanci, ma l’ingresso del fondo escluderà l’adozione di un sistema più meritocratico di partecipazione al torneo, già osteggiato dagli attuali organizzatori, non tanto perché l’Italia sia più forte della Georgia (sua possibile sostituta), ma perché Roma è una sede più appetibile della grigia Tbilisi. Il modello sarà sempre più quello degli sport americani, l’entertainment e il business prima del campo. Anche per il pallone: la finale scudetto come il Superbowl, scordatevi i miracoli calcistici che fanno sognare i tifosi ma danneggiano il fatturato (l’Atalanta che soffia il posto in Champions al Milan è un fastidio), persino la retrocessione di una grande piazza in favore del Frosinone di turno potrebbe diventare un problema. Insomma, non sarà più il calcio a decidere sul calcio. L’unica consolazione di tutta la vicenda: visti chi sono i padroni di oggi, e considerati i danni che hanno fatto, almeno questa sarebbe una buona notizia.

L’altra memoria. La Shoah anche nell’arte: le opere (e i loro autori) salvati o distrutti

Ètoccato a Vittorio Pavoncello, artista, scrittore e critico d’arte, di portare al “Giorno della Memoria” un libro che è anche il catalogo di una grande e continua iniziativa che si rigenera e può ricominciare in modi sempre diversi, in luoghi diversi e con progetti nuovi. È la Shoah dell’Arte (titolo della iniziativa e titolo del libro, edizioni Progetto cultura, pagg. 406) che interrompe il pericolo di conferenza volonterosa per bravi studenti ogni 27 gennaio come unico modo per incontrarsi nel giorno dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz. Non il ricordo di una liberazione, ma la certificazione di un immenso delitto. Pavoncello, come il libro appena uscito documenta e dimostra, ha scelto, per arrivare ai tanti Auschwitz del mondo nazista-fascista, e indicare il suo cumulo di morti, le opere d’arte e gli artisti che sono stati travolti (distrutti o scampati) dalla macchina dello sterminio.

Così facendo ha mobilitato i musei, dai più grandi e celebri ai più giovani e ignoti, e ha disseminato di eventi contemporanei, ambientati fra storia politica, storia civile e storia dell’arte, luoghi che altrimenti avrebbero mostrato e conservato certe opere della “arte degenerata” (Goebbels) senza notare la grande testimonianza della Shoah. Il libro è un catalogo che consente di sapere quanta Shoah c’è nel vastissimo repertorio dei luoghi d’arte italiana, artisti uccisi, artisti sopravvissuti, opere ritrovate e anelli mancanti nella nostra storia culturale. Ma l’idea si è rivelata più grande della intelligente riscoperta, lungo e aggiornato, catalogo di ciò che l’Italia ebrea ha dato al Paese e di ciò che il Paese, abbandonando al fascismo i suoi cittadini ebrei, avrebbe perduto per sempre nel caso maledetto di una vittoria fascista. Questo libro che, pagina dopo pagina, ci dà opere, autori e storie di formazione artistica intrecciate a storie di fuga, di salvezza trovata, di salvezza perduta, ci porta a una nozione che sfugge facilmente. E sfugge proprio all’antifascismo, che per legittimo disprezzo svaluta “il regime” di Mussolini e poi il mattatoio di Salò abbassandolo al livello di una serie di attività criminali, a quello di una sorta di malavita continuata da combattere per amor di Patria. Una ragione comprensibile di disprezzo per chi mandava soldati italiani in Russia con le uniformi estive e in Grecia con scarpe di cartone, ha indotto anche molti studiosi seri (ma forse troppo giovani) a immaginare il fascismo una spregevole ma modesta organizzazione di malavita, capace di delitti su commissione, come Matteotti e Rosselli, oppure (Salò) colpevoli di stragi e di torture, ma non di lasciare un segno nella storia. La vastità dello scempio di cultura e di irruzione distruttiva nella vita degli artisti e dell’arte, è la prova contraria. Il fascismo è spregevole, ma il virus era potente e si aggira, protetto da un negazionismo ora cieco, ora colpevole. Il libro di Pavoncello lancia un ben motivato segnale d’allarme con la voce dell’arte e degli artisti a cui ha dedicato il libro.

