Turismo 2020: metà ricavi, centri storici ormai deserti

“Èun disastro: stanno ripartendo spiagge, monti e laghi. Non le città come Venezia. Zero, siamo vicini allo zero. Chi non ha affitti da pagare, non apre nemmeno”. Ondina Giacomin è presidente di Abbav, la più forte associazione veneta che riunisce B&B e locazioni turistiche private: “Per il momento a Venezia ci aggrappiamo agli studenti, è stato firmato un documento con gli atenei. Contiamo di affittare a loro stanze e appartamenti, per arrivare almeno fino al marzo 2021”.

In centro storico le strutture di questo genere sono circa 9 mila, in tutto il Veneto, su 480 mila posti letto, 300 mila sono extra-alberghieri. Tutti hanno iniziato a stipulare assicurazioni per danni sanitari da 5 euro a ospite. Da Airbnb, che aveva promesso risarcimenti, “non s’è visto un dollaro”. Le città si svuotano: non ci sono gli abitanti, che avevano lasciato il posto alle strutture ricettive, e ora mancano anche i turisti. C’è però chi riapre. “È un atto di coraggio: rialzi la testa e continui a vivere, ma il turismo ancora non c’è”, spiega Claudio Scarpa, direttore dell’Associazione Albergatori Veneziani. “Il 18 maggio hanno aperto i primi 4, oggi siamo a circa 100 alberghi aperti, il 35%”. Per fare i conti basti dire che a Venezia arrivavano più di 10 milioni di turisti l’anno, esclusi quelli delle spiagge del Cavallino, e che per quasi tre mesi il fatturato è stato zero: solo all’inizio di luglio si arriverà al 70% degli alberghi aperti. “Calcoliamo che a luglio e agosto si abbia una copertura delle stanze del 15%, per salire a 35-40 tra settembre e novembre”. La normalità? “Se non ci sono ricadute, col Carnevale 2021”. I cieli da Usa e Canada sono ancora chiusi.

A Roma è lo stesso. Il ritorno alla normalità è previsto a marzo 2021, quando torneranno gli americani. “Abbiamo chiuso il 10 marzo – spiega Fabrizio Trifoglio, che gestisce due hotel in centro – Il personale è in cassa integrazione, abbiamo tamponato nonostante i ritardi. Ora monitoriamo il mercato per capire che direzione prende: facciamo marketing mirato sui Paesi che pian piano escono dal lockdown”. Al momento, solo l’hotel Teatro Pace, in piazza Navona, ha registrato qualche prenotazione: “Avevamo ipotizzato l’apertura dal 1 luglio ma le richieste sono ancora poche. Aspettiamo fino al 25 giugno, poi decidiamo. Non vorrei stare fermo: quando finirà la cassa integrazione, come faremo?” Il crollo delle prenotazioni ha toccato quasi il 90%. “Dall’Italia non abbiamo ricevuto neanche una prenotazione – spiega Trifoglio – la situazione delle famiglie non è delle migliori”. E il bonus? “È complicato: abbiamo bisogno di cash flow e certo non basta il prestito da 25 mila euro che, pur con tutte le difficoltà, siamo riusciti ad avere”.

Firenze,nell’estate 2019, aveva inglobato la maggior parte dei 25 milioni di pernottamenti in Toscana. Oggi, dal Duomo agli Uffizi, passando per l’Oltrarno, si percepisce solo un vuoto come mai in questo periodo. Gli unici turisti che si incontrano vengono dall’Italia. A risentirne sono soprattutto alberghi e ristoranti. Secondo Confindustria è stato cancellato il 99% delle prenotazioni a maggio e il 91% a giugno. Per questo molti alberghi non hanno riaperto, come l’Hotel Firenze, a pochi passi dal Duomo: “Sarà difficile ripartire entro l’estate – racconta il titolare Enrico Borgogni – faccio anche il centralinista e abbiamo avuto zero prenotazioni. Solitamente in questo periodo ho il 94% delle camere occupate, oggi nessuna. Adesso stiamo provando a chiamare tutti i vecchi clienti per proporre loro grandi sconti ma ormai quest’anno è andato. Siamo disperati”. Aldo Cursano, titolare del ristorante Kome, parla di momento “tragico”: “Noi abbiamo riaperto, ma molti non lo hanno fatto. L’importante è che ci facciano lavorare senza limitazioni”.

Anche a Firenze l’emergenza ha reso evidente il problema del centro colonizzato dal turismo stile Airbnb. Secondo i dati raccolti da due docenti della Sapienza di Roma, Filippo Celata e Antonello Romano, che hanno analizzato gli open data forniti da Facebook, durante il lockdown il centro storico di Firenze ha registrato il 70% di presenze in meno. E il Comune ha scoperto molte residenze fittizie: a volontari e dipendenti che dovevano consegnare le mascherine è rimasto in mano il 10% del materiale. In città gli “host attivi” sono 6.062, di cui il 72,8% nel centro storico: le prenotazioni cancellate hanno toccato punte del 90% tra aprile e maggio e la città è destinata a rimanere vuoto per tutta l’estate. “È un dramma – racconta Alberto, 38 anni, che dal 2018 affitta con Airbnb un monolocale in Oltrarno – Avevo prenotazioni fino a settembre”.