 

Guerra in Libia. Gli invisibili che possono mettere fine al disastro

Raccontano sudanesi catturati dalle milizie fedeli al governo di Tripoli che il loro ingresso nella mischia libica è stato del tutto casuale. Erano negli Emirati arabi, avevano risposto ad un annuncio per un lavoro di tutto riposo: guardia giurata.

Si sono ritrovati in un campo di addestramento, e di lì a poco, armati e con indosso una divisa, eccoli alle porte di Tripoli, lanciati verso la capitale insieme ai soldati del generale Haftar. Appena se la sono vista brutta ovviamente si sono arresi.

La guerra libica è anche questa commedia degli equivoci, prim’attore quell’Haftar che si spaccia per nemico del fondamentalismo ma impiega in prima linea milizie di ultra-salafiti. Poi predoni sudanesi, i famigerati Janjaweed giù visti all’opera nel Darfur, che recitano da soldati del sedicente ‘Esercito nazionale libico’ e, sul fronte opposto, bande di negrieri e di trafficanti che difendono il governo di Tripoli perché è ricattandolo che vivono.

Confrontandosi due schieramenti così raccogliticci, è forte il rischio che all’evidente sconfitta di Haftar faccia seguito non tanto la vittoria del governo legittimo, quanto un’anarchia militare in cui sarebbe difficile rimettere insieme i cocci della Libia.

Per evitarlo gli europei dovrebbero riuscire ad attivare le centinaia di migliaia di libici che non corrispondono all’antropologia gangsteristica suggerita dai resoconti di fosse comuni e lager di migranti.

Alcuni hanno imbracciato il mitra per difendere la propria città. Altri sono riparati all’estero.

Altri ancora sono tra i 350 mila sfollati e vivacchiano sul margine del caos. Tutti invisibili, quasi tutti inermi.

Eppure solo loro possono resuscitare una patria che fa gola a troppi attori internazionali. Ma l’Europa dovrebbe aiutarli, innanzitutto liberando almeno la capitale dai gruppi armati, di cui la parte meno impresentabile potrebbe essere cooptata in una forza militare nazionale guidata da un’autorità civile.

 

Consulenti finanziari. I venditori porta a porta non forniscono pareri: piazzano prodotti costosi

Caesar non supra grammaticos: anche l’imperatore non aveva potere sulla lingua. Così nessuna legge della Repubblica può cambiare il significato delle parole. Non vogliamo però affrontare questioni di purismo linguistico, ma una grave stortura della normativa sul risparmio in Italia. I venditori porta a porta di investimenti ci provarono subito, quando negli anni ’70 collocavano sciagurati titoli atipici.

Già allora cercavano di presentarsi come consulenti finanziari, per ispirare più fiducia. Ma per fortuna il Testo unico della finanza (Tuf) tenne la barra a dritta, imponendo la corretta denominazione di promotori finanziari. Poi però, con il governo Renzi e il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, all’industria del risparmio gestito riuscì il colpaccio. La legge di Stabilità 2016 ribattezzò in consulenti i promotori finanziari, senza per altro cambiare la sostanza delle cose. Così ora si fregiano di tale titolo soprattutto venditori, agenti di commercio o dipendenti di banca. In tal modo gli è più facile carpire la fiducia dei risparmiatori, intrappolando i loro soldi in tutta una serie di scatole nere: fondi comuni, polizze vita, piani previdenziali, ecc.

I pochissimi in Italia che davvero campano fornendo consigli ai risparmiatori, meno di 300 persone fisiche e 50 società, sudano quattro camicie per smarcarsi dai venditori porta a porta e sportello a sportello. In particolare dagli oltre 50 mila sedicenti consulenti ma di fatto promotori finanziari.

Raschiando sotto la denominazione ufficiale, tutto conferma che si tratta di venditori, persino il loro inserimento previdenziale. Risultano infatti agenti di commercio che versano contributi all’Enasarco. Se fossero davvero consulenti avrebbero una partita Iva come liberi professionisti. Per di più devono assolutamente agire per conto di un’unica società. Non possono cioè essere multimarca. Potremmo poi citare le gare di vendita delle reti porta a porta e le loro sontuose convention a Dubai o Miami , tutta roba da venditori, non da consulenti. Che poi, parlando coi clienti, diano anche indicazioni o consigli è scontato e irrilevante. Lo fa anche il negoziante di abbigliamento o di vini. In maggiore o minore misura lo fa qualunque venditore. Sono comunque meri venditori anche decine di migliaia di bancari attivissimi allo sportello o in salottini dietro la targa “consulenza investimenti” o espressioni simili.

Ultima precisazione: un consulente (vero) può anche suggerire di stare fermi e tenere provvisoriamente i soldi sul conto, come un legale onesto può consigliare di non fare causa. Invece un venditore, per sbarcare il lunario e magari comprarsi la Ferrari, deve per forza piazzare i prodotti e servizi del suo catalogo. E possibilmente i più costosi e più pericolosi, che gli fruttano provvigioni più alte.

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Che cosa ci dice del sindacato la guerriglia in casa Cisl

Già 30 anni fa, il leader della Cgil, Bruno Trentin, riservava al suo diario privato cosa pensasse dell’organizzazione che guidava, affetta dalla “disperata volontà di un ceto burocratico di sopravvivere con il suo vecchio bagaglio culturale, (…) un ceto squalificato e sempre più depotenziato nelle sue stesse capacità professionali”. Le sue riflessioni anticipavano la crisi del sindacato e illuminano oggi il disastro di casa Cisl. I tempi di Pierre Carniti, della Cisl operaia, radicale quasi più della Cgil sono un ricordo. È rimasta solo la Fim Cisl, una cosa strana forse perché erede di Carniti (che iniziò lì la sua carriera).

Due giorni fa Marco Bentivogli, figlio di Franco, braccio destro di Carniti, si è dimesso dalla guida dei metalmeccanici. In una lettera alla segretaria generale, Annamaria Furlan, ha spiegato che “è la migliore condizione per proteggere la Fim”. Da cosa? La scorsa estate 40 dirigenti della Cisl l’avevano duramente contestato per il “protagonismo politico”, lo “smisurato egocentrismo” e “l’innato auto-convincimento di superiorità”.

Qui le idee di Bentivogli, riformiste al punto da confondersi con quelle di Confindustria, c’entrano poco: non era allineato, un peccato mortale nella Cisl della Furlan. Martedì i due si vedranno per trovare un accordo sulla successione. Raccontano che siano intervenuti perfino Matteo Renzi e Paolo Gentiloni per trovare una soluzione. Bentivogli ha lasciato per evitare che la Fim venisse commissariata dai Probiviri. È un sistema di casa nella Cisl della Furlan, già braccio destro di Raffaele Bonanni, pugnalato dai suoi fedelissimi grazie allo scandalo della retribuzione gonfiata (da cui non erano esenti molti di quelli che l’hanno spodestato). La Cisl non è più una Confederazione, ma una monarchia. Fausto Scandola, l’uomo che denunciò i maxi-stipendi (morto nel 2016), fu subito espulso; chi si ribella viene commissariato. È successo quattro anni fa alla Fai (gli agricoli), poi alla Federazione del pubblico impiego, commissariata in fretta e furia mentre il segretario Giovanni Faverin denunciava di aver ricevuto l’offerta di un posto nella segreteria confederale per farsi da parte. La crisi irreversibile del sindacato che si fa farsa.

La Libertà di parola nel paese della libertà (di pensierino, però)

 

Non classificati

Anema e Covid. Riprende la vita normale e naturalmente anche il calcio, nelle sue varie manifestazioni (campionati, coppe, etc): il Napoli, battendo la Juventus dell’ex mister Sarri ai rigori (un miracolo), ha vinto la Coppa Italia. E, ovviamente, la città notoriamente non riservata e timida è esplosa in una festa durata tutta la notte. I tifosi, in barba alle misure di sicurezza anti coronavirus, si sono riuniti per celebrare il trionfo nelle piazze e sul lungomare con caroselli di auto, fuochi d’artificio, qualche sparo in aria, ma anche molti abbracci e brindisi senza mascherine. Le immagini, trasmesse da tutte le televisioni, hanno provocato la (per altro prevedibile) reazione del direttore aggiunto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Ranieri Guerra, che intervistato da Agorà su Rai3 ha definito i tifosi degli “sciagurati”. Il sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha invece descritto la mancanza di distanziamento fisico tra i tifosi giubilanti come una “vittoria del contagio della felicità”. Va tutto bene, basta che non torni in auge il lanciafiamme di Vincenzo De Luca.