Non va meglio nelle zone di vacanza. La Sardegna torna in cima alle ricerche di viaggio sul web, ma accusa il contraccolpo delle disdette e della crisi economica. Il ristorante di Luigi Pomata a Cagliari è un’istituzione da quasi vent’anni. “Ripresa? Quale ripresa? – spiegano – Quest’anno per la prima volta terremo chiuso il nostro bistrot, mentre a Carloforte apriremo solo a luglio”. A parlare sono i numeri: “La gente non arriva, la crisi morde. Abbiamo un calo di fatturato dell’80%”.

I dati più aggiornati sono quelli dell’ultimo bollettino dell’Enit, l’agenzia nazionale del turismo. Al 10 giugno, l’Italia pur avendo il maggior numero di prenotazioni in corso in Ue ha registrato il calo maggiore: -89,4% rispetto al -88,9% della Francia e al -87,3% della Spagna. Le prenotazioni aeree dall’estero sono 203.663 (201 mila per la Spagna e 170 mila per la Francia). Nel 2020, insomma, i turisti stranieri caleranno del 55%: 35 milioni di persone e 119 milioni di pernottamenti in meno. In soldi significa 23 miliardi di euro in meno di entrate dall’estero (erano 41,5 miliardi). Non va meglio nel mercato interno: quasi 44 miliardi di ricavi in meno sul 2019. Solo il 47% degli italiani prevede, infatti, almeno un periodo di vacanza di qui a inizio ottobre, il 25% non sa ancora se partirà.

“Le toghe libere ci sono, reagiamo al pensiero unico di queste correnti”

“Le conversazioni di Luca Palamara e il misero spaccato che ne emerge non hanno nulla a che fare con la magistratura italiana, vera parte lesa di questa tragedia. È la narrazione di un sistema che non definirei di autogoverno, ma di autocontrollo della magistratura: oligarchico, deviato e destabilizzante”.

Gabriella Nuzzi è giudice del tribunale del Riesame a Napoli. Nel 2009, mentre da pm a Salerno indagava sulle inchieste avocate a Luigi de Magistris dalla procura di Catanzaro, fu punita dal Csm insieme con i colleghi Luigi Apicella e Dionigio Verasani. La loro “colpa”: sequestrare atti che i colleghi di Catanzaro non consegnavano. L’Anm guidata da Palamara in quei giorni dichiarò che il sistema era sano: aveva gli “anticorpi”.

Giudice Nuzzi, oggi il “sistema” Palamara è nella bufera: cosa ne pensa?

Siamo di fronte alla delegittimazione dell’intera istituzione giudiziaria. Palamara parla di sé quale “mediatore”, insieme con altri, di un sistema in grado di trasformare, in formali delibere, accordi sulla vita professionale dei magistrati, perfezionati fuori dalle regole e dalle sedi istituzionali, talvolta con la partecipazione di politici indagati. È inquietante e inaccettabile in uno Stato di diritto. Non parliamo solo di nomine ai vertici degli uffici giudiziari ma anche dell’esercizio della giurisdizione disciplinare che da 12 anni si presta a essere un “sistema” di annientamento istituzionalizzato dei magistrati “scomodi”.

L’Anm espelle Palamara: è sufficiente?

Non è stata ancora definita la sua posizione disciplinare né ancora adottate iniziative per gli altri magistrati protagonisti delle interlocuzioni documentate nelle chat che, se pure non penalmente rilevanti, appaiono deontologicamente riprovevoli: è una giustizia disciplinare strabica. Adotta pesi e misure diverse a seconda di contingenze e appartenenze.

Come siamo arrivati a questo punto?

L’origine risale al 2006 quando si introduce un’eccessiva discrezionalità nelle nomine dirigenziali e la nuova legge sulla responsabilità disciplinare. Dal quel momento l’associazionismo giudiziario si trasforma in consociativismo: messe da parte le connotazioni ideologiche, le correnti si trasformano in un’entità indistinta, che privilegia la lottizzazione delle cariche, in grado di assicurare il mantenimento degli equilibri interni sul territorio nazionale. L’appartenenza alle correnti apre poi la scalata alle cariche direttive dell’Anm, che poi spalancano le porte al Csm, in un circuito perverso che si autoalimenta senza fine, mortificando ed emarginando i magistrati che ne sono estranei. Non c’è spazio per altro.

È possibile che l’unico responsabile sia Palamara?

C’è una responsabilità della magistratura nel suo complesso, per l’indolenza nel cogliere gli effetti malevoli di questo sistema e adottare i rimedi più adeguati. Ma la responsabilità collettiva non può cancellare quelle individuali di cui si deve essere chiamati a rispondere. Aggiungerei che dalle conversazioni pubblicate emerge anche un fenomeno ben più inquietante: una sorta di massoneria politico-giudiziaria, che offre una nuova chiave di lettura a gravi vicende che hanno segnato la storia giudiziaria degli ultimi 12 anni. Un fenomeno che non è frutto della mente visionaria di “cattivi magistrati” ma purtroppo esiste, si nutre delle deviazioni del consociativismo politico-giudiziario e miete vittime innocenti. Anche su questo sarebbe necessario fare chiarezza nelle sedi istituzionali competenti.

Palamara sarà il capro espiatorio?

Palamara ha dichiarato di avere la toga nel cuore e di voler raccontare la verità. Da magistrato lo esorto a tener fede al giuramento sulla Costituzione. Assuma le proprie responsabilità e ricostruisca nelle sedi istituzionali competenti tutte le nefandezze di cui è a conoscenza: nomi, cognomi e vicende, a partire da quelle compiute nei confronti di de Magistris e dei magistrati di Salerno, sino alla vicenda Consip. Altrimenti le sue parole sembrano sinistri messaggi a chi, di quel sistema, si è avvantaggiato e ne costituisce tuttora parte integrante.

Lei con circa 80 magistrati napoletani ha sottoscritto un documento nel quale auspica un cambiamento. Cosa proponete?

C’è innanzitutto l’esigenza di reagire al pensiero unico delle correnti, all’immobilismo dell’Anm, allo scetticismo e alla rassegnazione di quella parte della magistratura che si sente vinta e non intravede vie d’uscita. Sollecitiamo l’adozione di comportamenti concreti che assicurino il recupero dell’etica violata, precondizione necessaria a qualsiasi rivisitazione del sistema elettorale del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Per quanto ad alcuni sembri difficile pensarlo, esistono ancora menti libere a cui non interessa occupare poltrone: spero che la vitalità partenopea dia impulso a un impegno nuovo e diverso.

“Che ci faceva Albamonte a cena con la Pd Ferranti?”

Luca Palamara non ci sta. Quel che non ha potuto dire dinanzi all’Anm inizia a raccontarlo ai giornalisti. E questa storia entra in una nuova fase. Con l’istinto dell’animale ferito Palamara – “non farò il capro espiatorio di un sistema” – inizia a fare nomi e cognomi e, in omaggio a un ‘così fan tutti’, mette sul tavolo fatti presunti o mere suggestioni: solo una sede istituzionale competente potrebbe fornire a tutto questo il sigillo del vero o del falso.

“Ho fatto parte del sistema delle correnti – dice Palamara – quel sistema che ora mi condanna, spesso mi insulta, perché individua in me l’unico responsabile di tutto. Non mi sottrarrò alle responsabilità ‘politiche’ del mio operato per aver accettato ‘regole del gioco’ sempre più discutibili. Ma non ho mai agito da solo”. E ancora: “La guida dell’Anm e l’attività di consigliere del Csm mi hanno portato ad avere costanti rapporti con la politica e il mondo istituzionale. Ma la politica ha anche un lato oscuro. In alcuni casi le nomine hanno seguito solo logiche di potere, nelle quali il merito viene sacrificato sull’altare dell’appartenenza”. Palamara sostiene di sentire il “peso” di una “responsabilità che però non è soltanto mia”. Poi aggiunge: “Ognuno aveva qualcosa da chiedere, ognuno riteneva di vantare più diritti degli altri, anche quelli che oggi si strappano le vesti, penso ad esempio ad alcuni componenti del collegio dei probiviri che oggi chiedono la mia espulsione, o a quelli che ancora ricoprono ruoli di vertice all’interno del gruppo di Unicost, o ancora oggi siedono nell’attuale Comitato direttivo Centrale e forse troppo frettolosamente hanno rimosso il ricordo delle loro cene o dei loro incontri con i responsabili giustizia dei partiti politici di riferimento. Sarebbe bello che loro raccontassero queste storie. Non devo essere io a farlo”.

C’è un punto delle contestazioni sul codice etico che proprio non riesce a mandar giù: la contestazione di essersi proposto da sé al ruolo di procuratore aggiunto di Roma. “Quante persone in questi anni – dice Palamara al Fatto – sono venute da me a proporsi?”. Quel che racconterà da oggi in poi, spiega, è determinato a “dimostrarlo in qualunque sede”.

Ma a chi si riferisce? “A Eugenio Albamonte e Donatella Ferranti, per esempio. Per quanto mi risulta, si sono frequentati come io ho incontrato Luca Lotti e Cosimo Ferri. Non credo che abbiano parlato solo di calcio”. Ritiene che abbiano discusso anche di nomine negli uffici giudiziari? “Diciamo che non lo posso escludere. Esisteva un rapporto anche tra Ferranti ed il vice presidente del Csm David Ermini: erano compagni di partito”, risponde Palamara.

Albamonte è segretario della corrente Area ed ex presidente dell’Anm. Ferranti è un magistrato ex deputata del Pd. Nelle chat con Palamara, Ferranti una sola volta s’interessa alla nomina di un ufficio giudiziario. L’11 novembre 2017 scrive di aver saputo che Magistratura Indipendente è disponibile a votare Francesco Salzano come avvocato generale e chiede a Palamara di fare da “garante” perché altrimenti “per Francesco sarebbe la seconda immeritata ingiustizia”. Nessuna richiesta personale. È l’interessamento per un magistrato che stima. “Possiamo escludere – sostiene Palamara – non ne abbia parlato anche con Albamonte?”. “Illazioni – commenta Ferranti al Fatto – che non meritano commenti”. “Se queste sono le sue dichiarazioni – commenta invece Albamonte – affiderò il tutto al mio avvocato”.

Nel discorso che non ha potuto leggere ieri, Palamara si scusa con i “colleghi che nulla hanno da spartire con questa storia”, quelli “fuori dal sistema delle correnti” e che “rappresentano la parte migliore di noi. Per loro – continua – io sono disposto a dimettermi solo se ci sarà una presa di coscienza collettiva e con me si dimetteranno tutti coloro che hanno fatto parte di questo sistema. Per dare la possibilità a tutti i magistrati ingiustamente penalizzati di attuare un reale rinnovamento della magistratura” affinché possano “difenderne l’autonomia”.