Ciao ciao Farina. “La prova del cuoco” non supera la prova del fuoco: dopo 26 anni chiude la trasmissione di cucina di Rai1, per tanti anni condotta da Antonella Clerici e poi da Elisa Isoardi (che durante l’ultima puntata ha versato anche una lacrimuccia). Ce ne faremo una razione (di pasta).

Il valzer del maritino. Come si sa, dal 15 giugno hanno riaperto anche le discoteche ma solo all’aperto, con capienza di circa metà degli spazi. In molte Regioni hanno già deciso di consentire la riapertura delle discoteche solo come locali da ascolto di musica e intrattenimento (dove per evitare affollamenti sarà vietata la vendita di bevande al bancone e bisognerà prenotare). In base alle linee guida approvate dalla Conferenza delle Regioni in pista il distanziamento dovrà essere di almeno due metri mentre si balla, mentre se si è fermi nel locale la distanza scende a un metro. Nessun contatto fisico, dunque.
E le balere? In Emilia Romagna, patria del liscio, “il ballo di coppia è consentito se tra persone conviventi, sia nelle discoteche che in altri luoghi come sagre, feste paesane, balere e stabilimenti balneari, purché all’aperto”. Resta vietato, almeno per ora, il ballo di coppia tra persone non congiunte, dato che il distanziamento di almeno due metri non può essere consentito: un piccolo passo (a due) in avanti è stato fatto. Qualcuno spiegherà perché in tutto questo non riaprono anche gli atenei.

Franca sono. Leosini, amata e odiata, comunque seguitissima. Nella puntata del 14 giugno la conduttrice ha scatenato i suoi telespettatori. Che cosa mai è accaduto? “Storie maledette” era dedicata al caso di Sonia Bracciale. “La responsabilità ce l’ha anche lei come tutte le donne che non mollano il marito al primo schiaffone”, ha incalzato la Leosini rivolgendosi alla Bracciale, accusata di essere la mandante dell’omicidio del marito violento.
In un’intervista con “La stampa”, Franca Leosini ha chiarito la sua posizione. “Non ho detto che la responsabilità è delle donne, era un contesto colloquiale dove ho espresso un pensiero che corre sul filo della logica e soprattutto che è da considerare un consiglio, non certo un rimprovero. Perché sarebbe opportuno per una donna andarsene al primo accenno di violenza. Non aspettare che la violenza monti arrivando alle estreme conseguenze”. Cosa che era abbastanza chiara, anche senza conoscere Franca Leosini. Ormai siamo ostaggio del “nessuno si senta offeso” in un Paese in cui tutti si offendono (per conto terzi). W la libertà (di pensierino).

 

Calcio tragicomico. Il fair play di Platini: rubare ai poveri per dare tutto ai ricchi

Ormai siamo alla contabilità da travet: in Francia il Psg ha vinto il 7° titolo consecutivo, in Germania il Bayern ha fatto 8 su 8, in Italia la Juventus, a dispetto del recente tracollo in Coppa Italia, è in corsa per andare ad aggiudicarsi il suo 9° scudetto di fila.

Fatti gli sbadigli del caso, annotato che in Spagna il Barcellona, che ha vinto 7 degli ultimi 10 titoli, è in lotta per prendersi l’8° su 11 (ma qui almeno c’è il Real Madrid a creare un po’ di suspense) e preso atto che il solo torneo realmente combattuto, conteso ogni anno da 6-7 squadre è la Premier league dove il Liverpool è il 5° club a trionfare nelle ultime 10 stagioni dopo Manchester City (4 volte), Manchester United (2), Chelsea (2) e Leicester (1), la domanda che sorge spontanea e chiama in causa il più disastroso presidente che la storia dell’Uefa ricordi, e cioè Michel Platini, è: ma a che cavolo è servito il fair play finanziario (Fpf) introdotto da Roi Michel dieci anni fa, lo strumento che attraverso un più rigoroso controllo dei bilanci si riprometteva di ridurre le disparità tra i club, dovute a fattori più economici che sportivi, creando più equilibrio e offrendo chances di vittoria a tutti?

A dieci anni dalla pensata di Platini, nel frattempo cacciato dall’Eden del Pallone con l’infamante accusa di corruzione (i mondiali del 2022 in Qatar, roba da trattamento sanitario obbligatorio, portano la sua firma), il Fpf che doveva portare più equilibrio ha invece reso cronico lo squilibrio: i ricchi sono diventati più ricchi, chi vinceva spesso ha iniziato a vincere sempre e gli unici due club che erano ai margini del grande giro e sono riusciti a entrarvi, il Psg e il Manchester City, lo hanno fatto dopo avere scandalosamente violato col tacito assenso di Platini le regole fissate da Platini, pappa e ciccia con la proprietà araba (City) e qatariota (Psg) dei due club.

Detto en passant, il galantuomo Platini ha anche trovato il modo d’inserire il figlio nel Comitato organizzatore del torneo in Qatar. A lui dobbiamo insomma un mondiale che per evitare che i calciatori muoiano in campo stroncati dall’afa verrà giocato dal 21 novembre al 18 dicembre. L’inno ufficiale sarà “Astro del ciel”. Come diceva Bracardi: in galera!

Tornando al Fpf che ha trasformato 4 dei 5 top campionati europei nei Tornei “che barba che noia” (in Francia, Germania e Italia le vittorie di Psg, Bayern e Juventus sono note prim’ancora di cominciare, in Spagna, dove dal 2000 al 2010 erano arrivati al titolo anche Valencia, due volte, e il Deportivo oggi quintultimo in serie B, la sola incertezza è tra Barça o Real), a rendere più grottesco il pateracchio è la constatazione che proprio a far data dal 2010, anno di nascita del Fpf, il fatturato dei top club, con Real, Barça, M. United e Bayern a fare da locomotiva, è schizzato alle stelle grazie ai diritti tv e al business dei mercati asiatici e medio-orientali che hanno portato a un aumento dei loro fatturati anche del 100%.

Così, la regola “è vietato spendere più di quanto si incassa” ha finito con lo strozzare i club medi e piccoli che incassano poco, aprendo invece praterie sconfinate ai club ricchi che incassando tanto hanno potuto spendere tanto, vincere tutto, ricevere premi sempre più ricchi e frequenti e dare vita a una vera e propria confraternita a numero chiuso. Come direbbe Fantozzi: il Fpf è una cagata pazzesca.

 

Università online. Tutti a lezione d’antimafia. “Sembra Radio Aut di Peppino Impastato”

Immaginate una settantina di ragazzi sparsi per l’Italia, da Varese a Messina. Tutti al computer. I più nella propria cameretta, qualcuno in cucina o in una sala soggiorno. Che ascoltano la voce di un adulto che parla da lontano delle mafie e dei sistemi complici. L’adulto racconta e spiega, quasi invisibile dietro le proprie slides. Arriva nelle case come un appuntamento fisso: tre volte a settimana alle 8.30. È stato il nuovo modo di tenere corsi universitari, indotto dal Covid. Poche settimane prima che si iniziasse molti temevano il disastro. Chi sa il valore del contatto personale, chi sa quanto sia importante guardare in faccia, negli occhi, gli studenti, temeva il grigiore o perfino la disfatta. Con un assillo finale: come fare gli esami a distanza, come controllare che durante il colloquio non ci sia dall’altra parte del video un suggeritore occulto, un bigino, un battaglione di post-it?