A Palamara non va giù che a giudicarlo sia per esempio l’attuale procuratore di Bologna Giuseppe Amato, componente del collegio dei probiviri dell’Anm: “Sono stati frequenti i contatti anche in occasione della sua nomina”. Nomina ottenuta all’unaminità e antecedente alle chat che documentano solo l’interesse di Amato – “i miei procuratori aggiunti sono nelle tue mani” – a coprire posti vacanti del suo ufficio senza indicare il nome di alcun collega.

“Quando si parla dello scandalo correnti – dice Palamara – si fa solo il mio nome? Probiviri come Bruno di Marco, ex rappresentante di Unicost a Catania, e Claudio Viazzi, storico esponente di Md, non mi pare possano dirsi estranei al sistema delle correnti che mi viene contestato”.

Palamara cacciato accusa l’Anm: “Siete come l’Inquisizione”

Da presidente dell’Associazione nazionale magistrati a magistrato espulso, dalla stessa Associazione, per “gravi e reiterate violazioni del codice etico”. Ascesa e caduta di Luca Palamara, fino a un anno fa un dominus del sindacato delle toghe, del Csm e della sua corrente, la centrista Unicost. Raggiunta la vetta, come togato Csm, ha esercitato il suo ruolo a colpi di accordi “sotto banco” con chi tra le toghe, tante, lo rincorreva. Fino a quando è finito indagato a Perugia per corruzione e per colpa di un trojan iniettato nel suo cellulare è venuto fuori il dopo cena all’hotel Champagne di Roma, il 9 maggio 2019, insieme a un altro re della correntocrazia, Cosimo Ferri, toga in aspettativa, deputato renziano ma pure leader ombra di Magistratura Indipendente (conservatori). Con loro c’erano 5 consiglieri del Csm di MI e di Unicost e il deputato del Pd e del giglio magico renziano Luca Lotti, imputato a Roma per Consip: discettavano su come pilotare la nomina del procuratore della Capitale.

Ieri Palamara, prima della scontata espulsione, ha provato a fare il suo show, come in tv, ammettendo solo l’evidenza, il sistema marcio delle nomine e lanciando messaggi a quei tanti magistrati sodali o questuanti. Ma il parlamentino dell’Anm (Cdc) ha respinto la richiesta di essere ascoltato come da regolamento. Palamara, da ex presidente dell’Anm lo conosce bene: l’incolpato può essere ascoltato solo dai probiviri che istruiscono il procedimento, le cui conclusioni sono sottoposte al voto del parlamentino. Ma Palamara finge di non saperlo e strepita che gli è stato impedito di parlare come neppure “ai tempi dell’inquisizione”. La richiesta è stata respinta all’unanimità, idem quella del suo difensore, Roberto Carrelli Palombi, ex segretario di Unicost. Si passa, poi, al merito della vicenda che fa parte di quella “gigantesca questione morale in magistratura”, dice il presidente dimissionario Luca Poniz (Area, progressisti). Michele Consiglio, segretario di Autonomia e Indipendenza definisce l’espulsione “un passo importante per la rinascita etica” ma, avverte, dobbiamo scegliere se “essere noi stessi interpreti o meno” di questa rinascita “con scelte chiare”.

L’espulsione passa con una sola eccezione: l’astensione di Alessandra Sinatra, pm della Dda di Palermo, Unicost. Nel maggio 2019 è preoccupata che tra i candidati possa essere scelto come procuratore di Roma Giuseppe Creazzo, pure lui di Unicost: “Giurami che cade subito”, scrive a Palamara, che risponde: “Non mollo di un centimetro”.

I probiviri si sono occupati anche degli altri magistrati presenti all’hotel Champagne: gli ex togati di Unicost al Csm, Luigi Spina e Pierluigi Morlini, Antonio Lepre, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli di MI. Lepre, a febbraio, Cartoni e Morlini a maggio, Spina il 5 giugno, però, si sono dimessi dall’Anm per evitare la sanzione: infatti è stato deciso il non luogo a procedere. Invece, per Criscuoli, che non si è dimesso, si è entrati nel merito: condannato alla sospensione per 5 anni dall’Anm. Prima, un breve dibattito tra chi voleva l’espulsione, come AeI e una parte di Area e chi la sospensione, Unicost e una fetta di Area, perché, in sostanza, quella di Criscuoli al dopo cena è stata una presenza silenziosa. È passata la linea più morbida e Criscuoli è stato sospeso con il solo no di Sinatra: ha ritenuto insufficiente l’istruttoria dei probiviri. Caso a parte, quello di Ferri. Il deputato di Iv ha sostenuto per mail che non fa parte dell’Anm dato, tra l’altro, che non paga le quote associative, quindi non poteva essere giudicato. Ma il Cdc lo ha smentito: le quote sono state versate e nel 2016 ha pure chiesto di votare per l’Anm Liguria dato che non era più sottosegretario. Poiché i probiviri a maggioranza avevano dato ragione a Ferri, il Cdc ha deciso di trasmettere loro gli atti , alla luce di quanto emerso, per nuove conclusioni.

Inchiesta fantasma e commissione ferma senza il presidente

Boicottare la commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Covid in Lombardia. È l’ordine di scuderia al quale tutta la maggioranza di Attilio Fontana si sta attenendo con religiosa abnegazione. Da oltre due settimane la poltrona da presidente è vuota, dopo il passo indietro della renziana Patrizia Baffi, travolta dalle polemiche. Eppure la commissione non riesce a vedere la luce. Sì, perché ancora non è fissata una data per la seduta che dovrà eleggere il nuovo presidente, una scelta che spetta, secondo lo statuto di Regione Lombardia, alle minoranze, e che la maggioranza dovrebbe solo ratificare. Ma così non sta avvenendo. E tutto ciò, nonostante 31 componenti di minoranza su 31 presenti in commissione abbiano pubblicamente annunciato di voler eleggere Jacopo Scandella del Pd.

Una candidatura unitaria, quella di Scandella, che ha raccolto i consensi, oltre che di Pd e di M5s, anche dei partiti minori dell’opposizione, tra cui Italia viva. Patrizia Baffi – pur in plateale conflitto di interesse, visto che è dipendente di una delle Rsa dove si sono registrati numerosi decessi – era stata eletta a guidare la commissione d’inchiesta grazie ai soli voti di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Il suo unico atto da presidente, prima di dimettersi a seguito della rivolta delle opposizioni e delle pressioni del suo stesso partito, è stato decidere di secretare tutti i documenti e lavori della commissione.

Una commissione che evidentemente fa paura, perché chiamata a fare luce sulle scelte della giunta “che le ha azzeccate tutte” così come su molti degli atti dell’assessorato alla Sanità e al Welfare guidato da Giulio Gallera: dalla scellerata delibera sulle Rsa dell’8 marzo alla riapertura del pronto soccorso dell’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano il 23 febbraio; dagli affidamenti senza gara a Diasorin per i test seriologici al pozzo senza fondo dell’Ospedale alla Fiera di Milano. E così la commissione non decolla. Inchiodata dai veti della Lega sul candidato del Pd Scandella – il partito di Matteo Salvini non perdona al Pd la mozione di sfiducia presentata a maggio contro Gallera – e di Forza Italia su un qualsiasi nome proveniente dal Movimento 5 Stelle. La speranza, per la giunta, è di poter strappare alla lunga un presidente “gradito”, che magari non faccia (e si faccia) troppa pubblicità. Per questo il nome di Scandella non va bene. Il consigliere infatti ha subito dichiarato che se sarà eletto, proporrà che le prime tre sedute della commissione si tengano “ad Alzano, Codogno e Nembro”, e che siano “introdotte dai sindaci e aperte alla partecipazione della cittadinanza”. Proprio ciò che Fontana&C. stanno cercando di scongiurare da settimane.

“Il fatto che non abbiano fissato una data per l’elezione del presidente è l’ennesima riprova che il centrodestra ha paura di quanto una commissione non ammaestrata possa scoprire”, dice l’M5s Dario Violi. “La maggioranza ha molto da nascondere. La sua impreparazione e il suo dilettantismo nell’affrontare la fase più grave dell’emergenza sono ormai sotto gli occhi di tutti. Inoltre, spera che dopo l’estate i lombardi siano più concentrati sulla crisi economica che su quanto accaduto a febbraio”. Ma è “una questione di rispetto per tutti quelli che hanno visto morire i propri cari”, dice Pietro Bussolati (Pd): “Questa giunta ha il dovere di fare chiarezza su quanto avvenuto nella regione più duramente colpita dal Covid del pianeta. E deve farlo subito”.

Da quel 21 febbraio, da Codogno e dal “caso Mattia”, sono passati quattro mesi. Ma la commissione d’inchiesta resta ancora, a tutt’oggi, fantasma.

Nuova delibera e nuova mazzata: le Rsa in rivolta

La Regione Lombardia e le associazioni delle case di riposo di nuovo ai ferri corti. Il presidente Attilio Fontana e la sua giunta hanno revocato dopo tre mesi la famosa delibera dell’8 marzo – con la quale le Rsa erano state chiuse ai nuovi accessi e aperte ai pazienti Covid “a bassa intensità” provenienti dagli ospedali – dando così il via libera agli ingressi degli anziani in lista d’attesa. Ma il nuovo provvedimento è, se possibile, peggio del primo, accusano le associazioni delle case di riposo, da Uneba ad Agespi e ad Aiop, perché scarica sulle stesse strutture il compito di eseguire sui nuovi utenti test sierologici e tamponi, provvedendo alla sorveglianza attiva della quarantena domiciliare che precede gli ingressi. E dire che l’assessore Gallera aveva ammesso – unica flebile autocritica, mesi fa – che il modello delle Rsa, trattandosi di enti privati, “non aveva la capacità di affrontare la complessa gestione dei pazienti Covid”.