L’adulto ha scelto un’altra strada. Non vi farò domande capitolo per capitolo. Ma vi darò compiti a casa che potrete fare usando tutti i libri che vorrete. Perché quello più importante, alla fine, sarà su una sola domanda: che impatto ha avuto questo corso di sociologia della criminalità organizzata sulla vostra idea del fenomeno mafioso? E allora altro che i libri di testo dovrete andare a prendervi. Ma anche i libri di storia, gli articoli di giornale, le trasmissioni televisive, le discussioni con gli amici, le storie dei luoghi in cui vivete. E non potrete copiare, perché ognuno di voi ha storie irripetibili. Posso assicurare che il risultato è stato straordinario.

Ognuno di questi ventenni sparsi per l’Italia (tra i quali un adulto voglioso di sfruttare la pandemia a fini di cultura e una giovane mamma in arrivo) si è raccontato con sincerità, spesso con riflessioni importanti sulla società in cui ha studiato, ma anche ripescando con memoria vigile quel che ha ascoltato negli anni in famiglia. Stabilendo ponti continui e liberatori con quanto imparato durante il corso. Recuperando immagini e odori (di incendio…) nell’infanzia palermitana, battaglie antimafia paterne nell’adolescenza sui Nebrodi, rivedendo la festa di oratorio a Busto Arsizio e la figlia del boss che vi arriva in Limousine, riascoltando i genitori che raccontano la colonizzazione calabrese di Fino Mornasco.

E dando a tutto un senso, una sistemazione teorica. Chiamando in causa le singole lezioni. Ne è uscita una bellissima antologia di problemi e sollecitazioni, indolenze e suggestioni di nuovo impegno di fronte al tema tabù delle classi dirigenti. Ne pubblicherà a giorni una prima parte il sito promosso da laureati, ricercatori e studenti dell’università statale di Milano (www.stampoantimafioso.it).

Qui posso dire che se non ho visto in faccia chi mi ascoltava, se i ragazzi non hanno potuto confrontarsi di persona sulle singole lezioni, altre cose impreviste sono però accadute. Dopo ogni appuntamento gli studenti, rimasti soli, andavano subito a cercare tra i libri delle superiori o tra quelli dei genitori o nella biblioteca del paese nuovi libri: per passare dal caso Cutolo-Cirillo al caso Moro, per saperne di più di Crispi e Giolitti, o dei partiti politici del dopoguerra.

E poi ne parlavano con i genitori a tavola, con il risultato di vedere insieme film e vecchi documentari. O di riesumare storie di famiglia. Con la sensazione, raccontata da una studentessa di Cremona, Francesca, di avere partecipato a una speciale esperienza radiofonica, con quell’esordio degli appuntamenti in forma di favola: “C’era una volta…”. Ha scritto Francesca che le è sembrato di vivere “42 anni dopo” quel che doveva essere successo a Cinisi con Peppino Impastato. Ragazzi che sentono parlare di mafia stando nelle loro case, da una voce appassionata che arriva dall’esterno. E che cosa dovrebbe desiderare in più un corso sulla mafia?

 

Le altre Sonia Bracciale: “Mia figlia, picchiata ma fedele al marito, perché non aveva soldi”

 

“Franca Leosini docet: amore non è dipendenza economica”

Cara Selvaggia, ho letto il suo articolo in difesa di Franca Leosini e mi sono sentita coinvolta in prima persona, come madre di una ragazza che ha vissuto una storia difficile. Premetto che avevo visto la puntata su Sonia Bracciale, avevo trovato la signora condannata poco credibile nella sua ricostruzione dei fatti e del resto, che non sia una donna attendibile, lo suggerisce anche il fatto che si proclami innocente contro ogni evidenza. Ha fatto uccidere suo marito, non ci piove. Forse, se non ci fossero state le immagini girate nella stazione dei carabinieri in cui metteva in atto la pantomima, avrei anche dubitato. Ma quelle scene parlano e malgrado le storie che racconta, non ha speranza di essere creduta. Questo mi fa dubitare sulla sua versione del “prima”. Non la parte in cui dice che il marito la picchiava, evidentemente, ma quando spiega che ci restava insieme perché lo amava. Quello non è amore e credo che la situazione economica, quella casa da condividere, fosse una leva forte per non riuscire a scollarsi. Lo dico perché, come accennavo, mia figlia è stata vittima di violenze.