Un provvedimento, questo ultimo, definito “inapplicabile” e contestato dalle associazioni, specie quelle del Bergamasco e nella provincia di Cremona. “Chi ha scritto la delibera non è mai stato in una Rsa”, ha detto Cesare Maffeis, presidente dell’associazione delle case di riposo della provincia di Bergamo, riferendosi al fatto che le strutture non dispongono degli strumenti per controllare il rispetto della quarantena. E tale è la contrarietà delle associazioni da aver deciso, proprio nel Bermasco per esempio, di non riaprire le strutture, in attesa di ricevere chiarimenti dai vertici della Regione. Ma c’è di più. A far divampare la protesta ha contribuito la lettera con la quale il 17 giugno scorso l’ormai ex direttore generale dell’assessorato al Welfare Luigi Cajazzo ha comunicato che, per quanto riguarda l’acconto sul budget del 2020 per le strutture accreditate e a contratto che erogano i servizi, questo sarà – a partire da giugno – pari al 90% del totale, vale dire il 5% in meno rispetto a quanto riconosciuto alle strutture pubbliche come le Asst, le aziende sanitarie.

“Detto in altri termini – dice Luca Degani, presidente di Uneba, alla quale in Lombardia fanno capo 400 Rsa – la Regione ha tolto il 5% dal budget degli acconti per le prestazioni sociosanitarie delle strutture profit e non profit che si occupano di anziani ma anche di disabili, persone con dipendenze o con problemi mentali”.

Tutto si deve all’interpretazione di una norma del decreto Rilancio, in base alla quale alle strutture che hanno sospeso o rimodulato il servizio durante i mesi maggiormente interessati dalla diffusione del contagio, si può assicurare un acconto del 90%. “Non si può applicare questa norma alle case di riposo – prosegue Degani – che sono state sottoposte a una fortissima pressione e che non hanno mai sospeso l’attività. Basti ricordare che la Regione ha chiesto la nostra disponibilità ad accogliere pazienti contagiati per alleggerire il carico degli ospedali. Gallera aveva garantito la stessa percentuale di acconto. È l’ennesimo segnale: il mondo delle Rsa è figlio di un Dio minore”. Oltre al danno e alle migliaia di morti, ora la beffa.

“Salviamo noi la Lombardia”: in migliaia contro la Regione

Prima degli errori, il ricordo dei morti. Chi in ginocchio, chi in piedi, altri ancora seduti. In piazza del Duomo a Milano. In silenzio. Come solo i milanesi. Per un minuto. Sotto un cielo di montagna e un sole bollente. Donne, uomini, figli e figlie, padri, nonni. Vittime scampate alla furia del virus. Parenti di chi è stato falciato dal Covid. E poi: medici, infermieri, lavoratori. Dolore e rabbia. Per ciò che è stato e che doveva essere arginato: la zona rossa nella Bassa lodigiana, la strage nel Bergamasco, i morti dimenticati nelle Rsa, contati o meno in una giostra di numeri mai credibili, fin dall’inizio. Alla sbarra della contestazione il palazzo della Regione: il presidente Attilio Fontana, l’assessore al Welfare Giulio Gallera, il vice presidente Fabrizio Sala, l’assessore alla Protezione civile Pietro Foroni, l’assessore al Bilancio Davide Caparini. Per non menzionare tecnici e virologi vari. Coloro che davanti alle telecamere per settimane hanno spiegato che la cosa era grave sì, ma che la Lombardia faceva fronte più e meglio di altri, perché qua c’è la sanità migliore d’Italia. E invece no. I morti a ieri, 16.557. Ventitrè in un solo giorno.

Milano ancora una volta capitale del presente. Piazza Duomo e non solo. Davanti al palazzo della Regione, in via Melchiorre Gioia, a cento passi ideali dalla Madonnina, lì dove hanno poltrone Fontana e Gallera, si sono ritrovati antagonisti e sindacati di base, “assembrati” con distanziamento “non sociale”. Sigle a decine. Non solo i centri sociali, anche le brigate volontarie, anche cittadine e cittadini, che in questi mesi hanno portato cibo a chi non aveva cibo. Urlano: “Assassini”. Scrivono: “Cacciamoli”. Chiedono: “Via la cosca lombarda”. Non c’è tregua per la politica del governo regionale. Si apre uno squarcio anche in piazzale Loreto. Annunciati anarchici. Arrivano dai quartieri di Milano e da tutta Italia: Torino, Rovereto, Bologna. Vanno oltre il Covid: “Non vogliamo tornare alla normalità di prima”. Venti blindati scongiurano il rischio di un nuovo 11 marzo (era il 2006) in corso Buenos Aires. Eppure corteo è, nonostante le regole del Covid. Si rimonta non verso il centro, ma verso la periferia multietnica di via Padova. La tensione si smorza nelle parole delle forze dell’ordine, ma la si vede nei movimenti di un corteo breve: c’è chi prende pietre dalla strada, chi indossa cappucci. Alla fine nulla succede.

La rabbia muore dentro ai piccoli numeri. Duecento anarchici, mille antagonisti e tremila in piazza del Duomo. Qui dove i milanesi hanno manifestato pacifici con forza. Distanziati certo. Con le mascherine, ma arrabbiati, e non lontani dalla sede del Comune. Il sindaco Beppe Sala, come annunciato, non si è visto. Il suo endorsement alla protesta si è rilevato solo un’uscita politica. Eppure in piazza Duomo la politica non si è vista. Si sono invece sentite parole dei cittadini: “Salviamo la Lombardia”. “Commissariamo la sanità lombarda”. Cecilia Strada, ex presidente di Emergency. “Abbiamo dovuto guardare i nostri concittadini che morivano da soli a casa. Serve aprire una riflessione sul sistema sanitario, sul diritto alla salute”. Don Virginio Colmegna aggiunge “la necessità di tornare alla cura sul territorio”. Daniela Conte, figlia di Maria Felice: “Io ho perso mia madre che era al Don Gnocchi per la riabilitazione, pensavo che in quella struttura l’avrebbero protetta, ma questo non è accaduto e ci sono responsabilità sicuramente da parte della Regione Lombardia. Quello che abbiamo passato non lo auguriamo a nessuno”. Tra gli organizzatori della manifestazione in Duomo c’era l’europedutato Pd Pierfrancesco Majorino. “È il momento di dire basta alla Regione – ha spiegato – . Fontana e soci vanno fermati. Possiamo mettere in discussione la legge 23 sul servizio sanitario regionale attraverso la sua messa in mora”. Si attende un programma. Intanto ieri Milano ha mandato un messaggio chiaro: “A casa chi ci ha abbandonato”.

Processo alle invenzioni

Non so quante migliaia fra articoli e talk show siano stati dedicati allo scandalo Palamara. Eppure, salvo pochi intimi, nessuno ha capito esattamente quale sia il problema: non i giochi di corrente per far promuovere o punire dal Csm il giudice Tizio e il pm Caio (ci sono sempre stati e purtroppo sempre ci saranno se non cambiano l’ordinamento giudiziario e il sistema elettorale del Csm); non le parole in libertà del pm romano e dei suoi interlocutori su Salvini e altri (ciascuno in privato dice ciò che vuole); ma le riunioni clandestine fra Palamara e due estranei alle nomine giudiziarie, i deputati renziani Luca Lotti (Pd) e Cosimo Ferri (allora Pd e ora Iv), mai espulsi né sanzionati dai loro partiti. Allo stesso modo, non so quante migliaia di articoli e talk show siano stati dedicati al caso Di Matteo-Bonafede, mischiato con questioni totalmente diverse, dalle scarcerazioni al caso Palamara, in un frittomisto tanto appetitoso quanto fuorviante incredibilmente approdato in Antimafia. Eppure, salvo pochi intimi, nessuno ha capito esattamente quale sia il problema istituzionale che dovrebbe interessare la commissione parlamentare: non la nomina a capo del Dap di Basentini anziché di Di Matteo (scelta politica opinabile e, secondo noi, sbagliata del ministro Bonafede, ma discrezionale, legittima e insindacabile); non le scarcerazioni di centinaia di mafiosi, malavitosi e presunti (decise dai giudici di sorveglianza, non dal Dap); ma un’inquietante eventualità, mai esplicitata ma fatta balenare da Di Matteo il 3 maggio nella telefonata a Giletti e poi da molti pelosi alleati dell’ultim’ora: che cioè Bonafede non l’avesse nominato perché i boss al 41-bis non lo volevano.

Il miglior modo per disinformare la gente è imbottirla e intontirla con notizie che sembrano coerenti e invece c’entrano come i cavoli a merenda, in un gran polverone che fa perdere il filo e dimenticare il punto di partenza: è ciò che han fatto Giletti e la sua corte di mitomani per sei puntate di “Non è l’Arena, è Salvini”, con la collaborazione di molti giornali e del Parlamento (question time, sfiducia a Bonafede e Antimafia). Noi abbiamo pazientemente seguito le audizioni di Bonafede, Di Matteo e un esercito di dirigenti del Dap in Antimafia, a prezzo di terribili emicranie e a rischio di labirintite. E abbiamo scoperto ciò che già tutti sapevamo. 1) Bonafede offrì gli Affari Penali o il Dap a Di Matteo (18 giugno 2018) quando conosceva da 10 giorni le proteste dei boss e se ne infischiò. 2) Di Matteo ha sempre smentito che Bonafede avesse deciso su input o per paura dei boss (anche sospetta pressioni di“qualcuno”, pronome che non si addice a un pm). 3) L’ha ribadito in Antimafia: “Se avessi pensato che Bonafede non mi aveva più dato il Dap a causa di pressioni dei detenuti mafiosi, avrei denunciato la cosa in Procura”. Così chiarita la sola questione rilevante per la commissione che indaga su mafia e politica, il presidente Morra&C. avrebbero dovuto congedarlo. Invece han trasformato l’Antimafia nella succursale del Giletti Show (fortunatamente in ferie), facendolo parlare altre 4 ore del più e del meno nel disperato tentativo di resuscitare un caso morto prima di nascere: tipo che Di Maio lo voleva al Viminale (embè?), o che Napolitano nel 2012 voleva far la pace coi pm della Trattativa tramite Palamara. Una non-notizia, visto che Palamara era presidente dell’Anm e quel racconto era già uscito nel mio Viva il Re! (2013).
Intanto è stato sentito pure il dg uscente del Dap Giulio Romano, autore della circolare del 21 marzo che, per la vulgata dei mitomani, “ha scarcerato 500 mafiosi col pretesto del Covid”. Questi, carte alla mano, ha dimostrato che: Bonafede nel dl Cura Italia del 23.2 escludeva i mafiosi dalla liberazione anticipata; la circolare del 21.3 non faceva cenno a scarcerazioni e si limitava a chiedere i nomi dei detenuti con le patologie gravi indicate dai medici come concause mortali da Covid; era stata chiesta dai Tribunali di sorveglianza in base alla legge penitenziaria del 1976, al Dpr 230/2000 e a vari ordini di servizio dei precedenti capi- Dap; queste vecchie norme hanno prodotto le scarcerazioni, non la circolare (atto amministrativo che non può ordinare nulla ai giudici); senza la circolare, in caso di detenuti morti con o per Covid, l’intero Dap sarebbe finito alla sbarra (i Radicali avevano già denunciato Bonafede e Basentini per procurata epidemia, ma i morti sono stati solo 4 su 61 mila); molte scarcerazioni sono state disposte prima della circolare e molte successive non fanno alcun cenno alla circolare, ma a norme vigenti da decenni alla luce delle direttive dell’Oms e dell’Iss sul Covid; dei 498 detenuti “pericolosi” scarcerati al 7 maggio, quelli usciti per l’emergenza Covid sono 223 (e 50 sono già tornati dentro dopo il decreto anti-scarcerazioni), di cui 121 pregiudicati e 103 in custodia cautelare (presunti non colpevoli), e fra questi solo 4 erano al 41-bis, di cui 3 estranei alla circolare; il quarto è Zagaria, scarcerato da un giudice che cita la circolare, ma scrive che l’avrebbe messo fuori comunque; l’unico errore del Dap fu la risposta al giudice di sorveglianza per Zagaria sull’email sbagliata, infatti Basentini e Romano si sono dimessi. Sperando che siate sopravvissuti fin qui, azzardiamo una domanda: ma voi avete capito di che minchia stanno parlando?