Lui è un mostro, aggressivo e fintamente moderato, pacato, quasi compunto in pubblico (fa il traduttore nei tribunali, ironia della sorte). Poi sfogava la rabbia repressa su mia figlia, che è rimasta con lui 12 anni. Io sapevo, ma ero impotente perché non avevo un euro: non potevo prometterle che l’avrei mantenuta con un minimo di dignità (sono vedova) se l’avesse lasciato. Mia figlia non lavorava, pigra negli studi, si è auto-condannata a 20 anni sposando un uomo del suo paese, nel profondo Sud; senza progetti né titolo di studio, s’è imprigionata con le sue mani. Non le do colpe, ci mancherebbe: lei a un certo punto lo voleva lasciare, però non sapeva dove andare a sbattere la testa economicamente. La svolta è arrivata quando ho ereditato una casa da una zia e ho potuto venderla, per darle ossigeno almeno un paio d’anni. Allora è venuta a stare da me, si è ripresa la sua vita, oggi ha un nuovo compagno e un lavoro umile, part-time. Mi creda cara Lucarelli, tante donne dicono “lo amavo troppo”, ma la verità è che la dipendenza economica è molto legata a quella psicologica e io credo che la nutra un po’. Lo diceva anche mia figlia: “Non ce la faccio a lasciarlo, non è solo per i soldi”. Ma quando ho ereditato quei 95.000 euro di casa, il cordone ombelicale l’ha tagliato. Si è sentita solida, libera, forte, come non mai. L’indipendenza economica regala un sacco di autostima, un bel motore per mandare a quel paese chi ti picchia o ti dice, come nel caso di mia figlia, che sei brutta, ignorante, sfigata. Tutto ciò per dire che la signora Leosini, forse, sospettava la stessa cosa quando rimproverava Sonia Bracciale di non aver lasciato il marito; e secondo me, “lo amavo troppo”, non se l’è bevuta neanche lei. Forse era meglio dire: “Non sapevo dove sbattere la testa perché non c’erano soldi, non vedevo prospettive e pensavo di non valere nulla, per questo ero così dipendente, ma non innamorata”. Che ne dice?

Giovanna N.

Cara Giovanna, credo che l’indipendenza economica sia sempre soddisfazione, autostima e, soprattutto, libertà di scelta.

 

“Nessuno crede alle violenze? Urleremo fino allo sfinimento”

Cara Selvaggia, vorrei che leggessi questo scritto pubblicato online da un’anonima. Non ti posso spiegare il perché ma è anche un po’ la mia storia. Ecco il testo: “Oggi vi raccontiamo una cosa strana che ha del surreale e che non riusciamo a capire. Una vittima di tratta, accertata e riconosciuta tale da un pool di esperti, la settimana prossima dovrà recarsi in un ufficio pubblico. C’è la possibilità oggettiva che il suo aguzzino l’aspetti fuori e le faccia del male; perché lui sa che la sua donna sarà lì, a quell’ora, in quel determinato posto. Vi starete chiedendo: ‘Com’è possibile che lui lo sappia?’. Lo sa perché chi le ha dato appuntamento l’ha detto anche a lui. Allora voi direte: ‘Ma questo ufficio pubblico avrà avvisato le forze dell’ordine’. NO. L’ufficio in questione non si pone il problema della sicurezza di questa poveretta. C’è solo una parola per definire codesti funzionari: facilitoni incompetenti. ‘Non pensiamo che lui sia pericoloso’. In fondo l’ha solo riempita di botte, per anni, costringendola a prostituirsi. Rapporti completi, orali, giochi perversi con maiali schifosi di tutti i tipi e lui fuori, ad aspettare che finisse per farsi dare i soldi. ‘Non pensiamo che lui sia pericoloso’. Allora chi scrive ha avvisato i Carabinieri. Eravamo pronte a sentirci dire la solita frase: ‘Non abbiamo personale, siamo sotto organico, senza l’ordine dall’alto non ci muoviamo’. Invece il Comandante ci ha detto che si sarebbe attivato: “Sono meridionale, cresciuto a pane e mafia’. Allora, forse, almeno 2 divise ci saranno fuori da quell’ufficio: Anna non avrà paura e non leggeremo sui giornali che una donna è stata picchiata o uccisa. Però volevamo farvi riflettere sul motivo per cui noi donne veniamo ammazzate con tanta facilità: tutti sottovalutano il pericolo e pensano che esageriamo. È esagerato pensare che chi ti ha costretto a mettere in bocca il pene di un altro uomo e forzato a succhiarglielo possa farti del male. No, non è un indizio di pericolosità. L’unico modo per farci ascoltare, allora, è essere saccenti con chi dovrebbe proteggerci, rompiamo le scatole allo sfinimento perché ricordatevi che oggi è Anna ma domani potrebbe toccare a voi”.

 

Il grande match di Grillo vs Dibba, le lune di Renzi e Brunetta “responsabile”

La politica delle marmotte. “Dopo i terrapiattisti e i gilet arancioni di Pappalardo, pensavo di aver visto tutto… ma ecco l’assemblea costituente delle anime del Movimento. Ci sono persone che hanno il senso del tempo come nel film ‘Il giorno della marmotta’ ”: Beppe Grillo interviene quando c’è da intervenire, e di fronte al ritorno in campo di Alessandro Di Battista e del suo massimalismo delle origini ha ritenuto che fosse necessario. Ma nel mettere a riparo il governo da eventuali tsunami, imbroccando tra l’altro una citazione cinematografica d’indiscutibile riuscita, il fondatore del Movimento ha toccato un punto che va ben oltre i destini dei Cinque stelle e lo scarso tempismo del Dibba. La tentazione della Marmotta, intesa come attitudine a rimettere in “loop” sempre lo stesso disco, senza prestare minimamente attenzione a quel che accade fuori, ai mutamenti socio-culturali, alle contingenze storiche, è un richiamo a cui troppi politici non riescono a resistere, col risultato di articolare ragionamenti politici che spesso confinano con l’astrazione e che, rapportati alla realtà, suonano del tutto lunari. Ripetere ogni volta i propri cavalli di battaglia, come farebbe un cantante in tour per scaldare il pubblico, può pagare sulle prime, ma sulla distanza finisce per apparire grottesco e diventare respingente. Se la politica non è in grado di ascoltare quello che le accade intorno, non si capisce perché i cittadini debbano ascoltare lei.
Voto 7

 

Distinguo. “Non voglio fermarmi agli errori passati, adesso è tempo del piano nazionale delle riforme, che deve diventare lo strumento per dialogare in Europa, settembre è troppo tardi. Adesso facciamo insieme il piano nazionale delle riforme in Parlamento e non a Villa Pamphilj”: così è intervenuto Renato Brunetta durante l’informativa di Conte alla Camera. L’opposizione fa l’opposizione, ed è normale che abbia da ridire sull’operato della maggioranza, altrimenti non sarebbe tale. Ma Forza Italia, smarcandosi dagli alleati, in questa fase ha scelto di privilegiare l’approccio costruttivo. E questo è indiscutibilmente un bene.
Voto 6 e mezzo

 

Non classificato

Che Renzi che fa. “Signor presidente per le nuove generazioni non c’è la domanda ‘com’è l’Europa’, perché è casa nostra. Siamo all’altezza dei sogni della generazione del 2001. Si faccia valere presidente siamo con lei”: se c’è una cosa che non si può dire a Matteo Renzi è che sia noioso e prevedibile. Dopo la fase del bastian contrario, che tra l’altro gli ha fatto ottenere diverse delle cose per le quali ha puntato i piedi, Matteo Renzi è passato alla fase della sintonia con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, del quale è diventato il principale sostenitore. I maligni dicono che sia per scongiurare le elezioni, o magari per ottenere una legge elettorale che lo metta a riparo da brutte sorprese; fatto sta che a questo giro l’ex Rottamatore ha ritenuto gli convenisse rottamare i contrasti, e così ha fatto. Si prevede pioggia ma spunta il sereno. Renzi è come il meteo: non sai mai come va a finire.