Lo “sciame” del web cambierà la cultura: con il rischio di essere anche noi un prodotto

“Se non state pagando qualcosa, non siete un cliente, siete il prodotto che stanno vendendo”. La nota a pagina 174 sembra ritagliata per i quattro miliardi di persone, utenti di Internet, che fruiscono di siti web, social media, prodotti digitali di vario tipo. Siamo in un’epoca nuova, ne sappiamo qualcosa noi che facciamo giornali di carta i quali, tra il 2010 e il 2018, hanno perso la metà dei propri lettori. Lo smartphone ha messo in tasca, letteralmente, un caleidoscopio di voci e input di inusitata potenza.

Giovanni Solimine, docente alla Sapienza dove dirige il Dipartimento di Lettere e Culture moderne, e Giorgio Zanchini, voce conosciuta della radio e giornalista di spessore, indagano il come e quanto si legge, si guardano le serie tv, si ascolta la musica, si fruisce di informazione. Pubblicano dati e fanno paragoni. Non presentano tesi bell’e pronte, inducono a riflettere su un fenomeno che modifica in profondità abitudini consolidate. Siamo soggetti attivi oppure, per tornare alla citazione iniziale, siamo solamente un prodotto di Facebook o Instagram? E se lo siamo qual è il nostro ruolo. La “cultura orizzontale”, lo scambio illimitato tra pari può fare a meno di quella “verticale” basata su intellettuali o docenti? Il dibattito non è chiuso, ma lo “sciame” del web ha un effetto che non può essere sottaciuto: “L’incessante ronzio dello sciame che riempie la rete dell’interconnessione globale non può non influire sul dialogo che ognuno ha con se stesso”. Per Platone quel dialogo era il luogo di formazione del pensiero, per Habermas la “sfera privata” era precondizione di una “sfera pubblica” fatta di un pubblico colto e critico. Ecco, rimanere sempre connessi quanto tempo toglie al pensiero critico, alla riflessione, alla critica? Rispondendo a questa domanda troveremmo una chiave per le porte del futuro.

 

La cultura orizzontale Giovanni Solimine e Giorgio Zanchini – Pagine: 186 – Prezzo: 14 – Editore: Laterza

 

Che “Scup”! (“Sensazionali cronache ultra pazzesche”)

Elena, intraprendente e creativa; Giona, genio della matematica e mago del computer; Gem, riflessiva e deduttiva; Saverio, acuto osservatore col pallino per la fotografia. Sono le quattro giovanissime anime del giornale Scup (Sensazionali cronache ultra pazzesche), che ha una sede originale: una barca che si chiama Molly Malone. La prima indagine di queste reporter in erba, sempre in lizza con Rita Puntina, firma della Gazzetta del circondario che per aggiudicarsi uno scoop farebbe carte false, riguarda una serie di furti sui generis, a tema botanico. A sparire, da abitazioni, giardini pubblici e vivai, sono orchidee tra cui la rarissima orchidea fantasma (protagonista, tra l’altro, della pellicola del 2002 Il ladro di orchidee con Nicolas Cage), così chiamata perché individuarla sugli alberi delle foreste umide e calde in cui cresce è un’impresa. Chi, e perché, le ruba? Il giallo scritto a quattro mani da Chiara Lorenzoni, avvocato e scrittrice per ragazzi, e Pamela Pergolini, giornalista ed esperta di comunicazione scientifica, è dedicato alle “passioni che sempre indicano una via” e alle “domande che allenano continuamente il pensiero” e ha il pregio di avvincere e avvicinare i giovani al mondo del giornalismo e alla sua, sempre più dimenticata, vera missione: informare con onestà e portare a galla la verità, mossi da determinazione che nasce dal crederci davvero.

 

Il caso dell’orchidea fantasma C. Lorenzoni e P. Pergolini – Pagine: 192 – Prezzo: 12,50 – Editore Einaudi